domenica 18 novembre 2007


Vignali: “Tasse opprimenti, il fisco sostenga chi innova”




Addio sacrificabilità dell’embrione – vero choc del pensiero unico libertario
Marina Corradi
Avvenire, 18.11.2007

Per la ricerca internazionale è uno choc. Ian Wilmut, colui che fabbricò la pecora Dolly, abbandona la strada del­la 'clonazione terapeutica'. Non utiliz­zerà la licenza a clonare embrioni uma­ni, concessagli dal governo britannico per ricercare terapie contro le malattie neurodegenerative. Nei laboratori della Università di Kyoto, spiega Wilmut, è sta­to sperimentato con successo sui topi un nuovo modo per ottenere cellule sta­minali simili a quelle embrionali, ma de­rivanti da cellule adulte.
« Astonishing and exciting », sorpren­dente e eccitante, così il professore definisce la nuova tecnica. A Kyoto le cel­lule del derma di un topo adulto sono state fatte regredire a uno stadio primi­tivo e indifferenziato. Staminali dunque di origine adulta, ma caratterizzate da una 'pluripotenza' prossima alla toti­potenza delle embrionali, che consente la formazione di ogni tessuto. I ricerca­tori giapponesi ritengono di poter ri­programmare queste cellule, istruendo­le a fabbricare nervi, muscoli, ossa, due­cento tipi di tessuti diversi. Col vantag­gio che, provenendo le staminali dal­l’organismo dello stesso paziente, non si avrebbe, nel reimpianto, alcun rigetto. E si eviterebbe di clonare e distruggere – a fini di ricerca – embrioni umani.
«È una strada eticamente più accettabi­le dalla società», dice Wilmut, ma la mo­tivazione della svolta non sembra etica: la nuova tecnica, assicura il professore, oltre che «sorprendente e eccitante» è anche «molto promettente». Cioè, sem­bra che possa funzionare – che è il solo possibile motore delle scelte di un ri­cercatore del suo calibro, superfinan­ziato e famoso in tutto il mondo grazie alla sua straordinaria – benché prema­turamente mancata per oscuri difetti di fabbricazione – pecora. Può essere, an­che, che la difficoltà a reperire la 'mate­ria prima' per la clonazione di serie, cioè gli ovociti femminili, abbia rallentato ul­timamente le speranze del Roslin Insti­tute di Edimburgo. Ma tanto entusia­smo per la intuizione giapponese si spie­ga solo con la concretezza delle pro­spettive. Convertito, dunque, Wilmut dalla percorribilità di quella ricerca, più che da una questione etica verso la qua­le si è finora dimostrato freddo.
Così la locomotiva internazionale della 'clonazione terapeutica' viene abban­donata in corsa dal padre stesso della clonazione. La cosa sorprenderà il pub­blico che da anni – e quanto, in Italia, ai tempi del referendum sulla procreazio­ne assistita – si è sentito ripetere che l’u­nica speranza per curare Alzheimer e Parkinson passava attraverso le stami­nali embrionali, ovvero per la distruzio­ne di embrioni. Era un leit motiv mille volte ripetuto, dai tg ai giornali femmi­nili, era un pensiero unico e obbligato­rio. Chi scriveva allora di questi argo­menti registrava con stupore come ri­cercatori di statura internazionale, quanto all’utilizzo terapeutico delle sta­minali embrionali, avessero invece seri dubbi: quelle cellule primitive erano, di­cevano, difficilissime da istruire e diri­gere nell’organismo, e anche potenzial­mente portatrici di rischi proliferativi. Dubbi che però non emergevano o qua­si, nel dibattito pubblico.
Due anni dopo, il padre di Dolly, il pio­niere della 'clonazione terapeutica' che prometteva di usare gli embrioni per cu­rarci un giorno dal Parkinson, annuncia che la strada migliore non è, in effetti, quella. Che pare che si arrivi prima, e con meno fatica, passando attraverso cellule staminali adulte – facendole re­gredire allo stadio voluto e riprogram­mandole. Che è quello che in sostanza dicevano nel 2005 i migliori ricercatori italiani, a quei pochi che li volevano a­scoltare. Di modo che, pare che la ra­gion pratica della efficienza e della con­cretezza dia oggi ragione ai dubbi di al­lora.
Il pensiero unico della sacrificabilità del­l’embrione alla 'Ricerca' era, come spes­so accade ai pensieri unici, sbagliato.



Il genetista Dallapiccola: è una conferma che sono altre le strade da percorrere

DA MILANO ENRICO NEGROTTI
Avvenire, 18.11.2007

«Sono notizie che non fanno altro che confermare quello che andavo dicendo già all’epoca del referendum: prima che le staminali embrionali diano qualche risultato, si troveranno modi per utilizzare le staminali dell’adulto». Il genetista Bruno Dallapiccola, docente all’Università «La Sa­pienza » di Roma e direttore scientifico dell’Istituto «Men­del » di Roma, puntualizza: «È la presa d’atto che gli scienzia­ti non sono in grado di gover­nare le cellule staminali em­brionali ».
La scelta di Wilmut di non pun­tare più sulla clonazione degli embrioni umani può rappre­sentare una svolta?
È una notizia che fa piacere perché viene da un’autorità nel campo delle ricerche sulla clo­nazione. Ma non mi illuderei che nessuno cerchi più di ma­nipolare embrioni: del resto so­lo pochi giorni fa si è parlato della clonazione dello scim­panzé, un animale molto simi­le all’uomo. E qualcuno si è spinto a ritenere più vicina pro­prio la clonazione umana. Cer­tamente ora Wilmut sembra prendere atto che i continui in­successi mostrano che prima di ipotizzare effetti terapeutici di cellule embrionali occorre fare molte verifiche.
Le motivazioni di Wilmut sono principalmente pratiche, ma non viene trascurata la difficoltà a far accettare social­mente la clonazione. Cosa ne pensa?
Wilmut ci ha abituato ai suoi cambiamenti di opinione. Poco dopo la nascita di Dolly, so­stenne che si trattava di un me­todo che sarebbe stato inumano utilizzare nell’uomo. Poi an­ni dopo ha chiesto la licenza per effettuare esperimenti su­gli embrioni umani. Ora, resosi conto che scientificamente c’è una strada migliore, richiama il fatto che c’è anche un’opposizione etico-sociale: ne prendiamo atto.
Dal punto di vista scientifico, sono promettenti le strade che seguirà ora Wilmut sulla scia del giapponese Yamanaka?
Sono strade che da tempo molti studiosi suggeriscono (e che anch’io segnalavo all’epoca del referendum): ci sono fattori di trascrizione che possono far ringiovanire le cellule staminali adulte rendendole simili a quelle embrionali. Comunque credo che si debba pretendere sempre molta cautela e prudenza, anche per rispetto dei malati, quando lanciano mes­saggi di speranza per la cura di nuove malattie.



«Dolore innocente, basta ipocrisie»
Ravasi: «Il male spesso è causato dall’uomo, come in Iraq». Cacciari: questo il vero scandalo

DA MILANO ANTONIO GIULIANO
Avvenire, 18.11.2007

Che vita è quella di un uomo in carrozzella? E quale spiegazione c’è per un bambino che ancora oggi muore di fame? Sono domande sempre disarmanti e difficili da accettare in un mondo in cui la tecnologia promette la perfezione e non ammette 'difetti'. Un grido straziante: perché il male? Perché la sofferenza? Perché, perché, perché… Un’eco drammatica, ma volutamente raccolta dall’Associazione medici cattolici italiani (Amci) di Milano nel convegno promosso ieri nel capoluogo lombardo, presso il centro congressi Assolombarda.
'A Te grida il dolore innocente. Il senso dell’umana sofferenza', era questo il titolo dell’incontro a cui hanno preso parte l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, neo presidente del Pontificio consiglio della cultura, il filosofo Massimo Cacciari, i medici Alberto Cairo e Mario Melazzini, i professori Giorgio Lambertenghi Deliliers, presidente Amci Milano, e Alfredo Anzani, vice presidente della Federazione europea associazioni medici cattolici.
Nelle vesti di moderatori il giornalista Armando Torno e il teologo Vito Mancuso.
Abituati a confrontarsi ogni giorno col tema del dolore, i medici cattolici sentivano il bisogno di una pausa di riflessione. Specie in un tempo in cui gli sviluppi del progresso scientifico sono esaltanti, ma spesso anche preoccupanti per la dignità dell’uomo.
La sofferenza 'senza un perché' arrovella da sempre la coscienza dei filosofi. «Non lo trovo affatto scandaloso - ha esordito Massimo Cacciari - . Piuttosto il dramma è chiedersi se la colpa è di Dio. Per Platone, ad esempio, Dio è solo causa di perfezione.
Mentre le correnti new age, induiste e buddiste, purtroppo molto in voga nella cultura contemporanea, dicono che 'l’esistere è il soffrire', ammettendo di fatto che c’è solo il male, non c’è il bene. Io trovo invece molto più realistica la tradizione giudaico-cristiana, secondo cui nell’ordine contemplato da Dio c’è la debolezza, c’è la contraddizione. E dentro quest’ordine esiste un essere che compie il male. Il vero scandalo è che l’uomo fa il male». Concorda l’arcivescovo Ravasi: «Molte volte i nostri lamenti sono ipocriti: penso a tante pagine di storia o ad alcune aree attuali del pianeta, come l’Iraq o l’Afghanistan, in cui sono evidenti le responsabilità dell’uomo. La libertà umana è un dono divino. E del resto non mi stupisce che la Bibbia sia un canto del male e del dolore. Moltissimi salmi sono veri lamenti. Ma nelle Scritture c’è sempre il senso del limite dell’uomo. Prendete Giobbe, inveisce contro il Creatore, ma continuerebbe a credere in Dio anche se gli venisse negata la vita. E Dio alla fine gli fa intravedere un orizzonte più ampio della propria razionalità.
Nell’azione di Dio, il dolore ha una funzione catartica: può far cadere l’orgoglio, riscoprire valori importanti, indicare la strada della salvezza. Per questo quando incalzavano Gesù su di chi fosse la colpa del cieco nato, lui rispose dicendo che non era né sua né dei suoi genitori, ma ciò era accaduto perché si manifestasse la gloria di Dio».
Cacciari ha ribadito: «Nella tradizione cristiana il problema del male è molto concreto.
Perché l’uomo a immagine di Dio compie il male? Perché è libero. E con le nostre sole forze è impossibile non cadere nel male. Però duemila anni fa Gesù di Nazaret ha dimostrato che è possibile anche per noi sconfiggere il male, reagendo al male col bene. Anche per un non credente questo evento esercita un fascino indiscutibile. Bisogna entrare nella logica che chi compie il male è captivus, nel vero senso di 'prigioniero', del suo orgoglio, dell’amor proprio. Sei libero davvero quando ti doni gratuitamente e diventi capace di rovesciare le montagne seguendo il discorso delle Beatitudini. Estingui il male facendo il bene. Per questo il verbo greco poieo ('fare') ricorre spesso nel Vangelo». Una testimonianza in questo senso l’ha fornita Alberto Cairo, direttore dell’Ospedale della Croce rossa internazionale a Kabul: «Oggi che l’efficienza viene prima di tutto, ho imparato che non esistono 'avanzi d’uomo': ho visto gente senza braccia o gambe che è stata capace di fare cose inimmaginabili con la forza di volontà. E dopo averli ascoltati, ho ricevuto una passione smisurata per la vita». «Non è un caso - ha concluso Ravasi - che metà del Vangelo di Marco sia dedicato agli incontri di Gesù con i malati. Il Figlio di Dio è venuto per com­patire (soffrire insieme) la nostra stessa sorte. Non tanto per guarirci, ma per svelarci il senso della sofferenza. Non ci lascia soli sul nostro cammino. Certo sconvolge che Dio stesso abbia patito la sofferenza, l’abbandono, la solitudine. Ma il paradosso cristiano è proprio questo: 'Dio in Cristo non ci salva per la sua onnipotenza, ma in virtù della sua debolezza', diceva il teologo Dietrich Bonhoeffer».




IL MEDICO AFFETTO DA SLA
Melazzini: «La malattia è il mio valore aggiunto»
DA MILANO
Avvenire, 18.11.2007
Quando è stato chiamato a dire la sua nel convegno dell’Amci ieri a Milano, il dottor Mario Melazzini non ha avuto nessuna esitazione: «Presentatemi pure come un malato». Nato a Pavia nel 1958, medico chirurgo specializzato in oncologia, Melazzini è affetto da sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Ma lui dice: «In un mondo in cui chi è malato viene visto come un diverso, sono orgoglioso di poter dire che ho la fortuna di indossare tre vestiti: quello di uomo, di medico e di malato». La Sla è una malattia che non perdona e progressivamente ti costringe su una carrozzella. Eppure Melazzini, che è anche presidente dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla), ammette: «Dopo aver vinto il concorso ospedaliero e aver intrapreso con successo la carriera accademica, oggi ho capito che mi mancava qualcosa. Mi mancava la malattia, il mio valore aggiunto. La sofferenza è parte del vissuto di tutti, non solo di quelli 'malati'. E il dolore ti fa scoprire quanto sei prezioso, non solo per te stesso, ma anche per gli altri. Non credo come diceva Nietzsche che 'il malato sia un parassita della società'. Al contrario, ogni vita è degna di essere vissuta». Di qui l’appello ai colleghi: «Abbiamo una grande responsabilità nell’aiutare i pazienti a vivere e non a morire. Stiamo attenti alla comunicazione, anche uno sguardo di tenerezza può infondere speranza. Il vero accanimento oggi è quello con cui si cerca di censurare la domanda sul senso dell’esistenza, che invece emerge con forza nella sofferenza. Ringrazio Dio per avermi fatto incontrare questa malattia. Lo so, per molti sono un folle, ma io vi assicuro che sono felice». ( A.G.)



Pipes: «La priorità è sconfiggere l’islamismo» l’intervista
DAL NOSTRO INVIATO A VENEZIA
Avvenire, 18.11.2007
ALBERTO SIMONI
D aniel Pipes, direttore del Middle East Forum di Filadelfia e già consu­lente della Casa Bianca, non ci sta per passare come colui che nega che l’islam non sia rifor­mabile. Traccia però un percor­so complesso il cui approdo non è detto sia vincente. In Italia per i Colloqui di Venezia della Fon­dazione di Liberal, Pipes apre la seconda giornata del convegno (“La guerra in Iraq. La sfida del­­l’Iran”), tenendo una lezione sulle prospettive sulle contrap­posizioni fra il cosiddetto islam moderato, «debole e scarsa­mente rappresentato» e «l’isla­mismo », mix letale di religione e totalitarismo. «È questo il ne­mico da battere e l’Occidente deve rendersi conto che c’è una guerra in atto».
Pipes vede distinzioni di me­todo ma sintonia sull’obietti­vo finale «fra l’islamismo vio­lento di Benladen e la presun­ta moderazione di Erdogan». Cui sferra un attacco diretto: «Leggiamo il suo programma e guardiamo la Turchia: chi può essere certo che il premier non stia portando avanti un piano di islamizzazione?».
Nel mirino del politologo fini­sce anche la frenesia con cui Bu­sh – dice incontrando Avvenire a margine dei lavori – parla di democrazia e invoca elezioni nel mondo arabo.
Cosa non la convince dell’ap­proccio Usa?
L’Amministrazione è intrappo­lata in una contraddizione fra le spinte per la democratizzazione del Medio Oriente e l’esigenza di stabilità. Quello che era un contrasto teorico sta oggi a­vendo ripercussioni sul piano politico e operativo e Bush ha perso la bussola.
Il fatto che il presidente ab­bia atteso oltre 24 ore prima di formalizzare la posizione Usa su quanto stava acca­dendo in Pakistan è la con­seguenza di questa confu­sione?
È il paradigma. Non conosco le motivazioni delle esitazioni di Bush, ma l’Amministrazione ha gestito malissimo la vicenda. In­decisa fra Bhutto e Musharraf e tesa solo a chiedere elezioni.
L’Amministrazione le ritengo­no il sale della democrazia...
Ciò vale per un Paese con una lunga tradizione ed educata al­la democrazia, non nei luoghi dove questa non ha radici o do­ve il pericolo islamista è in ag­guato. Quest’ultimo è il caso del Pakistan. La democrazia è qual­cosa che deve essere insegnato, è un processo lungo e non ci si può illudere che bastino i seggi e le urne. Prima bisogna che si imponga il rispetto delle mino­ranze, la libertà di culto, la pro­prietà, il primato del diritto.
Quando ci furono le elezioni nei Territori palestinesi la Rice si schierò per permettere ad Hamas di partecipare...
Altro errore gravissimo.
Ma al Dipartimento di Stato e­rano convinti che Hamas non avrebbe vinto...
Doppio errore. I gruppi terrori­stici non possono essere am­messi a far parte di un processo democratico.
Come giudica l’idea della Con­ferenza di pace di Annapolis?
Inutile, non porterà a nulla. C’è una guerra in corso fra i palesti­nesi: cosa può dare Abu Mazen ad Israele?
L’altro grande nodo è il nuclea­re iraniano. Si discute ancora di sanzioni. Saranno abbastanza per fermare Ahmadinejad?
Se saranno ampie serviranno a ritardare un attacco militare.
Lo considera quindi inevitabile?
Ue e Russia hanno detto a Tehe­ran che non avrebbero tollera­to l’atomica. Ma senza succes­so. Quando gli israeliani hanno colpito le installazioni siriane non c’è stata nessuna reazione né militare né in fondo diplo­matica. Ecco, ciò rende più pro­babile un blitz israeliano in Iran.



Missionari espulsi: l’Eritrea nazionalizza anche la Chiesa
Sono giunti in Italia i quindici religiosi stranieri allontanati dal governo di Issaias Afwerki. Suor Isabella: «È il primo passo per indebolire la presenza cattolica»

Avvenire, 18.11.2007

DA ROMA LUCA LIVERANI
Espulsi. Quindici missionari stranieri in Eritrea, religiosi e suore, hanno dovuto lasciare l’Asmara e ieri sono giunti in Italia. È l’epilogo di una strategia ostile che il governo di Issaias Afwerki sta da an­ni portando avanti nei confronti della Chiesa cattolica. La prossima tap­pa, dichiarata da tempo, sarà la confisca delle proprietà, quasi tutte per finalità sociali. L’obiettivo finale, non dichiarato, è la vera e propria nazionalizzazione della Chiesa cattolica, sul modello di quella patriottica in Cina. Con quella ortodossa l’hanno già fatto. Il rifiuto dei sacerdoti e delle suore di rispondere alla chiamata dell’esercito eritreo e il divieto di per­manenza oltre i due anni per le Or­ganizzazioni non governative – cui la Chiesa viene equiparata – sono le motivazioni formali che hanno pro­vocato la cacciata dei missionari.
A raccontare l’ultimo degli attacchi del governo eritreo ai cattolici sono i protagonisti dell’espulsione, ospita­ti da ieri mattina nella casa generali­zia comboniana di Roma. Sei i com­boniani (i padri messicani Javier Al­varado e Juan Martin Gonzalez Ro­driguez, il filippino Bonifacio Apaap, la colombiana Gladys Primerio Pala­cio), due i pavoniani (fratel Marco Manca e Fiorenzo Losa), l’orsolina i­taliana suor Vilma Cortinova, l’italo­americana suor Virginia Jamele e l’a­mericana suor Mary Catherine, en­trambe delle Maestre Pie Filippini (l’ultima trattenuta all’aeroporto). Al­tri due comboniani, suor Maria An­gela Pagani e il keniano padre Augu­stine Radol Odhiambo erano già fuo­ri dall’Eritrea, così come suor Isabel­la Limongi. Per le due Suore di Ve­druna, indiane, Dalia Parakal A­braham e Lilly Joseph, l’espulsione è stata rimandata perché infermiere in una clinica.
L’Eritrea già nel 1995 aveva de­cretato la nazionalizzazione di tutte le opere della Chiesa cattolica. Lo scoppio della guerra con l’Etiopia ha rin­viato le confische, ma quest’estate Asmara è tornata alla carica. Una fattoria di religiosi già è stata incamerata. Ora le espulsioni. «Siamo sicuri che la nazionalizzazione della Chiesa cattolica è la loro vera inten­zione – spiega suor Isabella Limongi – e la nostra e­spulsione è stato il primo passo per indebolire la presenza cattolica. Chi ci va di mezzo, comunque, è il popolo eritreo ». Oggi, raccontano i missionari, la povertà è dilagante. Il cibo è razionato, e una famiglia di sette per­sone non può comprare più di cinque panini al giorno. I giovani scap­pano in Sudan, attraversano il de­serto per raggiungere la Libia e sbar­care via mare in Italia, spesso per­dendo la vita nel tentativo. «Condi­vidiamo la vita del popolo, ma siamo in contatto con l’estero, siamo l’uni­ca via di comunicazione. Diamo fa­stidio, c’è qualcosa che non si vuol far vedere».
«La situazione si sta aggravando – spiega padre Giuseppe Cavallini di Nigrizia – con restrizioni pesanti del­la libertà di stampa, di movimento, di religione. Prima gli attacchi agli ortodossi, col patriarca Antonios agli arresti domiciliari e un esponente del governo incaricato di nominare il nuovo. Poi ai protestanti. I musulmani non hanno le stesse difficoltà». Ora si preannunciano problemi per le attività dei missionari, come il reinserimento sociale e scolastico di fratel Fiorenzo per mille ragazzi di strada. Suor Mariangela spiega che «la chiesa locale mantiene le attività, ma ci saranno difficoltà. La gente ci ha chiesto: non ci abbandonate».



«Con Giovanni Paolo II vi dico: no all’eutanasia» Benedetto XVI al Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari: «Vita da tutelare, anche nella malattia e nella vecchiaia»

Avvenire, 18.11.2007
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
« La tentazione dell’eutana­sia appare come uno dei sintomi più allarmanti della cultura della morte che avanza soprattutto nella società del benessere ». Si è affidato a una citazio­ne dell’Evangelium vitae Benedetto X­VI per ribadire che la vita resta un bene intangibile anche nella sua fase terminale. Lo ha fatto ieri nella Sala Clementina del Palazzo apostolico ricevendo i seicento esperti arrivati in Vaticano da tutto il mondo per partecipare alla 22ª Conferenza internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute.
Tema della tre giorni, conclusa proprio dall’udienza papale, è stato «La pastorale nella cura dei malati anziani ». Al centro, dunque, invecchiamento della popolazione, nuove frontiere della geriatria e dell’as­sistenza sanitaria, della farmacolo­gia, incidenza degli stili di vita nel­la qualità degli anni in più che deri­vano dallo spostamento in avanti del traguardo ultimo dell’esistenza. Ma non solo. La sessione di ieri mat­tina è stata dedicata al ruolo di par­rocchie, diocesi, ordini religiosi, vo­lontariato. Si sono toccati temi co­me la pastorale per e con gli anzia­ni, il sostegno spirituale, i sacra­menti. Uno spettro di questioni che ha trovato una sintesi nel successi­vo incontro con il Pontefice, che nel suo discorso ha ribadito come vada scongiurato il pericolo di mettere da parte gli anzia­ni, spesso fragi­li e ammalati.
«L’odierna mentalità efficientista – ha detto Papa Ratzinger – tende spesso a emarginare questi nostri fratelli e sorelle sofferenti, quasi fossero soltanto un 'peso' e un 'problema' per la società». Un corretto senso di umanità, invece, dovrebbe portare al rispetto per chi vive una fase di tramonto, quando forze fisiche ed energie intellettuali declinano, quando la malattia può facilmente prendere il sopravvento in modo irreversibile.
In questi casi è giusto «che si ricorra pure, quando necessario, all’utilizzo di cure palliative, le quali, anche se non possono guarire, sono in grado però di lenire le pene», ha proseguito.
Accanto a queste misure, però, non va dimenticata una dimensione fondamentale, emersa più volte – a partire dalla relazione di apertura del presidente del Pontificio Consiglio, il cardinale Javier Lozano Barragan, che ieri ha guidato la delegazione dal Papa, rivolgendogli un saluto a nome di tutta l’assemblea – nel corso dei lavori del convegno: quella dell’amore. Accanto alla fondamentale attività clinica, ha rimarcato il Papa, «occorre mostrare una concreta capacità di amare, perché i malati hanno bisogno di comprensione, di conforto e di costante incoraggiamento e accompagnamento ». Particolare importanza riveste l’attenzione al mondo vitale del malato, la famiglia, che dovreb­be restare suo punto di riferimento anche in caso di ricovero. Gli ope­ratori sanitari sono chiamati, poi, a farsi «ministri della vita» e a favori­re un «generale impegno perché la vita umana sia rispettata non solo negli ospedali cattolici, ma in ogni luogo di cura».
Nel corso del convegno vaticano so­no stati richiamati gli esempi di dedizione per i malati, e poi nella ma­­lattia, venuti da santi del passato, più o meno recente, ma anche da u­na schiera anonima di persone. Più volte è toccato alla beata Madre Te­resa di Calcutta e al servo di Dio Gio­vanni Paolo II. Al suo predecessore ha voluto far riferimento anche Be­nedetto XVI: «Specialmente duran­te la malattia ha offerto un’esem­plare testimonianza di fede e di co­raggio ». Non solo, egli ha anche «e­sortato gli scienziati e i medici a im­pegnarsi nella ricerca per prevenire e curare le malattie legate all’invec­chiamento, senza mai cedere alla tentazione di ricorrere a pratiche di abbreviamento della vita anziana e ammalata, pratiche che risultereb­bero essere di fatto forme di euta­nasia ».
La Conferenza internazionale su «La pastorale e la cura dei malati anziani» è stata l’occasione per il discorso del Pontefice




«Ricerca e cura? Indispensabili. Ma serve anche l’amore» Alle 12,15 di ieri nella Sala Clementina del Pa­lazzo apostolico vaticano, Benedetto XVI ha ri­cevuto in udienza i partecipanti alla 22ª Confe­renza internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari sul tema «La pastorale nella cura dei malati anziani». Ecco il testo integrale del discorso del Papa.
Avvenire, 18.11.2007
Signori cardinali, venerati fratelli nell’epi­scopato e nel sacerdozio, illustri signori e signore, cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di incontrarvi in occasione di questa Conferenza internazionale organizzata dal Pon­tificio Consiglio per gli operatori sanitari. A cia­scuno rivolgo il mio cordiale saluto, che, in pri­mo S luogo, va al signor cardinale Javier Lozano Barragán, con sentimenti di gratitudine per le gentili espressioni da lui rivoltemi a nome di tutti. Con lui saluto il segretario e gli altri com­ponenti del Pontificio Consiglio, le autorevoli personalità presenti e quanti hanno preso par­te a quest’incontro per riflettere insieme sul te­ma della cura pastorale dei malati anziani.
Si tratta di un aspetto oggi centrale della pastorale della salute che, grazie all’aumento dell’età media, interessa una popolazione sempre più numerosa, portatrice di molteplici bisogni, ma al tempo stesso di indubbie risorse umane e spirituali.
Se è vero che la vita umana in ogni sua fase è degna del massimo rispetto, per al­cuni versi lo è ancor di più quando è se­gnata dall’anzianità e dalla malattia. L’anzia­nità costituisce l’ultima tappa del nostro pelle­grinaggio terreno, che ha fasi distinte, ognuna con proprie luci e proprie ombre.
Ci si chiede: ha ancora senso l’esistenza di un essere umano che versa in condizioni assai pre­carie, perché anziano e malato? Perché, quan­do la sfida della malattia si fa drammatica, con­tinuare a difendere la vita, non accettando piut­tosto l’eutanasia come una liberazione? È pos­sibile vivere la malattia come un’esperienza u­mana da assumere con pazienza e coraggio?
Con queste domande deve misurarsi chi è chiamato ad accompagnare gli anzia­ni ammalati, specialmente quando sem­brano non avere più possibilità di guarigione. L’odierna mentalità efficientista tende spesso ad emarginare questi nostri fratelli e sorelle soffe­renti, quasi fossero soltanto un «peso» ed «un problema» per la società. Chi ha il senso della dignità umana sa che essi vanno, invece, ri­spettati e sostenuti mentre affrontano serie dif­ficoltà legate al loro stato. È anzi giusto che si ricorra pure, quando è necessario, all’utilizzo di cure palliative, le quali, anche se non possono guarire, sono in grado però di lenire le pene che derivano dalla ma­lattia.
Sempre, tuttavia, ac­canto alle indispensabili cure cliniche, occorre mostrare una concreta capacità di amare, perché i malati hanno bisogno di comprensione, di conforto e di costante incoraggiamento e accompagnamento. Gli anziani, in particolare, devono essere aiutati a percorrere in modo consapevole ed u­mano l’ultimo tratto dell’esistenza terre­na, per prepararsi se­renamente alla mor­te, che – noi cristiani lo sappiamo – è transito verso l’abbraccio del Padre celeste, pieno di tenerezza e di miseri­cordia.
V orrei aggiungere che questa necessaria sollecitudine pastorale verso gli anzia­ni malati non può non coinvolgere le fa­miglie. È in genere opportuno fare quanto è possibile perché siano le famiglie stesse ad ac­coglierli e a farsene carico con affetto ricono­scente, così che gli anziani ammalati possano trascorrere l’ultimo periodo della vita nella lo­ro casa e prepararsi alla morte in un clima di ca­lore familiare. Anche quando si rendesse ne­cessario il ricovero in strutture sanitarie, è im­portante che non venga meno il legame del pa­ziente con i suoi cari e con il proprio ambien­te.
Nei momenti più difficili il malato, sorretto dal­la cura pastorale, sia incoraggiato a trovare la forza per affrontare la sua dura prova nella pre­ghiera e col conforto dei Sacramenti. Sia cir­condato da fratelli nella fede, disposti ad ascol­tarlo e a condividerne i sentimenti. È questo, in verità, il vero obiettivo della cura «pastorale» delle persone anziane, specialmente quando sono malate, e ancor più se gravemente mala­te.
In più occasioni, il venerato mio predecessore Giovanni Paolo II, che specialmente durante la malattia ha offerto un’esempla­re testimonianza di fede e di coraggio, ha e­sortato gli scienziati e i medici ad impegnarsi nella ricerca per prevenire e curare le malattie legate all’invecchiamento, senza mai cedere alla tentazione di ricorrere a pratiche di ab­breviamento della vita anziana e ammalata, pratiche che risulte­rebbero essere di fat­to forme di eutanasia. Non dimentichino gli scienziati, i ricercato­ri, i medici, gli infer­mieri, così come i po­­litici, gli amministra­tori e gli operatori pa­storali che «la tenta­zione dell’eutanasia appare come uno dei sintomi più allar­manti della cultura della morte che avan­za soprattutto nella società del benesse­re » ( Evangelium vitae, 64).
La vita dell’uomo è dono di Dio, che tutti siamo chiamati a custodire sempre. Tale dovere tocca anche agli operatori sanitari, la cui specifica missione è di farsi «ministri della vita » in tutte le sue fasi, particolarmente in quelle segnate dalla fragilità connessa con l’infermità. Occorre un generale impegno perché la vita umana sia rispettata non solo negli ospe­dali cattolici, ma in ogni luogo di cura.
Per i cristiani è la fede in Cristo ad illumi­nare la malattia e la condizione della per­sona anziana, come ogni altro evento e fase dell’esistenza. Gesù, morendo sulla croce, ha dato alla sofferenza umana un valore e un si­gnificato trascendenti. Dinanzi alla sofferenza e alla malattia i credenti sono invitati a non perdere la serenità, perché nulla, nemmeno la morte, può separarci dall’amore di Cristo. In Lui e con Lui è possibile affrontare e superare ogni prova fisica e spirituale e, proprio nel momento di maggiore debolezza, sperimentare i frutti della Redenzione. Il Signore risorto si manifesta, in quanti credono in Lui, come il vivente che trasforma l’esistenza dando senso salvifico anche alla malattia ed alla morte.
Cari fratelli e sorelle, mentre invoco su ciascuno di voi e sul vostro quotidiano lavoro la materna protezione di Maria, Salus infirmorum, e dei santi che hanno speso la loro esistenza al servizio dei malati, vi esorto ad operare sempre per diffondere il «vangelo della vita». Con tali sentimenti, vi imparto di cuore la benedizione apostolica, estendendola volentieri ai vostri cari, ai vostri collaboratori e particolarmente alle persone anziane malate.
Benedetto XVI



L’anno di San Paolo
L'incontro converte


Autore: Re, Don Piero Curatore: Riva, Sr. Maria Gloria
Fonte: CulturaCattolica.it
Sulla via di Damasco avviene la conversione: Saulo diviene Paolo, un uomo nuovo. Fino ad allora, il persecutore accanito si era imbattuto con gente che viveva in totale riferimento a Gesù di Nazareth, per il quale era disposta a morire, perché ritenuto il Messia Salvatore. A lui però non era ancora stato dato di vedere e udire Cristo di persona, né vivo né redivivo. Sulla via di Damasco, invece, accade ciò che amici e nemici erano ben lontani dal prevedere; una sorta di agguato, poi riconosciuto come tale da Paolo stesso: «Io, che sono stato afferrato da Gesù Cristo» (Fil 3, 12).
Quando ormai Damasco è vicina, verso mezzogiorno, il divino irrompe nella storia di un fervente fariseo, investito da una luce abbagliante e dal risuonare di una voce dall’alto; non diversamente dalle manifestazioni di Dio a Mosè, di fronte al roveto ardente (cf Es 3) e sul monte Sinai (cf Es 19).
Questo è il tempo è il modo con cui a Paolo accade il primo incontro con la persona di Cristo. Esperienza rinnovata 3 anni dopo nell’estasi nel tempio (cf At 22, 17-21) e in un altro rapimento fino al «terzo cielo» (2Cor 12, 1-4). Una esperienza che fa di lui un credente e alla quale potrà a ragione e autorevolmente rifarsi - da polemista e apologeta di se stesso - ogni volta che gli verrà contestata la sua legittimità di apostolo e il diritto di recare l’annuncio ai pagani da lui liberati dai condizionamenti giudaici: «Non sono forse apostolo? Non ho forse avuto la visione di Gesù, nostro Signore?» (1Cor 9, 1s; cf anche 15, 8-10; Gal 1, 1. 11-17; Fil 3, 7-9). Quando Paolo stesso ne parlerà nelle Lettere, questa esperienza d’incontro con il Risorto sarà ritenuta non soltanto una ”visione” (cf 1Cor 9, 1), ma una ”illuminazione” (cf 2Cor 4, 6) e soprattutto una ”rivelazione” e ”vocazione” (cf Gal 1, 15s).
Di quanto accade nel cuore umano, quando incontra il mistero di Dio, poco o tanto da noi rimane imperscrutabile. Confortati tuttavia da tutte queste testimonianze, di tale evento possiamo determinare qualche elemento.

In questa esperienza di conversione a Saulo è data innanzitutto la conoscenza della vera identità di Gesù, nello stesso tempo autore e oggetto della ”rivelazione”: Gesù di Nazareth, morto in croce, ora è vivo; ovunque presente e operante, gli ha parlato, lasciandolo tramortito.

La sua è una conoscenza di sé ”nuova”, tutta da attribuirsi alla iniziativa gratuita di Dio. Ora Paolo capisce che Dio l’ha anticipato, Cristo l’ha conquistato, i giorni luminosi e le tenebrose notti della sua esistenza sono tutti grazia. Ora scopre di essere stato scelto fin dal seno materno (cf Gal 1, 15s), non diversamente da Geremia (cf 1. 5) e dallo stesso anonimo «Servo di Dio» (Is 49, 1).
D’ora in poi, Paolo non si riterrà mai un uomo che si è fatto da sé, bensì un prodigio suscitato dal Risorto che va ricreando la storia: «Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9); «È apparso anche a me come al feto abortito…Sono il più piccolo degli apostoli, io che non sono degno di essere chiamato apostolo… Ma alla grazia di Dio devo quello che sono e la sua grazia a mio riguardo non è stata inefficace. Al contrario, più di tutti loro ho duramente lavorato. Non io però, ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15, 8-10); «Il Vangelo da me predicato non è a misura dell’uomo. Perché neanche a me è stato trasmesso o insegnato da alcun uomo. L’ho invece ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11s).
Tutto ciò rappresenta un enorme stravolgimento della sua farisaica fiducia nel valore unico dell’osservanza della Legge antica, che scrivendo ai Romani e ai Galati dichiarerà definitivamente superata. Quanto gli è accaduto non è stato lo sviluppo logico di riflessioni o di lunga ascesi morale, ma il frutto di un imprevedibile intervento della grazia divina. È ciò che lo persuade di essere ormai anch’egli «apostolo», ma «per vocazione» (Rom 1, 1; 1Cor 1, 1) o «per volontà di Dio» (2Cor 1, 1; Ef, 1,1; Col 1, 1).

È una conoscenza che lo trasforma, perché – riconoscendo in Gesù il vero Cristo Salvatore egli percepisce coscientemente anche la vera identità del proprio io, che si realizza soltanto conformandosi a quella di Cristo.
Cristo gli ha aperto gli occhi e i suoi criteri di valutazione sono stati rovesciati: «Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21); «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui: non come una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quello che deriva dalla fede in Cristo» (Fil 3, 7-9).
La conversione di Paolo non è soltanto morale (un peccatore che ritrova la via del bene) o religiosa (un ateo che viene alla fede in Dio), ma conversione alla persona di Cristo come chiave di volta del destino umano, incontrando il quale si cambia integralmente tutto il modo di giudicare e di vivere. Più specificamente, qui Saulo passa dal giudaismo al cristianesimo, come. C. Barth riassume: «La vetta su cui mi ergevo è un abisso, la sicurezza in cui vivevo è perdizione, la luce di cui godevo è tenebra».

Il primo incontro di Paolo con Cristo risorto coincide con il primo incontro con la Chiesa, la cui caratteristica più qualificante è proprio la misteriosa connessione con Cristo. In tutti e tre i racconti degli Atti, ritroviamo il drammatico e sorprendente dialogo nel quale Gesù afferma di identificarsi con i cristiani: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?... Chi sei, o Signore?...Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 4s; 22, 8; 26, 14). Viene già qui rivelato, all’accanito cacciatore di donne e uomini cristiani di Damasco, che chi tocca i cristiani tocca lo stesso Gesù Nazareno: il Risorto rimane in vitale rapporto con la Chiesa, come il Capo e le membra del suo nuovo Corpo. L’aveva già detto Gesù: «Chi accoglie voi accoglie Me, e chi accoglie Me accoglie Colui che Mi ha mandato» (Mt 10, 40).
Il seguito del racconto conferma che ormai Cristo parla e agisce tramite la Chiesa, che ne prosegue la presenza salvifica. Infatti, alla domanda: «Che devo fare, Signore?», Cristo risponde di recarsi a Damasco. Qui, dopo tre giorni di tramortimento, Anania gli si presenterà come un fratello mandato dallo stesso Gesù che gli è apparso sulla via, per ridargli la vista, per colmarlo di Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani, per rimettergli i peccati nel lavacro battesimale (cf At 22, 10-16; 9, 10-19).