Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI riflette sul pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) SVIZZERA, IL RISULTATO DEL REFERENDUM SUI MINARETI - Così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura - In questo allarme c' è anche qualcosa di irragionevole: diluito tra noi l' Islam cambierà La Svizzera e quel complesso dell' assedio che si sta diffondendo in tutta Europa - di Vittorio Messori
3) L'offensiva del Cardinal Caffarra - "DIO VI GIUDICHERÀ” - Il comma 3 dell’articolo 42 del progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale dell’Emilia Romagna (paragonabile ad una “finanziaria” regionale) ha intenzione di parificare, nell’accesso ai servizi sociali e sanitari, le coppie sposate a quelle di fatto e ai singoli individui.
4) L'ostilità verso le conversioni dall'ebraismo - Edith Stein - una martire per due popoli - "Pagine ebraiche" - il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale - pubblica sul numero di dicembre un articolo, qui anticipato, che replica a un intervento uscito sul primo numero. - di Lucetta Scaraffia
5) CARRON/ 4. Giannino: non c’è economia senza dono, l’egoismo è perdente - Oscar Giannino giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
6) Cos’ha in testa Obama? - Lorenzo Albacete giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
7) COLLETTA ALIMENTARE/ Tra le scatole di pelati la speranza che desideriamo ogni giorno - Redazione lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI riflette sul pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 2 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su Guglielmo di Saint-Thierry, teologo monastico del XII sec.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
in una precedente Catechesi ho presentato la figura di Bernardo di Chiaravalle, il "Dottore della dolcezza", grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo – amico ed estimatore – fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina.
Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un’intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell’epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims. In quel periodo era molto diffusa l’esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all’interno del proprio monastero, e in genere nell’Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell’amico Bernardo, nel 1135, lasciò l’abbazia benedettina, smise l’abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.
Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L’energia principale che muove l’animo umano - egli dice - è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato. Scrive infatti Guglielmo: "L’arte delle arti è l’arte dell’amore… L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio" (La natura e la dignità dell’amore 1, PL 184,379). Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come "sapienza". A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell’uomo - intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.
Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all’amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell’uomo. In una meditazione egli dice che l’oggetto di questo amore è l’Amore con la "A" maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d’amore è il compimento dell’uomo" (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83). Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell’amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l’Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!
Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: "Amor ipse intellectus est - già in se stesso l’amore è principio di conoscenza". Cari amici, ci domandiamo: non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!
Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre - egli dice - passare dall’uomo "animale" a quello "razionale", per approdare a quello "spirituale". Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni? All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore. Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama "unità di spirito", non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un’altra cosa. Questa perfezione si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell’anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. "Vi è poi un’altra somiglianza con Dio", leggiamo nell’Epistola aurea, "che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura" (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).
Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il "Cantore dell’amore, della carità", ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna. Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore. E concludo proprio con una preghiera di questa Santa: "Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d'amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d'amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d'amore".
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, fedeli dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, accompagnati dall’Arcivescovo Mons. Antonio Ciliberti, ed auguro che la sosta presso i luoghi sacri rinsaldi la vostra adesione a Cristo e faccia crescere la carità nelle vostre comunità. Accompagno tutti, specialmente voi Seminaristi, con un particolare ricordo nella preghiera, perché il Signore vi ricolmi di copiosi doni spirituali. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Marinai d’Italia, convenuti così numerosi, ed auspico che questo incontro possa ravvivare in ciascuno il desiderio di amare Dio e il prossimo. Saluto, inoltre, i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e Pasticcieri e li ringrazio per il generoso dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa.
Saluto, infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Proprio oggi ricorre il 25° anniversario di promulgazione dell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia, che richiamò l’attenzione sull’importanza del sacramento della penitenza nella vita della Chiesa. In questa significativa ricorrenza, desidero rievocare alcune figure straordinarie di "apostoli del confessionale", instancabili dispensatori della misericordia divina: san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso, san Leopoldo Mandić, san Pio da Pietrelcina. La loro testimonianza di fede e di carità incoraggi voi, cari giovani, a fuggire il peccato e a progettare il vostro futuro come un generoso servizio a Dio e al prossimo. Aiuti voi, cari malati, a sperimentare nella sofferenza la misericordia di Cristo crocifisso. E solleciti voi, cari sposi novelli, a creare in famiglia un clima costante di fede e di reciproca comprensione. L’esempio di questi Santi, assidui e fedeli ministri del perdono divino, sia infine per i sacerdoti – specialmente in questo Anno sacerdotale – e per tutti i cristiani un invito a confidare sempre nella bontà di Dio, accostandosi e celebrando con fiducia il Sacramento della Riconciliazione.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
SVIZZERA, IL RISULTATO DEL REFERENDUM SUI MINARETI - Così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura - In questo allarme c' è anche qualcosa di irragionevole: diluito tra noi l' Islam cambierà La Svizzera e quel complesso dell' assedio che si sta diffondendo in tutta Europa - di Vittorio Messori
La croce bianca in campo rosso della bandiera (quadrata, come quella vaticana, non rettangolare) sventola ovunque, in Svizzera. È un land-mark onnipresente, è l' irrinunciabile segno d' identità dei 26 stati, suddivisi in 23 cantoni, dove quattro sono le lingue ufficiali, dove i cattolici convivono con i protestanti di molte chiese e confessioni e dove difformi al massimo sono le tradizioni. La convivenza non è stata sempre idilliaca e ancora a metà dell' Ottocento «papisti», calvinisti, zwingliani, luterani si affrontarono duramente in armi. Cose gravi ma, comunque, cose tra cristiani che pregano lo stesso Dio e leggono la stessa Bibbia. Preti contro pastori: una guerra, ma in famiglia. Così, la croce della bandiera ha potuto continuare a rappresentare la totalità di quella che - per aggirare la diversità linguistica - sui francobolli e sulla moneta si autodefinisce in latino: Confederatio helvetica. E i campanili delle chiese cattoliche come quelli dei templi protestanti hanno sempre contrassegnato gli scenari urbani come i romantici paesaggi montani . Anche per questo è significativo l' esito del referendum indetto non tanto contro i luoghi di culto islamici quanto contro il manarah, il «faro» in arabo, il minareto che contrassegna gli spazi della preghiera musulmana. Copiato dai cristiani, sostituendo alla cella campanaria il balconcino per il muezzin che cinque volte al giorno salmodia il Corano invitando alla preghiera, il minareto è parte imprescindibile della moschea. È il segno dell' islamizzazione: quando i turchi catturarono la preda più ambita, la veneranda Santa Sofia di Costantinopoli, la fecero subito «loro» lasciando quasi intatti gli interni, cancellando solo dalle pareti e dalle cupole le aborrite immagini umane, ma circondandola di quattro, altissimi «fari». È proprio contro questo segno che sembra avere votato la Confederazione elvetica, con disappunto delle gerarchie cristiane. Questa sorta di compendio, di sintesi della storia e della cultura europea, piantata nel cuore del Continente, dove fa convivere le due grandi radici, la latinità e il germanesimo, ha detto no. No alla convivenza esplicita, avvertibile già a colpo d' occhio, della croce con la mezzaluna, del campanile con il minareto. Le bianche montagne, le verdi vallate, i laghi azzurri non hanno nulla a che fare con i deserti e le steppe da cui spuntarono i maomettani, tante volte contenuti a suon di spada (e le milizie elvetiche fecero la loro parte) e che ora muovono silenziosamente ma implacabilmente a una nuova conquista, varcando le frontiere spesso in modo abusivo. La Svizzera non fa che confermare il «complesso dell' assedio» che sempre più va diffondendosi in Europa. Qualcosa come l' allarme dei «barbari alle porte» che contrassegnò gli ultimi secoli dell' Impero romano. Può esserci del positivo, malgrado le rampogne dei vescovi: innanzitutto, la riscoperta della nostra civiltà e cultura, abbandonando quell' «inspiegabile odio di sé che caratterizza da tempo l' Occidente», per usare le parole di Joseph Ratzinger quando ancora era cardinale e ricordava agli europei che nella loro storia le luci, malgrado tutto, prevalgono sulle ombre. Ma c' è anche, in questo allarme, qualcosa di irragionevole: non è realistico, in effetti, pensare che, diluito tra noi, l' Islam resti se stesso. L' osservanza del Corano, non ci stanchiamo di ripeterlo, è già corrosa e sempre più lo sarà dai nostri vizi e dalle nostre virtù, dai nostri veleni e dalle nostre grandezze. Non occorrerà una nuova Lepanto: basterà la nostra quotidianità, nel bene e nel male, per togliere vigore a una fede arcaica, legalista, incapace di affrontare le sfide non solo dell' edonismo e del razionalismo ma anche, va detto, dei venti secoli di cristianesimo che hanno permeato l' Europa.
Messori Vittorio
Pagina 12
(30 novembre 2009) - Corriere della Sera
L'offensiva del Cardinal Caffarra - "DIO VI GIUDICHERÀ” - Il comma 3 dell’articolo 42 del progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale dell’Emilia Romagna (paragonabile ad una “finanziaria” regionale) ha intenzione di parificare, nell’accesso ai servizi sociali e sanitari, le coppie sposate a quelle di fatto e ai singoli individui.
L’Arcivescovo di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra, ha contestato fortemente questa riforma, con un appello pubblico ai politici “come cittadino, cristiano e vescovo”. Per il cardinale, l’approvazione di tale disposizione avrebbe “a lungo andare effetti devastanti sul nostro tessuto sociale”. Caffarra afferma che “vi possono essere leggi gravemente ingiuste, come sarebbe questo comma se venisse approvato, che non meritano di essere rispettate” e che il suo appello non può essere considerato una “indebita ingerenza clericale”: nonostante ciò, chiede di “riflettere seriamente”, poichè “Dio vi giudicherà, anche chi non crede alla sua esistenza, se date a Cesare ciò che è di Dio stesso”.
Il presidente della Regione Vasco Errani ha risposto che l’appello del prelato, seppure “inedito” va valutato “con grande rispetto, come doveroso”, prospettando un possibile incontro chiarificatore con il card. Caffarra e rassicurando sul fatto che l’articolo del progetto di legge in questione “non ha certo intenzione di intervenire sulla definizione di famiglia che è normata nella Carta Costituzionale”.
Leggi il testo integrale dell'appello ai politici del Cardinal Caffarra.
"Dio vi giudicherà,
anche chi non crede alla sua esistenza"
Il testo dell'appello dell'Arcivescovo di Bologna,
il Cardinale Carlo Caffarra
Al Signor Presidente della Giunta regionale della Regione Emilia–Romagna
Ai Signori Assessori della Giunta Regionale della Regione Emilia–Romagna
Ai Signori Consiglieri componenti del Consiglio Regionale della Regione Emilia–Romagna
Onorevoli Signori, è la mia coscienza e responsabilità di cittadino, di cristiano, e di vescovo che mi induce a rivolgervi questo appello.
Come molti cittadini della nostra regione, ho letto il Progetto di legge di iniziativa della Giunta Regionale pubblicato sul Supplemento speciale del Bollettino Ufficiale [n° 274 – 11 novembre 2009]. Il comma 3 dell’art. 42 pone sullo stesso piano singoli individui, famiglie e convivenze nell’accesso dei servizi pubblici locali.
Già l’Osservatorio giuridico – legislativo della Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna ha espresso con pacate e convincenti argomentazioni giuridiche l’inaccettabilità di questa equiparazione. Non intendo ripeterle. Desidero rivolgermi alla vostra coscienza di responsabili del bene comune su un altro piano.
Nell’omelia pronunciata in S. Petronio il 4 ottobre u.s. dissi che chi non riconosce la soggettività incomparabile del matrimonio e della famiglia «ha già insidiato il patto di cittadinanza nelle sue clausole fondamentali». E’ ciò che fareste, se quel comma fosse approvato: un attentato alle clausole fondamentali del patto di cittadinanza.
Non sto giudicando le vostre intenzioni: nessuno ha questo diritto. Ma l’introduzione di una norma giuridica nel nostro ordinamento regionale, è un fatto pubblico che veicola significati che vanno ben oltre le intenzioni di chi lo compie.
L’approvazione eventuale avrebbe a lungo andare effetti devastanti sul nostro tessuto sociale.
Il matrimonio e la famiglia fondata su di esso è l’istituto più importante per promuovere il bene comune della nostra regione. Dove sono erosi, la società è maggiormente esposta alle più gravi patologie sociali.
La prima erosione avviene quando si pongono atti che obbiettivamente possono far diminuire la stima soprattutto nella coscienza delle giovani generazioni, dell’istituto del matrimonio e della famiglia. E ciò accadrebbe se al matrimonio e alla famiglia, così come sono costituzionalmente riconosciuti, venissero pubblicamente equiparate convivenze di natura diversa. Vi prego di riflettere seriamente sulla responsabilità che vi assumereste approvando quella norma.
Parlare di discriminazione in caso di non approvazione non ha senso: se è ingiusto trattare in modo diverso gli uguali, è ugualmente ingiusto trattare in modo uguale i diversi. Non sto dando giudizi valutativi di carattere etico sulla diversità in questione. Sto parlando della logica intrinseca ad ogni ordinamento giuridico civile: la giustizia distributiva è governata dal principio di proporzionalità.
Inoltre, coll’eventuale approvazione del comma suddetto obbiettivamente voi dareste un contributo alla credenza falsa e socialmente distruttiva che il matrimonio sia una mera “convenzione sociale” che può essere ridefinita ogni volta che così decida una maggioranza parlamentare.
Il matrimonio è una realtà oggettiva sussistente in una unione pubblica tra un uomo e una donna, il cui significato intrinseco è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita. Volete assumervi la responsabilità di porre un atto che per sua logica interna muove la nostra Regione verso una cultura che va estinguendo nel cuore delle giovani generazioni il desiderio di creare vere comunità famigliari?
Qualcuno potrebbe pensare che il comma in questione è una scelta di civiltà giuridica: estende la sfera dei diritti. Dato e non concesso che così fosse, ogni estensione dei diritti deve essere pensata nell’ambito del dovere fondamentale di difendere e promuovere il bene comune. Se così non fosse, si costruirebbe e favorirebbe una società di egoismi opposti. Credo di poter dire che nulla è più contrario alla nostra tradizione emiliano-romagnola, anche di governo, di questa visione della società.
Onorevoli Signori, come cittadino, cristiano e vescovo, rispetto la vostra autorità; so che siamo liberi in forza della sottomissione alle leggi; so che il vivere nella democrazia è stato anche nella nostra Regione frutto del sacrificio della vita di tante persone, sacerdoti compresi, la cui memoria deve essere custodita.
Ma colla stessa forza e convinzione vi dico che vi possono essere leggi gravemente ingiuste, come sarebbe questo comma se venisse approvato, che non meritano di essere rispettate.
Sono troppo convinto del vostro senso dello Stato democratico per pensare che qualcuno di voi ricevendo questo appello, possa parlare di “indebita ingerenza clericale” nell’ambito pubblico, di grave vulnus alla laicità dello Stato. Laicità dello Stato significa che tutti, nessuno escluso, possono intervenire nella discussione pubblica in vista di una decisione – che è di vostra esclusiva competenza – riguardante il bene e l’interesse di tutti. La laicità non è un fatto escludente, ma includente.
Onorevoli Signori, vi chiedo di accogliere questo appello, di riflettere seriamente, prima di prendere una decisione che potrebbe a lungo termine risultare devastante per la nostra Regione. Dio vi giudicherà, anche chi non crede alla sua esistenza, se date a Cesare ciò che è di Dio stesso.
Assicurandovi la preghiera quotidiana per il vostro alto ufficio, vi ringrazio fin da ora dell’attenzione che vorrete prestarmi.
Bologna, 1 Dicembre 2009
+ Carlo Card. Caffarra Arcivescovo
Il Foglio 1 dicembre 2009
L'ostilità verso le conversioni dall'ebraismo - Edith Stein - una martire per due popoli - "Pagine ebraiche" - il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale - pubblica sul numero di dicembre un articolo, qui anticipato, che replica a un intervento uscito sul primo numero. - di Lucetta Scaraffia
Uno dei punti basilari della Dichiarazione dei diritti votata dall'Onu nel 1948 prevedeva il diritto di "avere o cambiare religione" poi trasformato nel 1966, per pressione in gran parte islamica, in quella ad "avere o adottare una religione" e poi, definitivamente, nel 1981, nel diritto ad "avere una religione". La filosofa Donatella Di Cesare, nel suo articolo su Edith Stein pubblicato sul primo numero di "Pagine Ebraiche" - ma perché un giornale così interessante doveva iniziare con una caduta del genere? - sembra condividere proprio questo tipo di ostilità verso le conversioni. Tanto da scrivere che Edith Stein, "alla disperata ricerca di un'assimilazione negata, si era messa a scrivere di mistica, diventando cattolica, tomista e perfino carmelitana".
E prosegue definendo la conversione "fuga assurda" e il suo essere carmelitana "una sorta di festa in costume" con le parole di Günther Anders, che parafrasa, ma omettendo però di scrivere che lo stesso filosofo nemmeno si sognò di mettere in dubbio "la bona fides, se non l'optima fides, di Edith Stein", ben diversa ai suoi occhi dalla conversione per convenienza del comune maestro Husserl.
Insistere sul fatto che la conversione della Stein e la sua scelta di farsi religiosa carmelitana avvennero alla fine di un percorso consapevole e intenso anche dal punto di vista intellettuale è talmente noto da essere inutile. Le parole con cui Di Cesare bolla la filosofa facendosi scudo con citazioni estrapolate da Anders - che non può essere considerato l'unico veridico testimone e interprete solo per il fatto di essere nato anche lui a Breslavia e di averla conosciuta in gioventù - sono dunque sintomo non solo di disinvolta approssimazione, ma di un forte pregiudizio nei confronti delle conversioni dall'ebraismo, in questo caso poi particolarmente infondato.
Ma se a Edith Stein viene negato il diritto di scegliere la sua vita e la sua religione, Di Cesare attribuisce alla Chiesa cattolica colpe e poteri che storicamente non hanno fondamento: sui silenzi di Pio xii il dibattito può essere considerato ancora aperto, malgrado una sempre più estesa documentazione - prodotta non solo da parte cattolica - che ha smontato questa interpretazione, ma dal punto di vista storico è assurda la dichiarazione che "quella ebrea", cioè la Stein, "forse non sarebbe stata ridotta al silenzio se la Chiesa non avesse taciuto".
Di Cesare infatti sembra ignorare che della recrudescenza antisemita in Olanda - che portò alla deportazione della religiosa e di sua sorella, anch'essa convertita e ospitata nello stesso monastero - una delle principali cause fu notoriamente proprio la severa presa di posizione pubblica del clero cattolico olandese contro la persecuzione nazista degli ebrei. Per questo Edith Stein può essere considerata al tempo stesso martire ebrea e cristiana, come del resto lei ha sempre voluto essere, fedele al suo popolo anche nella conversione e nella vita religiosa.
E proprio per questo si dovrebbe ritenere la Stein appartenente a entrambi i popoli, in misura di quanto essi hanno intenzione di avvicinarsi al suo insegnamento e ai suoi scritti. E solo l'ignoranza dei fatti, oppure un pregiudizio non scalfibile, può spiegare l'uso di un'altra citazione di Anders, e cioè che il Vaticano si occupa tanto della Stein "solo perché sente l'urgenza di procurarsi un alibi". Chi ha promosso e sostenuto la pensatrice è stato Giovanni Paolo II, Papa filosofo vicino alla fenomenologia di Husserl e della stessa Stein, che vedeva nel pensiero e nell'esempio femminile della filosofa carmelitana un modello per la Chiesa moderna.
Si è trattato, in sostanza, di una scelta femminista e culturale, come prova, del resto, l'ingente bibliografia sulle opere filosofiche e mistiche dell'intellettuale. La morte nel campo di sterminio è stata decisiva per dichiararla martire, e quindi rendere più rapido un percorso di canonizzazione altrimenti destinato a essere molto più lungo - chi chiede miracoli a una filosofa? - e per questo fortemente sostenuto da un Papa che voleva portarla al centro dell'interesse della cultura contemporanea, non solo cattolica.
(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)
CARRON/ 4. Giannino: non c’è economia senza dono, l’egoismo è perdente - Oscar Giannino giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
Don Carrón ha sviluppato l’argomento toccato al capitolo 3 della Caritas in Veritate. È il tema che più ho trattato nei tanti incontri pubblici dedicati all’enciclica ai quali, in questi mesi, ho partecipato in giro per l’Italia. L’ultimo a Milano, al Teatro Nazionale, tre sere fa. Proprio con Giulio Sapelli, tra gli altri, che su questo ha scritto prima di me. Il capitolo 3 è dedicato, come sapete, all’economia del dono, all’incontro e alla crescita con l’altro come categoria fondante di ogni scelta economica. Per il cristiano avvezzo alla dottrina non è una scoperta, anche se fa bene rinfrescarsi le idee. Ma, nel mondo dell’economia che bazzico io, bisogna affrontare due critiche entrambe taglienti. E bisogna provare a confutarle con argomenti concreti, non solo con la fede e l’adesione alla dottrina.
La prima critica, sin banale nella sua compunta e malcelata malizia ma in realtà pressoché eterna in quanto atemporale, è quella per la quale il dono è in realtà una scelta antieconomica per definizione. Riservata al no profit, al terzo settore, alla solidarietà verso chi non ha nulla o quasi. Certo, un dovere morale per chi lo persegue, un’edificazione del cuore e della coscienza. Ma non certo un atto economico. Esempio classico, Martino che divide il mantello col povero.
Seconda obiezione. Più puntuta, assolutamente e pervicacemente abbracciata a una certa interpretazione del pensiero soi disant liberista, in quanto non solo fondato sull’individuo, ma sul mero calcolo utilitaristico. Una versione spintissima del “birraio” di Adam Smith e della sua “mano invisibile”, innestata sulla teoria del valore di David Ricardo, del marginalismo di Wicksell
che poi diventa di Bohm-Bawerk e degli austriaci, fino alla scuola delle aspettative razionali di Bob Lucas e Thomas Sargent, e alla Efficient Market Hypothesis di Eugene Fama. Per me, che aderisco a tale scuola, è l’obiezione più seria.
Ma sono entrambe sbagliate. La dottrina cristiana ha posto nell’Uomo e nella sua centralità il fondamento morale dell’economia, ricordando in ogni diversa fase dello sviluppo storico come quel valore fosse un valore morale capace insieme di diventare valore aggiunto, non pura ma improduttiva testimonianza etica. Dividere il mantello con il povero crea valore aggiunto quando si affronta un’economia ancora sotto la linea di sussistenza, e il valore aggiunto non è solo quello della vita ma della precondizione dell’accesso alla dignità e al benessere. Potremmo ancor oggi scoprirlo eccome se riusciamo a strappare alla fame chi ancora ci muore in Africa, facendoli gradualmente entrare nel mercato.
Usciti dalle mera sussistenza ed entrati nel mercato - che non esiste in natura ma si fonda su fiducia tra uomini e regole poste da uomini - vi rinvio ai puntuali esempi che trovate al capitolo 3 dell’enciclica, quanto alla dimensione morale delle scelte alle quali è chiamato il banchiere e il finanziere che sconta capitale scarso per il suo impiego nel tempo, o dell’imprenditore chiamato a investire. In questi casi è più evidente, che mettere l’uomo al centro comporta logiche di ritorno economico. Non asintotico come la pura rendita finanziaria, ma agganciato all’economia reale centrata sull’uomo, sulla sua crescita, sul suo capitale umano come precondizione per estendere e accrescere quello di chi verrà dopo di lui, interagisce e coopera oggi con lui.
La seconda obiezione nasce da quella che per me è per tanti versi la vittoria degli antiliberali sui liberali veri. È la caricatura di Adam Smith, quella che dimentica che prima della Ricchezza delle Nazioni - in cui per altro l’espressione “mano invisibile” compare una sola volta - insegnava teoria dei sentimenti morali, come tutti gli altri illuministi scozzesi con lui e prima di lui, per altro. Non ha mai letto Hayek e Mises, chi sostiene che gli individui le cui scelte “dal basso” sono da essi indicati come forze vere e uniche del mercato al posto di quelle di chiunque “illuminato dall’alto”, non siano “persone” i cui valori, la cui morale e la cui tradizione contino nulla, di fronte al mero calcolo felicifico. Esattamente come Lucas e Barro non hanno mai affermato che gli individui sono perfettamente razionali, né Fama ha mai scritto che i mercati in sé e per sé sono perfettamente efficienti: hanno mostrato che individui, imprese e mercati tendono a incorporare nelle loro scelte le informazioni di cui dispongono, e dunque hanno ammonito sul fatto che dando loro informazioni asimmetriche ci si espone a dei guai. Esattamente come è successo con l’attuale crisi.
Non sono solo i liberisti in caricatura ma molti cattolici per primi, a cadere nella facile trappola di indicare il liberismo come irriducibilmente avverso e addirittura nemico all’economia del dono. Sbagliano. La dottrina cattolica, personalista e sussidiarista, diffida dello statalismo e della presunzione tecnocratica: esattamente come i veri liberali. Per il semplice fatto che non sarebbe esistito liberalismo, senza cristianesimo in Europa e nel mondo. Immaginare e perseguire il ritorno economico di medio e lungo periodo fondato sulla crescita umana, esclude semplicemente teorie e prassi del rendimento economico a breve massimizzate perché non-umane, puramente algoritmiche, sospese a metà tra Faust e Nietzsche. Come capita, purtroppo, a tanti giovani - ormai non più - bankers che ho conosciuto negli ultimi 20 anni.
Cos’ha in testa Obama? - Lorenzo Albacete giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
L’ala sinistra del Partito Democratico è rimasta chiaramente scossa dalla decisione del presidente Obama di inviare altri 30.000 soldati in Afghanistan. Per loro si tratta di una decisione equivalente al controverso aumento di truppe in Iraq voluto da Bush nel 2007, cui il candidato Obama si era duramente opposto, affermando poi che non si sarebbe ripetuto. E ritengono, ancora una volta, che Obama si stia allontanando dalle promesse fatte in campagna elettorale. Eppure, almeno in questo caso, il presidente sta facendo proprio quanto promesso durante la sua campagna.
Nel discorso in cui ha annunciato l’invio del nuovo contingente di truppe, Obama ha ricordato ai suoi critici di aver ripetutamente collegato, nella campagna elettorale, la sua opposizione alla guerra in Iraq alla necessità di combattere fino in fondo la guerra in Afghanistan, da lui definita “una guerra necessaria”. Per questo, subito dopo la sua elezione, aveva mandato dei rinforzi e il 2 dicembre, dopo tre mesi di estese consultazioni, ha di nuovo fatto fronte alla sua promessa.
Le reazioni al discorso a West Point, in cui ha annunciato la sua decisione, hanno reso evidente che i Democratici di sinistra e i Repubblicani non appoggeranno la decisione del presidente e la sua strategia. Anche se, dopo l’attacco del settembre 2001, Obama ha dichiarato di rifiutarsi di credere che sia impossibile ricostruire l’unità tra gli americani, le reazioni al suo discorso fanno pensare il contrario.
Se il presidente avesse deciso di non inviare le truppe richieste dai suoi consiglieri militari, la reazione dei Repubblicani sarebbe stata violenta. Come mi ha detto un convinto sostenitore di Obama, gli attuali “tea parties”, come vengono chiamati gli incontri organizzati contro le politiche governative, sarebbero diventati veramente dei “tè delle cinque” in confronto a ciò che si sarebbe scatenato.
All’altro estremo, i Democratici di sinistra non si accontenteranno della promessa di Obama di iniziare il ritiro delle truppe a partire dal luglio 2011, mossa che i Repubblicani hanno accusato di essere solo politica e non coerente con gli obiettivi descritti dal presidente stesso nel suo discorso. Per i Democratici contrari alla guerra, la decisione di Obama equivale alla strategia di “nation building” di Bush, anche se Obama lo ha negato esplicitamente nel suo discorso.
Il vero interlocutore cui si è rivolto Obama con il suo discorso è rappresentato da quegli americani che non aderiscono a una precisa ideologia e dai Democratici di centro-sinistra, che hanno fiducia in Obama come persona e che ancora vogliono almeno concedergli il beneficio del dubbio. Una cosa è chiara: da ora in poi questa è la guerra di Obama e questa decisione sarà il contrassegno della sua presidenza.
È interessante notare che ancora una volta, come spesso durante la campagna elettorale, la questione al centro è la vera essenza di Obama, il suo modo di decidere e giudicare. Quanto ci si può fidare di lui e quanto è ragionevole fidarsi di uno che sembra così diverso dai politici americani precedenti? Ma è veramente così diverso? Non è forse solo un politico molto abile alla ricerca del potere?
Ho sentito sollevare tutte queste domande parlando con amici o nei media. Poco prima del suo discorso, un giornalista televisivo ed “esperto” di politica ha detto: “Quello che voglio sapere è se nelle sue decisioni vi è anche il cuore o se sono solo una questione di testa.” Ancora una volta la domanda posta è: cosa c’è veramente nel cuore di Obama?
Questa è una buona domanda, soprattutto per quelli la cui fede ci permette di riconoscere l’ambiguità che c’è in ogni decisione umana. Come ha scritto G.K. Chesterton, l’uomo aperto al Mistero “ha tenuto sempre di più alla verità che alla coerenza. Di fronte a due verità che sembrano contraddirsi, egli prenderà entrambe le verità e con esse la contraddizione.” (Orthodoxy).
COLLETTA ALIMENTARE/ Tra le scatole di pelati la speranza che desideriamo ogni giorno - Redazione lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Per un giorno vorrei che si parlasse del meraviglioso popolo piemontese. Ieri, in occasione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare circa 700.000 piemontesi hanno donato ben 840.000 kg di cibo a favore dei più poveri e sfortunati dei nostri concittadini, per un valore superiore ai 2,5 milioni di euro.
In tempo di crisi profonda e reale per tanti. Un gesto clamoroso di generosità e solidarietà. Ho visto di persona noti berlusconiani sfegatati, rifondaroli convinti, musulmani, persone ricche e note, gente comune, alti e piccoli, giovani e vecchi, simpatici e scorbutici fare la spesa per i poveri aiutati dal Banco Alimentare. Un gesto semplice quanto efficace è stato capace di una straordinaria unificazione popolare. Che spettacolo!
Per un giorno eravamo tutti uguali e insieme, nel compiere questa azione. Ieri sera, nel nostro magazzino di Moncalieri, c’erano un centinaio di giovani ad aiutarci a scaricare tutto quanto si era raccolto. Anche lì, giovani di tutti i credo e passioni che, oltre ad aver lavorato come matti, hanno investito quel luogo e i nostri volontari stremati, di una freschezza e bellezza che solo la gioventù sa esprimere: chi faceva a gara nello scaricare camion facendo la catena e con tifo da stadio, chi canticchiava, chi faceva scherzi a ripetizione, chi si apriva a nuove amicizie e incontrava i nostri volontari abituali. Altro che crack o crick da black block! Ho percepito chiaramente in tutta la giornata che ciò che ci accumuna davvero è la “speranza”: in qualcosa di migliore, che non abbiamo o non abbiamo ancora, ma che, incessantemente, desideriamo.
Un’inclinazione profonda al bene che c’è dentro ciascuno di noi, a cui bisogna solo dare occasione di tirarla fuori. Penso davvero che gli uomini siano migliori di quanto appaia. Ma è così difficile vivere così come abbiamo visto ieri? Sì, è molto difficile. E’ difficile non far prevalere il nostro sentimento del momento, la nostra istintività o pregiudizio, o la nostra prepotenza e presunzione. Ma per un giorno, ieri, per molti è stato possibile vivere meglio e con più gusto attraverso quel semplice ma sentito gesto di condivisione che è stata la Colletta. Allora vien da chiedersi: in cosa riponiamo la nostra speranza per un futuro migliore? Nella finanza fine a se stessa che premia la speculazione e distrugge le vite senza pietà?, nel Grande Fratello o illusioni simili? Nella prepotenza con cui magari da imprenditori cerchiamo di far fuori un concorrente? Nello Stato, conferendogli responsabilità che sono solo nostre? O in quello che abbiamo visto ieri e in tante esperienze simili? O nel guardare a un concorrente come ad un collega con cui magari aiutarsi a superare questo momento? O ai giovani educandoli a preservare la loro bellezza e genuinità e a spendere le loro vite per qualcosa che valga davvero la pena? O a essere dei protagonisti nella vita sociale per un bene comune? Ma, almeno per un giorno, abbiamo visto che è possibile!. Non resta che continuare a cercare una speranza, lasciandoci educare da gesti come quello vissuto ieri. A nome dei poveri che verranno aiutati dal Banco Alimentare e dei nostri volontari, esprimo il grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato e a tutti coloro che hanno generosamente donato.
(Roberto Cena, presidente Associazione Banco Alimentare del Piemonte Onlus)
1) Benedetto XVI riflette sul pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) SVIZZERA, IL RISULTATO DEL REFERENDUM SUI MINARETI - Così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura - In questo allarme c' è anche qualcosa di irragionevole: diluito tra noi l' Islam cambierà La Svizzera e quel complesso dell' assedio che si sta diffondendo in tutta Europa - di Vittorio Messori
3) L'offensiva del Cardinal Caffarra - "DIO VI GIUDICHERÀ” - Il comma 3 dell’articolo 42 del progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale dell’Emilia Romagna (paragonabile ad una “finanziaria” regionale) ha intenzione di parificare, nell’accesso ai servizi sociali e sanitari, le coppie sposate a quelle di fatto e ai singoli individui.
4) L'ostilità verso le conversioni dall'ebraismo - Edith Stein - una martire per due popoli - "Pagine ebraiche" - il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale - pubblica sul numero di dicembre un articolo, qui anticipato, che replica a un intervento uscito sul primo numero. - di Lucetta Scaraffia
5) CARRON/ 4. Giannino: non c’è economia senza dono, l’egoismo è perdente - Oscar Giannino giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
6) Cos’ha in testa Obama? - Lorenzo Albacete giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
7) COLLETTA ALIMENTARE/ Tra le scatole di pelati la speranza che desideriamo ogni giorno - Redazione lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI riflette sul pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 2 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su Guglielmo di Saint-Thierry, teologo monastico del XII sec.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
in una precedente Catechesi ho presentato la figura di Bernardo di Chiaravalle, il "Dottore della dolcezza", grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo – amico ed estimatore – fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina.
Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un’intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell’epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims. In quel periodo era molto diffusa l’esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all’interno del proprio monastero, e in genere nell’Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell’amico Bernardo, nel 1135, lasciò l’abbazia benedettina, smise l’abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.
Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L’energia principale che muove l’animo umano - egli dice - è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato. Scrive infatti Guglielmo: "L’arte delle arti è l’arte dell’amore… L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio" (La natura e la dignità dell’amore 1, PL 184,379). Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come "sapienza". A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell’uomo - intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.
Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all’amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell’uomo. In una meditazione egli dice che l’oggetto di questo amore è l’Amore con la "A" maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d’amore è il compimento dell’uomo" (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83). Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell’amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l’Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!
Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: "Amor ipse intellectus est - già in se stesso l’amore è principio di conoscenza". Cari amici, ci domandiamo: non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!
Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre - egli dice - passare dall’uomo "animale" a quello "razionale", per approdare a quello "spirituale". Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni? All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore. Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama "unità di spirito", non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un’altra cosa. Questa perfezione si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell’anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. "Vi è poi un’altra somiglianza con Dio", leggiamo nell’Epistola aurea, "che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura" (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).
Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il "Cantore dell’amore, della carità", ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna. Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore. E concludo proprio con una preghiera di questa Santa: "Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d'amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d'amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d'amore".
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, fedeli dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, accompagnati dall’Arcivescovo Mons. Antonio Ciliberti, ed auguro che la sosta presso i luoghi sacri rinsaldi la vostra adesione a Cristo e faccia crescere la carità nelle vostre comunità. Accompagno tutti, specialmente voi Seminaristi, con un particolare ricordo nella preghiera, perché il Signore vi ricolmi di copiosi doni spirituali. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Marinai d’Italia, convenuti così numerosi, ed auspico che questo incontro possa ravvivare in ciascuno il desiderio di amare Dio e il prossimo. Saluto, inoltre, i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e Pasticcieri e li ringrazio per il generoso dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa.
Saluto, infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Proprio oggi ricorre il 25° anniversario di promulgazione dell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia, che richiamò l’attenzione sull’importanza del sacramento della penitenza nella vita della Chiesa. In questa significativa ricorrenza, desidero rievocare alcune figure straordinarie di "apostoli del confessionale", instancabili dispensatori della misericordia divina: san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso, san Leopoldo Mandić, san Pio da Pietrelcina. La loro testimonianza di fede e di carità incoraggi voi, cari giovani, a fuggire il peccato e a progettare il vostro futuro come un generoso servizio a Dio e al prossimo. Aiuti voi, cari malati, a sperimentare nella sofferenza la misericordia di Cristo crocifisso. E solleciti voi, cari sposi novelli, a creare in famiglia un clima costante di fede e di reciproca comprensione. L’esempio di questi Santi, assidui e fedeli ministri del perdono divino, sia infine per i sacerdoti – specialmente in questo Anno sacerdotale – e per tutti i cristiani un invito a confidare sempre nella bontà di Dio, accostandosi e celebrando con fiducia il Sacramento della Riconciliazione.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
SVIZZERA, IL RISULTATO DEL REFERENDUM SUI MINARETI - Così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura - In questo allarme c' è anche qualcosa di irragionevole: diluito tra noi l' Islam cambierà La Svizzera e quel complesso dell' assedio che si sta diffondendo in tutta Europa - di Vittorio Messori
La croce bianca in campo rosso della bandiera (quadrata, come quella vaticana, non rettangolare) sventola ovunque, in Svizzera. È un land-mark onnipresente, è l' irrinunciabile segno d' identità dei 26 stati, suddivisi in 23 cantoni, dove quattro sono le lingue ufficiali, dove i cattolici convivono con i protestanti di molte chiese e confessioni e dove difformi al massimo sono le tradizioni. La convivenza non è stata sempre idilliaca e ancora a metà dell' Ottocento «papisti», calvinisti, zwingliani, luterani si affrontarono duramente in armi. Cose gravi ma, comunque, cose tra cristiani che pregano lo stesso Dio e leggono la stessa Bibbia. Preti contro pastori: una guerra, ma in famiglia. Così, la croce della bandiera ha potuto continuare a rappresentare la totalità di quella che - per aggirare la diversità linguistica - sui francobolli e sulla moneta si autodefinisce in latino: Confederatio helvetica. E i campanili delle chiese cattoliche come quelli dei templi protestanti hanno sempre contrassegnato gli scenari urbani come i romantici paesaggi montani . Anche per questo è significativo l' esito del referendum indetto non tanto contro i luoghi di culto islamici quanto contro il manarah, il «faro» in arabo, il minareto che contrassegna gli spazi della preghiera musulmana. Copiato dai cristiani, sostituendo alla cella campanaria il balconcino per il muezzin che cinque volte al giorno salmodia il Corano invitando alla preghiera, il minareto è parte imprescindibile della moschea. È il segno dell' islamizzazione: quando i turchi catturarono la preda più ambita, la veneranda Santa Sofia di Costantinopoli, la fecero subito «loro» lasciando quasi intatti gli interni, cancellando solo dalle pareti e dalle cupole le aborrite immagini umane, ma circondandola di quattro, altissimi «fari». È proprio contro questo segno che sembra avere votato la Confederazione elvetica, con disappunto delle gerarchie cristiane. Questa sorta di compendio, di sintesi della storia e della cultura europea, piantata nel cuore del Continente, dove fa convivere le due grandi radici, la latinità e il germanesimo, ha detto no. No alla convivenza esplicita, avvertibile già a colpo d' occhio, della croce con la mezzaluna, del campanile con il minareto. Le bianche montagne, le verdi vallate, i laghi azzurri non hanno nulla a che fare con i deserti e le steppe da cui spuntarono i maomettani, tante volte contenuti a suon di spada (e le milizie elvetiche fecero la loro parte) e che ora muovono silenziosamente ma implacabilmente a una nuova conquista, varcando le frontiere spesso in modo abusivo. La Svizzera non fa che confermare il «complesso dell' assedio» che sempre più va diffondendosi in Europa. Qualcosa come l' allarme dei «barbari alle porte» che contrassegnò gli ultimi secoli dell' Impero romano. Può esserci del positivo, malgrado le rampogne dei vescovi: innanzitutto, la riscoperta della nostra civiltà e cultura, abbandonando quell' «inspiegabile odio di sé che caratterizza da tempo l' Occidente», per usare le parole di Joseph Ratzinger quando ancora era cardinale e ricordava agli europei che nella loro storia le luci, malgrado tutto, prevalgono sulle ombre. Ma c' è anche, in questo allarme, qualcosa di irragionevole: non è realistico, in effetti, pensare che, diluito tra noi, l' Islam resti se stesso. L' osservanza del Corano, non ci stanchiamo di ripeterlo, è già corrosa e sempre più lo sarà dai nostri vizi e dalle nostre virtù, dai nostri veleni e dalle nostre grandezze. Non occorrerà una nuova Lepanto: basterà la nostra quotidianità, nel bene e nel male, per togliere vigore a una fede arcaica, legalista, incapace di affrontare le sfide non solo dell' edonismo e del razionalismo ma anche, va detto, dei venti secoli di cristianesimo che hanno permeato l' Europa.
Messori Vittorio
Pagina 12
(30 novembre 2009) - Corriere della Sera
L'offensiva del Cardinal Caffarra - "DIO VI GIUDICHERÀ” - Il comma 3 dell’articolo 42 del progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale dell’Emilia Romagna (paragonabile ad una “finanziaria” regionale) ha intenzione di parificare, nell’accesso ai servizi sociali e sanitari, le coppie sposate a quelle di fatto e ai singoli individui.
L’Arcivescovo di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra, ha contestato fortemente questa riforma, con un appello pubblico ai politici “come cittadino, cristiano e vescovo”. Per il cardinale, l’approvazione di tale disposizione avrebbe “a lungo andare effetti devastanti sul nostro tessuto sociale”. Caffarra afferma che “vi possono essere leggi gravemente ingiuste, come sarebbe questo comma se venisse approvato, che non meritano di essere rispettate” e che il suo appello non può essere considerato una “indebita ingerenza clericale”: nonostante ciò, chiede di “riflettere seriamente”, poichè “Dio vi giudicherà, anche chi non crede alla sua esistenza, se date a Cesare ciò che è di Dio stesso”.
Il presidente della Regione Vasco Errani ha risposto che l’appello del prelato, seppure “inedito” va valutato “con grande rispetto, come doveroso”, prospettando un possibile incontro chiarificatore con il card. Caffarra e rassicurando sul fatto che l’articolo del progetto di legge in questione “non ha certo intenzione di intervenire sulla definizione di famiglia che è normata nella Carta Costituzionale”.
Leggi il testo integrale dell'appello ai politici del Cardinal Caffarra.
"Dio vi giudicherà,
anche chi non crede alla sua esistenza"
Il testo dell'appello dell'Arcivescovo di Bologna,
il Cardinale Carlo Caffarra
Al Signor Presidente della Giunta regionale della Regione Emilia–Romagna
Ai Signori Assessori della Giunta Regionale della Regione Emilia–Romagna
Ai Signori Consiglieri componenti del Consiglio Regionale della Regione Emilia–Romagna
Onorevoli Signori, è la mia coscienza e responsabilità di cittadino, di cristiano, e di vescovo che mi induce a rivolgervi questo appello.
Come molti cittadini della nostra regione, ho letto il Progetto di legge di iniziativa della Giunta Regionale pubblicato sul Supplemento speciale del Bollettino Ufficiale [n° 274 – 11 novembre 2009]. Il comma 3 dell’art. 42 pone sullo stesso piano singoli individui, famiglie e convivenze nell’accesso dei servizi pubblici locali.
Già l’Osservatorio giuridico – legislativo della Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna ha espresso con pacate e convincenti argomentazioni giuridiche l’inaccettabilità di questa equiparazione. Non intendo ripeterle. Desidero rivolgermi alla vostra coscienza di responsabili del bene comune su un altro piano.
Nell’omelia pronunciata in S. Petronio il 4 ottobre u.s. dissi che chi non riconosce la soggettività incomparabile del matrimonio e della famiglia «ha già insidiato il patto di cittadinanza nelle sue clausole fondamentali». E’ ciò che fareste, se quel comma fosse approvato: un attentato alle clausole fondamentali del patto di cittadinanza.
Non sto giudicando le vostre intenzioni: nessuno ha questo diritto. Ma l’introduzione di una norma giuridica nel nostro ordinamento regionale, è un fatto pubblico che veicola significati che vanno ben oltre le intenzioni di chi lo compie.
L’approvazione eventuale avrebbe a lungo andare effetti devastanti sul nostro tessuto sociale.
Il matrimonio e la famiglia fondata su di esso è l’istituto più importante per promuovere il bene comune della nostra regione. Dove sono erosi, la società è maggiormente esposta alle più gravi patologie sociali.
La prima erosione avviene quando si pongono atti che obbiettivamente possono far diminuire la stima soprattutto nella coscienza delle giovani generazioni, dell’istituto del matrimonio e della famiglia. E ciò accadrebbe se al matrimonio e alla famiglia, così come sono costituzionalmente riconosciuti, venissero pubblicamente equiparate convivenze di natura diversa. Vi prego di riflettere seriamente sulla responsabilità che vi assumereste approvando quella norma.
Parlare di discriminazione in caso di non approvazione non ha senso: se è ingiusto trattare in modo diverso gli uguali, è ugualmente ingiusto trattare in modo uguale i diversi. Non sto dando giudizi valutativi di carattere etico sulla diversità in questione. Sto parlando della logica intrinseca ad ogni ordinamento giuridico civile: la giustizia distributiva è governata dal principio di proporzionalità.
Inoltre, coll’eventuale approvazione del comma suddetto obbiettivamente voi dareste un contributo alla credenza falsa e socialmente distruttiva che il matrimonio sia una mera “convenzione sociale” che può essere ridefinita ogni volta che così decida una maggioranza parlamentare.
Il matrimonio è una realtà oggettiva sussistente in una unione pubblica tra un uomo e una donna, il cui significato intrinseco è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita. Volete assumervi la responsabilità di porre un atto che per sua logica interna muove la nostra Regione verso una cultura che va estinguendo nel cuore delle giovani generazioni il desiderio di creare vere comunità famigliari?
Qualcuno potrebbe pensare che il comma in questione è una scelta di civiltà giuridica: estende la sfera dei diritti. Dato e non concesso che così fosse, ogni estensione dei diritti deve essere pensata nell’ambito del dovere fondamentale di difendere e promuovere il bene comune. Se così non fosse, si costruirebbe e favorirebbe una società di egoismi opposti. Credo di poter dire che nulla è più contrario alla nostra tradizione emiliano-romagnola, anche di governo, di questa visione della società.
Onorevoli Signori, come cittadino, cristiano e vescovo, rispetto la vostra autorità; so che siamo liberi in forza della sottomissione alle leggi; so che il vivere nella democrazia è stato anche nella nostra Regione frutto del sacrificio della vita di tante persone, sacerdoti compresi, la cui memoria deve essere custodita.
Ma colla stessa forza e convinzione vi dico che vi possono essere leggi gravemente ingiuste, come sarebbe questo comma se venisse approvato, che non meritano di essere rispettate.
Sono troppo convinto del vostro senso dello Stato democratico per pensare che qualcuno di voi ricevendo questo appello, possa parlare di “indebita ingerenza clericale” nell’ambito pubblico, di grave vulnus alla laicità dello Stato. Laicità dello Stato significa che tutti, nessuno escluso, possono intervenire nella discussione pubblica in vista di una decisione – che è di vostra esclusiva competenza – riguardante il bene e l’interesse di tutti. La laicità non è un fatto escludente, ma includente.
Onorevoli Signori, vi chiedo di accogliere questo appello, di riflettere seriamente, prima di prendere una decisione che potrebbe a lungo termine risultare devastante per la nostra Regione. Dio vi giudicherà, anche chi non crede alla sua esistenza, se date a Cesare ciò che è di Dio stesso.
Assicurandovi la preghiera quotidiana per il vostro alto ufficio, vi ringrazio fin da ora dell’attenzione che vorrete prestarmi.
Bologna, 1 Dicembre 2009
+ Carlo Card. Caffarra Arcivescovo
Il Foglio 1 dicembre 2009
L'ostilità verso le conversioni dall'ebraismo - Edith Stein - una martire per due popoli - "Pagine ebraiche" - il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale - pubblica sul numero di dicembre un articolo, qui anticipato, che replica a un intervento uscito sul primo numero. - di Lucetta Scaraffia
Uno dei punti basilari della Dichiarazione dei diritti votata dall'Onu nel 1948 prevedeva il diritto di "avere o cambiare religione" poi trasformato nel 1966, per pressione in gran parte islamica, in quella ad "avere o adottare una religione" e poi, definitivamente, nel 1981, nel diritto ad "avere una religione". La filosofa Donatella Di Cesare, nel suo articolo su Edith Stein pubblicato sul primo numero di "Pagine Ebraiche" - ma perché un giornale così interessante doveva iniziare con una caduta del genere? - sembra condividere proprio questo tipo di ostilità verso le conversioni. Tanto da scrivere che Edith Stein, "alla disperata ricerca di un'assimilazione negata, si era messa a scrivere di mistica, diventando cattolica, tomista e perfino carmelitana".
E prosegue definendo la conversione "fuga assurda" e il suo essere carmelitana "una sorta di festa in costume" con le parole di Günther Anders, che parafrasa, ma omettendo però di scrivere che lo stesso filosofo nemmeno si sognò di mettere in dubbio "la bona fides, se non l'optima fides, di Edith Stein", ben diversa ai suoi occhi dalla conversione per convenienza del comune maestro Husserl.
Insistere sul fatto che la conversione della Stein e la sua scelta di farsi religiosa carmelitana avvennero alla fine di un percorso consapevole e intenso anche dal punto di vista intellettuale è talmente noto da essere inutile. Le parole con cui Di Cesare bolla la filosofa facendosi scudo con citazioni estrapolate da Anders - che non può essere considerato l'unico veridico testimone e interprete solo per il fatto di essere nato anche lui a Breslavia e di averla conosciuta in gioventù - sono dunque sintomo non solo di disinvolta approssimazione, ma di un forte pregiudizio nei confronti delle conversioni dall'ebraismo, in questo caso poi particolarmente infondato.
Ma se a Edith Stein viene negato il diritto di scegliere la sua vita e la sua religione, Di Cesare attribuisce alla Chiesa cattolica colpe e poteri che storicamente non hanno fondamento: sui silenzi di Pio xii il dibattito può essere considerato ancora aperto, malgrado una sempre più estesa documentazione - prodotta non solo da parte cattolica - che ha smontato questa interpretazione, ma dal punto di vista storico è assurda la dichiarazione che "quella ebrea", cioè la Stein, "forse non sarebbe stata ridotta al silenzio se la Chiesa non avesse taciuto".
Di Cesare infatti sembra ignorare che della recrudescenza antisemita in Olanda - che portò alla deportazione della religiosa e di sua sorella, anch'essa convertita e ospitata nello stesso monastero - una delle principali cause fu notoriamente proprio la severa presa di posizione pubblica del clero cattolico olandese contro la persecuzione nazista degli ebrei. Per questo Edith Stein può essere considerata al tempo stesso martire ebrea e cristiana, come del resto lei ha sempre voluto essere, fedele al suo popolo anche nella conversione e nella vita religiosa.
E proprio per questo si dovrebbe ritenere la Stein appartenente a entrambi i popoli, in misura di quanto essi hanno intenzione di avvicinarsi al suo insegnamento e ai suoi scritti. E solo l'ignoranza dei fatti, oppure un pregiudizio non scalfibile, può spiegare l'uso di un'altra citazione di Anders, e cioè che il Vaticano si occupa tanto della Stein "solo perché sente l'urgenza di procurarsi un alibi". Chi ha promosso e sostenuto la pensatrice è stato Giovanni Paolo II, Papa filosofo vicino alla fenomenologia di Husserl e della stessa Stein, che vedeva nel pensiero e nell'esempio femminile della filosofa carmelitana un modello per la Chiesa moderna.
Si è trattato, in sostanza, di una scelta femminista e culturale, come prova, del resto, l'ingente bibliografia sulle opere filosofiche e mistiche dell'intellettuale. La morte nel campo di sterminio è stata decisiva per dichiararla martire, e quindi rendere più rapido un percorso di canonizzazione altrimenti destinato a essere molto più lungo - chi chiede miracoli a una filosofa? - e per questo fortemente sostenuto da un Papa che voleva portarla al centro dell'interesse della cultura contemporanea, non solo cattolica.
(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)
CARRON/ 4. Giannino: non c’è economia senza dono, l’egoismo è perdente - Oscar Giannino giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
Don Carrón ha sviluppato l’argomento toccato al capitolo 3 della Caritas in Veritate. È il tema che più ho trattato nei tanti incontri pubblici dedicati all’enciclica ai quali, in questi mesi, ho partecipato in giro per l’Italia. L’ultimo a Milano, al Teatro Nazionale, tre sere fa. Proprio con Giulio Sapelli, tra gli altri, che su questo ha scritto prima di me. Il capitolo 3 è dedicato, come sapete, all’economia del dono, all’incontro e alla crescita con l’altro come categoria fondante di ogni scelta economica. Per il cristiano avvezzo alla dottrina non è una scoperta, anche se fa bene rinfrescarsi le idee. Ma, nel mondo dell’economia che bazzico io, bisogna affrontare due critiche entrambe taglienti. E bisogna provare a confutarle con argomenti concreti, non solo con la fede e l’adesione alla dottrina.
La prima critica, sin banale nella sua compunta e malcelata malizia ma in realtà pressoché eterna in quanto atemporale, è quella per la quale il dono è in realtà una scelta antieconomica per definizione. Riservata al no profit, al terzo settore, alla solidarietà verso chi non ha nulla o quasi. Certo, un dovere morale per chi lo persegue, un’edificazione del cuore e della coscienza. Ma non certo un atto economico. Esempio classico, Martino che divide il mantello col povero.
Seconda obiezione. Più puntuta, assolutamente e pervicacemente abbracciata a una certa interpretazione del pensiero soi disant liberista, in quanto non solo fondato sull’individuo, ma sul mero calcolo utilitaristico. Una versione spintissima del “birraio” di Adam Smith e della sua “mano invisibile”, innestata sulla teoria del valore di David Ricardo, del marginalismo di Wicksell
che poi diventa di Bohm-Bawerk e degli austriaci, fino alla scuola delle aspettative razionali di Bob Lucas e Thomas Sargent, e alla Efficient Market Hypothesis di Eugene Fama. Per me, che aderisco a tale scuola, è l’obiezione più seria.
Ma sono entrambe sbagliate. La dottrina cristiana ha posto nell’Uomo e nella sua centralità il fondamento morale dell’economia, ricordando in ogni diversa fase dello sviluppo storico come quel valore fosse un valore morale capace insieme di diventare valore aggiunto, non pura ma improduttiva testimonianza etica. Dividere il mantello con il povero crea valore aggiunto quando si affronta un’economia ancora sotto la linea di sussistenza, e il valore aggiunto non è solo quello della vita ma della precondizione dell’accesso alla dignità e al benessere. Potremmo ancor oggi scoprirlo eccome se riusciamo a strappare alla fame chi ancora ci muore in Africa, facendoli gradualmente entrare nel mercato.
Usciti dalle mera sussistenza ed entrati nel mercato - che non esiste in natura ma si fonda su fiducia tra uomini e regole poste da uomini - vi rinvio ai puntuali esempi che trovate al capitolo 3 dell’enciclica, quanto alla dimensione morale delle scelte alle quali è chiamato il banchiere e il finanziere che sconta capitale scarso per il suo impiego nel tempo, o dell’imprenditore chiamato a investire. In questi casi è più evidente, che mettere l’uomo al centro comporta logiche di ritorno economico. Non asintotico come la pura rendita finanziaria, ma agganciato all’economia reale centrata sull’uomo, sulla sua crescita, sul suo capitale umano come precondizione per estendere e accrescere quello di chi verrà dopo di lui, interagisce e coopera oggi con lui.
La seconda obiezione nasce da quella che per me è per tanti versi la vittoria degli antiliberali sui liberali veri. È la caricatura di Adam Smith, quella che dimentica che prima della Ricchezza delle Nazioni - in cui per altro l’espressione “mano invisibile” compare una sola volta - insegnava teoria dei sentimenti morali, come tutti gli altri illuministi scozzesi con lui e prima di lui, per altro. Non ha mai letto Hayek e Mises, chi sostiene che gli individui le cui scelte “dal basso” sono da essi indicati come forze vere e uniche del mercato al posto di quelle di chiunque “illuminato dall’alto”, non siano “persone” i cui valori, la cui morale e la cui tradizione contino nulla, di fronte al mero calcolo felicifico. Esattamente come Lucas e Barro non hanno mai affermato che gli individui sono perfettamente razionali, né Fama ha mai scritto che i mercati in sé e per sé sono perfettamente efficienti: hanno mostrato che individui, imprese e mercati tendono a incorporare nelle loro scelte le informazioni di cui dispongono, e dunque hanno ammonito sul fatto che dando loro informazioni asimmetriche ci si espone a dei guai. Esattamente come è successo con l’attuale crisi.
Non sono solo i liberisti in caricatura ma molti cattolici per primi, a cadere nella facile trappola di indicare il liberismo come irriducibilmente avverso e addirittura nemico all’economia del dono. Sbagliano. La dottrina cattolica, personalista e sussidiarista, diffida dello statalismo e della presunzione tecnocratica: esattamente come i veri liberali. Per il semplice fatto che non sarebbe esistito liberalismo, senza cristianesimo in Europa e nel mondo. Immaginare e perseguire il ritorno economico di medio e lungo periodo fondato sulla crescita umana, esclude semplicemente teorie e prassi del rendimento economico a breve massimizzate perché non-umane, puramente algoritmiche, sospese a metà tra Faust e Nietzsche. Come capita, purtroppo, a tanti giovani - ormai non più - bankers che ho conosciuto negli ultimi 20 anni.
Cos’ha in testa Obama? - Lorenzo Albacete giovedì 3 dicembre 2009 – ilsussidiario.net
L’ala sinistra del Partito Democratico è rimasta chiaramente scossa dalla decisione del presidente Obama di inviare altri 30.000 soldati in Afghanistan. Per loro si tratta di una decisione equivalente al controverso aumento di truppe in Iraq voluto da Bush nel 2007, cui il candidato Obama si era duramente opposto, affermando poi che non si sarebbe ripetuto. E ritengono, ancora una volta, che Obama si stia allontanando dalle promesse fatte in campagna elettorale. Eppure, almeno in questo caso, il presidente sta facendo proprio quanto promesso durante la sua campagna.
Nel discorso in cui ha annunciato l’invio del nuovo contingente di truppe, Obama ha ricordato ai suoi critici di aver ripetutamente collegato, nella campagna elettorale, la sua opposizione alla guerra in Iraq alla necessità di combattere fino in fondo la guerra in Afghanistan, da lui definita “una guerra necessaria”. Per questo, subito dopo la sua elezione, aveva mandato dei rinforzi e il 2 dicembre, dopo tre mesi di estese consultazioni, ha di nuovo fatto fronte alla sua promessa.
Le reazioni al discorso a West Point, in cui ha annunciato la sua decisione, hanno reso evidente che i Democratici di sinistra e i Repubblicani non appoggeranno la decisione del presidente e la sua strategia. Anche se, dopo l’attacco del settembre 2001, Obama ha dichiarato di rifiutarsi di credere che sia impossibile ricostruire l’unità tra gli americani, le reazioni al suo discorso fanno pensare il contrario.
Se il presidente avesse deciso di non inviare le truppe richieste dai suoi consiglieri militari, la reazione dei Repubblicani sarebbe stata violenta. Come mi ha detto un convinto sostenitore di Obama, gli attuali “tea parties”, come vengono chiamati gli incontri organizzati contro le politiche governative, sarebbero diventati veramente dei “tè delle cinque” in confronto a ciò che si sarebbe scatenato.
All’altro estremo, i Democratici di sinistra non si accontenteranno della promessa di Obama di iniziare il ritiro delle truppe a partire dal luglio 2011, mossa che i Repubblicani hanno accusato di essere solo politica e non coerente con gli obiettivi descritti dal presidente stesso nel suo discorso. Per i Democratici contrari alla guerra, la decisione di Obama equivale alla strategia di “nation building” di Bush, anche se Obama lo ha negato esplicitamente nel suo discorso.
Il vero interlocutore cui si è rivolto Obama con il suo discorso è rappresentato da quegli americani che non aderiscono a una precisa ideologia e dai Democratici di centro-sinistra, che hanno fiducia in Obama come persona e che ancora vogliono almeno concedergli il beneficio del dubbio. Una cosa è chiara: da ora in poi questa è la guerra di Obama e questa decisione sarà il contrassegno della sua presidenza.
È interessante notare che ancora una volta, come spesso durante la campagna elettorale, la questione al centro è la vera essenza di Obama, il suo modo di decidere e giudicare. Quanto ci si può fidare di lui e quanto è ragionevole fidarsi di uno che sembra così diverso dai politici americani precedenti? Ma è veramente così diverso? Non è forse solo un politico molto abile alla ricerca del potere?
Ho sentito sollevare tutte queste domande parlando con amici o nei media. Poco prima del suo discorso, un giornalista televisivo ed “esperto” di politica ha detto: “Quello che voglio sapere è se nelle sue decisioni vi è anche il cuore o se sono solo una questione di testa.” Ancora una volta la domanda posta è: cosa c’è veramente nel cuore di Obama?
Questa è una buona domanda, soprattutto per quelli la cui fede ci permette di riconoscere l’ambiguità che c’è in ogni decisione umana. Come ha scritto G.K. Chesterton, l’uomo aperto al Mistero “ha tenuto sempre di più alla verità che alla coerenza. Di fronte a due verità che sembrano contraddirsi, egli prenderà entrambe le verità e con esse la contraddizione.” (Orthodoxy).
COLLETTA ALIMENTARE/ Tra le scatole di pelati la speranza che desideriamo ogni giorno - Redazione lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Per un giorno vorrei che si parlasse del meraviglioso popolo piemontese. Ieri, in occasione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare circa 700.000 piemontesi hanno donato ben 840.000 kg di cibo a favore dei più poveri e sfortunati dei nostri concittadini, per un valore superiore ai 2,5 milioni di euro.
In tempo di crisi profonda e reale per tanti. Un gesto clamoroso di generosità e solidarietà. Ho visto di persona noti berlusconiani sfegatati, rifondaroli convinti, musulmani, persone ricche e note, gente comune, alti e piccoli, giovani e vecchi, simpatici e scorbutici fare la spesa per i poveri aiutati dal Banco Alimentare. Un gesto semplice quanto efficace è stato capace di una straordinaria unificazione popolare. Che spettacolo!
Per un giorno eravamo tutti uguali e insieme, nel compiere questa azione. Ieri sera, nel nostro magazzino di Moncalieri, c’erano un centinaio di giovani ad aiutarci a scaricare tutto quanto si era raccolto. Anche lì, giovani di tutti i credo e passioni che, oltre ad aver lavorato come matti, hanno investito quel luogo e i nostri volontari stremati, di una freschezza e bellezza che solo la gioventù sa esprimere: chi faceva a gara nello scaricare camion facendo la catena e con tifo da stadio, chi canticchiava, chi faceva scherzi a ripetizione, chi si apriva a nuove amicizie e incontrava i nostri volontari abituali. Altro che crack o crick da black block! Ho percepito chiaramente in tutta la giornata che ciò che ci accumuna davvero è la “speranza”: in qualcosa di migliore, che non abbiamo o non abbiamo ancora, ma che, incessantemente, desideriamo.
Un’inclinazione profonda al bene che c’è dentro ciascuno di noi, a cui bisogna solo dare occasione di tirarla fuori. Penso davvero che gli uomini siano migliori di quanto appaia. Ma è così difficile vivere così come abbiamo visto ieri? Sì, è molto difficile. E’ difficile non far prevalere il nostro sentimento del momento, la nostra istintività o pregiudizio, o la nostra prepotenza e presunzione. Ma per un giorno, ieri, per molti è stato possibile vivere meglio e con più gusto attraverso quel semplice ma sentito gesto di condivisione che è stata la Colletta. Allora vien da chiedersi: in cosa riponiamo la nostra speranza per un futuro migliore? Nella finanza fine a se stessa che premia la speculazione e distrugge le vite senza pietà?, nel Grande Fratello o illusioni simili? Nella prepotenza con cui magari da imprenditori cerchiamo di far fuori un concorrente? Nello Stato, conferendogli responsabilità che sono solo nostre? O in quello che abbiamo visto ieri e in tante esperienze simili? O nel guardare a un concorrente come ad un collega con cui magari aiutarsi a superare questo momento? O ai giovani educandoli a preservare la loro bellezza e genuinità e a spendere le loro vite per qualcosa che valga davvero la pena? O a essere dei protagonisti nella vita sociale per un bene comune? Ma, almeno per un giorno, abbiamo visto che è possibile!. Non resta che continuare a cercare una speranza, lasciandoci educare da gesti come quello vissuto ieri. A nome dei poveri che verranno aiutati dal Banco Alimentare e dei nostri volontari, esprimo il grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato e a tutti coloro che hanno generosamente donato.
(Roberto Cena, presidente Associazione Banco Alimentare del Piemonte Onlus)