venerdì 22 gennaio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Piemonte. Cinque bugie sul duello Bresso-Cota – 21 gennaio 2010 - di Massimo Introvigne
2) Josep Samsó, parroco, catechista e martire, sarà beatificato - La cerimonia si svolgerà questo sabato nella Basilica di Santa María di Mataró di Carmen Elena Villa
3) Come dipingere un'omelia a regola d'arte - La pessima qualità di tante prediche domenicali penalizza l'ascolto della Chiesa in tutto il mondo. Una via alternativa è quella di spiegare il Vangelo con i capolavori dell'arte cristiana. In tre magnifici volumi, Timothy Verdon mostra come fare - di Sandro Magister
4) Quando i soldi non danno la felicità - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 21 gennaio 2010

Piemonte. Cinque bugie sul duello Bresso-Cota – 21 gennaio 2010 - di Massimo Introvigne
È iniziata la campagna elettorale in Piemonte tra Mercedes Bresso (PD), candidata del centro-sinistra, e Roberto Cota (Lega Nord), candidato del centro-destra. Come mi è capitato di rilevare in un articolo su Libero dell’8 gennaio 2010, Mercedes Bresso offre il raro esempio di una vita tutta consacrata al laicismo. Da questo punto di vista, il rilievo del personaggio è nazionale.

A Mercedes Bresso si deve riconoscere almeno una qualità. Non fa mistero della sua avversione alla Chiesa e del suo anticlericalismo. Sbandiera le origini del suo impegno politico, che viene «da un’antica militanza radicale e dalla collaborazione con Emma Bonino» in nome del «diritto all’aborto»: «con Franca Rame facemmo una dichiarazione di aborto. Fummo incriminate per autocalunnia» (intervista a Gay TV, 5.6.2009). Con la Bonino oggi la Bresso chiede l’abolizione del Concordato con la Chiesa Cattolica: «I Patti Lateranensi?... Sì, sarebbe il momento di abolirli» (Corriere della Sera, 24.2.2009). E presenta francamente anche la sua vita privata: «Mi sono sposata due volte. Entrambe con rito civile» (ibid.). «Non ho figli perché non ne ho voluti. Sensi di colpa? Pas du tout» (Corriere della Sera, 16.4.2008).

Non si rende dunque un buon servizio, oltre che alla verità, neppure alla stessa Bresso quando per difendere l’indifendibile – il sostegno di cattolici alla sua candidatura – si divulgano bugie sperando nella memoria corta di elettori più o meno male informati. Almeno cinque bugie meritano una chiara risposta.
Prima bugia: «Non è vero che la Bresso sostiene il matrimonio omosessuale». Falso: la Bresso afferma che «per il momento credo si debba introdurre un provvedimento simile al Pacs che garantisca diritti veri. In prospettiva, compatibilmente con il necessario cambiamento culturale, credo che si debba pensare ad un riconoscimento vero e proprio come il matrimonio» (Gay TV, 5.6.2009).

Seconda bugia: «Non è vero che la Bresso si sia particolarmente impegnata, in occasione del caso Eluana Englaro, per sostenere che alla vita della ragazza si doveva porre fine sospendendo l’alimentazione e l’idratazione». Falso: la Bresso si è vantata di avere tra le prime in Italia offerto a Beppino Englaro le strutture pubbliche della Regione Piemonte (La Stampa, 20.1.2009), spiegando che per lei «la vita di Eluana è artificiale. Si sostiene che alimentazione e idratazione non sono trattamenti medici e questo è un falso» (L’Unità, 23.1.2009).

Terza bugia: «Sostenere la Bresso alle Elezioni Regionali è una scelta che non tocca la vita e la famiglia perché su queste materie la Regione non ha competenza». Falso: le scelte in materia di aborto e di fine vita in concreto coinvolgono gli ospedali, su cui la Regione ha un’ampia competenza. E infatti la stessa Bresso ci spiega che la Regione Piemonte da lei guidata assicurerà un’ampia diffusione della pillola abortiva RU486 senza badare a spese (dei contribuenti): «un eventuale aggravio di costi per la Regione è del tutto indifferente» (dichiarazione del 6.8.2009, sul suo sito). Quanto alle unioni omosessuali, ancora la Bresso ci assicura che «per quanto riguarda la Regione ci muoveremo per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e per combattere ogni discriminazione» (30.9.2005). Altro che materie «non di competenza regionale»!

Quarta bugia: «Molti cattolici, senza che i vescovi protestassero, hanno sostenuto nel 2008 il candidato alla presidenza del Friuli Venezia Giulia del PDL, Renzo Tondo, il quale – come avrebbe poi praticamente dimostrato sul caso Eluana – in materia di fine vita aveva posizioni molto diverse da quelle della dottrina cattolica. Se hanno sostenuto Tondo, possono sostenere anche la Bresso». Falso: il fatto di avere sbagliato una volta non è un buon motivo per sbagliare di nuovo la seconda. Ad hominem, a politici che vengono dalla Democrazia Cristiana – con tutto il rispetto per le tante persone degnissime che ne hanno fatto parte –, si sarebbe tentati di ricordare una vecchia battuta di Giovanni Guareschi: «sbagliare è umano, perseverare è democristiano». Inoltre è ingeneroso paragonare Tondo, le cui posizioni in materia di fine vita sono certo inaccettabili, alla Bresso, la quale fa del laicismo un tratto dominante di tutta la sua esperienza politica e si schiera contro le posizioni care ai cattolici non solo sul fine vita ma su tutti i temi «non negoziabili»: aborto, RU486, matrimonio omosessuale.

Quinta bugia: «La Bresso sarà pure l’equivalente della Bonino ma anche il suo avversario Cota, esponente della Lega Nord, sull’immigrazione ha posizioni diverse da quelle dei vescovi. Sì, la Bresso ha le stesse posizioni della Bonino ma in Lazio l’alternativa alla Bonino è l’accettabile Polverini, in Piemonte è l’inaccettabile Cota, e per fermare la deriva xenofoba della Lega i poveri cattolici piemontesi sono dunque costretti a votare Bresso». Falso. E falso, in questo caso, tre volte. Falso in linea di principio, anzitutto perché chi fosse convinto che entrambi i candidati in caso di vittoria opereranno contro il bene comune non dovrebbe sostenere nessuno dei due.

Ma soprattutto perché per i cattolici i temi che determinano le scelte politiche non sono affatto tutti uguali. Come scriveva la Congregazione per la Dottrina della Fede in una nota trasmessa ai vescovi americani durante la campagna elettorale statunitense del 2004 ci sono temi su cui «ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici» – gli esempi indicati riguardano il campo della sicurezza e la guerra in Iraq, temi certo non meno gravi dell’immigrazione – «non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia» e ai principi non negoziabili di ordine morale. Ammettendo anche che Cota sia in dissenso dalla posizione dei vescovi italiani – o di qualcuno di loro – sulle materie dell’immigrazione, si tratterebbe comunque di temi «negoziabili», appunto su cui «ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici», mentre la Bresso è in totale e radicale opposizione alle dottrina della Chiesa su principi «non negoziabili» – aborto, fine vita, unioni omosessuali – da cui un cattolico non può dissentire «in alcun modo».

Ma – in terzo luogo – l’argomento è falso anche in linea di fatto. La posizione del governo Berlusconi – che certamente Cota sostiene e condivide – in tema d’immigrazione è oggetto di critiche da parte di alcuni vescovi. Come tutti i problemi complessi e tecnici se ne può e se ne deve discutere seriamente e pacatamente. La tesi del governo secondo cui l’Italia non può accogliere un numero illimitato d’immigrati e tale numero deve essere limitato trova sostegno nel Catechismo della Chiesa Cattolica, certo più autorevole delle interviste di questo o quel monsignore, il quale afferma al n. 2241 che la nazioni ricche sono tenute ad accogliere gli immigrati «nella misura del possibile» e che «le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche». Quanto alla tesi del governo secondo cui il miglior modo di aiutare i cittadini dei Paesi poveri è aiutarli a vivere dignitosamente a casa loro, assomiglia molto a questa affermazione sul problema dell’immigrazione: «La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare». L’affermazione non è né di Berlusconi né di Cota. È di Papa Benedetto XVI, 15 aprile 2008.


Josep Samsó, parroco, catechista e martire, sarà beatificato - La cerimonia si svolgerà questo sabato nella Basilica di Santa María di Mataró di Carmen Elena Villa
BARCELLONA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il martirio di padre Josep Samsó i Elias ha molte similitudini con la passione e morte di Gesù Cristo: uno dei suoi amici ha partecipato alla sua fucilazione, è stato arrestato e ha salito con serenità anche se con dolore le scale del cimitero in cui è stato assassinato, durante la Guerra Civile Spagnola.

Noto anche come José Samsó o il Dottor Samsó (1887 – 1936), questo catechista che ha seguito gli insegnamenti di Gesù al punto da donare la vita sarà beatificato sabato nella Basilica di Santa María di Mataró, presso Barcellona, dov'è stato parroco per 17 anni, fino al momento della sua morte.

La cerimonia sarà presieduta dall'Arcivescovo di Barcellona, il Cardinale Lluís Martínez Sistach, e la formula di beatificazione verrà proclamata da monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in rappresentanza di Papa Benedetto XVI.

Al servizio della catechesi

José Samsó nacque a Castelvisval Cataluña, nei pressi di Barcellona. Alla morte di suo padre, nel 1894, si trasferì a Rubí, dove iniziò a studiare nel collegio dei Fratelli Maristi.

Come chierichetto scoprì la sua vocazione al sacerdozio. Studiò nel seminario di Barcellona e poi il Vescovo lo inviò nella Pontificia Università di Tarragona per laurearsi in Teologia. Per questo è noto come il Dottor Samsó. “E' lì che iniziò a eccellere in un compito che sarebbe stato fondamentale nella sua vita: la catechesi”, ha detto a ZENIT il postulatore della sua causa di beatificazione, padre Ramón Julià.

Il 12 marzo 1910 venne ordinato sacerdote. Nello stesso anno fu nominato vicario della parrocchia di San Julián de Argentona, a 4 chilometri dalla località di Mataró, dove rimase per sette anni.

L'attività personale che svolse fu grande. Lavorò con gruppi di maestri, genitori, giovani e bambini, ponendo grande enfasi sulla direzione spirituale. Vari giovani scoprirono la propria vocazione alla vita consacrata grazie ai consigli di padre Samsó. Consigliava anche le giovani coppie che volevano contrarre matrimonio.

“Come sacerdote si distinse lavorando per formare catechisti, insegnando che la dottrina e la pedagogia nei confronti dei bambini devono rappresentare lo stesso amore che i genitori hanno per i propri figli. Diceva che il catechista che non sapeva amare in questo modo doveva ritirarsi”, testimonia il suo postulatore.

“La sua catechesi era simile a quella presentata dal Concilio Vaticano II, essendo basata sull'insegnamento biblico, liturgico e popolare. Preparò un libro, 'Guida per catechisti e direttori di catechesi', che venne pubblicato solo nel 1940, dopo la sua morte”, ha raccontato padre Julià.

Due anni prima di essere ucciso, avvenne un episodio nel quale si intravide il suo futuro martirio: il 6 ottobre 1934 un gruppo di persone armate entrò nella parrocchia di Mataró e minacciò lui e gli altri presenti. Li costrinsero a impilare delle sedie per dar fuoco al tempio. “Rifiutò di farlo”, ha segnalato il postulatore. “Da quel momento accettò il martirio come una delle possibilità che Dio aveva posto sul suo cammino”.

Nel luglio 1936, sua sorella gli consigliò di abbandonare la parrocchia. Il sacerdote si rifugiò in casa di alcuni conoscenti e prima di andarsene compì un atto eucaristico per salvare il Santissimo. Dalla casa di queste persone poté così continuare la vita parrocchiale.

Decise poi di trasferirsi a Barcellona per non mettere più in pericolo la famiglia che lo ospitava. Il 30 luglio dello stesso anno, mentre aspettava il treno, una donna lo denunciò. Alcuni miliziani gli si avvicinarono ed egli rispose: “Sono io quello che cercate”. Venne portato in carcere, dove rimase per un mese.

Verso il martirio

“Lì visse serenamente, confessando gli altri reclusi, esortandoli, pregando anche con loro, organzzando gruppi per recitare il rosario”: Fu così fino al 1° settembre, quando lo chiamarono senza che fosse stato sottoposto ad alcun processo.

“Si congedò dalle persone, le benedisse, si confessò e si poté comunicare perché gli amici avevano posto l'Eucaristia tra i vestiti. Diede anche la Comunione a chi era lì quella mattina”.

Venne condotto al cimitero. Uno dei testimoni del suo omicidio fu Josep María Tarragó, che allora aveva 17 anni e le cui dichiarazioni sono state fondamentali per la beatificazione di Samsó.

“Uno dei miliziani che lo uccise disse che il dottor Samsó aveva salito quei gradini – quelli del cimitero in cui è stato assassinato – con una grande serenità ed era a loro che tremavano le gambe”, ha testimoniato Josep María in un video sui martiri religiosi della Guerra Civile Spagnola.

“Una volta arrivato in cima voleva abbracciare i miliziani, ma non si lasciarono abbracciare. Disse allora che voleva dare un ultimo sguardo alla sua amata parrocchia e a Mataró. Questo gli venne concesso”, raccontava il testimone, morto di recente.

Prima di morire, padre Samsó disse ai miliziani: “Uccidendomi commettete un crimine, ma mi fate un favore molto grande, perché mi aiutate a conquistarmi il cielo. Io sarò con Dio oggi stesso. Vi prometto che quando giungerò alla sua presenza la mia prima preghiera sarà per voi”.

Tra coloro che lo dovevano uccidere, c'era un amico della parrocchia che andava sempre a chiedere del cibo. Quando gli stavano per chiudere gli occhi, padre Samsó gli disse: “Anche tu?”

“Uno degli assassini disse: 'Uccidiamolo subito perché vi convertirà tutti!”, ha testimoniato padre Julià.

Quando i fedeli seppero della sua morte, andarono al cimitero per prendere il suo corpo e seppellirlo. Nel 1944 venne trasferito nella Basilica nella quale sarà beatificato. A poco a poco la sua fama di santità crebbe, fino a quando Papa Giovanni Paolo II autorizzò a riprendere lo studio della sua causa di canonizzazione.

Parlando a ZENIT, il postulatore ha commentato che i suoi stessi genitori conoscevano personalmente padre Samsó. “Era innamorato di Cristo e doveva comunicarlo. Il modo migliore era la catechesi dei bambini la domenica pomeriggio. Preparava le lezioni e i cartelloni. I bambini si entusiasmavano. Dava loro una specie di punti e alla fine dell'anno offriva dei premi a chi aveva più punti”.

La testimonianza di padre Samsó è così un faro che illumina l'Anno Sacerdotale: “A immagine del Curato d'Ars, abbiamo un parroco che viene beatificato quest'anno. Sono due grandi annunciatori di questa buona notizia, uomini di grande carità”, ha concluso.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


Come dipingere un'omelia a regola d'arte - La pessima qualità di tante prediche domenicali penalizza l'ascolto della Chiesa in tutto il mondo. Una via alternativa è quella di spiegare il Vangelo con i capolavori dell'arte cristiana. In tre magnifici volumi, Timothy Verdon mostra come fare - di Sandro Magister
ROMA, 21 gennaio 2010 – Hanno fatto rumore qualche tempo fa le critiche rivolte dal vescovo Mariano Crociata alla qualità scadente di tante omelie domenicali.

Crociata è il segretario generale della conferenza episcopale italiana. Parlando a fine anno a un convegno sulla liturgia, ha definito una "poltiglia" insulsa, quasi una "pietanza immangiabile" e comunque "ben poco nutriente" buona parte delle omelie pronunciate ogni domenica dai pulpiti.

Le sue critiche sono state rilanciate da "L'Osservatore Romano" e dalla Radio Vaticana. C'è chi ha ripescato una battuta di Joseph Ratzinger quand'era cardinale: "Il miracolo della Chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie".

Da papa, Ratzinger ha abbondantemente mostrato di ritenere un dovere primario della Chiesa quello di elevare la qualità delle omelie.

Le omelie che lui stesso tiene nelle celebrazioni pubbliche sono ormai un elemento caratterizzante del suo pontificato. Le prepara personalmente con estrema cura. Le propone, di fatto, a modello. Persino i messaggi che legge ogni domenica mezzogiorno all'Angelus, dalla sua finestra su piazza San Pietro, li costruisce come delle piccole omelie sul Vangelo della messa del giorno.

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Ma c'è una via particolare per dar seguito a questo proposito di Benedetto XVI. Ed è la via dell'arte sacra.

Nutrite dall'arte che adorna innumerevoli chiese del mondo, le omelie possono introdurre ai sacri misteri più efficacemente che con le sole parole (e anche immedesimare ad essi, come nella "Maria Annunziata" di Antonello da Messina riprodotta sopra, dove lo spettatore guarda la Vergine dalla stessa parte, fuori quadro, dell'angelo Gabriele).

La prova è nei tre splendidi volumi con i quali Timothy Verdon – storico dell'arte, sacerdote, professore alla Stanford University e direttore a Firenze dell'ufficio diocesano per la catechesi attraverso l'arte – commenta il lezionario delle messe domenicali e festive grazie a capolavori dell'arte cristiana scelti in funzione del Vangelo del giorno.

I tre volumi sono usciti anno dopo anno in Italia – in attesa di traduzioni in altre lingue – in corrispondenza con il ciclo triennale del lezionario di rito romano. Il terzo è uscito poche settimane fa, all'inizio dell'Avvento.

Il testo che segue è un estratto della presentazione di quest'ultimo volume, fatta a Firenze da don Massimo Naro, professore di teologia sistematica nella Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, a Palermo.

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La via artistica ai sacri misteri di Massimo Naro
Il valore del libro di Timothy Verdon è soprattutto metodologico. In mano a predicatori che si ritrovano circondati, nelle loro chiese, da opere d’arte, il libro suggerisce un metodo di predicazione che può e deve essere applicabile da parte di tutti, in luoghi diversi, in ogni luogo, in riferimento a patrimoni artistici anche differenti da quelli a cui fa riferimento, nelle sue pagine, Verdon.

Che cosa significa e dove conduce la scelta di commentare la liturgia con l’arte? Verdon fa notare nella premessa al libro che le opere d’arte cristiana, specialmente quelle destinate a costituire, oltre che ad adornare, le chiese ove si celebra la liturgia, sono sempre state dei commenti al messaggio biblico proclamato all’interno della liturgia stessa. Leggere il racconto genesiaco della creazione del mondo e dell’uomo, o rievocare le vicende dei patriarchi d’Israele, o narrare i miracoli compiuti da Gesù e proclamare la memoria della sua Pasqua in una chiesa, ad esempio, come la cattedrale di Monreale, i cui interni sono completamente ricoperti di mosaici che a loro volta illustrano la Bibbia, significa precisamente incontrarsi con un grandioso commento delle "storie di Dio", che fascia il fedele da ogni lato, mentre questi se ne sta lì ad ascoltare ma anche a guardare l’annuncio evangelico.

Per Verdon l’arte cristiana è da secoli "parte del processo d’ascolto da cui scaturiscono la fede e le opere dei credenti", cioè fattore integrante della tradizione ecclesiale e della vita cristiana, che trovano da sempre nella liturgia la loro fonte e il loro culmine. È traduzione di ciò che la Parola biblica annuncia e celebra: l’immagine − viva e vitale − di Cristo stesso.

Non è un caso che sin dal IV-V secolo si sia affermata nella Chiesa antica la leggenda secondo cui l’evangelista Luca fu anche pittore. Verdon sceglie di introdurre il suo commento al messale dell'anno C − nelle cui domeniche si proclama il Vangelo secondo Luca − proprio con il "San Luca" dipinto da El Greco: l’evangelista ha nella mano destra una penna che somiglia molto a un pennello e nella sinistra un evangeliario spalancato in corrispondenza di un'immagine di Maria, quasi a voler dire che la traduzione figurale è come l’esito, la "meta", della lettura credente del testo evangelico.

A questa leggenda si ricollega probabilmente l’anatema del concilio Niceno II, secondo cui "se qualcuno non ammette le narrazioni evangeliche fatte con stilo di pittore, dev’essere scomunicato". Dipingere il volto di Cristo, di Maria, dei santi è considerato un modo di scrivere il suo Vangelo, e perciò di tramandarlo, di proclamarlo, di permetterne la lettura e, quindi, la meditazione e la conoscenza da parte dei fedeli. A Nicea, nel 787, la dogmatica acquisisce la leggenda e le dà dignità dottrinale, includendo nel deposito della Tradizione non solo la tradizione scritta e orale ma anche quella dipinta.

Verdon dà conto di tutto ciò nelle pagine del suo libro. Per esempio, commentando la liturgia della IV domenica di Avvento fa ricorso a una miniatura della natività tratta dal Salterio danese di Ingeborg del XIII secolo, che è una vera e propria riscrittura del Vangelo dell’infanzia ma anche di un brano della lettera agli Ebrei che in questa domenica costituisce la seconda lettura. Vi leggiamo che "entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato". E, appunto, la miniatura scelta da Verdon raffigura il Bimbo di Betlemme adagiato in una greppia che ha la foggia di un altare. La miniatura ha la stessa qualità esegetica di Ebrei 10, 5-7 rispetto al racconto di Betlemme.

L'arte non è dunque semplice illustrazione del brano biblico proclamato nella liturgia, ma riconfigura con libertà il dirsi di Dio nella Bibbia. Verdon lo spiega, nell’introduzione al libro, con un dipinto di Jacopo Bassano del 1557: "Il buon samaritano", oggi conservato alla National Gallery di Londra. Verdon fa notare come Jacopo Bassano, "evocando nella figura dell’uomo seminudo aiutato dal samaritano il Cristo deposto dalla croce", colleghi la parabola di Luca alle parole di Gesù nel Vangelo di Matteo: "Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me". E così il pittore invita chi ammira il suo quadro a immaginare il Cristo non più nel buon samaritano che si china sul malcapitato, ma nel malcapitato stesso, rispetto al quale chi guarda deve compiere lo stesso atto d’amore del buon samaritano, ogni volta che si ritrova davanti a un “povero cristo”.

Verdon intercetta tanti altri casi emblematici di questa "interpretazione originale" che l’arte realizza del racconto biblico. Commentando la liturgia della II domenica di Avvento, il cui Vangelo ricorda la predicazione del Battista, Verdon chiama in causa un dipinto di Jacopo da Empoli del 1610 circa: la "Predica del Battista", che si trova in San Niccolò Oltrarno a Firenze. Il paesaggio evoca la campagna toscana e se il Battista è ancora avvolto delle pelli tipiche del profeta antico i suoi ascoltatori sono ormai raffigurati con gli abiti dell’inizio del Seicento, come per insistere sull’attualità dell’invito del Battista a convertirsi. Questo stesso “gioco delle parti” emerge nella bellissima "Maria Annunziata" di Antonello da Messina, citata da Verdon nell'introduzione: l’artista e lo spettatore si mettono al posto dell’angelo Gabriele, che nel dipinto non compare, e sperimentano a loro volta la meraviglia credente di Maria, espressa dal gesto della sua mano alzata a mezz’aria.

Qui emerge la valenza relazionale dell’arte che commenta, riconfigura, reinterpreta il racconto biblico: quest’arte è una sorta di relazione, esprime la capacità di mettersi in rapporto con Colui che viene raffigurato, permette di coinvolgersi nell’evento rappresentato. Entra qui in gioco il meccanismo dell’immedesimazione, che è una pedagogia artistica efficacissima. In essa e per essa la Bibbia non è più soltanto il "grande codice" − come ha scritto Northrop Frye citando il poeta e pittore settecentesco William Blake − al quale attingere motivi e temi, simboli e immagini, miti e metafore, vocaboli e colori. Nell’arte che riesce a far scattare la molla dell’immedesimazione, la Parola biblica non è un mero elemento culturale. È piuttosto profezia.

In realtà, l’arte che tematizza il dirsi di Dio è una sorta di esegesi spirituale, capace di farci vedere il Signore e, di più, di farci vedere col Signore, accanto a lui, ravvivati dallo stesso suo santo Spirito, che ispirò già gli “agiografi” e che ispira continuamente gli “iconografi”.

Per introdurre al tempo di Natale, Verdon riproduce una tavola di Francescuccio Ghissi, del 1360 circa, che raffigura nella parte superiore Gesù come uomo dei dolori, con i segni della passione, e nella parte inferiore la natività. Il valore spirituale di una tale raffigurazione artistica è proprio quello della sincronia e della sinossi, in forza delle quali il racconto biblico, diventando visione, supera i condizionamenti della successione nel tempo e ci riconduce immediatamente a Cristo e alla totalità della sua vicenda. Egli è sempre lo stesso che ha patito, che è morto e che è risorto, ed è lo stesso che è nato Bimbo a Betlemme. In questo orizzonte metastorico, pasquale, noi pure entriamo spiritualmente, anche attraverso la porta della bellezza artistica: diventiamo contemporanei di Cristo.

Il racconto biblico, così, si dimostra performativo, penetra cioè di più e più a fondo in chi lo ascolta e lo prega e lo celebra; e imprime una trasformazione più incisiva nel vissuto dei credenti, che vengono introdotti e ospitati, trasposti quasi, nell’orizzonte raffigurato, collocati al posto dei pastori illuminati dalla stessa luce che illumina il Bambino di Betlemme, come è nella tavola di Giovanni di Paolo usata da Verdon per commentare il Vangelo della notte di Natale; oppure collocati al posto dell’apostolo Tommaso, che sembra davvero infilare il dito nella piaga del petto del Risorto, nella suggestiva tela del Guercino, che Verdon usa per commentare il Vangelo della II domenica di Pasqua.

La pedagogia dell’immedesimazione spirituale è e rimane il pregio più importante, l’esito principale di questa bella esegesi artistica. Il senso del titolo del libro di Verdon sta proprio qui: la "bellezza" è rintracciata nella Parola e distillata dalla Parola.

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Il libro:
Timothy Verdon, "La bellezza nella Parola. L’arte a commento delle letture festive dell’Anno C", San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009.


Quando i soldi non danno la felicità - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 21 gennaio 2010
Mentre impazza la corsa ai numeri del Superenalotto, leggo su un quotidiano londinese una notizia su cui riflettere.
Stuard Donnelly, uno dei più giovani vincitori della lotteria britannica, è stato trovato morto nella sua casa dove viveva ormai da recluso. Stuard aveva 17 anni quando, nel 1997, vinse 2 milioni di sterline. Talmente giovane da dover festeggiare la vittoria con un brindisi a base di coca cola.
Il ricco jakpot cambiò davvero la sua vita. Nonostante fosse uno studente modello alla facoltà di farmacia, abbandonò gli studi per dedicarsi anima e corpo alla gestione della nuova fortuna. Così come abbandonò amici e parenti. Tagliato ogni contatto sociale, si è letteralmente chiuso in casa lasciandosi andare ad una sorta di compulsione maniacale per il denaro, che degenerò quando, tre anni dopo, il padre morì lasciandolo solo. Da quel momento divenne un misantropo ossessionato dalla gente che continuava a bussare alla sua porta in cerca di un aiuto finanziario.
Da una recente ricerca effettuata tra i trenta maggiori vincitori della lotteria britannica è emerso, tra l’altro, come quel gioco rappresenti un vero “sfasciafamiglie”. Un terzo dei vincitori, infatti, ha ammesso di essere rimasto single proprio a causa della dea bendata. La ricerca mostra uno scenario drammatico: famiglie distrutte, matrimoni rovinati, stress, depressione, alcolismo, invidia ed amicizie spezzate. Per non parlare di quelli che da una situazione esistenziale dignitosa si sono trovati, proprio a causa della vincita, letteralmente in miseria.
Impressiona il numero e le storie di queste esistenze devastate dalla National Lottery.
E’ noto, ad esempio, il caso della ventiduenne Callie Rogers, vincitrice di 1,9 milioni quando era una teenager nel 2003, che ha recentemente rivelato di essere ora sul lastrico e di essere diventata infelice proprio a causa dei soldi. Oggi è costretta a fare tre lavori per mantenere i suoi due figli piccoli e conduce un’esistenza che ha definito “scombussolata”. Nel 2005, dopo un tentato suicidio, Callie ha spiegato che «nessuno può rendersi conto, se non lo prova di persona, delle devastanti conseguenza psicologiche che una vincita milionaria determina, soprattutto quando si ha una giovane età».
Un altro caso sintomatico è quello di Michael Carroll, un ex spazzino che vinse nel 2002 9,7 milioni, somma che lo ha portato dritto alla depressione. Dopo la vittoria, infatti, sua moglie Sandra l’ha lasciato, portandosi via la figlia, e Michael si è ritrovato cocainomane e in prigione.
Anche Stephanie Powell, che nel 1999 vinse 7,32 milioni, ha perso la sua famiglia a seguito dello stress che la vincita aveva portato in casa. Lo stesso anno Phil Kitchen, un carpentiere disoccupato, vinse 1.8 milioni. Fu trovato, due anni dopo, cadavere nella sua splendida casa da 500.000 sterline, dopo essersi ubriacato fino alla morte.
Queste dolorose esperienze mi hanno fatto venire in mente l’insolita ma lodevole iniziativa dell’Arcidiocesi di Trento per la scorsa quaresima: la proposta di un digiuno da gratta e vinci, enalotto e Superenalotto. L’intento dichiarato era evitare «lo specchio di un desiderio per molti irresistibile e molte volte illusorio, ovvero guadagnare velocemente e senza lavorare».
Sappiamo che per la dottrina cattolica giochi d'azzardo, scommesse e lotterie non sono in se stessi contrari alla giustizia, a condizione che non privino il giocatore del necessario per far fronte ai bisogni propri e altrui. E, comunque, sempre nell’ottica evangelica di non cercare tesori per sé, ma di «arricchire davanti a Dio» (Lc12,21).
Il caso di Stuard Donelly dimostra, però, come possa diventare assai pericoloso avventurarsi nel mondo dell’alea se non si ha un corretto rapporto con il denaro.
Se il jakpot milionario si trasforma in un idolo da adorare, rischia di essere soltanto farina del diavolo destinata a diventare crusca, secondo un celebre detto popolare.
Senza amore non resta che il rapporto morboso e disperato di Mastro Don Gesualdo e la sua “roba”.

Gianfranco Amato, Presidente di Scienza e Vita di Grosseto