venerdì 4 dicembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Mendico ancora aiuto… - 3 dicembre 2009 - Molti di voi continuano, comprensibilmente, a chiedermi notizie di Caterina. Non posso scendere in particolari, ma naturalmente si tratta di una lotta drammatica. – Antonio Socci
2) Il Papa: malattia e sofferenza possono diventare una “scuola di speranza” - Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale del Malato
3) Cina. Il voltafaccia di un vescovo riaccende la disputa tra Bertone e Zen - Per il segretario di Stato vaticano la Chiesa clandestina deve uscire allo scoperto e mettersi in regola con le autorità cinesi. Per il cardinale Zen no: se lo facesse si consegnerebbe al nemico. Il caso del vescovo di Baoding - di Sandro Magister
4) Il cardinale: gay e trans fuori dal Regno dei cieli - di Andrea Tornielli
5) È TRA SCIENZA E INGEGNERIA L’ULTIMA FRONTIERA DELLA RICERCA - L’uomo non sfrutti mai l’uomo (anche se sarà «sintetico») - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 4 dicembre 2009
6) CONTRO LA VITA, CONTRO LA LEGGE - QUEI PILATI «INCOMPETENTI» - MARINA CORRADI – Avvenire, 3 dicembre 2009
7) La vita in carcere? - È meglio con Giotto - Così al 'Due Palazzi' di Padova rinasce la speranza - DAL NOSTRO INVIATO A PADOVA - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 4 dicembre 2009
8) Strasburgo - L’uomo? È solo un animale con più diritti – Avvenire, 4 dicembre 2009
9) Quando i giudici «inventano» le leggi – di Domenico Delle Foglie – Avvenire, 4 dicembre 2009


Mendico ancora aiuto… - 3 dicembre 2009 - Molti di voi continuano, comprensibilmente, a chiedermi notizie di Caterina. Non posso scendere in particolari, ma naturalmente si tratta di una lotta drammatica.
Per questo vorrei sommessamente domandarvi un piccolo aiuto, che tuttavia è grande per Caterina e per me (già vi ringrazio dal profondo del cuore)….

Ma prima voglio ricordare che siamo nei giorni della Novena dell’Immacolata. Io ho riletto alcune pagine del libro di S. Alfonso M. de Liguori, “Le glorie di Maria”.

Vi consiglio caldamente di tuffarvi in questa fondamentale opera del grande Dottore della Chiesa, perché fa capire in modo travolgente chi è nostra Madre e com’è il Suo Cuore e quanto è accorata con noi poveracci….

Commentando il versetto del Salve Regina che dice “Ad Te clamamus, exsules filii Hevae” (a Te ricorriamo, esuli figli di Eva), S. Alfonso fa capire perché bisogna pregare senza stancarsi mai e perché non si deve pensare assolutamente che Lei sia sorda al nostro grido di aiuto.

Trascrivo qualche riga:

“Poveri noi che andiamo errando in questa valle di lacrime… piangendo, afflitti da tanti dolori… Ma beato chi in mezzo a queste miserie si volge spesso verso la consolatrice del mondo, rifugio degli infelici, e invoca e prega devotamente la celeste Madre di Dio!

‘Felice l’uomo che mi ascolta, vegliando alla mia porta ogni giorno’ (Prov 8, 34). Beato, dice Maria, chi ascolta i miei consigli e resta accanto alle porte della mia misericordia invocando la mia intercessione e il mio soccorso! (…)

Questo desidera Maria da noi, di essere sempre invocata e implorata, non per mendicare da noi omaggi e onori, troppo al di sotto dei suoi meriti, ma affinché così, crescendo la nostra fiducia e devozione, essa possa maggiormente soccorrerci e consolarci: ‘Ella cerca quei devoti, dice san Bonaventura, che ricorrono a lei con fervore e reverenza. Questi predilige, nutre, accoglie come figli’ ”.

Per spiegare che la Madonna non solo corre, ma vola a soccorrere ogni suo figlio che piange, come Dio stesso, S. Alfonso cita le parole del Novarino: “Il Signore vola subito in aiuto di quelli che glielo chiedono, mantenendo fedelmente la promessa che ci ha fatto ‘chiedete e otterrete’, così Maria vola in nostro aiuto” quando la invochiamo.

E perfino quando non la invochiamo, dunque “se Maria anche non richiesta è così pronta a soccorrere nei bisogni, che cosa non farà quando la si implora?”.

Bernardino da Busto afferma addirittura che “la nostra Regina vuole concedere a noi le sue grazie più di quanto noi desideriamo riceverle”.

Con la certezza di questa speranza chiedo umilmente a chi vuole e può di recitare ogni giorno, fino all’Immacolata, il “Memorare” per aiutare Caterina a superare le difficoltà attuali e a svegliarsi guarita.

Trascrivo per tutti questa meravigliosa preghiera di S. Bernardo di Chiaravalle:

Memorare piissima Virgo Maria, a saecula non esse auditum quemquam ad tua corrente praesidia, tua implorantem auxilia, tua petentem suffragia esse derelictum.

Ego, tali animatus confidentia, ad te, Virgo virginum Mater, curro; ad te venio, coram te gemens peccator assisto.

Noi, Mater Verbi, verba mea despicere, sed audi propitia ed exaudi. Amen.

Traduzione:

Ricordati, piissima Vergine Maria, che non si è mai udito che alcuno sia ricordo alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, abbia cercato il tuo soccorso e sia stato abbandonato.

Animato da tale confidenza, a te ricorro, Madre Vergine delle vergini, da te vengo, dinanzi a te mi prostro, gemendo peccatore.

Non volere, Madre di Dio, disprezzare le mie parole, ma ascolta benevola ed esaudisci. Amen.



Io voglio essere fra quanti invocano l’aiuto e il soccorso della Madre di Gesù e Madre nostra, in ginocchio “alle porte della Sua misericordia”, notte e giorno…. Per Caterina la invoco e la invocherò instancabilmente notte e giorno…


Il Papa: malattia e sofferenza possono diventare una “scuola di speranza” - Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale del Malato
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 3 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Con l'aiuto di Dio e la fiducia riposta fermamente in Lui, anche la malattia può diventare una “scuola di speranza”, afferma Benedetto XVI nel Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale del Malato, che si celebrerà l'11 febbraio prossimo.

Nel testo, il Papa esorta a seguire l'esempio di Cristo, che nell'Ultima Cena “si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli, anticipando il supremo atto di amore della Croce”.

Gesù, spiega, “ci esorta a chinarci sulle ferite del corpo e dello spirito di tanti nostri fratelli e sorelle che incontriamo sulle strade del mondo”, come fece il buon Samaritano, che ogni cristiano è chiamato ad imitare.

“Ci aiuta a comprendere che, con la grazia di Dio accolta e vissuta nella vita di ogni giorno, l’esperienza della malattia e della sofferenza può diventare scuola di speranza”, aggiunge.

In questo contesto, richiama la sua Enciclica Spe salvi, in cui ha scritto che “non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore” (n. 37).

La prossima Giornata Mondiale del Malato si celebrerà come ogni anno nella memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, e in questa occasione coinciderà con il 25° anniversario dell’istituzione del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari.

Con questa Giornata, ha ricordato il Pontefice, la Chiesa vuole “sensibilizzare capillarmente la comunità ecclesiale circa l’importanza del servizio pastorale nel vasto mondo della salute, servizio che fa parte integrante della sua missione, poiché si inscrive nel solco della stessa missione salvifica di Cristo”.

Alla luce di ciò, le “molteplici forme e strutture sanitarie anche di carattere istituzionale” messe in atto dalla comunità ecclesiale rappresentano un “prezioso patrimonio” importante soprattutto “nell’attuale momento storico-culturale”, in cui si avverte particolarmente “l’esigenza di una presenza ecclesiale attenta e capillare accanto ai malati, come pure di una presenza nella società capace di trasmettere in maniera efficace i valori evangelici a tutela della vita umana in tutte le fasi, dal suo concepimento alla sua fine naturale”.

Ringraziando “di cuore” tutti coloro che si prendono cura dei malati e dei sofferenti, il Papa confessa che in quest’Anno Sacerdotale il suo pensiero si dirige particolarmente ai presbiteri, “segno e strumento della compassione di Cristo, che deve giungere ad ogni uomo segnato dalla sofferenza”.

Per questo, chiede ai sacerdoti di non risparmiarsi nel dare ai malati “cura e conforto”, sottolineando che “il tempo trascorso accanto a chi è nella prova si rivela fecondo di grazia per tutte le altre dimensioni della pastorale”.

Il Pontefice conclude quindi il suo Messaggio rivolgendosi ai malati, ai quali chiede di “pregare e di offrire le vostre sofferenze per i sacerdoti, perché possano mantenersi fedeli alla loro vocazione e il loro ministero sia ricco di frutti spirituali, a beneficio di tutta la Chiesa”.


Cina. Il voltafaccia di un vescovo riaccende la disputa tra Bertone e Zen - Per il segretario di Stato vaticano la Chiesa clandestina deve uscire allo scoperto e mettersi in regola con le autorità cinesi. Per il cardinale Zen no: se lo facesse si consegnerebbe al nemico. Il caso del vescovo di Baoding - di Sandro Magister

ROMA, 3 dicembre 2009 – Nel giro di due giorni sono piovute sui cattolici che vivono in Cina due esortazioni molto diverse tra loro, scritte da due pesi massimi della Chiesa mondiale: il cardinale Tarcisio Bertone e il cardinale Giuseppe Zen Zekiun.

Sia Bertone che Zen hanno tutti i titoli per occuparsi della Cina. Il primo è segretario di Stato e quindi responsabile dell'intera geopolitica della Chiesa, il secondo è vescovo emerito di Hong Kong e fa parte della commissione voluta dal Vaticano per seguire la messa in pratica della lettera programmatica scritta da Benedetto XVI ai cattolici cinesi il 27 maggio del 2007.

I cardinali Bertone e Zen sono entrambi salesiani e si conoscono da una vita. Ma ciò non toglie che si trovino spesso in disaccordo, a proposito della Cina. Il primo appare più "realista", il secondo più battagliero. L'uno e l'altro rivendicano a sé la giusta interpretazione della lettera del papa.

In queste ultime settimane, un caso riguardante un vescovo cinese ha fatto di nuovo esplodere la divergenza tra i due.


L'ANTEFATTO


Il vescovo è Francesco An Shuxin (nella foto di UCA News), 60 anni, coadiutore della diocesi di Baoding, il cui primo titolare, il vescovo Giacomo Su Zhimin, 75 anni, è dal 1996 detenuto in località ignota.

Anche monsignor An Shuxin è stato dieci anni in prigione. È stato liberato lo scorso 24 agosto. Ma a un caro prezzo: quello di iscriversi all'Associazione patriottica, lo strumento politico di cui le autorità cinesi si avvalgono per tenere sotto controllo la Chiesa nazionale e separarla da Roma.

La decisione del vescovo An Shuxin ha portato scompiglio tra il clero e i fedeli. Baoding è nell'Hebei, la regione cinese con la più alta concentrazione di cattolici, almeno un milione e mezzo, per la maggior parte privi di riconoscimento ufficiale. Oltre a Su Zhimin, altri due vescovi "clandestini" dell'Hebei sono attualmente in prigione: Cosma Shi Enxiang, vescovo di Yixian, 85 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001, e Giulio Jia Zhiguo, vescovo di Zhengding, 74 anni, riarrestato il 30 marzo scorso.

Assieme al vescovo An Shuxin, anche due sacerdoti della sua diocesi sono stati liberati dal carcere, a patto di iscriversi all'Associazione patriottica. Ad alcuni vescovi, preti e fedeli il gesto dei tre è apparso un tradimento, un passaggio al nemico. A giudizio di altri, esso è invece un passo necessario per uscir fuori dalla clandestinità, una condizione definita da Benedetto XVI nella sua lettera del 2007 "non normale per la vita della Chiesa".

Lo scompiglio non si è limitato all'Hebei ma ha chiamato in causa anche il Vaticano. È opinione diffusa che la curia romana spinga i vescovi e i preti clandestini a ottenere il riconoscimento ufficiale, al fine di normalizzare la vita delle diocesi, anche al prezzo di piegarsi ad alcuni diktat del regime. Nel caso del vescovo An Shuxin i sospetti si sono appuntati sulla congregazione vaticana per l'evangelizzazione dei popoli, al punto che – lo scorso 3 novembre con un comunicato – questa stessa congregazione si è sentita in dovere di smentire d'aver mai fatto pressioni su di lui.


LA LETTERA DI BERTONE


Su questo sfondo, il 16 novembre, da Roma, il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizza ai sacerdoti della Chiesa cinese una lettera.

Lo spunto è l'Anno Sacerdotale indetto in tutto il mondo da papa Joseph Ratzinger.

Nella lettera, datata 10 novembre, Bertone non fa parola del caso del vescovo di Baoding. Ma è facile vedervi un riferimento là dove il cardinale esorta "a una riconciliazione all'interno della comunità cattolica e a un dialogo rispettoso e costruttivo con le autorità civili, senza rinunciare ai principi della fede cattolica".

Così come è facile riferire alle comunità clandestine l'affermazione di Bertone che "una comunità non può ripiegarsi su se stessa, quasi fosse autosufficiente, ma deve mantenersi in comunione con ogni altra comunità cattolica".

Nell'insieme, però, la lettera di Bertone è interessante per altri motivi. Nell'esortare i sacerdoti cinesi alle virtù, ne mette in evidenza i vizi: la frequente infedeltà alle promesse di povertà e di castità, la litigiosità, la fiacchezza nella cura pastorale, il poco studio, il disinteresse nel suscitare vocazioni, l'assenza di spinta missionaria...

In effetti, i dati numerici non sono incoraggianti. Negli ultimi dieci anni la popolazione cattolica in Cina è rimasta ferma. Le vocazioni al sacerdozio sono in calo, ma calano anche quelle alla vita religiosa femminile. Sacerdoti e vescovi sono troppo anziani o troppo giovani. Manca la generazione di mezzo – falcidiata dalla Rivoluzione culturale – e i sacerdoti più giovani non sono adatti a fare i vescovi. In queste condizioni di debolezza della Chiesa, il regime si sente incoraggiato a esercitare su di essa forti pressioni e controlli. Da due anni la Santa Sede non riesce più a nominare in Cina nessun nuovo vescovo.


LE ISTRUZIONI DI ZEN


Ebbene, a giudicare dalle 23 pagine delle istruzioni diffuse il 18 novembre dal cardinale Zen – ennesimo suo commento alla lettera di Benedetto XVI del 2007 – la responsabilità di questo deludente stato di cose ricade in buona misura sulle autorità vaticane.

A giudizio di Zen sta prendendo piede l'idea secondo cui la stagione eroica della Chiesa clandestina sarebbe finita e tutti i suoi vescovi e sacerdoti dovrebbero entrare nella Chiesa ufficiale riconosciuta dal regime.

Secondo Zen questa idea sta producendo in Cina un ancor peggiore asservimento della Chiesa al potere e si fonda su un'interpretazione abusiva della lettera di Benedetto XVI.

L'istruzione diffusa nei giorni scorsi dal cardinale ripercorre infatti da cima a fondo la lettera del papa, chiosandola nel modo che Zen ritiene l'unico corretto.

A detta di Zen, quando Benedetto XVI scrive che "la condizione clandestina non è una condizione normale della vita della Chiesa" non ordina alle comunità clandestine di arrendersi alle pretese del governo, ma dice loro di resistere fino a quando la condizione anormale che provoca la clandestinità continuerà ad esserci.

Secondo Zen, il papa non vieta alle comunità clandestine di chiedere e ottenere il riconoscimento ufficiale, ma neppure le incita a fare ciò a cuor leggero. Anzi. Il papa le avverte che "quasi sempre" il regime concede il riconoscimento a condizione di compiere atti che sono "inconciliabili con la dottrina cattolica".

L'iscrizione all'Associazione patriottica è, secondo il cardinale Zen, uno di questi atti che un vescovo clandestino non dovrebbe mai compiere, neppure per ottenere la libertà.

All'obiezione di chi dice che né il papa né le autorità vaticane fanno obbligo di lasciare l'Associazione patriottica a quei vescovi ufficialmente riconosciuti che già vi sono iscritti, Zen risponde che questo compromesso è dovuto a circostanze storiche. Ai vescovi illegittimi di nomina governativa che, pentiti, fanno ritorno alla comunione con Roma la Chiesa consente di restare dentro l'Associazione: ma solo in via provvisoria e col sincero proposito di cambiare questo stato di cose appena possibile.


ULTIME DA PECHINO


In Vaticano, l'istruzione del cardinale Zen è stata accolta come un ennesimo suo atto d'accusa alla linea "diplomatica" della curia.

Fino a pochi mesi fa, in Vaticano si occupavano della Cina soprattutto monsignor Pietro Parolin, sottosegretario per i rapporti con gli Stati, e monsignor Gianfranco Rota Graziosi, capo uffficio della stessa sezione.

Parolin era il più ferrato in materia e seguiva anche la situazione della Chiesa in Vietnam. Ma la scorsa estate è stato inviato nunzio apostolico in Venezuela e nessuno l'ha rimpiazzato in curia, con una competenza pari alla sua sul dossier cinese.

Intanto, a Pechino, il 25 e 26 novembre un centinaio di esponenti cattolici di nomina governativa, tra i quali 40 vescovi, hanno rinviato a una data imprecisata la convocazione dell'Assemblea nazionale dei rappresentanti cattolici.

L'Assemblea è la massima autorità che governa la Chiesa cattolica in Cina, formalmente superiore all'Associazione patriottica e a quel falso duplicato di conferenza episcopale che è il Consiglio dei vescovi cinesi. Nessuna di queste tre istituzioni è compatibile con gli ordinamenti della Chiesa cattolica. Tra i poteri dell'Assemblea c'è quello di nominare i presidenti dell'Associazione patriottica e del Consiglio dei vescovi. Entrambe le cariche sono vacanti da anni, perché a ricoprirle erano rispettivamente il vescovo "patriottico" di Pechino, Michele Fu Tieshan, morto nel 2007, e quello di Nanchino, Giuseppe Liu Yuanren, morto nel 2004.

Nei mesi scorsi, il cardinale Zen aveva fatto di tutto per indurre vescovi e preti governativi a boicottare le assise. Non ci è riuscito. Ma le autorità cinesi hanno rinunciato a forzare. E rinviando l'Assemblea nazionale dei rappresentanti cattolici hanno lasciato aperto lo spiraglio – o la tentazione – per un eventuale ennesimo compromesso con le autorità vaticane.


Il cardinale: gay e trans fuori dal Regno dei cieli - di Andrea Tornielli
Barragán, ex ministro della Salute vaticano: "Gli omosessuali magari non sono colpevoli. Ma agiscono contro la natura e la dignità del corpo e così offendono il Signore". "La pillola abortiva? Usarla è più grave che comprare un revolver"

Roma - «Trans e omosessuali non entreranno mai nel Regno dei cieli». Così parlò il cardinale messicano Javier Lozano Barragán, Presidente emerito del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, l’ex «ministro della Sanità» vaticano. Barragán ha rilasciato un’intervista al sito internet «Pontifex» e poi ha ribadito le sue dichiarazioni all’agenzia Ansa.

Alla domanda su quale valutazione esprimesse in merito all’omosessualità e ai trans, il cardinale ha detto: «Trans e omosessuali non entreranno mai nel Regno dei Cieli, e non lo dico io, ma San Paolo». Quindi ha aggiunto: «Non si nasce omosessuali, ma lo si diventa. Per varie cause, per motivi di educazione, per non aver sviluppato la propria identità nell’adolescenza, magari non sono colpevoli, ma agendo contro la dignità del corpo, certamente non entreranno nel Regno dei cieli. Tutto quello che consiste nell’andare contro natura e contro la dignità del corpo offende Dio».
Con l’Ansa, il porporato messicano è sceso più nel dettaglio, e ha citato la lettera di San Paolo ai Romani (1, 26-28), nella quale l’Apostolo delle genti usa parole molto dure contro l’omosessualità e parla di persone abbandonate «all’impurità», di «passioni infami», di «atti ignominiosi»: «Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne». Il prelato ha però anche fatto osservare che «l’omosessualità è un peccato, ma questo non giustifica alcuna forma di discriminazione. Il giudizio spetta solo a Dio, noi sulla terra non possiamo condannare, e come persone abbiamo tutti gli stessi diritti».

L’ex «ministro della Sanità» vaticano ha parlato anche della pillola abortiva Ru486. «Ogni aborto, in quanto soppressione di una vita umana - ha spiegato il cardinale Barragán - è un crimine, un delitto e merita una punizione. La pillola è sempre e comunque un mezzo abortivo e come tale rappresenta una violazione gravissima della vita umana che è sacra ed inviolabile, che nessuno può manipolare a suo piacimento ed è un dono di Dio». Barragán ha quindi proposto un paragone: «Questa storia mi sembra assimilabile a chi compra una rivoltella in un negozio. Chi esce con una pistola è potenzialmente pericoloso, ha la possibilità di trasformarsi in omicida se la usa male e contro la legge. Ma è un potenziale criminale, lo diventa solo se agisce male. Chi abortisce non è potenziale, ma di fatto, in quanto ammazza. Pertanto la condotta di chi compie e pratica un aborto è sicuramente più grave di chi compra un revolver in armeria».

A provocare reazioni è stata soprattutto la frase sul Regno dei cieli negato a gay e trans, che Barragán non ha smentito. «La gerarchia vaticana torna a colpire la dignità delle persone omosessuali con le parole del cardinale Barragán e dell’arcivescovo di Bologna Caffarra», ha dichiarato Aurelio Mancuso, presidente nazionale Arcigay, accomunando le parole del prelato messicano all’appello rivolto due giorni fa da Caffarra alla Regione Emilia Romagna, riguardante un progetto di legge che equiparava famiglie fondate sul matrimonio e convivenze. «Ciò avviene - ha osservato - mentre in tutta Italia imperversano violenze contro le persone omosessuali e campagne mediatiche contro la dignità delle persone transessuali».


È TRA SCIENZA E INGEGNERIA L’ULTIMA FRONTIERA DELLA RICERCA - L’uomo non sfrutti mai l’uomo (anche se sarà «sintetico») - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 4 dicembre 2009
C ome ha osservato Francesco Donato Busnelli in una lucida audizione davanti al Comitato nazionale per la bioetica, in Italia c’è un obiettivo ritardo e un inspiegabile disinteresse nei confronti della ' biologia sintetica', cioè di quelle ricerche biologiche di frontiera, che si sforzano di trasformare l’ ' homo faber' in ' homo creator'. La biologia sintetica è quella disciplina ( o nuova sintesi disciplinare) che si prefigge come obiettivo quello di ricombinare componenti biomolecolari ( naturali o sintetici) in modo da produrre nuovi circuiti genetici e biochimici, per rimodellare forme di vita già esistenti o addirittura per crearne di nuove. In un certo senso, la biologia sintetica vuole fondere la scienza e l’ingegneria.
A quale scopo? Nel breve periodo, i biologi sintetici si prefiggono finalità socio- terapeutiche: già si cominciano a intravedere – si sostiene – le straordinarie possibilità che offre la creazione in laboratorio di materiale cellulare sintetico umano per sostituire tessuti corporei colpiti da irrimediabili ingiurie o da patologie incurabili; già si prevede come dalla ricerca sintetico- biologica ci si possano attendere grandi risultati ai fini della produzione di energia alternativa a quella petrolifera. Il passo ulteriore sarebbe quello di creare in laboratorio geni resistenti al cancro, per poter non solo da sconfiggere la malattia che più colpisce l’immaginario simbolico degli uomini moderni, ma addirittura prevenirla definitivamente. Fin qui, le prevedibili e lodevoli finalità della biologia sintetica. Ma perché non immaginare, oltre ciò che è ragionevolmente prevedibile, anche il possibile? Perché non cercare, grazie alla biologia sintetica, di potenziare il corpo umano, donandogli nuove capacità fino ad oggi nemmeno immaginabili, come ad esempio quella di ridurre l’esigenza del sonno ai minimi livelli ( o annullarla definitivamente)? Perché non pensare a intervenire sul cervello, anche ricorrendo all’ ausilio delle nanotecnologie, per dilatarne fino all’inverosimile la ' memoria'? Perché non predisporre tecniche per ritardare l’usura dell’ organismo ( cioè in definitiva la vecchiaia), in modo da garantire agli uomini la possibilità di una sopravvivenza ben più che secolare? Perché, in definitiva, non accettare l’ idea che l’uomo possa prendere nelle proprie mani la sua stessa dinamica evolutiva, non solo accelerandone i tempi, ma soprattutto dandole un ben preciso orientamento?
Quella dell’ ' uomo sintetico' non va ritenuta una fantasia: appartiene al novero delle possibilità che divengono di giorno in giorno sempre più concrete.
La biologia sintetica ci pone di fronte a scenari inquietanti e inediti: bene ha fatto la massima autorità dell’Unione Europea, il presidente Barroso, a richiedere all’Ege, cioè al ' Gruppo europeo per l’etica nella scienza e nelle nuove tecnologie' di cui Busnelli è membro autorevole, un primo rapporto al riguardo, che è stato redatto con ammirevole rapidità e in cui sono state inserite alcune precise, pur se aurorali, raccomandazioni ( favorire la circolazione delle informazioni, individuare gli opportuni limiti della brevettabilità delle scoperte, garantire i singoli e la società dai possibili rischi di alterazione ambientale che possono derivare dalla fabbricazione di organismi sintetici, ecc.). Resta ancora sulla sfondo, ma esploderà ben presto, il dibattito bioetico fondamentale, che anche in questo, come già in altri casi, dividerà i bioeticisti in due fazioni: quella degli apocalittici e quella degli ottimisti a oltranza. È ancora troppo presto per poter valutare serenamente da quale parte sia opportuno e doveroso schierarsi. Ma non dobbiamo mai stancarci di ricordare agli scienziati che qualsiasi loro ricerca, per essere legittima e lodevole, deve rispettare una condizione fondamentale: il principio supremo della dignità della persona. Un principio tutt’altro che generico e vuoto di contenuti, come sostengono molti scettici, perché si incardina su due esigenze fondamentali: quella di rispettare sempre e comunque l’identità umana ( contro ogni tentazione di manipolazione) e quella di non sfruttarla mai, soprattutto economicamente, né in modo diretto, né in modo indiretto. Sono esigenze elementari, alle quali anche la biologia sintetica deve essere fermamente chiamata a rendere omaggio.


CONTRO LA VITA, CONTRO LA LEGGE - QUEI PILATI «INCOMPETENTI» - MARINA CORRADI – Avvenire, 3 dicembre 2009
N on è cosa di nostra competenza. Questa la risposta dell’Aifa al ministro Sacconi che, dopo un’approfondita indagine parlamentare, chiedeva che la pillola abortiva venisse sommi­nistrata solo in regime di «ricovero ordinario», cioè in ospedale fino al compimento dell’abor­to. L’Agenzia italiana del farmaco ha elegante­mente declinato la richiesta: le nostre compe­tenze in materia di dispensazione dei farmaci «sono limitate», ha spiegato. Risposta medical­mente pilatesca, quando è noto che in un alto nu­mero di casi la somministrazione del farmaco a­bortivo dà luogo a emorragie e problemi, anche gravi, che la donna non dovrebbe trovarsi ad af­frontare da sola. Risposta politicamente invece molto chiara, quando spiega come il pieno ri­spetto della legge 194 sia materia di competen­za del Ministero – e che dunque se la veda lui.
Perché qui è il nodo politico del confronto. La 194 prevede che l’aborto avvenga in ospedale. Se si arrivasse invece a delegare all’ospedale so­lo la somministrazione della pillola, mandando poi le donne a casa, la legge 194 sarebbe scaval­cata. In una sorta di privatizzazione di fatto del­l’aborto. Utile a sgravare i medici da un compi­to pesante, e il servizio sanitario dalle spese de­gli interventi chirurgici. Ma poco conciliabile col testo di una legge che almeno nel suo incipit af­fermava di riconoscere «il valore sociale della maternità e la tutela della vita umana dal suo i­nizio ».
Che cosa si tutela, se la Ru486 va presa in fretta, entro la settima settimana di gravidanza, e non c’è neanche il tempo di quella settimana di ri­flessione prevista dalla 194? Chi si tutela, se pas­sa la vulgata che per abortire ora 'basta una pil­lola'? Non certo le adolescenti, né la loro consa­pevolezza di cos’è un figlio, e cos’è buttarlo via. Che cosa sia poi davvero, di sofferenza, il lungo velenoso 'lavoro' dell’aborto chimico, lo sco­priranno poi, sulla pelle. Sembra paradossale che proprio un giornale cat­tolico debba 'difendere' la legge sull’aborto co­sì come fu concepita trent’anni fa. Ma quella leg­ge, inaccettabile per i credenti, era almeno il com­promesso fra parti politiche che, nel legalizzare l’aborto, avevano ancora uno sguardo, sia pure a livello di princìpi, alla maternità, giudicata co­me un bene da tutelare, e ai diritti del concepi­to: cui era dedicato il lungo articolo 2 sulla pre­venzione dell’aborto. Trent’anni dopo, quell’articolo è rimasto quasi lettera morta. Le «associazioni di volontariato» che avrebbero voluto aiutare le donne a tenersi il figlio sono state ostacolate e spesso demoniz­zate. Per trent’anni il leit-motiv costante invece è stato: «La legge 194 non si tocca». (Un Moloch, un dogma del laicismo, del femminismo e della sinistra. Secondo cui l’aborto è prima di tutto 'diritto' da affermare).
Ma se il garbato declino di responsabilità del­­l’Aifa porterà come risultato a lasciare che le don­ne, ottenuta in fretta una pillola, abortiscano so­le a casa loro, sarà nei fatti e idealmente, rispet­to alla legge, un passo indietro, un venire meno a quello 'sfavore' all’aborto che pure tra le righe del testo della 194 si avverte. Una scelta prag­matica, utile ai conti delle Asl; una scelta utilita­ristica in linea con l’individualismo che ci do­mina. (Fare in fretta, senza nemmeno aspettare o aspettarsi l’aiuto di qualcuno. Abortire da so­le, creando meno problemi possibile. E pazien­za se a qualcuna magari andrà male).
Non è cosa, hanno detto, di nostra competenza. Dietro a una formula burocratica, una visione del mondo. Che una donna – povera, ricca, stra­niera – abortisca, e come, e la sua salute, son fat­ti suoi. Che questo avvenga secondo il dettato della legge, son fatti del Ministero. Perfettamen­te in linea, quelli dell’Aifa, con la mentalità co­munemente dominante. E altrettanto dimenti­chi di quel bene che, pur ferito e sopraffatto, nel 1978 l’Italia ancora ricordava. L’aborto, sì, lega­le, ma maternità come un bene da sostenere. La vita umana un valore, «dal suo inizio». Quella pillola data in fretta, che porta la morte in soli­tudine, sembra il simbolo di un mondo in cui si vive per sé soli.


La vita in carcere? - È meglio con Giotto - Così al 'Due Palazzi' di Padova rinasce la speranza - DAL NOSTRO INVIATO A PADOVA - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 4 dicembre 2009
F ranco monta selle, manubri e cerchioni sulle biciclette, Ble­dar assembla valigie, Angelo ri­sponde alle telefonate di chi vuole prenotare una visita medica alla Asl di Padova. Lavoratori infaticabili e fieri del mestiere che hanno impa­rato nel luogo dove meno se lo a­spettavano: la prigione. Hanno in co­mune la stessa condanna: ergastolo. O, come si dice in gergo carcerario, fine pena mai. Nella casa di reclu­sione Due Palazzi di Padova sono 80 i detenuti-lavoratori, il 10 per cento del totale, un record nel panorama penitenziario italiano. Altri venti la­vorano all’esterno curando il verde pubblico, i lavori cimiteriali e la pu­lizia delle strade. Tutto grazie all’in­ventiva e all’impegno degli operato­ri della cooperativa Giotto, che dal 1991 ha portato qui dentro una 'ri­voluzione culturale': il lavoro come strumento di riscatto. E così, quello che solitamente è un periodo di ab­brutimento e di degrado, per molti è diventato l’occasione per comincia­re una nuova vita. «Quando sono entrato avevo la neb­bia nel cervello e il cuore carico di rancore – racconta Angelo, ergasto­lano, condanne per omicidio e rapi­na a mano armata –. Non volevo neppure riconoscere di avere sba­gliato, da 12 anni non andavo a mes­sa, al frate che mi confessava dicevo che non ero stato io a uccidere, men­tivo persino con mia moglie. Qui ho incontrato gente che non mi ha chie­sto conto del mio passato, mi ha aiu­tato ad alzare lo sguardo e a metter­mi in azione. Ho fatto il corso per o­peratore di call center, lavoro sette ore al giorno al servizio di prenota­zione delle visite mediche per conto dell’Asl di Padova e per Fastweb. Ma soprattutto ho imparato a ricono­scere i miei errori e a fare pace con me stesso. E ho capito che Dio per­dona e ti dà sempre un’altra possi­bilità. Proprio come hanno fatto con me quelli di Giotto, che mi hanno of­ferto lavoro e amicizia». Come tutto il popolo delle carceri, anche Ange­lo è turbato dalla moltiplicazione dei suicidi di cui si ha notizia in questo periodo. «Certamente il sovraffolla­mento e il degrado in cui vivono tan­ti detenuti può spingere verso gesti estremi. In carcere ci sono tutte le condizioni per andare fuori di testa. Per farcela devi avere qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare an­che quando guardi i muri della tua cella. Io questo 'qualcosa' l’ho in­contrato proprio quando avevo toc­cato il fondo». È successo anche a Bledar, albanese di 36 anni, ergastolano pure lui, uno col coltello facile, che per questo è finito dentro sia al suo Paese, sia do­po essere emigrato in Italia, alla ri­cerca di un Eldorado che non ha mai trovato. Furti, rapine, spaccio, sfrut­tamento della prostituzione, fino al- l’omicidio. Quando la polizia lo ha fermato stava correndo a 150 all’ora, imbottito di alcol e droga. «Quei po­liziotti sono stati la mano di Dio che mi ha raggiunto prima che facessi la fine dei miei amici. Nella nostra ban­da eravamo in 12, gli altri 11 sono tutti morti in risse con bande rivali o incidenti stradali. Quando sono ar­rivato al Due Palazzi mi hanno mes­so nello stesso braccio di Franco, che mi ha fatto conoscere quelli di Giot­to. Grazie a loro ho cominciato a la­vorare e soprattutto a sperare». Ma­dre cristiana e padre musulmano, Bledar aveva sempre considerato la religione come un soprammobile, come tutti i giovani cresciuti nell’Al­bania dell’ateismo di stato. In carce­re ha conosciuto gente cambiata dal­l’incontro con Gesù, e anche lui ha cominciato a cambiare. «Ho chiesto il battesimo perché voglio vivere co­me loro, non posso fare a meno di a­mici così». Padre Luigi Caria, cappellano del car­cere, conferma che «anche nei luo­ghi più duri possono cominciare per­corsi di rinascita. I detenuti sono per­sone come noi, anche se nella men­talità comune si pensa che chi varca le porte del carcere diventa automa­ticamente una persona di serie B, un’entità irrecuperabile. Buttiamo via la chiave delle loro celle e li di­mentichiamo. Peccato che dopo un po’ questa gente esce, cerca casa e lavoro, cerca una normalità che le viene negata, e così molti tornano a delinquere».
Le cifre parlano chiaro: il 70% degli ex detenuti, una volta usciti com­mette altri reati. Ma la percentuale si abbassa al 20 per cento tra coloro che hanno usufruito di misure alter­native e scende a meno dell’1 per cento tra quanti hanno iniziato a la­vorare in carcere. «Lavoro vero, però, non lavoro assistito – tiene a preci­sare Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus e pio­niere dell’esperienza al Due Palazzi con la cooperativa Giotto –. In Italia i detenuti ’occupati’ all’interno del­le carceri sono 13mila su 66mila, ma solo 750 lavorano in cooperative so­ciali come la nostra che si muovono secondo logiche di mercato, accet­tando la concorrenza e cercando di realizzare profitti che poi vengono reinvestiti per creare nuova occupa­zione ». È la scommessa del 'privato sociale', che fa i conti con difficoltà burocratiche e diffidenze radicate, ma conta sull’aiuto di aziende che hanno visto ricambiata la loro fidu­cia in termini di qualità e affidabi­lità. I detenuti-dipendenti sono in­quadrati nel contratto delle coope­rative sociali, 900 euro al mese, con cui riescono anche ad aiutare le fa­miglie: una molla in più per 'muo­vere' il cuore e la mente.
La cooperativa, oltre a gestire la ri­storazione interna e un laboratorio di cartotecnica e ceramica, ha por­tato tra le mura del Due Palazzi no­mi importanti: assembla le valigie Roncato, i gioielli di Morellato, le bi­ciclette del gruppo Esperia con i marchi Torpado, Bottecchia e Fon­driest, ha allestito un call center per l’Asl di Padova e per Fastweb, men­tre per Infocert mette a punto le pen­drive col software per la firma digi­tale e cura la digitalizzazione di mi­gliaia di documenti cartacei. Il fiore all’occhiello sono i 'dolci di Giotto', che hanno acquisito notorietà a li­vello nazionale approdando persino nell’appartamento pontificio e sulla tavola dei grandi del G8 a L’Aquila.
Qui dentro Giotto non è solo un no­me, è una presenza: nei laboratori si fabbricano scatole, oggetti di can­celleria e piastrelle in ceramica ispi­rati agli affreschi della Cappella de­gli Scrovegni, il tesoro artistico del­la città. Riproduzioni dei dipinti campeggiano sulle pareti dei labo­ratori, e persino nella mensa è stata riprodotta una copia delle Nozze di Cana del pittore fiorentino. Com­menta Angelo, l’ergastolano addet­to al call center: «La Bellezza aiuta a vivere, ridà speranza. È vero per tut­ti, perché non dovrebbe esserlo an­che per noi?».


Strasburgo - L’uomo? È solo un animale con più diritti – Avvenire, 4 dicembre 2009
E’ stata recentemente discussa al Parlamento europeo una «Direttiva sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici». È un documento encomiabile, dato che fonda serie e doverose basi per la tutela degli animali. Qualcosa però richiama la nostra attenzione, perché vi si legge: «Vi sono validi motivi che giustificano la scelta di differenziare l’uso degli animali a seconda della specie di appartenenza, soprattutto in virtù della loro prossimità genetica con l’essere umano».
Insomma: garanzie di base per tutti gli animali, e garanzie ulteriori per i 'Primati non umani', ovvero le cosiddette 'grandi scimmie'. Questo potrebbe istintivamente sembrare un passo accettabile: chi non ha un moto di commozione se vede uno scimpanzé fare delle smorfie di dolore, che difficilmente verrebbero paragonate a quelle che potrebbe fare un gatto o un serpente? Ma è questo un motivo accettabile per impostare un trattamento differente tra le suddette specie animali? In altre parole, basta un’espressione facciale per fare sì che una specie acquisti più diritti dell’altra?

La Direttiva spiega questo trattamento diverso con il fatto che i 'Primati non umani' avrebbero una vicinanza genetica all’uomo maggiore degli altri animali. Ma, anche questo fosse vero, basterebbe per dare ai suddetti dei diritti maggiori? Se non si ammette infatti la specificità e unicità dell’uomo, perché dare diritti simili ai suoi solo a chi gli somiglia e non darli ad ogni specie, dal gatto all’elefante? Perché, tornando indietro in una possibile strada evoluzionistica ci si limita a concedere diritti agli scimpanzé e se ne escludono per esempio i bradipi o le bertucce o i cani? E se si ammette una specificità dell’uomo, perché metterla in forse, somministrando diritti secondo un ordine graduale e non separando chiaramente ciò che spetta all’uomo e ciò che spetta all’animale? Il problema è che l’uomo non è descrivibile come 'animale più evoluto' e la specificità dell’uomo non è data da qualche gene in più, ma da qualcosa di non riducibile alla sequenza del Dna e di non riproducibile, che ci fa intenerire verso ogni forma di vita ma allo stesso tempo ce ne distanzia.

Eppure in certi Paesi sta avanzando il Progetto Grandi Scimmie che si propone – leggiamo nel sito dell’Associazione – di «difendere i diritti dei grandi Primati non umani (gorilla, oranghi, scimpanzé e bonobo) i nostri più stretti parenti nel regno animale: il diritto alla vita, alla libertà individuale, e alla proibizione alla tortura». Ma considerare i diritti usando un criterio che li dosa in maniera progressiva quanto più si sale nella complessità genetica del soggetto non significa negare la specificità dell’essere umano e renderlo solo un animale con qualche diritto in più? Quando poi leggiamo nella succitata Direttiva che si raccomanda, quando necessario, di «uccidere l’animale con metodi umanitari», il nostro stupore cresce: intuiamo che l’estensore del testo invitava a trattare gli animali in maniera 'non crudele', ma usare il termine 'umanitario' che indica 'un atteggiamento positivo verso l’essere umano' ci preoccupa. Una revisione del testo della Direttiva è opportuna, anche perché ci sono vari segnali inquietanti nel mondo: a Varsavia degli uomini sono in mostra nello zoo a simulare l’origine dell’ homo sapiens, animale tra gli animali; in Svizzera il comitato di Bioetica riconosce i diritti morali delle piante; filosofi creano teorie per diminuire o negare lo stato di persona di alcuni esseri umani come per esempio lattanti e disabili mentali: è il momento di alzare la guardia.
Carlo Bellieni


Quando i giudici «inventano» le leggi – di Domenico Delle Foglie – Avvenire, 4 dicembre 2009
Tutto il mondo è paese.
Sembrerà strano, ma questa antica espressione popolare ben si attaglia, nel nostro tempo globalizzato, ad alcune notizie provenienti anche da altri continenti. In sintesi: grande è la tentazione per la magistratura di tagliare con la spada della giustizia (giustizia?) le grandi questioni antropologiche che riguardano il senso profondo della vita, con le sue domande esigenti. Che si tratti di famiglia o di vita nascente e morente, le più diverse magistrature (comprese quelle amministrative) si sentono protagoniste del cambiamento, quando non lo promuovono scientemente con le proprie sentenze.
Da qui una prima considerazione: quale suprema libertà di giudizio hanno i magistrati nell’emettere provvedimenti che allargano a dismisura le interpretazioni delle leggi, quando non si spingono addirittura a definire lo spazio di nuovi diritti ampliando anche i confini delle Costituzioni? Chi garantisce che nelle diverse magistrature non prevalgano le scelte ideologiche individuali, ivi comprese le proprie inclinazioni antropologiche, forzando così tanto la legge quanto il comune sentire della popolazione?
Queste e altre domande emergono a margine di due notizie di cui diamo conto, giusto per dimostrare quale partita sia in gioco nei tribunali di tutto il mondo evoluto. Sempre più, infatti, corriamo il rischio che, nella timidezza delle democrazie e nella conseguente inerzia dei Parlamenti, si finisca per delegare progressivamente ai magistrati, semplici funzionari pubblici 'irresponsabili' perché non eletti dal voto popolare, la disciplina di materie che meriterebbero piuttosto una grande macerazione nel dibattito pubblico.
Procediamo con ordine.
In Italia (ma non solo) sta diventando abituale il picconamento di leggi su temi eticamente sensibili attraverso impugnazioni e sentenze Ma non è accettabile che venga affidata alla magistratura la riscrittura della mappa antropologica di un popolo, nell’ignavia di tanti
La prima notizia arriva dall’Argentina e riguarda la relazione tra persone, ma anche la centralità della famiglia e la sua vocazione all’accoglienza della vita.
Il 13 novembre – leggiamo sul Foglio – il giudice Gabriela Seijas ha ordinato al Registro civile di celebrare l’unione tra due uomini. Questa decisione ha spinto il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires e presidente della Conferenza episcopale argentina, a intervenire. Le argomentazioni sollevate dai vescovi sono stringenti, e risalgono addirittura sino al Diritto romano: la parola matrimonium era riferita al diritto di ogni donna ad avere figli, un diritto riconosciuto nel rispetto della legge. E dunque, concludono i vescovi sudamericani in un documento, «affermare l’eterosessualità del matrimonio non vuol dire discriminare, ma partire da un elemento oggettivo che è il suo presupposto». Ed è proprio per questo che ne parliamo qui: le unioni omosessuali, nella loro naturale impossibilità a procreare, recano infatti con sé uno sbrego alla vita nascente. Ma di questo certi magistrati non si curano, e procedono imperterriti nella costruzione artificiale di «nuovi diritti», incuranti della storia e del sentire popolare.

La seconda notizia ci tocca ancor più da vicino e riguarda una delle leggi italiane più tartassate, vittima di un vero e proprio accanimento giudiziario: la legge 40 sulla procreazione assistita.
Una legge che, come è noto, vieta per volontà parlamentare (e successiva conferma referendaria) la
Lfecondazione eterologa, ovvero la possibilità di ricorrere agli ovuli o agli spermatozoi di un donatore. Come è altrettanto noto, la scelta di negare la fecondazione eterologa nasce dalla necessità, avvertita in ogni cultura e a ogni latitudine, di garantire la certezza biologica della propria origine. Ovvero la certezza per ogni essere umano della madre e del padre biologici.
Ora, tre coppie italiane con uno dei due partner sterili – fa sapere il settimanale L’Espresso – hanno sottoposto ai tribunali civili di altrettante città italiane questo interrogativo: «Perché una coppia in cui l’uomo ha pochi spermatozoi dovrebbe avere più diritti di uno che non ne ha affatto?». L’obiettivo dichiarato dei ricorrenti: far sì che i giudici chiedano alla Consulta di esprimersi «anche sul comma che esclude dal ricorso alla procreazione assistita le coppie in cui uno dei due partner sia sterile».
a conferma della strategia giudiziaria viene da uno degli avvocati che stanno assistendo le coppie, la costituzionalista Marilisa D’Amico: «Se almeno uno dei tre giudici accetterà l’istanza, l’intervento della Consulta sarà richiesto entro la primavera». Possiamo scommettere che almeno un giudice sarà disponibile, se non sia stato preventivamente già individuato a causa di sue precedenti sentenze 'innovative', e la Consulta procederà a smontare un altro caposaldo della legge 40...
È sinceramente difficile accettare il profilo di una democrazia in cui le leggi vengono smontate per via giudiziaria dal giorno successivo alla propria approvazione e in cui ai magistrati vengono attribuite, non per volontà popolare ma per autoassegnazione, compiti di riscrittura della mappa antropologica di un popolo. Certo, le nuove tecnologie sono la causa di questa situazione, ma bisognerà pur trovare un modus vivendi adeguato alla complessità delle questioni in gioco.