Nella rassegna stampa di oggi:
1) DON GIUSSANI/ Protagonisti della vita - Massimo Camisasca - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
2) LETTERATURA/ Del Corno: “dalla tragedia è nato lo sguardo positivo dell’Occidente” - INT. Dario Del Corno - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
3) Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento - La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
4) Vigilia d'enciclica. E dalla Germania rispunta Marx - A poche settimane dalla pubblicazione della "Caritas in veritate" il giurista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato dal papa, vuole che sia la Chiesa a scrivere il definitivo "manifesto" contro il capitalismo. Che va rovesciato dalle fondamenta, in quanto disumano - di Sandro Magister
DON GIUSSANI/ Protagonisti della vita - Massimo Camisasca - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Don Giussani è stato un profondo conoscitore dell’uomo. Da quando, ragazzo, ha trovato nella lettura di Leopardi una delle chiavi più espressive dell’animo umano, mai si è placata la sua ansia di incontrare e leggere il segreto dell’uomo. Il senso religioso (la sua opera più famosa, la più letta, anche se forse una delle più complesse e profonde) è innanzitutto una grande riflessione su tutte le dimensioni della vita umana.
Ma questa riflessione era per don Giussani l’esaltante “esercizio” di vita di ogni incontro. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo o di sentirlo parlare ha certamente percepito di essere di fronte ad un genio dell’umano, ad una intelligenza capace di penetrare le pieghe della ragione, dell’affettività, della libertà.
Un amante della vita, un amante dell’uomo e della sua opera, ecco come lo definirei. Amante dell’uomo perché innamorato di Cristo, amante di Cristo perché innamorato dell’uomo. Per lui era impossibile scindere le due cose e ogni volta che parlava dell’uno parlava, pur non nominandolo, anche dell’altro.
Don Giussani era innanzitutto un uomo segnato, colpito da un incontro avvenuto a quattordici anni, quando improvvisamente ha percepito che quel Verbo di cui parla san Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo, “il Verbo si è fatto carne”, voleva dire che nella nostra vita era entrata la giustizia; in un uomo, la verità; in quel volto di uomo, la bellezza. Quell’uomo portava in sé tutto quello che ogni cuore poteva desiderare. Se non tenessimo conto di questo, non comprenderemmo le ragioni profonde della sua passione per l’uomo, della sua instancabile opera di educatore, padre e maestro.
Una delle prime cose che don Giussani, mio insegnante di religione al Berchet, mi ha comunicato è stata proprio la passione di incontrare gli uomini attraverso le loro opere, attraverso i loro scritti, attraverso le loro poesie, i loro romanzi, i loro libri. Essendo appassionato lui stesso, ci ha introdotti, per esempio, alla tradizione del canto, non solo del canto importante, del canto gregoriano, del canto polifonico, di cui è stato un grande difensore e comunicatore, ma anche dei canti popolari, dei canti brasiliani come di quelli irlandesi, dei canti africani piuttosto che di quelli latino-americani, perché attraverso il canto, così come attraverso la poesia e la letteratura, egli faceva incontrare a noi ciò che aveva incontrato lui, e cioè il desiderio dell’uomo di conoscere ciò che sta dentro la vita, ciò che costituisce la profondità di ogni cosa, di ogni pensiero, di ogni respiro.
Amante della vita, è una definizione di Javhè, nell’Antico Testamento. È innanzitutto questo che mi ha fatto riconoscere in don Giussani il segno di Dio, la Sua orma. Egli è stato un amante della vita anche nei suoi aspetti più familiari: amava mangiare, amava bere, amava la conversazione, le cose belle, la montagna, il mare, i viaggi, perché in tutto ciò, appunto, vedeva un segno del destino cui la vita di tutti gli uomini è ordinata.
Questo suo amore alla vita è diventato per noi una educazione alla bellezza, una educazione a scoprire ciò che di bello c’è nel mondo e a vedere in esso una parola detta a noi. In una sinfonia di Beethoven, in una sonata di Schubert, in un tramonto particolarmente emotivo, in una traccia di luna e di stelle sul mare nella notte (sto citando delle cose di cui lui ci parlava), in una voce di bambina che dice alla mamma “Mamma tutto è grande per te. Tutto in te diventa grande” egli trovava se stesso e l’infinito. Ecco, questa è l’educazione alla bellezza che ci ha comunicato: vibrare per le cose grandi o meglio per la grandezza che sta dentro tutte le cose.
LETTERATURA/ Del Corno: “dalla tragedia è nato lo sguardo positivo dell’Occidente” - INT. Dario Del Corno - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Elemento fondamentale della nostra cultura la tragedia greca segna una profonda evoluzione non solo teatrale o letteraria, ma anche esistenziale dell’uomo europeo, rappresentandone, attraverso codici ben definiti, l’indole inquisitoria nei confronti della realtà, l’inappagabile ricerca di felicità e lo sgomento di fronte alla contraddizioni del vivere. Dario Del Corno racconta come la concezione e la dimensione tragica siano sopravvissute nel nostro modus vivendi quotidiano
Qual è stata l’importanza della tragedia nello sviluppo culturale del nostro continente?
L’importanza della tragedia è a dir poco fondamentale per la nostra cultura.
La tragedia ha introdotto, sviluppato e approfondito l’idea del “teatro” ossia di una rappresentazione mimetica che esprima direttamente una storia. Per “direttamente” intendo “che non passa attraverso il racconto”, ma attraverso l’azione, l’esperienza, il presente dell’individuo. La rappresentazione tragica è il riaccadere di qualcosa, non come semplice ripetizione, ma come interpretazione immediata. Questo spinge a una compartecipazione degli spettatori e a un’educazione culturale che fa perno sull’azione e sulla domanda, non sulla ricettività passiva della realtà.
Che cosa sopravvive in termini di “atteggiamento tragico” nel comportamento dell’uomo occidentale?
Sopravvive un’idea fondamentale che non è solo tragica, ma anche comica o per lo meno drammatica, che è l’atteggiamento mimetico che permette di rappresentare una vicenda in forma diretta. Questo per la nostra cultura fu l’inizio del giudicare, dell’avere a che fare, interrogandosi, con categorie come necessità e libertà. La rappresentazione diretta del mito permise di re-inventare un personaggio che si esprimeva appunto direttamente nell’azione. Per questo il nostro modo di concepire la realtà rimane assai più dinamico e in movimento rispetto a molte altre culture.
La tragedia nasce però dal mito o per lo meno adotta preferibilmente materiale mitico per la propria genesi. Nasce quindi da un archetipo fisso. Questo meccanismo è rimasto immutato nel nostro modo di produrre letteratura o invece non c’è più alcun riferimento fondante?
È vero, la tragedia nasce dal mito. O, come meglio espresso nella domanda, lo “adotta”. A tutti gli effetti si tratta di un’adozione e non di una ripetizione.
Questa sollevata è comunque davvero una questione notevole, direi che è un argomento di discussione rimasto centrale nel corso degli anni.
Su cosa si basa il modo moderno di fare letteratura? A mio avviso la misura tragica dell’esistenza nella sua natura ultima, ossia in ciò che accomuna tutti gli esseri umani o per lo meno gli europei, è rimasta immutata. Chiunque produca letteratura risale sempre insomma ad alcune idee fondamentali che noi possiamo chiamare “idee mitiche”, o a personaggi tipici, “personaggi mitici”.
Per altro da qui nasce il paradosso dell’obiettività. Senza un riferimento immutabile, soprattutto nel teatro, non si può avere la garanzia dell’obbiettività, della realtà di quanto rappresentato. Proprio perché il personaggio o la circostanza deve rispondere a canoni comuni nei quali lo spettatore possa riconoscere la propria esperienza. Tradito questo principio si dà adito a una soggettività senza senso che lascia il tempo che trova.
Lei dipinge la dimensione tragica come “precario statuto dell'individuo, smarrito nella solitudine del suo confronto con il mistero dell'esistere”. A suo avviso l’uomo occidentale è ancora carico di questa domanda oppure rischia di ridurre il proprio orizzonte a una visione puramente analitica della realtà?
Anche questa non è una questione da poco. Il rapporto con l’arcano con il mistero, se è sincero, è sempre un rapporto fattivo, positivo. Perché è un rapporto che esplora la realtà e cerca di capirne le ragioni. Ma proprio ponendosi in maniera aperta questa positività può venir mantenuta.
E anche qui un altro paradosso: se si pretende di capire tutto resterà sempre fuori dalla comprensione totale il significato dell’uomo, che è il generatore della domanda (tragica) su tutto. L’uomo non solo non può essere racchiuso in una formula analitica, ma soprattutto deve essere concepito in forma unica, e mai univoca.
La dimensione misteriosa, o misterica, della tragedia consiste appunto nell’identificazione di questa unicità che c’è nell’individuo, ossia la sua molteplice apertura e la sua perenne condizione di essere domandante di fronte al destino.
Qual è il più grande e diretto erede della tragedia nella letteratura moderna?
Dipende in primo luogo da che cosa si intende per moderno. Ma facendo riferimento all’accezione classica di questo termine direi che Shakespeare è il più grande rappresentante del tragico che il mondo abbia mai conosciuto dall’Antichità.
L’Amleto, in particolare, è la quintessenza della tragicità moderna con tutto il portato di rinnovata morale che questa comporta.
Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento - La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
ROMA, domenica, 24 maggio 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II”, e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E' inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza; e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E' Vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa inoltre parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini del volume “Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
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Dopo il 9 febbraio 2009, qual è la situazione in merito alla vicenda Englaro?
Quando l’emotività va diradandosi, l’indicibile amarezza per la soppressione di una vita già estremamente fragile appena si attutisce e le posizioni antitetiche lasciano spazio a tentativi di dialogo, ineludibili si impongono riflessioni argomentate secondo ragione e rigorosamente fondate da cui partire. Potremmo ritenere che una capillare divulgazione mediatica tutto abbia già detto, che ognuno abbia già perfettamente chiare le dinamiche della vicenda Englaro e che abbia fatto una scelta di campo, “oggi per allora”. Tuttavia la delicatezza degli argomenti e le ricadute sociali, culturali, etiche, politiche impongono supplementi di riflessioni e discernimento. La complessità della tematica suggerisce di riconsiderare alcuni degli innumerevoli aspetti meritevoli di attenzione.
Che cosa si intende per eutanasia?
Secondo classica definizione, è “un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Così per l’Organizzazione Mondiale della Sanità ” è l’atto con cui si pone deliberatamente fine alla vita di un paziente, anche nel caso di richiesta del paziente stesso o di un suo parente stretto”. Riguardo all’azione, quindi, l’eutanasia è attiva quando si procede direttamente con un’azione che induce la morte; omissiva o passiva quando non si somministra una terapia o si interrompe un sostegno vitale; terminale quando si realizza appunto su di una persona in fase terminale conseguente a grave patologia.
Si può pensare che la definizione ed il concetto di eutanasia vanno a modificarsi?
Certamente. Nel dibattito attuale, come già richiamato da Adriano Bompiani, Bruno Dallapiccola, Maria Luisa Di Pietro e Aldo Isidori, il termine eutanasia si utilizza per indicare solo forme dirette o attive di uccisione del paziente, mentre l’eutanasia indiretta o per omissione è stata ridotta al rango di un generico rifiuto/rinuncia dei trattamenti sanitari. “[…] Depotenziando il dovere di garanzia del medico nei confronti del paziente e decontestualizzando l’astensione/sottrazione di trattamenti sanitari che non troverebbero giustificazione nei criteri di sproporzionalità/straordinarietà, si legittimano di fatto forme di eutanasia “indiretta o per omissione”. Altra considerazione è che va rilevato una scenario eutanasico con una voluta oscillazione tra disponibilità e indisponibilità della vita; riduzione della complessità della casistica alla genericità della norma; decontestualizzazione delle decisioni. Questi ed altri fattori aprono a qualsiasi scenario anche celatamente eutanasico, in cui giudizi sociali sulla qualità e sulla dignità della vita possono entrare come indisturbati coprotagonisti. Lo scenario eutanasico fu già descritto e preconizzato da F.W. Nietzsche nel “Crepuscolo degli idoli”: “Il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo».
Quindi una vera e propria riformulazione del concetto di eutanasia?
Un tentativo di riformulazione assolutamente non condivisibile. Si assegnerebbe, in tal modo, liceità etica e giuridica ad un’azione o un’omissione che procuri la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore, sulla scorta della sola richiesta sebbene autonoma e consapevole. E’ opportuno definire, sotto il profilo etico, due termini ricorrenti e spesso sovrapponibili: uccidere e lasciar morire. Uccidere è sempre moralmente illecito, lasciar morire può essere comportamento colpevole, non colpevole o addirittura virtuoso. In entrambi i casi la causa della morte è sempre la malattia ma diverse le responsabilità morali. “Nell’abbandono e nella sospensione dei trattamenti la causa diretta della morte è la malattia, ma ciò che fa la differenza è il fatto che nell’abbandono la morte poteva e doveva essere evitata (quindi l’abbandono terapeutico e assistenziale si costituisce come una colpa morale). Nella sospensione dei trattamenti, invece, la morte non poteva essere evitata, e non si doveva, per prolungare un processo agonico già iniziato, infierire sulla condizione terminale della persona (e in questo caso l’atto della sospensione è moralmente doveroso).”
E nel caso di Eluana Englaro?
Eluana Englaro, sotto il profilo clinico, non era una paziente in stato terminale ma affetta da una gravissima disabilità. Non era morta e non era collegata ad alcuna strumentazione (es. respiratore artificiale, ecc.). Usufruiva dei comuni mezzi di assistenza, propri per quelle determinate situazioni e, tra l’altro, alimentazione e idratazione con sondino naso gastrico. Se considerata già morta, come alcuni hanno ritenuto da 17 anni, di conseguenza si sarebbe potuto ad esempio espiantare gli organi, cosa assolutamente non praticabile in quanto Eluana Englaro non rientrava affatto nei criteri della morte cerebrale totale. Voglio ricordare che Science, nel 2006, ha pubblicato un articolo che ha molto interessato la comunità scientifica: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato l'attivazione di varie zone cerebrali, in situazioni cliniche come quella di Eluana Englaro, in corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo" sani. Comunque nulla altro aggiungerei in merito alla situazione clinica che ha caratterizzato la vita di Eluana Englaro.
Eppure si è ritenuta lecita la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione.
E’ stato ritenuto anche opportuno, oltre alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, la somministrazione di sedativi. Delle due una: se Eluana non aveva alcuna percezione cosciente dell’ambiente esterno, così del dolore o di altro sentire, perché somministrare sedativi? O forse, visto che concretamente non si era del tutto certi del suo stato di completa incoscienza, si è preferito in via precauzionale somministrare sedativi? Il ricorso ai sedativi sarebbe stato motivato dagli spasmi muscolari per alterazione degli elettroliti, da sospensione dell’alimentazione e idratazione.
E nel dubbio sulle effettive capacità percettive di Eluana?
Una corretta interpretazione e attuazione del principio di precauzione, così giustamente propugnato in altri ambiti, avrebbe significato la non sospensione dei sostegni vitali mancando la certezza dell’assoluta assenza di coscienza. Parafrasando dalla civiltà giuridica la locuzione “in dubio pro reo”: “in dubio pro vita”.
L’alimentazione e l’idratazione sono terapie o cure?
Per i fautori della sospensione di alimentazione e idratazione, queste vengono considerate terapie e per tale motivo rifiutabili dal paziente, per autodeterminazione. Analizziamo senza pregiudizi e con argomentazioni logiche, almeno in linee generali il problema. Alimentazione e idratazione se inquadrabili come terapie devono curare qualcuno da qualcosa, ovvero da una patologia, da una disfunzione. Dovremmo arguire che, se terapie, alimentazione e idratazione avrebbero svolto su Eluana azione terapeutica. Quale sarebbe la malattia di Eluana che alimentazione e idratazione avrebbero tentato di curare? Quale malattia è curabile con alimentazione e idratazione così che, dopo la guarigione, si possa sospendere il trattamento in questione? La risposta, logica e non ideologica, è che alimentazione e idratazione non curano alcuna malattia, né tantomeno svolgevano azione terapeutica su Eluana. Se alimentazione e idratazione sono terapie, ne consegue che anche il neonato nutrito con latte artificiale è sottoposto a terapia, così il politraumatizzato che abbisogna del sondino o il paziente postoperatorio, o l’anziano che ha problemi di deglutizione, o chiunque necessita semplicemente di un aiuto per essere nutrito e dissetato. Non è il mezzo di somministrazione né la composizione dell’alimentazione e idratazione che cambiano la natura propria del sostegno vitale. Infatti il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere su alimentazione e idratazione di pazienti in stato vegetativo, ricorda che “il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri. Si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia, movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari.”
Alimentazione e idratazione, allora, sono forme di sostegno vitale?
Alimentazione e idratazione sono forme di sostegno vitale delle quali l’uomo né ha fondamentale bisogno e per tale motivo non possono essere sospese in quanto essenziali nella “umana relazione di cura”, che non significa terapia né tantomeno accanimento terapeutico, bensì presa in carico, “presa in cura”. Sotto il profilo bioetico si realizza così l’alleanza terapeutica medico-paziente, che si basa appunto sulla “beneficialità nella fiducia”: la fiducia (di un paziente) che incontra una coscienza (del medico). Inoltre, e non secondariamente, simbolicamente dar da mangiare e da bere rappresenta la manifestazione più tangibile ed immediata della solidarietà umana.
Alimentazione e idratazione non possono essere mai sospese?
Si, possono essere sospese. Come già indicato dal Comitato nazionale per la Bioetica, “non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’ alimentazione”.
Che cosa si intende per atti terapeutici e che cosa per atti di cura?
Atti terapeutici sul corpo sono "le azioni propriamente mediche o chirurgiche, il cui oggetto è il contrasto o il contenimento di una patologia, esordiente oppure decorrente, ed il cui scopo è la risoluzione, il miglioramento o la stabilizzazione del quadro clinico". Atti di cura del corpo sono "le azioni che, a seconda delle condizioni dell'organismo del paziente, possono coincidere con gli atti consueti della esistenza quotidiana, eseguiti dal paziente stesso o dai suoi familiari, oppure richiedere l'intervento di personale sanitario qualificato, il cui oggetto è comunque il mantenimento dell'omeostasi entro parametri fisiologici compatibili con la vita attraverso la disponibilità di aria, acqua, elettroliti e nutrienti organici per i processi metabolici essenziali, ed il cui scopo è consentire la sopravvivenza del soggetto".
Quali conseguenze, sotto il profilo clinico ed etico, al rifiuto di un atto terapeutico o di un atto di cura?
Per dirla con Roberto Colombo, "il rifiuto ad iniziare o continuare un atto terapeutico può comportare, indirettamente, un'abbreviazione della vita. Invece il rifiuto di un atto di cura, ovvero la sospensione di un sostegno vitale, comporta direttamente ed inevitabilmente la rinuncia alla vita".
Che cosa si intende per "cura"?
Premesse le considerazioni in merito agli atti terapeutici e agli atti di cura, preferisco descrivere il "prisma di cura": a. guarire dalla malattia, ove possibile e secondo il principio di proporzionalità senza ricorrere a interventi definibili sproporzionati e futili, e b. prendersi cura del malato come "altro" e come "oltre". La terapia è un'arte tecnica, il prendersi cura è un'arte morale che appartiene al medico sempre e anche quando nulla c'è più da fare. La terapia sproporzionata e futile non ha fondazione clinica né etica. Il prendersi cura è il fondamento della costitutiva relazionalità tra esseri umani, pertanto non può essere mai sospeso.
E' stato richiamato il principio di proporzionalità. E' possibile così definire ciò che è giusto fare o meno?
La proporzionalità terapeutica è principio di giustificazione etica e giuridica dell'atto medico. E' definibile proporzionato l'atto medico i cui benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. Viceversa c'è sproporzione e l'atto medico non è giustificato. La proporzionalità terapeutica costituisce, nella sua dimensione oggettiva, criterio prioritario persino a quello della volontà espressa dal paziente. Di conseguenza la terapia è doverosa quando esiste un'ampia proporzionalità tra i benefici attesi (elevati, certi) e i rischi previsti; non è doverosa se esiste una sproporzione tra i benefici attesi e i rischi previsti (elevati, certi). Il trattamento è opzionale se esiste ancora una certa proporzionalità tra i benefici e i rischi, ma molto ristretta, cosicché spetta solo al paziente decidere se effettuare il trattamento oppure rinunciarvi, soluzioni in questo caso entrambe eticamente lecite.
Un atto terapeutico sproporzionato è accanimento?
E' accanimento un atto sproporzionato e futile. Ma necessitano alcune precisazioni. I parametri dell'accanimento terapeutico sono la valutazione in scienza e coscienza del medico e la percezione del paziente. Pertanto la definizione dell'accanimento è sempre conseguenza di una relazione medico-paziente che, se basata sull'alleanza terapeutica della beneficialità nella fiducia, consente corretta applicazione della terapia, il suo mantenimento o sospensione. Ma procediamo alla esplicitazione di ulteriori termini e classificazioni spesso richiamate nel dibattito bioetico in oggetto: a) cure ordinarie e straordinarie; b) insistenza terapeutica e c) ostinazione terapeutica. A) Sono da ritenersi ordinarie le cure in cui si dà rapporto di debita proporzione tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Dove non si dà proporzione le cure sono da considerare straordinarie. B) Per insistenza terapeutica si intende il comportamento rivolto alla ricerca delle tecniche diagnostiche e terapeutiche più appropriate, ricorrendo anche a terapie innovative, in presenza di ragionevoli possibilità di evoluzione positiva del quadro clinico e di miglioramento della qualità di vita. C) Per ostinazione terapeutica si intende l'atteggiamento rivolto ad inseguire ogni minima possibilità terapeutica anche a costo di gravare il paziente di oneri eccessivi a fronte della scarsità di benefici conseguibili. L'ostinazione terapeutica sfocia spesso, anche se inconsapevolmente, nell'accanimento terapeutico.
In conclusione, quali caratteri definiscono l'accanimento terapeutico?
Il persistere in terapie futili, sproporzionate, inutilmente invasive ed incapaci di arrecare alcun reale beneficio, fermo restando che ogni trattamento va valutato bilanciandone i potenziali apporti positivi (beneficialità) o negativi (neminem laedere). Comunque anche in merito all'accanimento terapeutico si cerca di riformularne il concetto. Infatti la desistenza da un supposto accanimento terapeutico è giustificabile dalla espressione di una volontà pregressa, anche se semplicemente riferita.
In contrapposizione all'accanimento terapeutico?
Certamente l'umanizzazione e la dignità del morire. Specifichiamo: dignità del morire e accompagnamento al morire non significano indurre la morte, piuttosto cure normali ovvero di sostegno vitale, terapia del dolore, cure palliative.
Con l'accanimento terapeutico, e non solo, si introduce il tema della pervasività della tecnica.
Affrontare il tema della tecnica e la sua relazione con l'etica richiederebbe una trattazione a parte. Possiamo dire che la tecnica svolge un ruolo sempre più preminente nella "relazione di cura" fino a negare la relazione medico-paziente.
Inoltre le conseguenze della pervasività tecnica si riverberano non solo a livello assistenziale, sociale e culturale. Si assiste ad un vero disorientamento circa valori consolidati quali la tutela della vita umana, il limite degli interventi medici, il rispetto della dignità di ogni persona. Dignità, però da intendere come valore intrinseco di ogni essere umano oltre qualsiasi stato di salute o di malattia. La tendenza postmoderna, invece, è quella di anteporre il concetto e la definizione di "vita di qualità", interpretata soggettivamente o supportata da un volere sociale, a quello di dignità. In altri termini, secondo la seguente locuzione: in quanto di scarsa qualità (es.: stato di malattia, grave disabilità, ecc.) quella vita non è degna di essere vissuta. Nello specifico della domanda, il fare tecnico richiede sempre un confronto con l'agire etico, evidentemente orientato a valori corrispondenti alla dignità propria di ogni essere umano. Senza procedure che rappresentino eutanasia né accanimento.
Eluana Englaro aveva espresso in maniera certa le sue volontà anticipate?
Il tentativo è quello di sottomettere anche le forme di sostegno vitale alla volontà individuale, pure in mancanza di certezza e attualità. Eluana non aveva mai rilasciato, in forma certa, volontà in merito. E' opportuno ricordare che il consenso è valido se personale, consapevole, attuale, manifesto, libero e completo. Tuttavia, anche in presenza di volontà certa e attuale non può inquadrarsi nelle DAT la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione: forme elementari, essenziali e imprescindibili per un dignitoso morire. Bene pertanto, per le ragioni suddette, che il DdL escluda alimentazione e idratazione dalle DAT.
Le DAT obbligano il medico?
Le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento non obbligano il medico. La stessa Convenzione di Oviedo sui Diritti Umani e la Biomedicina, all'art. 9 richiama quanto segue: "I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione". Infatti l'art. 9 della Convenzione adotta le espressioni souhaits e wishes, che corrispondono al concetto di cosa desiderata, non di cosa imposta a terzi. Ancora, il Rapporto Esplicativo (punto 62) sull'art. 9 della Convenzione di Oviedo specifica: "Questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione. Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell'intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l'opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina".
Comunque, come richiamato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere "Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico" del 24.10.2008, si configura un diritto di astensione del medico: "Qualora per accogliere la competente e documentata richiesta di interruzione delle cure formulate da un paziente in stato di dipendenza siano necessari un'azione o comunque un intervento positivo da parte del medico e della sua équipe (ad esempio lo spegnimento di un macchinario che garantisca la sopravvivenza del malato), si riconosce il diritto di questi di astenersi da simili condotte da loro avvertite come contrarie alle proprie concezioni etiche, deontologiche e professionali".
Quali dovrebbero essere le caratteristiche contenutistiche delle DAT?
Sono state indicate dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento del 18.12.2003 (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento): "A. Abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale; B. non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza; C. ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si auspica che esse siano compilate con l'assistenza di un medico, che può controfirmarle; D. siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione".
Quale comportamento, pertanto, da parte del medico?
Il medico prende in considerazione le volontà del paziente, ma deve assumere le sue decisioni in piena scienza e coscienza nell'interesse dello stesso paziente e sempre al fine della tutela della salute e della vita umana secondo precauzione, proporzionalità e prudenza. Evidentemente non può effettuare o favorire trattamenti che provochino la morte, anche se richiesti dal paziente. Infatti l'art. 17 del Codice di Deontologia Medica afferma: "Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte ".
La vita umana è disponibile?
Analizzando il quesito sotto il profilo giuridico, possiamo dire che il principio di indisponibilità della vita umana è già codificato nel diritto dello Stato. Ricordiamo, ad esempio: art 579 c.p. (omicidio del consenziente), art 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), art 5 c.c. (atti di disposizione del proprio corpo). Comunque il principio della indisponibilità del proprio corpo, quindi della propria vita, è ampiamente richiamato in diverse altre leggi e norme. Nella legge che regolamenta la donazione e il trapianto degli organi, è rigoroso l'accertamento di morte né tantomeno è consentita una morte volontaria al fine, per quanto nobile, di donare. Così per quanto attiene la prevenzione dell'infortunistica sul lavoro o la prevenzione degli incidenti stradali, attraverso la messa in essere di procedure ben precise sempre al fine della salvaguardia della vita umana. Ovvero riconoscimento della tutela della vita umana e della sua indisponibilità. Valore laico, possiamo pertanto affermare. Oppure, detto in altri termini, non esiste un diritto alla morte e lo Stato non riconosce alcun diritto di libertà alla morte.
Ma per alcuni pazienti con grave disabilità la vita potrebbe essere percepita come "non degna di essere vissuta".
Ritengo estremamente pericoloso identificare tout court la vita percepita di "scarsa qualità" come "vita non degna". Sia per quanto attiene gli aspetti giuridici che etici ed assistenziali. La questione è antropologica. Tutti gli esseri umani hanno pari dignità, che è valore innato (ontologico) e non meramente acquisito. Non è lo stato di benessere o di malattia che condizione il riconoscimento della dignità umana. Dignità, quindi come "condizione di nobiltà morale in cui l'uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a se stesso". Certo, alcune condizioni patologiche e disabilità comportano una percezione soggettiva ed oggettiva di gravi difficoltà relazionali, comunque di normale vita quotidiana anche per quanto attiene i bisogni più elementari.
Ciò non significa, però, disconoscere l'intrinseca dignità dell'essere uomo che, invece, deve essere riconosciuta e pertanto affermata e tutelata con opportuni e proporzionati interventi assistenziali e di "cura". Altrimenti si ratificherebbe la cultura della "vita di qualità", vale a dire ratifica dell'eutanasia attiva ed omissiva per una vita percepita appunto come non degna. Ciò vanificherebbe, ad esempio, la portata culturale, etico ed assistenziale delle cure palliative delle quali necessita una maggiore diffusione e precisa normazione. La dignità designa la preziosità dell'uomo ed esige rispetto assoluto. La società che declina la dignità come mera funzione della qualità percepita, attribuita o meno, mina e trasforma i fondamenti del vivere democratico per il bene comune.
Sull'influenza di una cultura sociale impostata su di una morale indifferente, acutamente osserva Maria Luisa Di Pietro: "[...] è pur sempre la società a stabilire, fissare le condizioni a partire dalle quali la vita umana sia 'degna', giustificando come meritevole (o no) di attenzione la percezione che il singolo ha della propria esistenza". Detto in altri termini, prevarrebbe il volere del più forte (società) sul più debole.
Emblematico è che la stessa Corte costituzionale tedesco-occidentale, nella sentenza del 25 febbraio 1975, pone "il singolo uomo, nella sua dignità, al centro di tutte le sue norme" e afferma che "a fondamento di questa concezione è l'idea che l'uomo nell'ordine della creazione possiede un valore proprio e autonomo che esige costantemente il rispetto incondizionato della vita di ogni singolo, anche della vita di colui che può sembrare socialmente senza valore". Si evince il nefasto retaggio delle ignominie risalenti alla seconda guerra mondiale, quando vite ritenute non degne subirono le più efferate violenze fino alla scientifica soppressione di massa. Potremmo altresì dire che dignità e diritti fondamentali spesso non si pongono sullo stesso piano.
Significativo quanto riportato nel Dizionario dei Diritti umani: "Dignità e diritti fondamentali della persona non si pongono sullo stesso piano: mentre i secondi possono essere limitati, regolati e (in alcuni casi) anche essere temporaneamente sospesi; la prima rappresenta un valore assoluto che non può essere in alcun caso intaccato. Il valore della dignità umana rappresenta quindi un minimum invulnerabile: una barriera che non si può oltrepassare".
Tuttavia, nella visione giusnaturalista la dignità innata è fonte di diritti umani, appunto, fondamentali. Per dirla con Kant, "mentre le cose hanno un prezzo, gli uomini hanno una dignità", quindi ogni essere umano non ha prezzo perché la dignità è valore incommensurabile del l'uomo.
La vicenda Englaro è indicativa di un cambiamento culturale?
Certo. La morte di Eluana Englaro ha significato la negazione del "diritto fonda mentale ed universale" alla vita (art. 3, Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo), così del diritto di "cura" verso i più gravi disabili (art. 25, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità). Inoltre il vulnus arrecato alla relazione medico-paziente è rilevante. Si tende a ridurre l'azione del medico a mera esecuzione di una volontà, derubricando dall'atto medico il fondamento ineludibile della tutela e protezione del paziente senza alcun ricorso né a qualsiasi forma di eutanasia né di accanimento terapeutico. Emerge altresì il tentativo di contrattualizzare il rapporto medico-paziente, non più "relazione di cura." Inoltre, dopo la vicenda Englaro, si tende quasi ad attribuire ai tribunali un potere legislativo sul modello del common law, non corrispondente alla tradizione giuridica italiana del civil law. Attraverso l'analisi critica del contesto storico, si evince il passaggio nella società occidentale contemporanea da un'eutanasia "totalitaria" ad un'eutanasia "liberale", che pone nella "sacralità dell'autonomia decisionale" la ragione principale a favore delle scelte eutanasiche.
Quale prospettiva culturale dovrebbe essere sostenuta?
La prospettiva può essere desunta dal Manifesto "Liberi per vivere", presentato dall'Associazione Scienza & Vita, dal Forum delle Famiglie, da Retinopera e sottoscritta da una molteplicità di altre associazioni, movimenti e gruppi. Lo scopo è di lanciare un'opera di coscientizzazione culturale. Come richiama il Manifesto, "l'uomo è per la vita. Tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà. Il dramma della sofferenza e la paura della morte non possono oscurare questa evidenza.
Chi sta male, infatti, chiede soprattutto di non essere lasciato solo, di essere curato e accudito con benevolenza, di essere amato fino alla fine. Anche in situazioni drammatiche, chiedere la morte è sempre l'espressione di un bisogno estremo d'amore; solo uno s guardo parziale può interpretare il disagio dei malati e dei disabili come un rifiuto della vita. Persino nelle condizioni più gravi ciò che la persona trasmette in termini affettivi, simbolici, spirituali ha una straordinaria importanza e tocca le corde più profonde del cuore umano.
Certo, la possibilità di levar la mano contro di sé, di rinunciare intenzionalmente a vivere, c'è sempre stata nella storia dell'umanità; ma in nessun popolo è esistita la pretesa che questa tragica possibilità fosse elevata al rango di diritto, di un 'diritto di morire', che il singolo potesse rivendicare come proprio nei confronti della società. La persona umana, del resto, si sviluppa in una fitta rete di relazioni personali che contribuiscono a costruire la sua identità unica e la sua irripetibile biografi a. Troncare tale rete è un'ingiustizia verso tutti e un danno per tutti. Teorizzare la morte come 'diritto di libertà' finisce inevitabilmente per ferire la libertà degli altri e ancor più il senso della comunità umana.
Per chi crede, poi, la vita è un dono di Dio che precede ogni altro suo dono e supera l'esistenza umana; come tale non è disponibile, e va custodito fino alla fine. Esistono malattie inguaribili, ma non esistono malattie incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia e il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti. La vera libertà per tutti, credenti e non credenti, è quella di scegliere a favore della vita, perché solo così è possibile costruire il vero bene delle persone e della società.
Per questo sentiamo di dover dire con chiarezza tre grandi sì alla vita, alla medicina palliativa, ad accrescere e umanizzare l'assistenza ai malati e agli anziani, e tre grandi no all'eutanasia, all'accanimento terapeutico, all'abbandono di chi è più fragile. Come cittadini sappiamo che la nostra Costituzione difende i diritti umani non già come principi astratti, ma come il presupposto concreto della nostra vita che è nello stesso tempo fisica e psichica, privata e pubblica. Mai come oggi la civiltà si misura dalla cura che, senza differenze tra persone, viene riservata a quanti sono anziani, malati o non autosufficienti. Occorre in ogni modo evitare di aggiungere pena a pena, ma anche insicurezza ad insicurezza. Chiediamo che le persone più deboli siano efficacemente aiutate a vivere e non a morire per falsa pietà. Solo amando la vita di ciascuno fino alla fine c'è speranza di futuro per tutti.
Eppure si vuole diffondere una cultura a favore del c.d. testamento biologico.
Definiamo che cos'è il testamento biologico. E' un documento o un modulo mediante il quale si esprime la propria volontà (ora per allora) circa i trattamenti sanitari e circa il morire, per il tempo in cui non si sarà in grado di intendere e di volere. Si evincono rilevanti problemi etici, comunque irrisolvibili da qualunque e possibile legge per quanto equilibrata sia, e che possono sintetizzarsi nelle seguenti criticità insite al testamento biologico e non solo: astrattezza , attualità, vincolatività, ruolo del fiduciario. In particolare: astrattezza de l testamento biologico rispetto alla situazione reale di malattia in cui dovrebbero essere applicato con deficit d'attualità delle dichiarazioni sia per quanto riguarda il quadro clinico che le possibilità diagnostiche e terapeutiche; profilo giuridico del "fiduciario" chiamato ad agire secondo le istruzioni contenute nel testamento biologico e nell'esclusivo interesse della persona incapace; contraddizioni tra testamento biologico, diritto positivo, norme della buona pratica clinica e della deontologia medica; sospensione di alimentazione e idratazione artificiale considerata come semplice sospensione di terapia; carattere vincolante o semplicemente orientativo del testamento biologico per il personale sanitario; testamento biologico come burocratica accelerazione del morire; assolutizzazione dell'autonomia del paziente; riduzione del medico a mero esecutore della volontà anticipatamente espressa dal paziente.
Non possono essere dettagliatamente approfondite le vari criticità richiamate, ma risulta significativo quanto già pubblicato nel 2004 sull'autorevole rivista dell'Hastings Center ("a nonpartisan research institution dedicated to bioethics") e dal titolo "Enough. The failur e of the living will": "In pursuit of the dream that patients' exercise of auto nomy could extend beyond their span of competence, living wills have passed from controversy to conventional wisdom, to widely promoted policy. But the policy h as not produced results, and should be abandoned"
Quali prospettive per una legge sulle DAT?
Ci sarebbe molto da dibattere in termini sia di bioetica che di biogiuridica e di biopolitica, per dare una risposta compiuta. Necessita molta attenzione e riflessione per evitare che si creino presupposti legislativi di derive antropologiche, assistenziali, giuridiche, etiche e sociali che introducano, de facto, l'eutanasia omissiva e la frattura della relazione medico-paziente. Il problema è prima di tutto antropologico, ancor prima che scientifico, giuridico e legislativo.
Non necessitano fuorvianti e strumentali demagogie, né integralismi laicisti. Si richiede, piuttosto, una rigorosa laicità che riconosca all'uomo, ad ogni uomo , la sua naturale ed intrinseca dignità. Pertanto obiettivo di una legge, e compito non facile, in merito alle DAT deve essere quello di contemperare il rispetto della libertà della persona con la tutela della dignità di ogni uomo e del val ore dell'inviolabilità della vita, così di ribadire il no all'eutanasia, al suicidio assistito, all'abbandono terapeutico, all'accanimento terapeutico.
In sintesi, quali principi per una tutela della vita umana che sia rispettosa d ella sua intrinseca dignità in un contesto sociale di "indifferenza morale"?
Con estrema sintesi: proporzionalità/ordinarietà dei trattamenti; appropriato giudizio dell'autonomia del paziente; dovere di garanzia da parte del medico; tute la della relazione di cura medico-paziente secondo beneficialità nella fiducia; accompagnamento al morente con le cure palliative.
Vorrei concludere con John Donne: "Nessun uomo è un'isola; nessun uomo sta solo. Ogni uomo è una gioia per me; il dolore di ogni uomo è il mio dolore. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, perciò io difenderò ogni uomo come mio fratello; ogni uomo come mio amico."
Vigilia d'enciclica. E dalla Germania rispunta Marx - A poche settimane dalla pubblicazione della "Caritas in veritate" il giurista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato dal papa, vuole che sia la Chiesa a scrivere il definitivo "manifesto" contro il capitalismo. Che va rovesciato dalle fondamenta, in quanto disumano - di Sandro Magister
ROMA, 5 giugno 2009 – Dell'enciclica economico-sociale che è da tempo in gestazione si conoscono le prime parole latine: "Caritas in veritate". Si pronostica che sarà firmata dal papa il 29 giugno e diffusa all'inizio dell'estate. Si sa che è passata attraverso vari rifacimenti, che fino all'ultimo hanno lasciato Benedetto XVI insoddisfatto.
A differenza dell'enciclica sulla speranza, scritta personalmente dal papa dalla prima riga all'ultima, e a differenza dell'enciclica sulla carità, la cui prima metà è anch'essa tutta di scrittura papale, alla "Caritas in veritate" hanno lavorato molte menti e molte mani. Ma Benedetto XVI vi lascerà in ogni caso la sua impronta, già visibile nelle parole del titolo che coniugano indissolubilmente carità e verità.
Su quale sarà questa impronta la curiosità è forte. Perché poco si conosce del pensiero di Joseph Ratzinger in materia d'economia. In tutta la sua sterminata produzione di saggi, solo uno risulta dedicato espressamente a questo tema. È una conferenza in lingua inglese del 1985 dal titolo: "Market economy and ethics".
In quella sua conferenza, Ratzinger sosteneva che un'economia che si priva di ogni fondamento etico e religioso è destinata al collasso.
Oggi che un collasso effettivamente c'è stato, si attendono quindi da Benedetto XVI analisi e proposte più circostanziate.
Pochi mesi fa, rispondendo alla domanda di un sacerdote di Roma, il papa si espresse così:
"È dovere della Chiesa denunciare gli errori fondamentali che si sono oggi mostrati nel crollo delle grandi banche americane. L'avarizia umana è idolatria che va contro il vero Dio ed è falsificazione dell'immagine di Dio con un altro Dio, Mammona. Dobbiamo denunciare con coraggio ma anche con concretezza, perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostenuti dalla conoscenza della realtà, che aiuta a capire che cosa si può in concreto fare. Da sempre la Chiesa non solo denuncia i mali, ma mostra le strade che portano alla giustizia, alla carità, alla conversione dei cuori. Anche nell'economia la giustizia si costruisce solo se ci sono i giusti. E costoro si formano con la conversione dei cuori".
Era il 26 febbraio 2009 e l'enciclica era in fase di stesura. Quelle parole del papa ebbero l'effetto di accrescere la curiosità.
***
Ma la curiosità si è fatta ancor più pressante da quando è uscito, in maggio, l'articolo bomba di uno studioso tedesco che Ratzinger ha sempre letto con interesse e con stima.
Lo studioso è Ernst-Wolfgang Böckenförde, coetaneo del papa, cattolico, filosofo, insigne scienziato della politica. Fece epoca nel 1967 un suo saggio nel quale egli sosteneva ciò che fu poi definito "il paradosso di Böckenförde": la tesi secondo cui "lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire".
Da questa tesi presero spunto il 19 gennaio 2004 l'allora cardinale Ratzinger e il filosofo francofortese Jürgen Habermas per un dibattito a Monaco di Baviera, sul tema: "Etica, religione e Stato liberale".
Ebbene, in un articolo per la "Süddeutsche Zeitung" pubblicato in maggio anche in Italia dalla rivista dei religiosi dehoniani di Bologna "Il Regno" – e riprodotto integralmente più sotto – Böckenförde ha applicato il suo "paradosso" anche al capitalismo, ma in termini molto più devastanti.
A suo giudizio, i principi su cui si fonda il sistema economico capitalista non reggono più. Il suo attuale crollo è definitivo e ha messo allo scoperto i fondamenti disumani di tale sistema. L'economia esige quindi d'essere ricostruita da capo, su principi non più di egoismo ma di solidarietà. Tocca agli Stati, in primis all'Europa, prendere il controllo dell'economia. E tocca alla Chiesa, con la sua dottrina sociale, raccogliere il testimone da Marx, che aveva visto giusto.
Contro il "manifesto" anticapitalista di Böckenförde hanno reagito, in Italia, gli economisti cattolici più accreditati presso la Chiesa, intervistati da "il Foglio": Luigi Campiglio, prorettore dell'Università Cattolica di Milano; Dario Antiseri, filosofo e cultore della scuola economica liberale di Vienna; Flavio Felice, docente alla Pontificia Università Lateranense e presidente del Centro studi Tocqueville-Acton; Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e commentatore economico per "L'Osservatore Romano".
In particolare, Antiseri obietta che "rivalutare oggi Marx è come continuare ad essere tolemaici dopo Copernico e Newton"; che "l'individualismo è l'opposto del collettivismo, non del solidarismo, e questo è possibile solo se si creano ricchezze da condividere, come avviene nelle società capitalistiche"; e infine che da Benedetto XVI non si può aspettare che si discosti dalla "Centesimus annus" di Giovanni Paolo II e dalla "Rerum novarum" di Leone XII con la sua "difesa lucida e appassionata della proprietà privata".
Flavio Felice contesta in Böckenförde la visione irreale di una "economia angelica" alternativa a un capitalismo identificato con la pura bramosia del guadagno. E a proposito del controllo salvifico dello Stato sull'economia fa notare che l'enciclica di Giovanni Paolo II "Centesimus annus", al paragrafo 25, mette in guardia proprio da questa utopia: "Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un'organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una 'religione secolare', che si illude di costruire il paradiso in questo mondo".
Ettore Gotti Tedeschi osserva che Böckenförde si scaglia contro un capitalismo di matrice protestante in cui dominano l'egoismo e l'incapacità dell'uomo di fare il bene. Ma non si avvede che c'è un capitalismo che concorda con la dottrina cattolica, del quale i papi da Leone XIII a Giovanni Paolo II hanno denunciato gli errori ma apprezzato la validità di fondo, legata alla proprietà privata e alla libertà di investire e di commerciare.
In un articolo su "Il Sole 24 Ore" – il quotidiano economico più diffuso d'Europa – Gotti Tedeschi ha sostenuto che l'attuale dissesto mondiale non nasce dagli eccessi di avidità o dalla mancanza di regole. Questi hanno aggravato la crisi, ma non l'hanno causata. La vera causa è stata la riduzione delle nascite, e quindi di quel capitale umano che solo poteva assicurare la necessaria crescita di produzione della ricchezza.
L'attacco frontale portato da Böckenförde al capitalismo dovrà comunque misurarsi con la risposta che la "Centesimus annus", al paragrafo 42, dà alla domanda se il capitalismo sia un sistema che corrisponde al "vero progresso economico e civile".
La risposta dell'enciclica è la seguente:
"Se con 'capitalismo' si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di economia d'impresa, o di economia di mercato, o semplicemente di economia libera".
Nel suo articolo, lo studioso tedesco chiede invece alla dottrina sociale della Chiesa di risvegliarsi dal suo "sonno di bella addormentata" e applicarsi a una "radicale contestazione" del capitalismo, resa obbligata dal suo attuale "evidente crollo".
Dopo la pubblicazione della "Caritas in veritate" sarà quindi interessante anche come Böckenförde la commenterà.
Ma ecco intanto, qui di seguito, il suo articolo bomba, apparso in Italia su "Il Regno" n. 10 del 2009:
L'uomo funzionale. Capitalismo, proprietà, ruolo degli Stati - di Ernst-Wolfgang Böckenförde
La crisi bancaria e di conseguenza economica che ci ha investiti ed è ancora ben lontana dal finire solleva molte domande. È stata causata dall’irresponsabilità e dall’avidità di svariate banche, specialmente banche d’investimento? Oppure dalla mancanza di rigide regole per i mercati finanziari internazionali, dal mancato funzionamento della sorveglianza su banche e finanza, dalla separazione e indipendenza di un’economia finanziaria virtuale (e acrobatica), dall’economia reale della produzione e dei beni? Probabilmente vi hanno contribuito parecchi fattori del genere, collegati a un’ingenua fiducia in un mercato "libero" e senza regole.
Ma la ricerca delle cause unicamente in questa direzione non ci porta lontano. Infatti quel sistema che si è venuto costituendo in questo campo per decenni con successo e con ampi profitti materiali ma anche con una crescente distanza fra poveri e ricchi, quel "turbo-capitalismo" (così chiamato da Helmut Schmidt) che con la globalizzazione mondiale ha raggiunto una nuova qualità, prima di provocare un crollo, non può essere definito e spiegato solo facendo riferimento a comportamenti sbagliati di singole persone o anche di gruppi.
Questo certamente può aver contribuito, ma più globalmente si tratta dei frutti di un sistema d’interazione consolidato e molto diffuso che segue una propria logica funzionale, e a essa sottopone tutto il resto. Questo sistema d’interazione si è trasformato in un sistema d’azione: il capitalismo moderno. Esso forgia il comportamento economico (e in parte anche non economico) dei singoli e lo integra nel sistema. Q uesti sono certamente gli attori, ma nel loro comportamento non seguono tanto un proprio libero impulso, quanto piuttosto gli stimoli derivanti dal sistema e dalla sua logica funzionale.
IL CARATTERE DISUMANO DEL CAPITALISMO
Ma come si presenta più precisamente il capitalismo moderno come sistema d’azione? In questo ci può aiutare un grande sociologo umanistico del secolo scorso, Hans Freyer. Nel suo libro "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters [Teoria dell’epoca attuale]" egli parla dei "sistemi secondari" come prodotti specifici del mondo industrializzato moderno e ne analizza con precisione la struttura (1).
I sistemi secondari sono caratterizzati dal fatto di sviluppare processi d’azione che non si collegano a ordinamenti preesistenti, ma si basano su pochi principi funzionali, da cui sono costruiti e traggono la loro razionalità. Questi processi d’azione integrano l’uomo non come persona nella sua integralità, ma solo con le forze motrici e le funzioni che sono richieste dai principi e dalla loro attuazione. Ciò che le persone sono o devono essere resta al di fuori.
I processi d’azione di questo tipo si sviluppano e si consolidano in un sistema diffuso caratterizzato dalla sua specifica razionalità funzionale, che si sovrappone – influenzandola, cambiandola e modellandola – alla realtà sociale esistente.
Ecco la chiave per l’analisi del capitalismo come sistema d’azione. Esso si basa su poche premesse: libertà generale dell’individuo e di associazioni di individui in materia di acquisti e contratti; piena libertà in materia di trasferimenti di merci, affari e capitali al di fuori dei confini nazionali; garanzia e libera disposizione della proprietà personale (compreso il diritto di successione), intendendo con proprietà il possesso di beni e denaro ma anche di sapere, tecnologia e capacità.
L’obiettivo funzionale è la generale liberazione di un interesse lucrativo potenzialmente illimitato, nonché delle potenzialità di guadagno e di produzione, che operano sul libero mercato ed entrano in competizione fra loro. La spinta decisiva è data da un individualismo egoistico che spinge le persone coinvolte ad acquistare, innovare e guadagnare. Tale spinta costituisce il motore, il principio attivo; non persegue un obiettivo contenutistico preesistente, che fissa misura e limiti, ma un’illimitata dilatazione di sé, la crescita e l’arricchimento. Perciò bisogna eliminare o accantonare tutti gli ostacoli e tutti i regolamenti che non sono richiesti dalle succitate premesse. L’unico principio regolativo deve essere il libero mercato.
Il punto di partenza e la base della costruzione non sono il soddisfacimento dei bisogni degli uomini e il loro crescente benessere; essi seguono il processo e il suo progresso, sono per così dire una conseguenza del sistema funzionante. Il diritto e lo Stato come suo tutore hanno unicamente il compito di assicurare la possibilità di sviluppo e il funzionamento di questo sistema d’azione. Sono una variabile funzionale, non una forza preesistente di ordinamento e limitazione.
Il dinamismo e l’influenza sui comportamenti di un tale sistema sono enormi. Lo stesso sistema diventa, ed è, soggetto di commercio. Realizzazione di profitti, crescita del capitale, aumento della produzione e della produttività, autoaffermazione e crescita sul mercato costituiscono il principio motore e dominante, la cui razionalità funzionale integra e subordina tutto il resto. I lavoratori vengono presi in considerazione solo in base alla funzione che svolgono e ai costi che comportano, per cui si riducono al minor numero possibile. La loro sostituzione, dove possibile, con macchine o tecnologie automatizzate per ridurre i costi appare non solo razionale ma economicamente necessaria.
La compensazione per i problemi sociali e i licenziamenti che ne derivano non rientra in questa logica funzionale, ma viene demandata allo Stato e alla sua funzione di garanzia, che proprio per questo può imporre tasse e chiedere contributi, che comunque comportano ancora dei costi per le imprese. Il principio strutturante non è la solidarietà verso le persone e tra loro; essa viene presa in considerazione solo come riparazione per bloccare, e in parte compensare, le conseguenze dannose e disumane del sistema, che si sviluppa in base alla propria logica interna.
Non si possono mettere in dubbio le straordinarie realizzazioni in termini economici e di benessere che il capitalismo così strutturato produce non solo in singoli paesi, ma oggi anche a livello mondiale, nonostante tutte le sue mancanze e deficienze; noi stessi, abitanti dell’Occidente, ne traiamo grandi profitti. Tuttavia non si può non vedere che si tratta di un processo in continua progressione. In base alla sua stessa dinamica esso cerca continuamente di estendersi e d’integrare nella sua logica funzionale tutti gli ambiti della vita nella misura in cui hanno un lato economico, con ampie ripercussioni anche nel campo della cultura e dello stile di vita personale. Di qui il dilagare del tratto economicistico in tutti gli aspetti della vita. Oggi lo constatiamo soprattutto nel sistema sanitario.
MARX AVEVA VISTO GIUSTO
Già più di 150 anni fa Karl Marx lo aveva chiaramente analizzato ed espresso e si resta colpiti dall’attualità della sua prognosi: "Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Ha privato l’industria del suo fondamento nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e sono giornalmente annientate. Vengono rimpiazzate da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime importate dalle zone più lontane e in cui i prodotti non vengono consumati esclusivamente nel paese ma dappertutto nel mondo. […] Al posto dell’antica autosufficienza e dell’isolamento locale e nazionale subentra un traffico universale, un’universale dipendenza reciproca fra le nazioni. E come nella produzione materiale, così anche in quella intellettuale. Grazie al celere miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, alle comunicazioni rese estremamente più agevoli, la borghesia porta la civiltà a tutte le nazioni. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa rade al suolo tutte le muraglie cinesi, […] costringe tutte le nazioni ad adottare, se non vogliono morire, il modo di produzione borghese" (2).
Per il nostro tempo bisogna aggiungere che, grazie a una perfetta organizzazione a livello mondiale del trasporto di container via mare, i costi di trasporto di merci e prodotti sono minimi, per cui le grandi distanze non scoraggiano più, ma piuttosto stimolano il commercio a livello mondiale.
E non è al di fuori dello sviluppo, ma corrisponde piuttosto alla sua logica, il fatto che, nella ricerca di possibilità di guadagno sempre nuove, si diffondano sempre più, nel campo dei mercati finanziari, gli affari basati unicamente su capitale fittizio e sulla sua moltiplicazione, con la tendenza a non tener conto dei dati dell’economia reale e a danneggiarli. Karl Marx aveva già visto anche questo (3).
Lo Stato e il diritto possono certamente dall’esterno fissare limiti al sistema del capitalismo e imporgli regole, limitare gli eccessi e le conseguenze inaccettabili, nella misura in cui l’ordinamento statale, che da parte sua è vincolato alla promozione di un’economia favorevole alla crescita, ha la forza per farlo. E in una certa misura lo fa anche. Tuttavia anche in caso di riuscita questa rimane una correzione marginale, che deve essere estorta alla logica funzionale del sistema, in quanto quest’ultima mira sempre alla maggiore deregolamentazione possibile.
ROVESCIARE IL CAPITALISMO DALLE FONDAMENTA
Di che cosa soffre quindi il capitalismo? Non soffre solo a causa dei suoi eccessi e dell’avidità e dell’egoismo degli uomini che in esso operano. Soffre a causa del suo punto di partenza, del suo principio funzionale e della forza che crea il sistema. Perciò è impossibile guarire questa malattia con rimedi marginali; la si può guarire solo cambiando il punto di partenza.
Bisogna sostituire l’esteso individualismo in materia di proprietà, che prende come punto di partenza e principio strutturante il profitto dei singoli potenzialmente illimitato, considerato diritto naturale e non soggetto ad alcun orientamento contenutistico, con un ordinamento normativo e una strategia d’azione, basati sul principio secondo cui i beni della terra, cioè la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano e le sfruttano, ma sono destinati a tutti gli uomini, per il soddisfacimento delle loro necessità vitali e per il raggiungimento del benessere.
È un principio radicalmente diverso; punto di partenza e di riferimento ne è la solidarietà degli uomini nel loro vivere insieme e in competizione. È da qui che bisogna dedurre le norme fondamentali in base alle quali informare i processi d’azione, economici ma anche non economici (4).
La scelta di un tale punto di partenza non è del tutto nuova. Si ricollega a un’antica tradizione, che si è persa solo al momento del passaggio all’individualismo della proprietà e al capitalismo. Tommaso d’Aquino, il grande teologo e filosofo del Medioevo, afferma esplicitamente che in base al diritto naturale, cioè all’ordinamento della natura voluto da Dio, i beni terreni sono ordinati al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli uomini. La proprietà privata del singolo esiste solo nel quadro di questa destinazione universale, e subordinata ad esso. Essa non appartiene al diritto naturale in sé, ma è un’aggiunta legislativa che si giustifica per motivi pratici, perché ognuno cura maggiormente ciò che appartiene a lui stesso, piuttosto che a tutti insieme, perché è più conforme allo scopo che ognuno possieda e amministri le cose da se stesso e, infine, perché la proprietà privata favorisce la pace fra gli uomini (5). Poi Tommaso distingue anche fra possesso, amministrazione e uso di ciò che si possiede. Mentre il primo spetta solo al singolo individuo, l’uso deve tener conto del fatto che i beni esteriori, in base alla loro destinazione originaria, sono comuni, per cui chi ne è provvisto deve condividerli di sua volontà con i poveri (6). Perciò per Tommaso, in caso di estrema necessità, il furto non è peccato (7).
Qui compare un modello che è contrario al capitalismo. Un modello che parte da altri principi fondamentali e così smaschera anche il carattere disumano del capitalismo. La solidarietà non appare più come una riparazione, per bloccare e compensare le conseguenze dannose di uno sbrigliato individualismo in materia di proprietà, ma come un principio strutturante della convivenza umana anche in ambito economico.
Questo punto di partenza opera in molti modi: attribuzione dei prodotti del suolo e delle materie prime naturali; relazione con i beni di consumo e l’ambiente, natura, acqua e aria; ruolo direttivo di ciò che è lavoro rispetto al capitale; limiti all’accumulazione di proprietà e di capitali; riconoscimento degli altri esseri umani – anche delle future generazioni – come soggetti e partner nel campo dell’uso, del commercio e del possesso invece che oggetti di possibile sfruttamento.
In questo modo si ha un quadro normativo, all’interno del quale il senso del possesso e dell’uso personale, la garanzia della proprietà possono e devono avere il loro significato pragmatico e la loro funzione come forze motrici del processo economico e del suo progresso. Ma rimangono legati al concetto prioritario della solidarietà, che offre orientamento contenutistico e pone dei limiti a un’espansione illimitata.
DOPO MARX, È L'ORA DELLA CHIESA
Non è questa la sede per elaborare in dettaglio un tale modello teorico e pratico ispirato dal principio di solidarietà. I fondamenti per farlo si trovano nella tradizione della dottrina sociale cristiana. Basta risvegliarli dal loro sonno di bella addormentata nel bosco e applicarsi con decisione a tradurli in pratica.
Questa dottrina sociale della Chiesa ha assunto a lungo nei riguardi del capitalismo, impressionata dai suoi indiscutibili successi, un atteggiamento piuttosto difensivo. Essa lo ha criticato su punti specifici invece di metterlo in discussione in quanto tale. L’attuale evidente crollo del capitalismo a causa della sua espansione illimitata e quasi sregolata può, e dovrebbe, permettere alla dottrina sociale della Chiesa una sua radicale contestazione.
Per questo il magistero sociale può richiamarsi semplicemente a papa Giovanni Paolo II, il critico più lucido ed energico del capitalismo dopo Karl Marx. Già nella sua prima enciclica egli intraprese una valutazione del sistema in quanto tale, delle strutture e dei meccanismi che dominano l’economia mondiale nel campo delle finanze e del valore del denaro, della produzione e del commercio. A suo avviso, essi si sono dimostrati incapaci di rispondere alle sfide e alle esigenze etiche del nostro tempo (8). L’uomo "non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti" (9).
Ma il nuovo orientamento solidaristico e la trasformazione di un esteso sistema d’azione economico che, come abbiamo mostrato, non tiene conto della natura e della vocazione dell’uomo, e anzi le contraddice, non avviene da sé. Richiede un potere statale in grado di agire e decidere, che oltrepassi la mera funzione di garanzia dello sviluppo del sistema economico e di accertamento del parallelogramma delle forze, ma assuma efficacemente la responsabilità del bene comune mediante la limitazione, l’orientamento e anche il rifiuto del perseguimento del potere economico, cercando continuamente di ridurre al tempo stesso le disuguaglianze sociali.
È impossibile realizzare una tale trasformazione con semplici interventi di coordinamento. Ma dove si trova oggi una tale statualità? Di fronte all’intreccio economico mondiale la forza dello Stato nazionale non è più sufficiente; sarà sempre sconfitta dalle forze economiche che operano a livello mondiale. D’altra parte, è impossibile organizzare una statualità a livello mondiale, sotto forma di Stato planetario. Lo si può fare solo per e in aree limitate, che sono in relazione fra loro e collaborano. L’appello è rivolto quindi anzitutto all’Europa. Ma essa avrà la volontà e la forza per farlo?
NOTE
(1) H. Freyer, "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters", Deutsche Verlag-Amstalt, Stuttgart, 1956, p. 79ss.
(2) K. Marx, F. Engels, "Manifesto del partito comunista", Marietti, Genova, 1973, p. 60.
(3) K. Marx, "Das Kapital", vol. III, c. 25, Dietz-Verlag, Berlin, 1956, pp. 436-452.
(4) Cfr. E.-W. Böckenförde, "Ethische und politische Grundsatzfragen zur Zeit", in Id., "Kirche und christilicher Glaube in der Herausforderungen der Zeit", Münster, 2007, pp. 362-366.
(5) Tommaso d’Aquino, "Summa Theologiae", IIa-IIae, q. 66, art. 2 e art. 7.
(6) Ivi, q. 66, art. 2, resp.
(7) Ivi, art. 7, resp.
(8) Cfr. Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16. Cfr. inoltre: Id., "Laborem exercens", 1981; "Centesimus annus", 1991.
(9) Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16.
1) DON GIUSSANI/ Protagonisti della vita - Massimo Camisasca - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
2) LETTERATURA/ Del Corno: “dalla tragedia è nato lo sguardo positivo dell’Occidente” - INT. Dario Del Corno - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
3) Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento - La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
4) Vigilia d'enciclica. E dalla Germania rispunta Marx - A poche settimane dalla pubblicazione della "Caritas in veritate" il giurista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato dal papa, vuole che sia la Chiesa a scrivere il definitivo "manifesto" contro il capitalismo. Che va rovesciato dalle fondamenta, in quanto disumano - di Sandro Magister
DON GIUSSANI/ Protagonisti della vita - Massimo Camisasca - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Don Giussani è stato un profondo conoscitore dell’uomo. Da quando, ragazzo, ha trovato nella lettura di Leopardi una delle chiavi più espressive dell’animo umano, mai si è placata la sua ansia di incontrare e leggere il segreto dell’uomo. Il senso religioso (la sua opera più famosa, la più letta, anche se forse una delle più complesse e profonde) è innanzitutto una grande riflessione su tutte le dimensioni della vita umana.
Ma questa riflessione era per don Giussani l’esaltante “esercizio” di vita di ogni incontro. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo o di sentirlo parlare ha certamente percepito di essere di fronte ad un genio dell’umano, ad una intelligenza capace di penetrare le pieghe della ragione, dell’affettività, della libertà.
Un amante della vita, un amante dell’uomo e della sua opera, ecco come lo definirei. Amante dell’uomo perché innamorato di Cristo, amante di Cristo perché innamorato dell’uomo. Per lui era impossibile scindere le due cose e ogni volta che parlava dell’uno parlava, pur non nominandolo, anche dell’altro.
Don Giussani era innanzitutto un uomo segnato, colpito da un incontro avvenuto a quattordici anni, quando improvvisamente ha percepito che quel Verbo di cui parla san Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo, “il Verbo si è fatto carne”, voleva dire che nella nostra vita era entrata la giustizia; in un uomo, la verità; in quel volto di uomo, la bellezza. Quell’uomo portava in sé tutto quello che ogni cuore poteva desiderare. Se non tenessimo conto di questo, non comprenderemmo le ragioni profonde della sua passione per l’uomo, della sua instancabile opera di educatore, padre e maestro.
Una delle prime cose che don Giussani, mio insegnante di religione al Berchet, mi ha comunicato è stata proprio la passione di incontrare gli uomini attraverso le loro opere, attraverso i loro scritti, attraverso le loro poesie, i loro romanzi, i loro libri. Essendo appassionato lui stesso, ci ha introdotti, per esempio, alla tradizione del canto, non solo del canto importante, del canto gregoriano, del canto polifonico, di cui è stato un grande difensore e comunicatore, ma anche dei canti popolari, dei canti brasiliani come di quelli irlandesi, dei canti africani piuttosto che di quelli latino-americani, perché attraverso il canto, così come attraverso la poesia e la letteratura, egli faceva incontrare a noi ciò che aveva incontrato lui, e cioè il desiderio dell’uomo di conoscere ciò che sta dentro la vita, ciò che costituisce la profondità di ogni cosa, di ogni pensiero, di ogni respiro.
Amante della vita, è una definizione di Javhè, nell’Antico Testamento. È innanzitutto questo che mi ha fatto riconoscere in don Giussani il segno di Dio, la Sua orma. Egli è stato un amante della vita anche nei suoi aspetti più familiari: amava mangiare, amava bere, amava la conversazione, le cose belle, la montagna, il mare, i viaggi, perché in tutto ciò, appunto, vedeva un segno del destino cui la vita di tutti gli uomini è ordinata.
Questo suo amore alla vita è diventato per noi una educazione alla bellezza, una educazione a scoprire ciò che di bello c’è nel mondo e a vedere in esso una parola detta a noi. In una sinfonia di Beethoven, in una sonata di Schubert, in un tramonto particolarmente emotivo, in una traccia di luna e di stelle sul mare nella notte (sto citando delle cose di cui lui ci parlava), in una voce di bambina che dice alla mamma “Mamma tutto è grande per te. Tutto in te diventa grande” egli trovava se stesso e l’infinito. Ecco, questa è l’educazione alla bellezza che ci ha comunicato: vibrare per le cose grandi o meglio per la grandezza che sta dentro tutte le cose.
LETTERATURA/ Del Corno: “dalla tragedia è nato lo sguardo positivo dell’Occidente” - INT. Dario Del Corno - lunedì 8 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Elemento fondamentale della nostra cultura la tragedia greca segna una profonda evoluzione non solo teatrale o letteraria, ma anche esistenziale dell’uomo europeo, rappresentandone, attraverso codici ben definiti, l’indole inquisitoria nei confronti della realtà, l’inappagabile ricerca di felicità e lo sgomento di fronte alla contraddizioni del vivere. Dario Del Corno racconta come la concezione e la dimensione tragica siano sopravvissute nel nostro modus vivendi quotidiano
Qual è stata l’importanza della tragedia nello sviluppo culturale del nostro continente?
L’importanza della tragedia è a dir poco fondamentale per la nostra cultura.
La tragedia ha introdotto, sviluppato e approfondito l’idea del “teatro” ossia di una rappresentazione mimetica che esprima direttamente una storia. Per “direttamente” intendo “che non passa attraverso il racconto”, ma attraverso l’azione, l’esperienza, il presente dell’individuo. La rappresentazione tragica è il riaccadere di qualcosa, non come semplice ripetizione, ma come interpretazione immediata. Questo spinge a una compartecipazione degli spettatori e a un’educazione culturale che fa perno sull’azione e sulla domanda, non sulla ricettività passiva della realtà.
Che cosa sopravvive in termini di “atteggiamento tragico” nel comportamento dell’uomo occidentale?
Sopravvive un’idea fondamentale che non è solo tragica, ma anche comica o per lo meno drammatica, che è l’atteggiamento mimetico che permette di rappresentare una vicenda in forma diretta. Questo per la nostra cultura fu l’inizio del giudicare, dell’avere a che fare, interrogandosi, con categorie come necessità e libertà. La rappresentazione diretta del mito permise di re-inventare un personaggio che si esprimeva appunto direttamente nell’azione. Per questo il nostro modo di concepire la realtà rimane assai più dinamico e in movimento rispetto a molte altre culture.
La tragedia nasce però dal mito o per lo meno adotta preferibilmente materiale mitico per la propria genesi. Nasce quindi da un archetipo fisso. Questo meccanismo è rimasto immutato nel nostro modo di produrre letteratura o invece non c’è più alcun riferimento fondante?
È vero, la tragedia nasce dal mito. O, come meglio espresso nella domanda, lo “adotta”. A tutti gli effetti si tratta di un’adozione e non di una ripetizione.
Questa sollevata è comunque davvero una questione notevole, direi che è un argomento di discussione rimasto centrale nel corso degli anni.
Su cosa si basa il modo moderno di fare letteratura? A mio avviso la misura tragica dell’esistenza nella sua natura ultima, ossia in ciò che accomuna tutti gli esseri umani o per lo meno gli europei, è rimasta immutata. Chiunque produca letteratura risale sempre insomma ad alcune idee fondamentali che noi possiamo chiamare “idee mitiche”, o a personaggi tipici, “personaggi mitici”.
Per altro da qui nasce il paradosso dell’obiettività. Senza un riferimento immutabile, soprattutto nel teatro, non si può avere la garanzia dell’obbiettività, della realtà di quanto rappresentato. Proprio perché il personaggio o la circostanza deve rispondere a canoni comuni nei quali lo spettatore possa riconoscere la propria esperienza. Tradito questo principio si dà adito a una soggettività senza senso che lascia il tempo che trova.
Lei dipinge la dimensione tragica come “precario statuto dell'individuo, smarrito nella solitudine del suo confronto con il mistero dell'esistere”. A suo avviso l’uomo occidentale è ancora carico di questa domanda oppure rischia di ridurre il proprio orizzonte a una visione puramente analitica della realtà?
Anche questa non è una questione da poco. Il rapporto con l’arcano con il mistero, se è sincero, è sempre un rapporto fattivo, positivo. Perché è un rapporto che esplora la realtà e cerca di capirne le ragioni. Ma proprio ponendosi in maniera aperta questa positività può venir mantenuta.
E anche qui un altro paradosso: se si pretende di capire tutto resterà sempre fuori dalla comprensione totale il significato dell’uomo, che è il generatore della domanda (tragica) su tutto. L’uomo non solo non può essere racchiuso in una formula analitica, ma soprattutto deve essere concepito in forma unica, e mai univoca.
La dimensione misteriosa, o misterica, della tragedia consiste appunto nell’identificazione di questa unicità che c’è nell’individuo, ossia la sua molteplice apertura e la sua perenne condizione di essere domandante di fronte al destino.
Qual è il più grande e diretto erede della tragedia nella letteratura moderna?
Dipende in primo luogo da che cosa si intende per moderno. Ma facendo riferimento all’accezione classica di questo termine direi che Shakespeare è il più grande rappresentante del tragico che il mondo abbia mai conosciuto dall’Antichità.
L’Amleto, in particolare, è la quintessenza della tragicità moderna con tutto il portato di rinnovata morale che questa comporta.
Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento - La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
ROMA, domenica, 24 maggio 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II”, e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E' inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza; e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E' Vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa inoltre parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini del volume “Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
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Dopo il 9 febbraio 2009, qual è la situazione in merito alla vicenda Englaro?
Quando l’emotività va diradandosi, l’indicibile amarezza per la soppressione di una vita già estremamente fragile appena si attutisce e le posizioni antitetiche lasciano spazio a tentativi di dialogo, ineludibili si impongono riflessioni argomentate secondo ragione e rigorosamente fondate da cui partire. Potremmo ritenere che una capillare divulgazione mediatica tutto abbia già detto, che ognuno abbia già perfettamente chiare le dinamiche della vicenda Englaro e che abbia fatto una scelta di campo, “oggi per allora”. Tuttavia la delicatezza degli argomenti e le ricadute sociali, culturali, etiche, politiche impongono supplementi di riflessioni e discernimento. La complessità della tematica suggerisce di riconsiderare alcuni degli innumerevoli aspetti meritevoli di attenzione.
Che cosa si intende per eutanasia?
Secondo classica definizione, è “un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Così per l’Organizzazione Mondiale della Sanità ” è l’atto con cui si pone deliberatamente fine alla vita di un paziente, anche nel caso di richiesta del paziente stesso o di un suo parente stretto”. Riguardo all’azione, quindi, l’eutanasia è attiva quando si procede direttamente con un’azione che induce la morte; omissiva o passiva quando non si somministra una terapia o si interrompe un sostegno vitale; terminale quando si realizza appunto su di una persona in fase terminale conseguente a grave patologia.
Si può pensare che la definizione ed il concetto di eutanasia vanno a modificarsi?
Certamente. Nel dibattito attuale, come già richiamato da Adriano Bompiani, Bruno Dallapiccola, Maria Luisa Di Pietro e Aldo Isidori, il termine eutanasia si utilizza per indicare solo forme dirette o attive di uccisione del paziente, mentre l’eutanasia indiretta o per omissione è stata ridotta al rango di un generico rifiuto/rinuncia dei trattamenti sanitari. “[…] Depotenziando il dovere di garanzia del medico nei confronti del paziente e decontestualizzando l’astensione/sottrazione di trattamenti sanitari che non troverebbero giustificazione nei criteri di sproporzionalità/straordinarietà, si legittimano di fatto forme di eutanasia “indiretta o per omissione”. Altra considerazione è che va rilevato una scenario eutanasico con una voluta oscillazione tra disponibilità e indisponibilità della vita; riduzione della complessità della casistica alla genericità della norma; decontestualizzazione delle decisioni. Questi ed altri fattori aprono a qualsiasi scenario anche celatamente eutanasico, in cui giudizi sociali sulla qualità e sulla dignità della vita possono entrare come indisturbati coprotagonisti. Lo scenario eutanasico fu già descritto e preconizzato da F.W. Nietzsche nel “Crepuscolo degli idoli”: “Il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo».
Quindi una vera e propria riformulazione del concetto di eutanasia?
Un tentativo di riformulazione assolutamente non condivisibile. Si assegnerebbe, in tal modo, liceità etica e giuridica ad un’azione o un’omissione che procuri la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore, sulla scorta della sola richiesta sebbene autonoma e consapevole. E’ opportuno definire, sotto il profilo etico, due termini ricorrenti e spesso sovrapponibili: uccidere e lasciar morire. Uccidere è sempre moralmente illecito, lasciar morire può essere comportamento colpevole, non colpevole o addirittura virtuoso. In entrambi i casi la causa della morte è sempre la malattia ma diverse le responsabilità morali. “Nell’abbandono e nella sospensione dei trattamenti la causa diretta della morte è la malattia, ma ciò che fa la differenza è il fatto che nell’abbandono la morte poteva e doveva essere evitata (quindi l’abbandono terapeutico e assistenziale si costituisce come una colpa morale). Nella sospensione dei trattamenti, invece, la morte non poteva essere evitata, e non si doveva, per prolungare un processo agonico già iniziato, infierire sulla condizione terminale della persona (e in questo caso l’atto della sospensione è moralmente doveroso).”
E nel caso di Eluana Englaro?
Eluana Englaro, sotto il profilo clinico, non era una paziente in stato terminale ma affetta da una gravissima disabilità. Non era morta e non era collegata ad alcuna strumentazione (es. respiratore artificiale, ecc.). Usufruiva dei comuni mezzi di assistenza, propri per quelle determinate situazioni e, tra l’altro, alimentazione e idratazione con sondino naso gastrico. Se considerata già morta, come alcuni hanno ritenuto da 17 anni, di conseguenza si sarebbe potuto ad esempio espiantare gli organi, cosa assolutamente non praticabile in quanto Eluana Englaro non rientrava affatto nei criteri della morte cerebrale totale. Voglio ricordare che Science, nel 2006, ha pubblicato un articolo che ha molto interessato la comunità scientifica: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato l'attivazione di varie zone cerebrali, in situazioni cliniche come quella di Eluana Englaro, in corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo" sani. Comunque nulla altro aggiungerei in merito alla situazione clinica che ha caratterizzato la vita di Eluana Englaro.
Eppure si è ritenuta lecita la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione.
E’ stato ritenuto anche opportuno, oltre alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, la somministrazione di sedativi. Delle due una: se Eluana non aveva alcuna percezione cosciente dell’ambiente esterno, così del dolore o di altro sentire, perché somministrare sedativi? O forse, visto che concretamente non si era del tutto certi del suo stato di completa incoscienza, si è preferito in via precauzionale somministrare sedativi? Il ricorso ai sedativi sarebbe stato motivato dagli spasmi muscolari per alterazione degli elettroliti, da sospensione dell’alimentazione e idratazione.
E nel dubbio sulle effettive capacità percettive di Eluana?
Una corretta interpretazione e attuazione del principio di precauzione, così giustamente propugnato in altri ambiti, avrebbe significato la non sospensione dei sostegni vitali mancando la certezza dell’assoluta assenza di coscienza. Parafrasando dalla civiltà giuridica la locuzione “in dubio pro reo”: “in dubio pro vita”.
L’alimentazione e l’idratazione sono terapie o cure?
Per i fautori della sospensione di alimentazione e idratazione, queste vengono considerate terapie e per tale motivo rifiutabili dal paziente, per autodeterminazione. Analizziamo senza pregiudizi e con argomentazioni logiche, almeno in linee generali il problema. Alimentazione e idratazione se inquadrabili come terapie devono curare qualcuno da qualcosa, ovvero da una patologia, da una disfunzione. Dovremmo arguire che, se terapie, alimentazione e idratazione avrebbero svolto su Eluana azione terapeutica. Quale sarebbe la malattia di Eluana che alimentazione e idratazione avrebbero tentato di curare? Quale malattia è curabile con alimentazione e idratazione così che, dopo la guarigione, si possa sospendere il trattamento in questione? La risposta, logica e non ideologica, è che alimentazione e idratazione non curano alcuna malattia, né tantomeno svolgevano azione terapeutica su Eluana. Se alimentazione e idratazione sono terapie, ne consegue che anche il neonato nutrito con latte artificiale è sottoposto a terapia, così il politraumatizzato che abbisogna del sondino o il paziente postoperatorio, o l’anziano che ha problemi di deglutizione, o chiunque necessita semplicemente di un aiuto per essere nutrito e dissetato. Non è il mezzo di somministrazione né la composizione dell’alimentazione e idratazione che cambiano la natura propria del sostegno vitale. Infatti il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere su alimentazione e idratazione di pazienti in stato vegetativo, ricorda che “il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri. Si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia, movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari.”
Alimentazione e idratazione, allora, sono forme di sostegno vitale?
Alimentazione e idratazione sono forme di sostegno vitale delle quali l’uomo né ha fondamentale bisogno e per tale motivo non possono essere sospese in quanto essenziali nella “umana relazione di cura”, che non significa terapia né tantomeno accanimento terapeutico, bensì presa in carico, “presa in cura”. Sotto il profilo bioetico si realizza così l’alleanza terapeutica medico-paziente, che si basa appunto sulla “beneficialità nella fiducia”: la fiducia (di un paziente) che incontra una coscienza (del medico). Inoltre, e non secondariamente, simbolicamente dar da mangiare e da bere rappresenta la manifestazione più tangibile ed immediata della solidarietà umana.
Alimentazione e idratazione non possono essere mai sospese?
Si, possono essere sospese. Come già indicato dal Comitato nazionale per la Bioetica, “non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’ alimentazione”.
Che cosa si intende per atti terapeutici e che cosa per atti di cura?
Atti terapeutici sul corpo sono "le azioni propriamente mediche o chirurgiche, il cui oggetto è il contrasto o il contenimento di una patologia, esordiente oppure decorrente, ed il cui scopo è la risoluzione, il miglioramento o la stabilizzazione del quadro clinico". Atti di cura del corpo sono "le azioni che, a seconda delle condizioni dell'organismo del paziente, possono coincidere con gli atti consueti della esistenza quotidiana, eseguiti dal paziente stesso o dai suoi familiari, oppure richiedere l'intervento di personale sanitario qualificato, il cui oggetto è comunque il mantenimento dell'omeostasi entro parametri fisiologici compatibili con la vita attraverso la disponibilità di aria, acqua, elettroliti e nutrienti organici per i processi metabolici essenziali, ed il cui scopo è consentire la sopravvivenza del soggetto".
Quali conseguenze, sotto il profilo clinico ed etico, al rifiuto di un atto terapeutico o di un atto di cura?
Per dirla con Roberto Colombo, "il rifiuto ad iniziare o continuare un atto terapeutico può comportare, indirettamente, un'abbreviazione della vita. Invece il rifiuto di un atto di cura, ovvero la sospensione di un sostegno vitale, comporta direttamente ed inevitabilmente la rinuncia alla vita".
Che cosa si intende per "cura"?
Premesse le considerazioni in merito agli atti terapeutici e agli atti di cura, preferisco descrivere il "prisma di cura": a. guarire dalla malattia, ove possibile e secondo il principio di proporzionalità senza ricorrere a interventi definibili sproporzionati e futili, e b. prendersi cura del malato come "altro" e come "oltre". La terapia è un'arte tecnica, il prendersi cura è un'arte morale che appartiene al medico sempre e anche quando nulla c'è più da fare. La terapia sproporzionata e futile non ha fondazione clinica né etica. Il prendersi cura è il fondamento della costitutiva relazionalità tra esseri umani, pertanto non può essere mai sospeso.
E' stato richiamato il principio di proporzionalità. E' possibile così definire ciò che è giusto fare o meno?
La proporzionalità terapeutica è principio di giustificazione etica e giuridica dell'atto medico. E' definibile proporzionato l'atto medico i cui benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. Viceversa c'è sproporzione e l'atto medico non è giustificato. La proporzionalità terapeutica costituisce, nella sua dimensione oggettiva, criterio prioritario persino a quello della volontà espressa dal paziente. Di conseguenza la terapia è doverosa quando esiste un'ampia proporzionalità tra i benefici attesi (elevati, certi) e i rischi previsti; non è doverosa se esiste una sproporzione tra i benefici attesi e i rischi previsti (elevati, certi). Il trattamento è opzionale se esiste ancora una certa proporzionalità tra i benefici e i rischi, ma molto ristretta, cosicché spetta solo al paziente decidere se effettuare il trattamento oppure rinunciarvi, soluzioni in questo caso entrambe eticamente lecite.
Un atto terapeutico sproporzionato è accanimento?
E' accanimento un atto sproporzionato e futile. Ma necessitano alcune precisazioni. I parametri dell'accanimento terapeutico sono la valutazione in scienza e coscienza del medico e la percezione del paziente. Pertanto la definizione dell'accanimento è sempre conseguenza di una relazione medico-paziente che, se basata sull'alleanza terapeutica della beneficialità nella fiducia, consente corretta applicazione della terapia, il suo mantenimento o sospensione. Ma procediamo alla esplicitazione di ulteriori termini e classificazioni spesso richiamate nel dibattito bioetico in oggetto: a) cure ordinarie e straordinarie; b) insistenza terapeutica e c) ostinazione terapeutica. A) Sono da ritenersi ordinarie le cure in cui si dà rapporto di debita proporzione tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Dove non si dà proporzione le cure sono da considerare straordinarie. B) Per insistenza terapeutica si intende il comportamento rivolto alla ricerca delle tecniche diagnostiche e terapeutiche più appropriate, ricorrendo anche a terapie innovative, in presenza di ragionevoli possibilità di evoluzione positiva del quadro clinico e di miglioramento della qualità di vita. C) Per ostinazione terapeutica si intende l'atteggiamento rivolto ad inseguire ogni minima possibilità terapeutica anche a costo di gravare il paziente di oneri eccessivi a fronte della scarsità di benefici conseguibili. L'ostinazione terapeutica sfocia spesso, anche se inconsapevolmente, nell'accanimento terapeutico.
In conclusione, quali caratteri definiscono l'accanimento terapeutico?
Il persistere in terapie futili, sproporzionate, inutilmente invasive ed incapaci di arrecare alcun reale beneficio, fermo restando che ogni trattamento va valutato bilanciandone i potenziali apporti positivi (beneficialità) o negativi (neminem laedere). Comunque anche in merito all'accanimento terapeutico si cerca di riformularne il concetto. Infatti la desistenza da un supposto accanimento terapeutico è giustificabile dalla espressione di una volontà pregressa, anche se semplicemente riferita.
In contrapposizione all'accanimento terapeutico?
Certamente l'umanizzazione e la dignità del morire. Specifichiamo: dignità del morire e accompagnamento al morire non significano indurre la morte, piuttosto cure normali ovvero di sostegno vitale, terapia del dolore, cure palliative.
Con l'accanimento terapeutico, e non solo, si introduce il tema della pervasività della tecnica.
Affrontare il tema della tecnica e la sua relazione con l'etica richiederebbe una trattazione a parte. Possiamo dire che la tecnica svolge un ruolo sempre più preminente nella "relazione di cura" fino a negare la relazione medico-paziente.
Inoltre le conseguenze della pervasività tecnica si riverberano non solo a livello assistenziale, sociale e culturale. Si assiste ad un vero disorientamento circa valori consolidati quali la tutela della vita umana, il limite degli interventi medici, il rispetto della dignità di ogni persona. Dignità, però da intendere come valore intrinseco di ogni essere umano oltre qualsiasi stato di salute o di malattia. La tendenza postmoderna, invece, è quella di anteporre il concetto e la definizione di "vita di qualità", interpretata soggettivamente o supportata da un volere sociale, a quello di dignità. In altri termini, secondo la seguente locuzione: in quanto di scarsa qualità (es.: stato di malattia, grave disabilità, ecc.) quella vita non è degna di essere vissuta. Nello specifico della domanda, il fare tecnico richiede sempre un confronto con l'agire etico, evidentemente orientato a valori corrispondenti alla dignità propria di ogni essere umano. Senza procedure che rappresentino eutanasia né accanimento.
Eluana Englaro aveva espresso in maniera certa le sue volontà anticipate?
Il tentativo è quello di sottomettere anche le forme di sostegno vitale alla volontà individuale, pure in mancanza di certezza e attualità. Eluana non aveva mai rilasciato, in forma certa, volontà in merito. E' opportuno ricordare che il consenso è valido se personale, consapevole, attuale, manifesto, libero e completo. Tuttavia, anche in presenza di volontà certa e attuale non può inquadrarsi nelle DAT la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione: forme elementari, essenziali e imprescindibili per un dignitoso morire. Bene pertanto, per le ragioni suddette, che il DdL escluda alimentazione e idratazione dalle DAT.
Le DAT obbligano il medico?
Le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento non obbligano il medico. La stessa Convenzione di Oviedo sui Diritti Umani e la Biomedicina, all'art. 9 richiama quanto segue: "I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione". Infatti l'art. 9 della Convenzione adotta le espressioni souhaits e wishes, che corrispondono al concetto di cosa desiderata, non di cosa imposta a terzi. Ancora, il Rapporto Esplicativo (punto 62) sull'art. 9 della Convenzione di Oviedo specifica: "Questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione. Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell'intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l'opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina".
Comunque, come richiamato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere "Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico" del 24.10.2008, si configura un diritto di astensione del medico: "Qualora per accogliere la competente e documentata richiesta di interruzione delle cure formulate da un paziente in stato di dipendenza siano necessari un'azione o comunque un intervento positivo da parte del medico e della sua équipe (ad esempio lo spegnimento di un macchinario che garantisca la sopravvivenza del malato), si riconosce il diritto di questi di astenersi da simili condotte da loro avvertite come contrarie alle proprie concezioni etiche, deontologiche e professionali".
Quali dovrebbero essere le caratteristiche contenutistiche delle DAT?
Sono state indicate dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento del 18.12.2003 (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento): "A. Abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale; B. non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza; C. ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si auspica che esse siano compilate con l'assistenza di un medico, che può controfirmarle; D. siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione".
Quale comportamento, pertanto, da parte del medico?
Il medico prende in considerazione le volontà del paziente, ma deve assumere le sue decisioni in piena scienza e coscienza nell'interesse dello stesso paziente e sempre al fine della tutela della salute e della vita umana secondo precauzione, proporzionalità e prudenza. Evidentemente non può effettuare o favorire trattamenti che provochino la morte, anche se richiesti dal paziente. Infatti l'art. 17 del Codice di Deontologia Medica afferma: "Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte ".
La vita umana è disponibile?
Analizzando il quesito sotto il profilo giuridico, possiamo dire che il principio di indisponibilità della vita umana è già codificato nel diritto dello Stato. Ricordiamo, ad esempio: art 579 c.p. (omicidio del consenziente), art 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), art 5 c.c. (atti di disposizione del proprio corpo). Comunque il principio della indisponibilità del proprio corpo, quindi della propria vita, è ampiamente richiamato in diverse altre leggi e norme. Nella legge che regolamenta la donazione e il trapianto degli organi, è rigoroso l'accertamento di morte né tantomeno è consentita una morte volontaria al fine, per quanto nobile, di donare. Così per quanto attiene la prevenzione dell'infortunistica sul lavoro o la prevenzione degli incidenti stradali, attraverso la messa in essere di procedure ben precise sempre al fine della salvaguardia della vita umana. Ovvero riconoscimento della tutela della vita umana e della sua indisponibilità. Valore laico, possiamo pertanto affermare. Oppure, detto in altri termini, non esiste un diritto alla morte e lo Stato non riconosce alcun diritto di libertà alla morte.
Ma per alcuni pazienti con grave disabilità la vita potrebbe essere percepita come "non degna di essere vissuta".
Ritengo estremamente pericoloso identificare tout court la vita percepita di "scarsa qualità" come "vita non degna". Sia per quanto attiene gli aspetti giuridici che etici ed assistenziali. La questione è antropologica. Tutti gli esseri umani hanno pari dignità, che è valore innato (ontologico) e non meramente acquisito. Non è lo stato di benessere o di malattia che condizione il riconoscimento della dignità umana. Dignità, quindi come "condizione di nobiltà morale in cui l'uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a se stesso". Certo, alcune condizioni patologiche e disabilità comportano una percezione soggettiva ed oggettiva di gravi difficoltà relazionali, comunque di normale vita quotidiana anche per quanto attiene i bisogni più elementari.
Ciò non significa, però, disconoscere l'intrinseca dignità dell'essere uomo che, invece, deve essere riconosciuta e pertanto affermata e tutelata con opportuni e proporzionati interventi assistenziali e di "cura". Altrimenti si ratificherebbe la cultura della "vita di qualità", vale a dire ratifica dell'eutanasia attiva ed omissiva per una vita percepita appunto come non degna. Ciò vanificherebbe, ad esempio, la portata culturale, etico ed assistenziale delle cure palliative delle quali necessita una maggiore diffusione e precisa normazione. La dignità designa la preziosità dell'uomo ed esige rispetto assoluto. La società che declina la dignità come mera funzione della qualità percepita, attribuita o meno, mina e trasforma i fondamenti del vivere democratico per il bene comune.
Sull'influenza di una cultura sociale impostata su di una morale indifferente, acutamente osserva Maria Luisa Di Pietro: "[...] è pur sempre la società a stabilire, fissare le condizioni a partire dalle quali la vita umana sia 'degna', giustificando come meritevole (o no) di attenzione la percezione che il singolo ha della propria esistenza". Detto in altri termini, prevarrebbe il volere del più forte (società) sul più debole.
Emblematico è che la stessa Corte costituzionale tedesco-occidentale, nella sentenza del 25 febbraio 1975, pone "il singolo uomo, nella sua dignità, al centro di tutte le sue norme" e afferma che "a fondamento di questa concezione è l'idea che l'uomo nell'ordine della creazione possiede un valore proprio e autonomo che esige costantemente il rispetto incondizionato della vita di ogni singolo, anche della vita di colui che può sembrare socialmente senza valore". Si evince il nefasto retaggio delle ignominie risalenti alla seconda guerra mondiale, quando vite ritenute non degne subirono le più efferate violenze fino alla scientifica soppressione di massa. Potremmo altresì dire che dignità e diritti fondamentali spesso non si pongono sullo stesso piano.
Significativo quanto riportato nel Dizionario dei Diritti umani: "Dignità e diritti fondamentali della persona non si pongono sullo stesso piano: mentre i secondi possono essere limitati, regolati e (in alcuni casi) anche essere temporaneamente sospesi; la prima rappresenta un valore assoluto che non può essere in alcun caso intaccato. Il valore della dignità umana rappresenta quindi un minimum invulnerabile: una barriera che non si può oltrepassare".
Tuttavia, nella visione giusnaturalista la dignità innata è fonte di diritti umani, appunto, fondamentali. Per dirla con Kant, "mentre le cose hanno un prezzo, gli uomini hanno una dignità", quindi ogni essere umano non ha prezzo perché la dignità è valore incommensurabile del l'uomo.
La vicenda Englaro è indicativa di un cambiamento culturale?
Certo. La morte di Eluana Englaro ha significato la negazione del "diritto fonda mentale ed universale" alla vita (art. 3, Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo), così del diritto di "cura" verso i più gravi disabili (art. 25, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità). Inoltre il vulnus arrecato alla relazione medico-paziente è rilevante. Si tende a ridurre l'azione del medico a mera esecuzione di una volontà, derubricando dall'atto medico il fondamento ineludibile della tutela e protezione del paziente senza alcun ricorso né a qualsiasi forma di eutanasia né di accanimento terapeutico. Emerge altresì il tentativo di contrattualizzare il rapporto medico-paziente, non più "relazione di cura." Inoltre, dopo la vicenda Englaro, si tende quasi ad attribuire ai tribunali un potere legislativo sul modello del common law, non corrispondente alla tradizione giuridica italiana del civil law. Attraverso l'analisi critica del contesto storico, si evince il passaggio nella società occidentale contemporanea da un'eutanasia "totalitaria" ad un'eutanasia "liberale", che pone nella "sacralità dell'autonomia decisionale" la ragione principale a favore delle scelte eutanasiche.
Quale prospettiva culturale dovrebbe essere sostenuta?
La prospettiva può essere desunta dal Manifesto "Liberi per vivere", presentato dall'Associazione Scienza & Vita, dal Forum delle Famiglie, da Retinopera e sottoscritta da una molteplicità di altre associazioni, movimenti e gruppi. Lo scopo è di lanciare un'opera di coscientizzazione culturale. Come richiama il Manifesto, "l'uomo è per la vita. Tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà. Il dramma della sofferenza e la paura della morte non possono oscurare questa evidenza.
Chi sta male, infatti, chiede soprattutto di non essere lasciato solo, di essere curato e accudito con benevolenza, di essere amato fino alla fine. Anche in situazioni drammatiche, chiedere la morte è sempre l'espressione di un bisogno estremo d'amore; solo uno s guardo parziale può interpretare il disagio dei malati e dei disabili come un rifiuto della vita. Persino nelle condizioni più gravi ciò che la persona trasmette in termini affettivi, simbolici, spirituali ha una straordinaria importanza e tocca le corde più profonde del cuore umano.
Certo, la possibilità di levar la mano contro di sé, di rinunciare intenzionalmente a vivere, c'è sempre stata nella storia dell'umanità; ma in nessun popolo è esistita la pretesa che questa tragica possibilità fosse elevata al rango di diritto, di un 'diritto di morire', che il singolo potesse rivendicare come proprio nei confronti della società. La persona umana, del resto, si sviluppa in una fitta rete di relazioni personali che contribuiscono a costruire la sua identità unica e la sua irripetibile biografi a. Troncare tale rete è un'ingiustizia verso tutti e un danno per tutti. Teorizzare la morte come 'diritto di libertà' finisce inevitabilmente per ferire la libertà degli altri e ancor più il senso della comunità umana.
Per chi crede, poi, la vita è un dono di Dio che precede ogni altro suo dono e supera l'esistenza umana; come tale non è disponibile, e va custodito fino alla fine. Esistono malattie inguaribili, ma non esistono malattie incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia e il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti. La vera libertà per tutti, credenti e non credenti, è quella di scegliere a favore della vita, perché solo così è possibile costruire il vero bene delle persone e della società.
Per questo sentiamo di dover dire con chiarezza tre grandi sì alla vita, alla medicina palliativa, ad accrescere e umanizzare l'assistenza ai malati e agli anziani, e tre grandi no all'eutanasia, all'accanimento terapeutico, all'abbandono di chi è più fragile. Come cittadini sappiamo che la nostra Costituzione difende i diritti umani non già come principi astratti, ma come il presupposto concreto della nostra vita che è nello stesso tempo fisica e psichica, privata e pubblica. Mai come oggi la civiltà si misura dalla cura che, senza differenze tra persone, viene riservata a quanti sono anziani, malati o non autosufficienti. Occorre in ogni modo evitare di aggiungere pena a pena, ma anche insicurezza ad insicurezza. Chiediamo che le persone più deboli siano efficacemente aiutate a vivere e non a morire per falsa pietà. Solo amando la vita di ciascuno fino alla fine c'è speranza di futuro per tutti.
Eppure si vuole diffondere una cultura a favore del c.d. testamento biologico.
Definiamo che cos'è il testamento biologico. E' un documento o un modulo mediante il quale si esprime la propria volontà (ora per allora) circa i trattamenti sanitari e circa il morire, per il tempo in cui non si sarà in grado di intendere e di volere. Si evincono rilevanti problemi etici, comunque irrisolvibili da qualunque e possibile legge per quanto equilibrata sia, e che possono sintetizzarsi nelle seguenti criticità insite al testamento biologico e non solo: astrattezza , attualità, vincolatività, ruolo del fiduciario. In particolare: astrattezza de l testamento biologico rispetto alla situazione reale di malattia in cui dovrebbero essere applicato con deficit d'attualità delle dichiarazioni sia per quanto riguarda il quadro clinico che le possibilità diagnostiche e terapeutiche; profilo giuridico del "fiduciario" chiamato ad agire secondo le istruzioni contenute nel testamento biologico e nell'esclusivo interesse della persona incapace; contraddizioni tra testamento biologico, diritto positivo, norme della buona pratica clinica e della deontologia medica; sospensione di alimentazione e idratazione artificiale considerata come semplice sospensione di terapia; carattere vincolante o semplicemente orientativo del testamento biologico per il personale sanitario; testamento biologico come burocratica accelerazione del morire; assolutizzazione dell'autonomia del paziente; riduzione del medico a mero esecutore della volontà anticipatamente espressa dal paziente.
Non possono essere dettagliatamente approfondite le vari criticità richiamate, ma risulta significativo quanto già pubblicato nel 2004 sull'autorevole rivista dell'Hastings Center ("a nonpartisan research institution dedicated to bioethics") e dal titolo "Enough. The failur e of the living will": "In pursuit of the dream that patients' exercise of auto nomy could extend beyond their span of competence, living wills have passed from controversy to conventional wisdom, to widely promoted policy. But the policy h as not produced results, and should be abandoned"
Quali prospettive per una legge sulle DAT?
Ci sarebbe molto da dibattere in termini sia di bioetica che di biogiuridica e di biopolitica, per dare una risposta compiuta. Necessita molta attenzione e riflessione per evitare che si creino presupposti legislativi di derive antropologiche, assistenziali, giuridiche, etiche e sociali che introducano, de facto, l'eutanasia omissiva e la frattura della relazione medico-paziente. Il problema è prima di tutto antropologico, ancor prima che scientifico, giuridico e legislativo.
Non necessitano fuorvianti e strumentali demagogie, né integralismi laicisti. Si richiede, piuttosto, una rigorosa laicità che riconosca all'uomo, ad ogni uomo , la sua naturale ed intrinseca dignità. Pertanto obiettivo di una legge, e compito non facile, in merito alle DAT deve essere quello di contemperare il rispetto della libertà della persona con la tutela della dignità di ogni uomo e del val ore dell'inviolabilità della vita, così di ribadire il no all'eutanasia, al suicidio assistito, all'abbandono terapeutico, all'accanimento terapeutico.
In sintesi, quali principi per una tutela della vita umana che sia rispettosa d ella sua intrinseca dignità in un contesto sociale di "indifferenza morale"?
Con estrema sintesi: proporzionalità/ordinarietà dei trattamenti; appropriato giudizio dell'autonomia del paziente; dovere di garanzia da parte del medico; tute la della relazione di cura medico-paziente secondo beneficialità nella fiducia; accompagnamento al morente con le cure palliative.
Vorrei concludere con John Donne: "Nessun uomo è un'isola; nessun uomo sta solo. Ogni uomo è una gioia per me; il dolore di ogni uomo è il mio dolore. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, perciò io difenderò ogni uomo come mio fratello; ogni uomo come mio amico."
Vigilia d'enciclica. E dalla Germania rispunta Marx - A poche settimane dalla pubblicazione della "Caritas in veritate" il giurista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato dal papa, vuole che sia la Chiesa a scrivere il definitivo "manifesto" contro il capitalismo. Che va rovesciato dalle fondamenta, in quanto disumano - di Sandro Magister
ROMA, 5 giugno 2009 – Dell'enciclica economico-sociale che è da tempo in gestazione si conoscono le prime parole latine: "Caritas in veritate". Si pronostica che sarà firmata dal papa il 29 giugno e diffusa all'inizio dell'estate. Si sa che è passata attraverso vari rifacimenti, che fino all'ultimo hanno lasciato Benedetto XVI insoddisfatto.
A differenza dell'enciclica sulla speranza, scritta personalmente dal papa dalla prima riga all'ultima, e a differenza dell'enciclica sulla carità, la cui prima metà è anch'essa tutta di scrittura papale, alla "Caritas in veritate" hanno lavorato molte menti e molte mani. Ma Benedetto XVI vi lascerà in ogni caso la sua impronta, già visibile nelle parole del titolo che coniugano indissolubilmente carità e verità.
Su quale sarà questa impronta la curiosità è forte. Perché poco si conosce del pensiero di Joseph Ratzinger in materia d'economia. In tutta la sua sterminata produzione di saggi, solo uno risulta dedicato espressamente a questo tema. È una conferenza in lingua inglese del 1985 dal titolo: "Market economy and ethics".
In quella sua conferenza, Ratzinger sosteneva che un'economia che si priva di ogni fondamento etico e religioso è destinata al collasso.
Oggi che un collasso effettivamente c'è stato, si attendono quindi da Benedetto XVI analisi e proposte più circostanziate.
Pochi mesi fa, rispondendo alla domanda di un sacerdote di Roma, il papa si espresse così:
"È dovere della Chiesa denunciare gli errori fondamentali che si sono oggi mostrati nel crollo delle grandi banche americane. L'avarizia umana è idolatria che va contro il vero Dio ed è falsificazione dell'immagine di Dio con un altro Dio, Mammona. Dobbiamo denunciare con coraggio ma anche con concretezza, perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostenuti dalla conoscenza della realtà, che aiuta a capire che cosa si può in concreto fare. Da sempre la Chiesa non solo denuncia i mali, ma mostra le strade che portano alla giustizia, alla carità, alla conversione dei cuori. Anche nell'economia la giustizia si costruisce solo se ci sono i giusti. E costoro si formano con la conversione dei cuori".
Era il 26 febbraio 2009 e l'enciclica era in fase di stesura. Quelle parole del papa ebbero l'effetto di accrescere la curiosità.
***
Ma la curiosità si è fatta ancor più pressante da quando è uscito, in maggio, l'articolo bomba di uno studioso tedesco che Ratzinger ha sempre letto con interesse e con stima.
Lo studioso è Ernst-Wolfgang Böckenförde, coetaneo del papa, cattolico, filosofo, insigne scienziato della politica. Fece epoca nel 1967 un suo saggio nel quale egli sosteneva ciò che fu poi definito "il paradosso di Böckenförde": la tesi secondo cui "lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire".
Da questa tesi presero spunto il 19 gennaio 2004 l'allora cardinale Ratzinger e il filosofo francofortese Jürgen Habermas per un dibattito a Monaco di Baviera, sul tema: "Etica, religione e Stato liberale".
Ebbene, in un articolo per la "Süddeutsche Zeitung" pubblicato in maggio anche in Italia dalla rivista dei religiosi dehoniani di Bologna "Il Regno" – e riprodotto integralmente più sotto – Böckenförde ha applicato il suo "paradosso" anche al capitalismo, ma in termini molto più devastanti.
A suo giudizio, i principi su cui si fonda il sistema economico capitalista non reggono più. Il suo attuale crollo è definitivo e ha messo allo scoperto i fondamenti disumani di tale sistema. L'economia esige quindi d'essere ricostruita da capo, su principi non più di egoismo ma di solidarietà. Tocca agli Stati, in primis all'Europa, prendere il controllo dell'economia. E tocca alla Chiesa, con la sua dottrina sociale, raccogliere il testimone da Marx, che aveva visto giusto.
Contro il "manifesto" anticapitalista di Böckenförde hanno reagito, in Italia, gli economisti cattolici più accreditati presso la Chiesa, intervistati da "il Foglio": Luigi Campiglio, prorettore dell'Università Cattolica di Milano; Dario Antiseri, filosofo e cultore della scuola economica liberale di Vienna; Flavio Felice, docente alla Pontificia Università Lateranense e presidente del Centro studi Tocqueville-Acton; Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e commentatore economico per "L'Osservatore Romano".
In particolare, Antiseri obietta che "rivalutare oggi Marx è come continuare ad essere tolemaici dopo Copernico e Newton"; che "l'individualismo è l'opposto del collettivismo, non del solidarismo, e questo è possibile solo se si creano ricchezze da condividere, come avviene nelle società capitalistiche"; e infine che da Benedetto XVI non si può aspettare che si discosti dalla "Centesimus annus" di Giovanni Paolo II e dalla "Rerum novarum" di Leone XII con la sua "difesa lucida e appassionata della proprietà privata".
Flavio Felice contesta in Böckenförde la visione irreale di una "economia angelica" alternativa a un capitalismo identificato con la pura bramosia del guadagno. E a proposito del controllo salvifico dello Stato sull'economia fa notare che l'enciclica di Giovanni Paolo II "Centesimus annus", al paragrafo 25, mette in guardia proprio da questa utopia: "Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un'organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una 'religione secolare', che si illude di costruire il paradiso in questo mondo".
Ettore Gotti Tedeschi osserva che Böckenförde si scaglia contro un capitalismo di matrice protestante in cui dominano l'egoismo e l'incapacità dell'uomo di fare il bene. Ma non si avvede che c'è un capitalismo che concorda con la dottrina cattolica, del quale i papi da Leone XIII a Giovanni Paolo II hanno denunciato gli errori ma apprezzato la validità di fondo, legata alla proprietà privata e alla libertà di investire e di commerciare.
In un articolo su "Il Sole 24 Ore" – il quotidiano economico più diffuso d'Europa – Gotti Tedeschi ha sostenuto che l'attuale dissesto mondiale non nasce dagli eccessi di avidità o dalla mancanza di regole. Questi hanno aggravato la crisi, ma non l'hanno causata. La vera causa è stata la riduzione delle nascite, e quindi di quel capitale umano che solo poteva assicurare la necessaria crescita di produzione della ricchezza.
L'attacco frontale portato da Böckenförde al capitalismo dovrà comunque misurarsi con la risposta che la "Centesimus annus", al paragrafo 42, dà alla domanda se il capitalismo sia un sistema che corrisponde al "vero progresso economico e civile".
La risposta dell'enciclica è la seguente:
"Se con 'capitalismo' si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di economia d'impresa, o di economia di mercato, o semplicemente di economia libera".
Nel suo articolo, lo studioso tedesco chiede invece alla dottrina sociale della Chiesa di risvegliarsi dal suo "sonno di bella addormentata" e applicarsi a una "radicale contestazione" del capitalismo, resa obbligata dal suo attuale "evidente crollo".
Dopo la pubblicazione della "Caritas in veritate" sarà quindi interessante anche come Böckenförde la commenterà.
Ma ecco intanto, qui di seguito, il suo articolo bomba, apparso in Italia su "Il Regno" n. 10 del 2009:
L'uomo funzionale. Capitalismo, proprietà, ruolo degli Stati - di Ernst-Wolfgang Böckenförde
La crisi bancaria e di conseguenza economica che ci ha investiti ed è ancora ben lontana dal finire solleva molte domande. È stata causata dall’irresponsabilità e dall’avidità di svariate banche, specialmente banche d’investimento? Oppure dalla mancanza di rigide regole per i mercati finanziari internazionali, dal mancato funzionamento della sorveglianza su banche e finanza, dalla separazione e indipendenza di un’economia finanziaria virtuale (e acrobatica), dall’economia reale della produzione e dei beni? Probabilmente vi hanno contribuito parecchi fattori del genere, collegati a un’ingenua fiducia in un mercato "libero" e senza regole.
Ma la ricerca delle cause unicamente in questa direzione non ci porta lontano. Infatti quel sistema che si è venuto costituendo in questo campo per decenni con successo e con ampi profitti materiali ma anche con una crescente distanza fra poveri e ricchi, quel "turbo-capitalismo" (così chiamato da Helmut Schmidt) che con la globalizzazione mondiale ha raggiunto una nuova qualità, prima di provocare un crollo, non può essere definito e spiegato solo facendo riferimento a comportamenti sbagliati di singole persone o anche di gruppi.
Questo certamente può aver contribuito, ma più globalmente si tratta dei frutti di un sistema d’interazione consolidato e molto diffuso che segue una propria logica funzionale, e a essa sottopone tutto il resto. Questo sistema d’interazione si è trasformato in un sistema d’azione: il capitalismo moderno. Esso forgia il comportamento economico (e in parte anche non economico) dei singoli e lo integra nel sistema. Q uesti sono certamente gli attori, ma nel loro comportamento non seguono tanto un proprio libero impulso, quanto piuttosto gli stimoli derivanti dal sistema e dalla sua logica funzionale.
IL CARATTERE DISUMANO DEL CAPITALISMO
Ma come si presenta più precisamente il capitalismo moderno come sistema d’azione? In questo ci può aiutare un grande sociologo umanistico del secolo scorso, Hans Freyer. Nel suo libro "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters [Teoria dell’epoca attuale]" egli parla dei "sistemi secondari" come prodotti specifici del mondo industrializzato moderno e ne analizza con precisione la struttura (1).
I sistemi secondari sono caratterizzati dal fatto di sviluppare processi d’azione che non si collegano a ordinamenti preesistenti, ma si basano su pochi principi funzionali, da cui sono costruiti e traggono la loro razionalità. Questi processi d’azione integrano l’uomo non come persona nella sua integralità, ma solo con le forze motrici e le funzioni che sono richieste dai principi e dalla loro attuazione. Ciò che le persone sono o devono essere resta al di fuori.
I processi d’azione di questo tipo si sviluppano e si consolidano in un sistema diffuso caratterizzato dalla sua specifica razionalità funzionale, che si sovrappone – influenzandola, cambiandola e modellandola – alla realtà sociale esistente.
Ecco la chiave per l’analisi del capitalismo come sistema d’azione. Esso si basa su poche premesse: libertà generale dell’individuo e di associazioni di individui in materia di acquisti e contratti; piena libertà in materia di trasferimenti di merci, affari e capitali al di fuori dei confini nazionali; garanzia e libera disposizione della proprietà personale (compreso il diritto di successione), intendendo con proprietà il possesso di beni e denaro ma anche di sapere, tecnologia e capacità.
L’obiettivo funzionale è la generale liberazione di un interesse lucrativo potenzialmente illimitato, nonché delle potenzialità di guadagno e di produzione, che operano sul libero mercato ed entrano in competizione fra loro. La spinta decisiva è data da un individualismo egoistico che spinge le persone coinvolte ad acquistare, innovare e guadagnare. Tale spinta costituisce il motore, il principio attivo; non persegue un obiettivo contenutistico preesistente, che fissa misura e limiti, ma un’illimitata dilatazione di sé, la crescita e l’arricchimento. Perciò bisogna eliminare o accantonare tutti gli ostacoli e tutti i regolamenti che non sono richiesti dalle succitate premesse. L’unico principio regolativo deve essere il libero mercato.
Il punto di partenza e la base della costruzione non sono il soddisfacimento dei bisogni degli uomini e il loro crescente benessere; essi seguono il processo e il suo progresso, sono per così dire una conseguenza del sistema funzionante. Il diritto e lo Stato come suo tutore hanno unicamente il compito di assicurare la possibilità di sviluppo e il funzionamento di questo sistema d’azione. Sono una variabile funzionale, non una forza preesistente di ordinamento e limitazione.
Il dinamismo e l’influenza sui comportamenti di un tale sistema sono enormi. Lo stesso sistema diventa, ed è, soggetto di commercio. Realizzazione di profitti, crescita del capitale, aumento della produzione e della produttività, autoaffermazione e crescita sul mercato costituiscono il principio motore e dominante, la cui razionalità funzionale integra e subordina tutto il resto. I lavoratori vengono presi in considerazione solo in base alla funzione che svolgono e ai costi che comportano, per cui si riducono al minor numero possibile. La loro sostituzione, dove possibile, con macchine o tecnologie automatizzate per ridurre i costi appare non solo razionale ma economicamente necessaria.
La compensazione per i problemi sociali e i licenziamenti che ne derivano non rientra in questa logica funzionale, ma viene demandata allo Stato e alla sua funzione di garanzia, che proprio per questo può imporre tasse e chiedere contributi, che comunque comportano ancora dei costi per le imprese. Il principio strutturante non è la solidarietà verso le persone e tra loro; essa viene presa in considerazione solo come riparazione per bloccare, e in parte compensare, le conseguenze dannose e disumane del sistema, che si sviluppa in base alla propria logica interna.
Non si possono mettere in dubbio le straordinarie realizzazioni in termini economici e di benessere che il capitalismo così strutturato produce non solo in singoli paesi, ma oggi anche a livello mondiale, nonostante tutte le sue mancanze e deficienze; noi stessi, abitanti dell’Occidente, ne traiamo grandi profitti. Tuttavia non si può non vedere che si tratta di un processo in continua progressione. In base alla sua stessa dinamica esso cerca continuamente di estendersi e d’integrare nella sua logica funzionale tutti gli ambiti della vita nella misura in cui hanno un lato economico, con ampie ripercussioni anche nel campo della cultura e dello stile di vita personale. Di qui il dilagare del tratto economicistico in tutti gli aspetti della vita. Oggi lo constatiamo soprattutto nel sistema sanitario.
MARX AVEVA VISTO GIUSTO
Già più di 150 anni fa Karl Marx lo aveva chiaramente analizzato ed espresso e si resta colpiti dall’attualità della sua prognosi: "Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Ha privato l’industria del suo fondamento nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e sono giornalmente annientate. Vengono rimpiazzate da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime importate dalle zone più lontane e in cui i prodotti non vengono consumati esclusivamente nel paese ma dappertutto nel mondo. […] Al posto dell’antica autosufficienza e dell’isolamento locale e nazionale subentra un traffico universale, un’universale dipendenza reciproca fra le nazioni. E come nella produzione materiale, così anche in quella intellettuale. Grazie al celere miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, alle comunicazioni rese estremamente più agevoli, la borghesia porta la civiltà a tutte le nazioni. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa rade al suolo tutte le muraglie cinesi, […] costringe tutte le nazioni ad adottare, se non vogliono morire, il modo di produzione borghese" (2).
Per il nostro tempo bisogna aggiungere che, grazie a una perfetta organizzazione a livello mondiale del trasporto di container via mare, i costi di trasporto di merci e prodotti sono minimi, per cui le grandi distanze non scoraggiano più, ma piuttosto stimolano il commercio a livello mondiale.
E non è al di fuori dello sviluppo, ma corrisponde piuttosto alla sua logica, il fatto che, nella ricerca di possibilità di guadagno sempre nuove, si diffondano sempre più, nel campo dei mercati finanziari, gli affari basati unicamente su capitale fittizio e sulla sua moltiplicazione, con la tendenza a non tener conto dei dati dell’economia reale e a danneggiarli. Karl Marx aveva già visto anche questo (3).
Lo Stato e il diritto possono certamente dall’esterno fissare limiti al sistema del capitalismo e imporgli regole, limitare gli eccessi e le conseguenze inaccettabili, nella misura in cui l’ordinamento statale, che da parte sua è vincolato alla promozione di un’economia favorevole alla crescita, ha la forza per farlo. E in una certa misura lo fa anche. Tuttavia anche in caso di riuscita questa rimane una correzione marginale, che deve essere estorta alla logica funzionale del sistema, in quanto quest’ultima mira sempre alla maggiore deregolamentazione possibile.
ROVESCIARE IL CAPITALISMO DALLE FONDAMENTA
Di che cosa soffre quindi il capitalismo? Non soffre solo a causa dei suoi eccessi e dell’avidità e dell’egoismo degli uomini che in esso operano. Soffre a causa del suo punto di partenza, del suo principio funzionale e della forza che crea il sistema. Perciò è impossibile guarire questa malattia con rimedi marginali; la si può guarire solo cambiando il punto di partenza.
Bisogna sostituire l’esteso individualismo in materia di proprietà, che prende come punto di partenza e principio strutturante il profitto dei singoli potenzialmente illimitato, considerato diritto naturale e non soggetto ad alcun orientamento contenutistico, con un ordinamento normativo e una strategia d’azione, basati sul principio secondo cui i beni della terra, cioè la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano e le sfruttano, ma sono destinati a tutti gli uomini, per il soddisfacimento delle loro necessità vitali e per il raggiungimento del benessere.
È un principio radicalmente diverso; punto di partenza e di riferimento ne è la solidarietà degli uomini nel loro vivere insieme e in competizione. È da qui che bisogna dedurre le norme fondamentali in base alle quali informare i processi d’azione, economici ma anche non economici (4).
La scelta di un tale punto di partenza non è del tutto nuova. Si ricollega a un’antica tradizione, che si è persa solo al momento del passaggio all’individualismo della proprietà e al capitalismo. Tommaso d’Aquino, il grande teologo e filosofo del Medioevo, afferma esplicitamente che in base al diritto naturale, cioè all’ordinamento della natura voluto da Dio, i beni terreni sono ordinati al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli uomini. La proprietà privata del singolo esiste solo nel quadro di questa destinazione universale, e subordinata ad esso. Essa non appartiene al diritto naturale in sé, ma è un’aggiunta legislativa che si giustifica per motivi pratici, perché ognuno cura maggiormente ciò che appartiene a lui stesso, piuttosto che a tutti insieme, perché è più conforme allo scopo che ognuno possieda e amministri le cose da se stesso e, infine, perché la proprietà privata favorisce la pace fra gli uomini (5). Poi Tommaso distingue anche fra possesso, amministrazione e uso di ciò che si possiede. Mentre il primo spetta solo al singolo individuo, l’uso deve tener conto del fatto che i beni esteriori, in base alla loro destinazione originaria, sono comuni, per cui chi ne è provvisto deve condividerli di sua volontà con i poveri (6). Perciò per Tommaso, in caso di estrema necessità, il furto non è peccato (7).
Qui compare un modello che è contrario al capitalismo. Un modello che parte da altri principi fondamentali e così smaschera anche il carattere disumano del capitalismo. La solidarietà non appare più come una riparazione, per bloccare e compensare le conseguenze dannose di uno sbrigliato individualismo in materia di proprietà, ma come un principio strutturante della convivenza umana anche in ambito economico.
Questo punto di partenza opera in molti modi: attribuzione dei prodotti del suolo e delle materie prime naturali; relazione con i beni di consumo e l’ambiente, natura, acqua e aria; ruolo direttivo di ciò che è lavoro rispetto al capitale; limiti all’accumulazione di proprietà e di capitali; riconoscimento degli altri esseri umani – anche delle future generazioni – come soggetti e partner nel campo dell’uso, del commercio e del possesso invece che oggetti di possibile sfruttamento.
In questo modo si ha un quadro normativo, all’interno del quale il senso del possesso e dell’uso personale, la garanzia della proprietà possono e devono avere il loro significato pragmatico e la loro funzione come forze motrici del processo economico e del suo progresso. Ma rimangono legati al concetto prioritario della solidarietà, che offre orientamento contenutistico e pone dei limiti a un’espansione illimitata.
DOPO MARX, È L'ORA DELLA CHIESA
Non è questa la sede per elaborare in dettaglio un tale modello teorico e pratico ispirato dal principio di solidarietà. I fondamenti per farlo si trovano nella tradizione della dottrina sociale cristiana. Basta risvegliarli dal loro sonno di bella addormentata nel bosco e applicarsi con decisione a tradurli in pratica.
Questa dottrina sociale della Chiesa ha assunto a lungo nei riguardi del capitalismo, impressionata dai suoi indiscutibili successi, un atteggiamento piuttosto difensivo. Essa lo ha criticato su punti specifici invece di metterlo in discussione in quanto tale. L’attuale evidente crollo del capitalismo a causa della sua espansione illimitata e quasi sregolata può, e dovrebbe, permettere alla dottrina sociale della Chiesa una sua radicale contestazione.
Per questo il magistero sociale può richiamarsi semplicemente a papa Giovanni Paolo II, il critico più lucido ed energico del capitalismo dopo Karl Marx. Già nella sua prima enciclica egli intraprese una valutazione del sistema in quanto tale, delle strutture e dei meccanismi che dominano l’economia mondiale nel campo delle finanze e del valore del denaro, della produzione e del commercio. A suo avviso, essi si sono dimostrati incapaci di rispondere alle sfide e alle esigenze etiche del nostro tempo (8). L’uomo "non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti" (9).
Ma il nuovo orientamento solidaristico e la trasformazione di un esteso sistema d’azione economico che, come abbiamo mostrato, non tiene conto della natura e della vocazione dell’uomo, e anzi le contraddice, non avviene da sé. Richiede un potere statale in grado di agire e decidere, che oltrepassi la mera funzione di garanzia dello sviluppo del sistema economico e di accertamento del parallelogramma delle forze, ma assuma efficacemente la responsabilità del bene comune mediante la limitazione, l’orientamento e anche il rifiuto del perseguimento del potere economico, cercando continuamente di ridurre al tempo stesso le disuguaglianze sociali.
È impossibile realizzare una tale trasformazione con semplici interventi di coordinamento. Ma dove si trova oggi una tale statualità? Di fronte all’intreccio economico mondiale la forza dello Stato nazionale non è più sufficiente; sarà sempre sconfitta dalle forze economiche che operano a livello mondiale. D’altra parte, è impossibile organizzare una statualità a livello mondiale, sotto forma di Stato planetario. Lo si può fare solo per e in aree limitate, che sono in relazione fra loro e collaborano. L’appello è rivolto quindi anzitutto all’Europa. Ma essa avrà la volontà e la forza per farlo?
NOTE
(1) H. Freyer, "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters", Deutsche Verlag-Amstalt, Stuttgart, 1956, p. 79ss.
(2) K. Marx, F. Engels, "Manifesto del partito comunista", Marietti, Genova, 1973, p. 60.
(3) K. Marx, "Das Kapital", vol. III, c. 25, Dietz-Verlag, Berlin, 1956, pp. 436-452.
(4) Cfr. E.-W. Böckenförde, "Ethische und politische Grundsatzfragen zur Zeit", in Id., "Kirche und christilicher Glaube in der Herausforderungen der Zeit", Münster, 2007, pp. 362-366.
(5) Tommaso d’Aquino, "Summa Theologiae", IIa-IIae, q. 66, art. 2 e art. 7.
(6) Ivi, q. 66, art. 2, resp.
(7) Ivi, art. 7, resp.
(8) Cfr. Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16. Cfr. inoltre: Id., "Laborem exercens", 1981; "Centesimus annus", 1991.
(9) Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16.