Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: "Lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa" - Intervento in occasione del Regina Caeli nella solennità di Pentecoste
2) Omelia di Benedetto XVI nella solennità di Pentecoste
3) Contro l'emergenza educativa servono “testimoni credibili” - Afferma il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
4) Benedetto XVI ai bambini: “pregare può cambiare il mondo” - Riceve in udienza i membri dell'Opera per l'Infanzia Missionaria
5) Pentecoste sul Monte Athos - Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo - di Sandro Magister
6) Tra etica e metafisica - Una ricchezza morale chiamata persona - Pubblichiamo parte della lezione tenuta dal direttore della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" della Pontificia Università Lateranense nell'ambito del ciclo di incontri sul teologo di Aquino. - di Mario Pangallo – L’Osservatore Romano, 3 giugno 2009
7) EUROPEE/ 1. Mauro: senza radici culturali avremo solo un mostro giuridico - Mario Mauro - mercoledì 3 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI: "Lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa" - Intervento in occasione del Regina Caeli nella solennità di Pentecoste
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 31 maggio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo l'intervento pronunciato da Benedetto XVI questa domenica, solennità di Pentecoste, affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano per recitare il Regina Caeli insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle!
La Chiesa sparsa nel mondo intero rivive oggi, solennità della Pentecoste, il mistero della propria nascita, del proprio "battesimo" nello Spirito Santo (cfr At 1,5), avvenuto a Gerusalemme cinquanta giorni dopo la Pasqua, appunto nella festa ebraica di Pentecoste. Gesù risorto aveva detto ai discepoli: "Restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,49). Questo avvenne in forma sensibile nel Cenacolo, mentre erano tutti radunati in preghiera con Maria, Vergine Madre. Come leggiamo negli Atti degli Apostoli, all'improvviso quel luogo fu invaso da un vento impetuoso, e lingue come di fuoco si posarono su ciascuno dei presenti. Gli Apostoli uscirono allora e incominciarono a proclamare in diverse lingue che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, morto e risorto (cfr At 2,1-4). Lo Spirito Santo, che con il Padre e il Figlio ha creato l'universo, che ha guidato la storia del popolo d'Israele e ha parlato per mezzo dei profeti, che nella pienezza dei tempi ha cooperato alla nostra redenzione, a Pentecoste è disceso sulla Chiesa nascente e l'ha resa missionaria, inviandola ad annunciare a tutti i popoli la vittoria dell'amore divino sul peccato e sulla morte.
Lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa. Senza di Lui a che cosa essa si ridurrebbe? Sarebbe certamente un grande movimento storico, una complessa e solida istituzione sociale, forse una sorta di agenzia umanitaria. Ed in verità è così che la ritengono quanti la considerano al di fuori di un'ottica di fede. In realtà, però, nella sua vera natura e anche nella sua più autentica presenza storica, la Chiesa è incessantemente plasmata e guidata dallo Spirito del suo Signore. E' un corpo vivo, la cui vitalità è appunto frutto dell'invisibile Spirito divino.
Cari amici, quest'anno la solennità di Pentecoste cade nell'ultimo giorno del mese di maggio, in cui abitualmente si celebra la bella festa mariana della Visitazione. Questo fatto ci invita a lasciarci ispirare e come istruire dalla Vergine Maria, la quale fu protagonista di entrambi gli eventi. A Nazaret, Ella ricevette l'annuncio della sua singolare maternità, e, subito dopo aver concepito Gesù per opera dello Spirito Santo, dallo stesso Spirito d'amore fu spinta ad andare in aiuto dell'anziana parente Elisabetta, giunta al sesto mese di una gravidanza pure prodigiosa. La giovane Maria, che porta in grembo Gesù e, dimentica di sé, accorre in aiuto del prossimo, è icona stupenda della Chiesa nella perenne giovinezza dello Spirito, della Chiesa missionaria del Verbo incarnato, chiamata a portarlo al mondo e a testimoniarlo specialmente nel servizio della carità. Invochiamo pertanto l'intercessione di Maria Santissima, perché ottenga alla Chiesa del nostro tempo di essere potentemente rafforzata dallo Spirito Santo. In modo particolare, sentano la presenza confortatrice del Paraclito le comunità ecclesiali che soffrono persecuzione per il nome di Cristo, perché, partecipando alle sue sofferenze, ricevano in abbondanza lo Spirito della gloria (cfr 1 Pt 4,13-14).
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
In questi giorni, i giovani dell'Abruzzo si stanno raccogliendo numerosi intorno alla Croce delle Giornate Mondiali della Gioventù, portata in pellegrinaggio nella loro regione da un gruppo di volontari inviati dal Centro internazionale giovanile San Lorenzo di Roma. In comunione con i giovani di quella terra duramente colpita dal terremoto, chiediamo a Cristo morto e risorto di effondere su di loro il suo Spirito di consolazione e di speranza. Estendo il mio saluto a tutti i giovani italiani che oggi, nelle rispettive diocesi, si ritrovano per concludere con i loro Vescovi il triennio dell'Agorà. Ricordo con gioia gli indimenticabili eventi che hanno segnato questo triennio: l'incontro a Loreto, nel settembre 2007, e la Giornata Mondiale a Sydney, nel luglio scorso. Cari giovani italiani, con la forza dello Spirito Santo, siate testimoni del Signore risorto!
E infine saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Vigevano, Valgoglio, Milano e Ponsacco; le Suore della Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, i ragazzi di Osilo e quelli di Cividino Quintano; il gruppo ciclistico AVIS-AIDO di Grumello del Monte, con le Suore delle Poverelle e le ragazze dell'Istituto Palazzolo. Un saluto speciale rivolgo ai bambini della Prima Comunione di Bagno de L'Aquila, dove, dopo il terremoto, si celebra la Messa in una tenda. Nell'odierna Giornata Nazionale del Sollievo, assicuro un particolare ricordo nella preghiera ai malati più gravi, ai loro familiari e a quanti con amore stanno loro vicino. A tutti auguro una buona domenica, nella luce e nella pace dello Spirito Santo.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia di Benedetto XVI nella solennità di Pentecoste
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 31 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI in questa Domenica di Pentecoste presiedendo la Santa Messa della solennità nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle!
Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, viviamo nella fede il mistero che si compie sull'altare, partecipiamo cioè al supremo atto di amore che Cristo ha realizzato con la sua morte e risurrezione. L'unico e medesimo centro della liturgia e della vita cristiana - il mistero pasquale - assume poi, nelle diverse solennità e feste, "forme" specifiche, con ulteriori significati e con particolari doni di grazia. Tra tutte le solennità, la Pentecoste si distingue per importanza, perché in essa si attua quello che Gesù stesso aveva annunciato essere lo scopo di tutta la sua missione sulla terra. Mentre infatti saliva a Gerusalemme, aveva dichiarato ai discepoli: "Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!" (Lc 12,49). Queste parole trovano la loro più evidente realizzazione cinquanta giorni dopo la risurrezione, nella Pentecoste, antica festa ebraica che nella Chiesa è diventata la festa per eccellenza dello Spirito Santo: "Apparvero loro lingue come di fuoco... e tutti furono colmati di Spirito Santo" (At 2,3-4). Il vero fuoco, lo Spirito Santo, è stato portato sulla terra da Cristo. Egli non lo ha strappato agli dèi, come fece Prometeo, secondo il mito greco, ma si è fatto mediatore del "dono di Dio" ottenendolo per noi con il più grande atto d'amore della storia: la sua morte in croce.
Dio vuole continuare a donare questo "fuoco" ad ogni generazione umana, e naturalmente è libero di farlo come e quando vuole. Egli è spirito, e lo spirito "soffia dove vuole" (cfr Gv 3,8). C'è però una "via normale" che Dio stesso ha scelto per "gettare il fuoco sulla terra": questa via è Gesù, il suo Figlio Unigenito incarnato, morto e risorto. A sua volta, Gesù Cristo ha costituito la Chiesa quale suo Corpo mistico, perché ne prolunghi la missione nella storia. "Ricevete lo Spirito Santo" - disse il Signore agli Apostoli la sera della risurrezione, accompagnando quelle parole con un gesto espressivo: "soffiò" su di loro (cfr Gv 20,22). Manifestò così che trasmetteva ad essi il suo Spirito, lo Spirito del Padre e del Figlio. Ora, cari fratelli e sorelle, nell'odierna solennità la Scrittura ci dice ancora una volta come dev'essere la comunità, come dobbiamo essere noi per ricevere il dono dello Spirito Santo. Nel racconto, che descrive l'evento di Pentecoste, l'Autore sacro ricorda che i discepoli "si trovavano tutti insieme nello stesso luogo". Questo "luogo" è il Cenacolo, la "stanza al piano superiore" dove Gesù aveva fatto con i suoi Apostoli l'Ultima Cena, dove era apparso loro risorto; quella stanza che era diventata per così dire la "sede" della Chiesa nascente (cfr At 1,13). Gli Atti degli Apostoli tuttavia, più che insistere sul luogo fisico, intendono rimarcare l'atteggiamento interiore dei discepoli: "Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera" (At 1,14). Dunque, la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo; e presupposto della concordia è la preghiera.
Questo, cari fratelli e sorelle, vale anche per la Chiesa di oggi, vale per noi, che siamo qui riuniti. Se vogliamo che la Pentecoste non si riduca ad un semplice rito o ad una pur suggestiva commemorazione, ma sia evento attuale di salvezza, dobbiamo predisporci in religiosa attesa del dono di Dio mediante l'umile e silenzioso ascolto della sua Parola. Perché la Pentecoste si rinnovi nel nostro tempo, bisogna forse - senza nulla togliere alla libertà di Dio - che la Chiesa sia meno "affannata" per le attività e più dedita alla preghiera. Ce lo insegna la Madre della Chiesa, Maria Santissima, Sposa dello Spirito Santo. Quest'anno la Pentecoste ricorre proprio nell'ultimo giorno di maggio, in cui si celebra solitamente la festa della Visitazione. Anche quella fu una sorta di piccola "pentecoste", che fece sgorgare la gioia e la lode dai cuori di Elisabetta e di Maria, una sterile e l'altra vergine, divenute entrambe madri per straordinario intervento divino (cfr Lc 1,41-45). La musica e il canto, che accompagnano questa nostra liturgia, ci aiutano anch'essi ad essere concordi nella preghiera, e per questo esprimo viva riconoscenza al Coro del Duomo e alla Kammerorchester di Colonia. Per questa liturgia, nel bicentenario della morte di Joseph Haydn, è stata infatti scelta molto opportunamente la sua Harmoniemesse, l'ultima delle "Messe" composte dal grande musicista, una sublime sinfonia per la gloria di Dio. A voi tutti convenuti per questa circostanza rivolgo il mio più cordiale saluto.
Per indicare lo Spirito Santo, nel racconto della Pentecoste gli Atti degli Apostoli utilizzano due grandi immagini: l'immagine della tempesta e quella del fuoco. Chiaramente san Luca ha in mente la teofania del Sinai, raccontata nei libri dell'Esodo (19,16-19) e del Deuteronomio (4,10-12.36). Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l'uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta è descritta come "vento impetuoso", e questo fa pensare all'aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso. Quello che l'aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l'ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l'esistenza spirituale. Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell'aria - e per questo l'impegno ecologico rappresenta oggi una priorità -, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito. Sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre società - ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l'uomo e la donna - a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l'animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà. La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l'aria salubre dello spirito che è l'amore!
L'altra immagine dello Spirito Santo che troviamo negli Atti degli Apostoli è il fuoco. Accennavo all'inizio al confronto tra Gesù e la figura mitologica di Prometeo, che richiama un aspetto caratteristico dell'uomo moderno. Impossessatosi delle energie del cosmo - il "fuoco" - l'essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il Creatore dell'universo. L'uomo non vuole più essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto. Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di Lui si è costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre. Nelle mani di un uomo così, il "fuoco" e le sue enormi potenzialità diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l'umanità stessa, come dimostra purtroppo la storia. A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l'energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite.
Si potrebbero in verità trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realtà di ogni giorno. La Sacra Scrittura ci rivela che l'energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l'azione dello "spirito di Dio che aleggiava sulle acque" (Gn 1,2) all'inizio della creazione. E Gesù Cristo ha "portato sulla terra" non la forza vitale, che già vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioè l'amore di Dio che "rinnova la faccia della terra" purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte (cfr Sal 103/104,29-30). Questo "fuoco" puro, essenziale e personale, il fuoco dell'amore, è disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell'opera rinnovatrice di Cristo.
Infine, un ultimo pensiero si ricava ancora dal racconto degli Atti degli Apostoli: lo Spirito Santo vince la paura. Sappiamo come i discepoli si erano rifugiati nel Cenacolo dopo l'arresto del loro Maestro e vi erano rimasti segregati per timore di subire la sua stessa sorte. Dopo la risurrezione di Gesù questa loro paura non scomparve all'improvviso. Ma ecco che a Pentecoste, quando lo Spirito Santo si posò su di loro, quegli uomini uscirono fuori senza timore e incominciarono ad annunciare a tutti la buona notizia di Cristo crocifisso e risorto. Non avevano alcun timore, perché si sentivano nelle mani del più forte. Sì, cari fratelli e sorelle, lo Spirito di Dio, dove entra, scaccia la paura; ci fa conoscere e sentire che siamo nelle mani di una Onnipotenza d'amore: qualunque cosa accada, il suo amore infinito non ci abbandona. Lo dimostra la testimonianza dei martiri, il coraggio dei confessori della fede, l'intrepido slancio dei missionari, la franchezza dei predicatori, l'esempio di tutti i santi, alcuni persino adolescenti e bambini. Lo dimostra l'esistenza stessa della Chiesa che, malgrado i limiti e le colpe degli uomini, continua ad attraversare l'oceano della storia, sospinta dal soffio di Dio e animata dal suo fuoco purificatore. Con questa fede e questa gioiosa speranza ripetiamo oggi, per intercessione di Maria: "Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra!".
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Contro l'emergenza educativa servono “testimoni credibili” - Afferma il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
ROMA, lunedì, 1° giugno 2009 (ZENIT.org).- L'emergenza educativa va affrontata attraverso una testimonianza credibile e fornendo modelli coerenti, per questo gli educatori devono essere “persone vive, adulte, mature, appassionate”.
E' quanto ha affermato il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in una intervista a “L'Osservatore Romano” in cui ha affrontato alcune urgenze del Paese, esaminate e discusse nel corso della 59a Assemblea generale dei Vescovi italiani conclusasi di recente.
Nella sua prolusione il porporato aveva citato Romano Guardini per dire che “la luce si accende solamente con la luce”, perché “il tema della formazione permanente riguarda anche gli educatori ed è, senza dubbio, un tema sempre attuale. Tanto più che in un processo educativo c'è sempre, come sappiamo, un'interazione fra il discepolo e il maestro”.
Infatti, ciò che è visibile al giorno d'oggi è “quanto sia ancor più necessario riapprofondire la cultura cattolica da parte dell'intera comunità cristiana”.
L'emergenza educativa, ha sottolineato nell'intervista, “provoca anzitutto noi adulti [...] che dobbiamo essere testimoni credibili. Quindi punti di riferimento, modelli credibili ai quali i giovani possano guardare con fiducia e con attrattiva”.
“Il problema fondamentale dei giovani sono gli adulti, siamo noi – ha ribadito –. Perché io ritengo che nei giovani ci sia un animo, un cuore che cerca ideali grandi per rispondere alla propria vita con generosità e anche con sacrificio”.
A questo proposito, il Cardinale ha evidenziato la necessità di avere “criteri educativi chiari, solidi, che vadano anche controcorrente se necessario, contro le mode dominanti, che partano da una antropologia completa che per noi cristiani si radica nella persona di Gesù Cristo”.
“Da qui bisogna partire per avere il coraggio, la fiducia, la speranza di poter educare le giovani generazioni che sono portatrici di questa domanda interiore”, ha detto.
“È possibile educare, non dobbiamo arrenderci, perché sono i giovani stessi a chiedere questo aiuto a noi adulti”, ha continuato.
Infatti, “in una cultura fortemente segnata dal relativismo e dall'individualismo, si vive dentro un'atmosfera dove l'unità della persona si è smarrita”, e dove “un disagio profondo [...] non tarda a produrre fatti molto gravi e deprecabili, quali ci riporta la cronaca”.
“È un disagio che nasce dal vivere in una società e in una cultura molto liquida, friabile, dove non c'è nulla di solido su cui poggiare e costruire l'edificio umano”, ha spiegato il Cardinale Bagnasco.
“Questo clima culturale interpella il mondo degli adulti, chi ha responsabilità educative, e spinge a prendere sul serio questa urgenza”, ha detto infine.
Benedetto XVI ai bambini: “pregare può cambiare il mondo” - Riceve in udienza i membri dell'Opera per l'Infanzia Missionaria
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 1° giugno 2009 (ZENIT.org).- “Pregare può cambiare il mondo”. E' questo il messaggio che Benedetto XVI ha voluto lasciare questo sabato ricevendo in udienza i bambini dell'Opera per l'Infanzia Missionaria.
“La preghiera è una realtà: Dio ci ascolta e, quando preghiamo, Dio entra nella nostra vita, diventa presente tra di noi, operante – ha spiegato –. Pregare è una cosa molto importante, che può cambiare il mondo, perché rende presente la forza di Dio”.
Per questo, ha chiesto di “cominciare la giornata con una piccola preghiera e poi anche finire il giorno con una piccola preghiera”, “pregare prima del pranzo, prima della cena, e in occasione della comune celebrazione della domenica”.
“Una domenica senza la Messa, la grande preghiera comune della Chiesa, non è una vera domenica: manca proprio il cuore della domenica e così anche la luce per la settimana”, ha osservato.
Allo stesso modo, ha chiesto ai bambini di “insegnare agli altri a pregare: pregare con loro e così introdurre gli altri nella comunione con Dio”.
Accanto alla preghiera, ha sottolineato l'importanza di “ascoltare, cioè imparare realmente che cosa ci dice Gesù”, e di “conoscere la Sacra Scrittura, la Bibbia”, perché nella storia di Gesù “impariamo come è Dio”.
Il Papa ha quindi ricordato che “è importante conoscere Gesù profondamente, personalmente”, perché Egli “tramite la nostra vita, entra nel mondo”, e che bisogna condividere. “Se vediamo un altro che forse ha bisogno, che è meno dotato, dobbiamo aiutarlo e così rendere presente l'amore di Dio senza grandi parole, nel nostro personale piccolo mondo, che fa parte del grande mondo”.
In questo modo, ha constatato, “diventiamo insieme una famiglia, dove uno ha rispetto per l'altro: sopportare l'altro nella sua alterità, accettare proprio anche gli antipatici, non lasciare che uno sia marginalizzato, ma aiutarlo a inserirsi nella comunità. Tutto questo vuol dire semplicemente vivere in questa grande famiglia della Chiesa, in questa grande famiglia missionaria”.
Riconoscendo che “qualche volta nella vita umana sembra inevitabile litigare”, il Papa ha dichiarato che “importante resta, comunque, l'arte di riconciliarsi, il perdono, il ricominciare di nuovo e non lasciare amarezza nell'anima”.
“Nonostante le nostre debolezze ci accettiamo e con Gesù Cristo, con la Chiesa troviamo insieme la strada della pace e impariamo a vivere bene”.
A una bambina che gli ha chiesto se avrebbe mai pensato di diventare Papa, Benedetto XVI ha infine risposto di no: “Sono stato un ragazzo abbastanza ingenuo in un piccolo paese molto lontano dai centri, nella provincia dimenticata. Eravamo felici di essere in questa provincia e non pensavamo ad altre cose”.
“Naturalmente abbiamo conosciuto, venerato e amato il Papa – era Pio XI – ma per noi era a un'altezza irraggiungibile, un altro mondo quasi: un nostro padre, ma tuttavia una realtà molto superiore a tutti noi”.
“Ancora oggi ho difficoltà a capire come il Signore abbia potuto pensare a me, destinare me a questo ministero – ha confessato –. Ma lo accetto dalle sue mani, anche se è una cosa sorprendente e mi sembra molto oltre le mie forze. Ma il Signore mi aiuta”.
Pentecoste sul Monte Athos - Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo - di Sandro Magister
MONTE ATHOS – Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell'Athos. Perchè lì sono cose d'altri tempi. Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo. Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole. E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l'Athos più vive e più palpita. Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio. Non è per tutti. Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani. L'ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa. Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata. A nulla le valse d'esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli. Entrata in un monastero dell'Athos, un'icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna. Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna. Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS
Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo. Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all'ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi. La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia. Il quale è sempre severo nel tutelare l'extraterritorialità dell'Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d'un lasciapassare. Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo. E pochissimi sono i visti d'ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine. Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d'imbarco. Perché nell'Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo. Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo. Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell'Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS
A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d'incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell'autobus e una trattoria. C'è anche un telefono pubblico, che ha tutta l'aria d'essere il primo e l'ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti. Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti. Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz'ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao. Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori. Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo. L'Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c'è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l'uno e l'altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d'obbligo.
GRANDE LAVRA
Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso. La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna. Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto. Ricompare come l'angelo dell'Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz'ora, ristorandovi con un bicchier d'acqua fresca, un bicchierino di liquor d'anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato. È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti. Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l'asciugamano. Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare. I monasteri dell'Athos non sono come quelli d'Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva. Sull'Athos c'è di tutto e per tutti. C'è l'eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta. Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna. Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti. Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno. Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po' a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi. Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini. Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale. Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese. Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s'avviano al katholikón, la chiesa centrale. Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella. Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche. Al vespero accorre impaziente. Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno. Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C'è profumo d'Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra. C'è aroma di cipresso e d'incenso, fragranza di cera d'api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime. Perchè i monaci dell'Athos non patiscono il tempo. Vi parlano dei loro santi, di quel sant'Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell'anno 1000 ma appena ieri, come se l'avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza. Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d'oro e d'argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo. La luce del tramonto li accende, li fa vibrare. E s'accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell'iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch'esso l'architettura di una chiesa ed è anch'esso tutto affrescato dal grande Teofane. È la stessa liturgia che continua. L'igúmeno prende posto al centro dell'abside. Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi. Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria. Anche l'uscita avviene in processione. Un monaco porge a ciascuno del pane santificato. Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI
Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi. Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane. Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio. E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall'Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato. E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente. Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell'Athos. Ma poi è venuta la sferza purificatrice d'un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica. Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti. Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l'aristocrazia dell'Athos. Dice solenne l'igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: "L'Athos è unico. È il solo Stato monastico al mondo". Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev'essere sublime. Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero. Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste. Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell'Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un'iconostasi fulgentissima d'ori e d'icone. Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose. Sembra volare, come le note.
E poi le luci. C'è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa. Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch'esso parte del rito. In ogni katholikón dell'Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione. Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all'iconostasi che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c'è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse. Almeno un'ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi. Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l'onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell'Athos. Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d'iniziare a simili misteri e d'infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d'oggi. All'Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d'umanizzare Dio, le Chiese d'Occidente lo fanno sparire. "Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale", sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu. "Un Dio che non deifichi l'uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno. È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell'ondata di ateismo in Occidente".
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell'altro monastero di Ivíron: "In Occidente comanda l'azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla. Rispondo: cosa fa l'embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio. È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora. Siamo nel cuore della comunione dei santi".
SIMONOS PETRA
Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita. Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell'Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio. Eliseo, l'igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia. Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano. Ma giudica la Chiesa occidentale troppo "prigioniera di un sistema", troppo "istituzionale".
L'Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici. All'Athos "il logos si sposa alla praxis", la parola ai fatti. "Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà. Vivere il Vangelo in modo perfetto. Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo. Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci".
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell'Athos. Ha dato vita a un monastero per monache, un'ottantina, nel cuore della penisola Calcidica. Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria. E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia. È un monastero colto, dotato d'una ricca biblioteca. A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne. Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche. Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato. A Dafne si risale sul traghetto. Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani. La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un'apparizione. Con la folgorante bellezza d'una Nike di Samotracia.
Il mistero che guida l'incontro tra l'uomo e la donna - Affidati l'uno all'altra per riconoscersi in un solo Volto - La relazione del cardinale patriarca di Venezia nel pomeriggio di martedì 2 giugno ha chiuso a Vicenza la quinta edizione del Festival Biblico intitolato "I volti delle Scritture". Pubblichiamo quasi integralmente il suo intervento. - di Angelo Scola – L’Osservatore Romano, 3 giugno 2009
"Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell'uomo in una giovane donna" (Proverbi, 30, 18-19). Con potenti immagini l'autore del Libro dei Proverbi esprime la meraviglia carica di ontologico timore dell'uomo, creatura finita, di fronte all'infinito da cui pure è attratto. La coscienza della propria strutturale sproporzione a comprendere il senso della totalità del reale è certo la cifra della sua piccolezza, ma anche della sua grandezza. L'ampiezza del cielo in cui l'aquila vola indica la possibilità di uno sguardo senza confini. La solidità della roccia fa sì che il serpente possa attraversarla ma non sgretolarla: il male non riesce a conquistare definitivamente la vita. La profondità del mare sostiene il viaggio dell'uomo nella vita. Ma più enigmatica ancora di tale ampiezza, solidità e profondità, è "la via dell'uomo in una giovane donna". L'icastica bellezza di quest'ultima affermazione ci introduce di schianto nel tema di questa sera. L'uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita. Molto acuto è il commento che ci propone Paul Beauchamp, uno dei più importanti esegeti del nostro tempo: "L'enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi, è la "strada dell'uomo attraverso la donna" (Proverbi, 30, 18 e seguenti), ossia è ciò che fa passare l'uomo attraverso l'immagine di colei che sta al suo inizio e lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell'incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo" (L'uno e l'altro Testamento, Brescia 1985). Beauchamp richiama un tratto costitutivo dell'esperienza elementare di ogni uomo, a cui le Scritture rendono testimonianza, svelandone anche la ragion d'essere: nell'incontro tra l'uomo e la donna accade "un ricominciamento e qualcosa di nuovo". Il nuovo è possibile perché l'incontro amoroso pone inevitabilmente all'uomo la domanda ontologica sulla propria origine. Potremmo dirla così: chi sono "io" che incontrando "te" incontro me stesso? Questa novità avviene perché la donna dice l'alterità ultimamente da me inafferrabile, quell'alterità che mi "sposta" (dif-ferenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Così la donna, ponendosi, mi impone, attraverso il suo volto amante, di ricominciare. Nella sorpresa davanti al volto della donna, misteriosa eppure familiare "alterità", è donato all'uomo il proprio volto, cioè la propria irriducibile "identità". Il volto biblico dell'uomo/donna dice a un tempo identità ed alterità. Fin dal principio la donna è posta davanti all'uomo (e viceversa) come un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure profondamente corrispondente a sé. L'uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l'essere umano, fin nell'ultima sua particella: il corpo dell'uomo, infatti, è in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile. La differenza sessuale svela che l'alterità è una dimensione interna alla persona stessa, che ne segna la strutturale insufficienza, aprendola in tal modo al "fuori di sé". E così l'"altro" è per me tanto inaccessibile - mi resta sempre altro - quanto necessario. L'uomo/donna rappresenta uno dei luoghi originari in cui ognuno di noi fa l'esperienza della propria dipendenza e della conseguente capacità di relazione. Come, con impareggiabile intensità, recita il Cantico dei Cantici: "Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!" (4, 9). Il disegno originario di Dio nel crearci sempre e solo come maschi o come femmine (Mulieris dignitatem, 1) vuol educarci a capire il peso dell'"io" e il peso dell'"altro". La differenza sessuale si rivela così come una grande scuola. Si tratta di imparare l'"io" attraverso l'"altro" e l'"altro" attraverso l'"io". Il bisogno/desiderio dell'"altro" che, a partire dall'uomo/donna, come uomo e come donna, ogni persona sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l'eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine. E in questo modo "la via dell'uomo in una giovane donna", la via della differenza sessuale, dell'amore per sempre, dell'apertura alla vita appare come via privilegiata di accesso a Dio, come una strada a tutti possibile per intuire che all'origine della nostra esistenza c'è un Mistero buono che ci chiama a Sé. La Scrittura insiste sulla possibilità dell'uomo di risalire dalla contemplazione del creato all'affermazione del Creatore: "Se affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza" (Sapienza, 13, 3). Sul volto pieno di attrattiva della donna risplende il Volto di Colui che l'ha creata e condotta verso l'uomo. Per ogni uomo e per ogni donna l'esperienza dell'amore è via di accesso al riconoscimento di Dio. Proprio per questa sua necessaria ma enigmatica profondità l'esperienza dell'amore non è esente dalla più grande tentazione che minaccia l'uomo: quella dell'idolatria. L'ingiunzione di Dio al suo popolo nel deserto - "Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra" (Esodo, 20, 3-4) - è rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna perché non si arresti al volto dell'amato/a, ma in esso renda gloria a Colui che gli ha donato un/a compagno/a di cammino. Siamo tutti ben consapevoli di cosa succede quando nell'esperienza dell'amore si confonde l'altro con Dio. Quando cioè ci si aspetta - addirittura si pretende - dall'altro tutto, cioè il compimento della propria vita. Delusione e scetticismo fino alla violenza prendono il posto prima occupato dallo stupore e dalla gratitudine. Con potente lucidità lo descrive il Libro del Siracide: "Speranze vane e fallaci sono quelle dello stolto, e i sogni danno le ali a chi è privo di senno. Come uno che afferra le ombre e insegue il vento, così è per chi si appoggia sui sogni. Una cosa di fronte all'altra: tale è la visione dei sogni, di fronte a un volto l'immagine di un volto" (34, 1-3). Negata la natura di segno del volto dell'amata, la consistenza di tale volto sfuma e non resta altro che la sua pallida "immagine". Ma un'immagine non basta a soddisfare la nostra sete profonda. Il desiderio si spegne nella malinconia o facilmente si dissolve sulla superficie di uno specchio che non ci rimanda altro che il nostro volto. Abbiamo bisogno di una presenza che ci insegni ad amare, a imparare la strada dell'"altro/altra" quale cammino concreto e possibile verso l'Altro alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati. Ma a questo bisogno non possiamo rispondere con le nostre forze. Dio stesso ha voluto mostrarci la via, o meglio ha mandato Suo Figlio tra noi come Via alla verità e alla vita. Numerose sono le occasioni in cui i vangeli ci presentano Gesù Cristo, il nuovo Adamo, che incontra e si coinvolge con donne di diversa età e condizione sociale, svelandoci in tal modo il volto pieno dell'uomo/donna. E sempre lo sguardo che Egli - in netta antitesi con i costumi del suo tempo - porta alla figura femminile è uno sguardo integrale che ne afferma la assoluta dignità e la singolare vocazione. "L'uomo e la donna - scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem - furono reciprocamente affidati l'uno all'altra come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell'amore" (14). Di tale affidamento, di tale compagnia amorevole nella suprema prova della morte, ci dà, ancora una volta, splendida testimonianza un memorabile passaggio del vangelo di Giovanni: "Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre!"" (19, 26-27). Per questo la Lettera agli Efesini svela il volto biblico dell'uomo/donna inserendo il matrimonio nel "luogo" deputato all'esperienza compiuta del bell'amore: il rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa: "Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito" (Esodo, 5, 32).
(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)
Tra etica e metafisica - Una ricchezza morale chiamata persona - Pubblichiamo parte della lezione tenuta dal direttore della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" della Pontificia Università Lateranense nell'ambito del ciclo di incontri sul teologo di Aquino. - di Mario Pangallo – L’Osservatore Romano, 3 giugno 2009
La deduzione dei trascendentali rappresenta il fondamento ultimo dell'unità tra etica e metafisica, pur nella distinzione tra i due ambiti di realtà e tra le due rispettive discipline. Il fondamento prossimo di tale unità è l'unità tra essere e agire nella persona umana. San Tommaso riconosce con Aristotele la relativa autonomia della disciplina morale: il bene morale è il bene che è oggetto dell'azione, non è il bene sommo, l'idea del bene; l'etica non è semplicemente una metafisica applicata all'azione umana. Tuttavia la prospettiva metafisica tomista accentua notevolmente la subordinazione del pensiero morale al sapere speculativo, della ragion pratica alla ragione teoretica. Si può notare questo nel confronto tra l'Etica nicomachea di Aristotele e il Commento di san Tommaso. Nella parte iniziale di tale commento, l'Aquinate puntualizza che il compito della ragione è di conoscere l'ordine delle cose. Vi sono quattro tipi di ordine e quindi quattro modi attraverso i quali la ragione si mette in relazione con l'ordine. L'ordine ontologico, l'ordine logico, l'ordine morale e l'ordine tecnico-estetico. L'unità nella distinzione di un quadruplice ordine della realtà riflette nell'ambito categoriale l'unità-distinzione degli aspetti trascendentali dell'essere stesso. Si potrebbe anche dire, usando il linguaggio di Benedetto Croce - ma prendendo ovviamente le distanze dalla sua concezione dello Spirito - che vi sia una reciproca implicanza nella differenziazione tra i distinti aspetti attraverso i quali si rivela l'unico ordine (lògos) reale. Rispetto all'ordine ontologico la ragione è "contemplativa", nel senso che guarda la realtà, cercando di capirla. Rispetto all'ordine logico, tecnico-estetico ed etico, la ragione è invece attiva. Per tal motivo secondo san Tommaso l'ordine morale - come quello logico e tecnico - è subordinato all'ordine ontologico. La ragione pratica ha il compito di conoscere quale sia il bene morale e di realizzarlo nella vita concreta. Ora il bene morale è un aspetto del bene trascendentale, che è l'essere stesso in quanto appetibile; e pertanto non vi può essere una totale autonomia della scienza del bene morale rispetto alla scienza dell'ente in quanto ente. Si può affermare che vi sia una coappartenenza trascendentale, logica e ontologica, tra essere e bene, da cui si deduce la subordinazione del bene morale al bene ontologico e quindi la dipendenza dell'etica dalla metafisica. Ma il primato della metafisica sull'etica include la dimensione etica della metafisica. Anzitutto occorre riflettere sull'arricchimento della ratio entis realizzato dal bonum trascendentale, che aggiunge all'ente la relazione di quanto è perfettivo rispetto alla volontà: il bene è perfettivo dell'ente non solo in ordine all'appetibilità che aggiunge ad esso ma anche in ordine all'essere effettivamente "fine". Attraverso il conseguimento del bene morale, l'aspetto perfettivo del bene in ordine all'essere, diventa perfezionamento dell'essere del soggetto spirituale, ovvero della persona umana. La dimensione etica, costitutiva della persona, rappresenta, di conseguenza, un momento fondamentale della metafisica del soggetto spirituale, cioè dell'antropologia metafisica. La persona esprime riferimento al bene morale in quanto è di natura razionale. Ma considerando la natura umana in quanto tale, il riferimento al bene morale è essenziale per la volontà in sé stessa; invece considerando il singolo uomo, la volontà è chiamata a esprimere in modo libero e concreto, nella determinazione di atti buoni, quel riferimento necessario al bene morale che per natura le compete. E così per la persona il riferimento al bene è anche esistenziale; per certi aspetti è soprattutto esistenziale. Sarebbe perciò riduttivo concepire la dimensione personale ed esistenziale dell'etica quasi come una "caduta" di perfezione rispetto all'ordine morale naturale-essenziale. Nella persona l'ordine morale, che è nella natura umana, non solo si perfeziona quando si realizza - viene ad esistere in re e non solo in conceptu - ma anche in quanto, realizzandosi in molti modi, mostra attualmente tutte le potenzialità proprie del bene, dispiegando nella realtà concreta ogni valore per l'uomo. Tale dispiegamento dell'ordine morale grazie alle singole persone avviene secondo gradi di maggiore o minore perfezione: e anche questo consente al bene di splendere, per così dire, nel mondo umano, per il fatto che la comparazione di forme di bene meno perfette con forme di bene più perfette contribuisce alla comprensione della trascendenza del Bene; il Bene non si esaurisce in nessuna forma finita. La stessa legge morale naturale sussiste concretamente nella persona, pur essendo fondata nella natura humana communis. Pertanto si può dire che la persona arricchisce la natura umana nella direzione della moralità; cioè rende la natura umana una natura qualificata come essenzialmente morale. La persona arricchisce la natura umana nella direzione della moralità, non perché essa aumenta la perfezione ontologica della stessa natura, ma perché la persona aggiunge alla natura un perfezionamento della sua qualificazione morale grazie a un proprio atto d'essere, creato direttamente da Dio e quindi costitutivamente relazionato alla Bontà divina. Nella dimensione morale l'essere della persona, rapportandosi al Bene nella coscienza di sé, emerge oltre l'essere degli enti mondani, governato dalla necessità dell'ordine cosmico, e si eleva al livello della libertà; qui si esprimono la nobiltà e la dignità della persona, ma anche la incompiutezza e la precarietà del suo essere individuale, da cui può riscattarsi mediante l'agire morale. In più l'antropologia teologica cristiana insegna che ciò può avvenire soltanto con il necessario aiuto della Grazia divina. In questo senso, squisitamente esistenziale, la dimensione etica della metafisica contribuisce a delineare le grandi prospettive e i limiti della filosofia dell'essere; la conoscenza umana dell'essere, infatti, diventa una conoscenza "amorosa", e quindi tende all'unione con l'Essere supremo, solo nel momento in cui lo assume anche come scopo del vivere, cosicché la persona orienta tutta se stessa all'Essere divino scoperto come Assoluto Bene, da amare assolutamente. In conclusione, si può dire, che riflettere sul bene morale quale aspetto del bene ontologico può significare per la conoscenza metafisica l'approdo ad una teologia filosofica non solo "naturalistica" ma anche "personalistica". Infatti, se il bene morale ha significato in relazione all'essere personale, allora, ultimamente, la pienezza del bene morale ha significato in relazione a un Essere perfettissimo personale, assolutamente libero. Questo significa che nella conoscenza metafisica dell'essere personale, cui contribuisce non poco la conoscenza della verità morale, la filosofia dell'essere trova una via privilegiata per giungere a Dio-Amore sussistente, che è "preambolo" alla fede nel Dio di Gesù Cristo, il Dio che si dona per salvare l'uomo dal male e per rivelargli la pienezza di senso della sua responsabilità e libertà.
(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)
EUROPEE/ 1. Mauro: senza radici culturali avremo solo un mostro giuridico - Mario Mauro - mercoledì 3 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Il 2009 è stato un anno di sfide senza precedenti per l’Europa. Siamo alla vigilia delle elezioni europee del 6 e 7 giugno che rappresentano una tappa fondamentale per il nostro futuro. Tante le sfide che le istituzioni europee saranno chiamate ad affrontare durante la prossima legislatura e altrettanti i nodi ancora irrisolti che chi prenderà in mano le sorti del nostro continente è chiamato a cercare di sciogliere. L’integrazione europea, ad esempio, oggi rappresenta una delle maggiori incognite della nostra società.
Nonostante le battute d’arresto, porzioni non indifferenti di discrezionalità decisionale sono in mano all’Ue, con conseguenti ricadute in molteplici ambiti di rilievo, se non addirittura strategici: etica, economia, mercato, diplomazia, politica monetaria e così via. La crisi del progetto europeo è frutto di un approccio errato al processo di integrazione, di una posizione politica che non vuole partire dalla realtà, dalla domanda «cos’è l’Europa?», emblematica interrogazione sui fondamenti stessi dell’integrazione europea. Benedetto XVI ricorda come i grandi pericoli contemporanei per la convivenza fra gli uomini giungano dal fondamentalismo - la pretesa di prendere Dio come pretesto per un progetto di potere - e dal relativismo, ossia il ritenere che tutte le opinioni siano vere allo stesso modo.
L’involuzione del progetto politico che chiamiamo Unione europea è riconducibile proprio a questi fattori. Il problema dell’Europa nasce dal fatto che il rapporto tra ragione e politica si è sostanzialmente sviato da ciò che è la nozione stessa di verità. Il compromesso, giustamente presentato come senso della stessa vita politica, è oggi concepito fine a sé stesso. È per questo che si è scelto di mettere a fuoco le principali politiche dell’Unione europea utilizzando come filo conduttore le intuizioni dei padri fondatori e la promozione della dignità umana insita nell’esperienza cristiana.
La situazione di empasse in cui l’Europa si muove deve condurre a una profonda riflessione. Al di là della capacità di giungere a un buon accordo sul bilancio, il vecchio continente sta perdendo il proprio orizzonte e la propria dimensione. Dopo l’«era Kohl» l’Europa è stata dominata da politici senza il coraggio necessario per generare il «domani» e senza la forza per mantener fede alla costruzione creata poco più di cinquant’anni prima dai padri fondatori. È comparsa sulla scena una generazione di politici giunta a un’idea di Europa - bocciata poi dai referendum francese e olandese - per cui l’integrazione sempre più stretta è diventata un valore in quanto tale.
Ma, qual è la politica dell’Europa? Qual è il peso reale dell’Europa nel mondo globalizzato? Il problema dell’Europa, oltre che istituzionale, è un problema di definizione delle politiche comunitarie. Sulla base della mia esperienza, ritengo che i cinque nodi su cui si gioca il futuro dell’Europa siano rappresentati dalla crisi demografica, dall’immigrazione, dall’allargamento, dalla strategia di Lisbona e dalla politica estera, che sono poi strettamente collegati da un comune denominatore: l’identità dell’Europa.
Senza aver chiara la sua identità, l’Europa non potrà infatti fare alcun passo in avanti rispetto a queste cinque sfide. Corriamo il rischio che la risposta alla crisi demografica sia puramente ideologica e che privilegi opere di ingegneria sociale. L’Ue non può ignorare il fattore culturale nell’incidenza sui tassi di fertilità, ovvero le convinzioni personali che sostengono l’apertura alla vita. Come potremo gestire e integrare i flussi migratori senza saper proporre un nostro modello culturale di civiltà? Come decidere i criteri per i prossimi allargamenti dell’Ue senza sapere se l’Europa è definita da criteri geografici o culturali? Come pretendere di parlare con una sola voce nel mondo se il pensiero comune pensa che l’Ue sia soltanto la somma di interessi puramente economici? Come implementare le riforme necessarie per lo sviluppo economico se i popoli non ritrovano la fiducia in sé stessi? Occorre una disposizione alla generosità che permetta di superare l’egoismo e generare nuovi figli. Occorre evitare il solito conformismo del «politicamente corretto», per cui basta garantire l’informazione per far fare le scelte giuste.
In realtà, il criterio di scelta si basa sulla concezione della vita: qui entra in gioco la secolarizzazione dell’Europa. Infatti, anche la crisi politica è strettamente connessa con la perdita delle radici cristiane del nostro continente. Robert Schuman era solito dire «l’Europa non potrà farsi una sola volta», l’Ue, infatti, non è un blocco monolitico, ma il risultato delle azioni di uomini e, in quanto tale, per vivere è chiamata a rinnovarsi nel tempo. L’Europa può ripartire dai valori su cui è stata creata, dai buoni risultati finora raggiunti e da una buona dose di realismo.
1) Benedetto XVI: "Lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa" - Intervento in occasione del Regina Caeli nella solennità di Pentecoste
2) Omelia di Benedetto XVI nella solennità di Pentecoste
3) Contro l'emergenza educativa servono “testimoni credibili” - Afferma il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
4) Benedetto XVI ai bambini: “pregare può cambiare il mondo” - Riceve in udienza i membri dell'Opera per l'Infanzia Missionaria
5) Pentecoste sul Monte Athos - Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo - di Sandro Magister
6) Tra etica e metafisica - Una ricchezza morale chiamata persona - Pubblichiamo parte della lezione tenuta dal direttore della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" della Pontificia Università Lateranense nell'ambito del ciclo di incontri sul teologo di Aquino. - di Mario Pangallo – L’Osservatore Romano, 3 giugno 2009
7) EUROPEE/ 1. Mauro: senza radici culturali avremo solo un mostro giuridico - Mario Mauro - mercoledì 3 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI: "Lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa" - Intervento in occasione del Regina Caeli nella solennità di Pentecoste
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 31 maggio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo l'intervento pronunciato da Benedetto XVI questa domenica, solennità di Pentecoste, affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano per recitare il Regina Caeli insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
La Chiesa sparsa nel mondo intero rivive oggi, solennità della Pentecoste, il mistero della propria nascita, del proprio "battesimo" nello Spirito Santo (cfr At 1,5), avvenuto a Gerusalemme cinquanta giorni dopo la Pasqua, appunto nella festa ebraica di Pentecoste. Gesù risorto aveva detto ai discepoli: "Restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,49). Questo avvenne in forma sensibile nel Cenacolo, mentre erano tutti radunati in preghiera con Maria, Vergine Madre. Come leggiamo negli Atti degli Apostoli, all'improvviso quel luogo fu invaso da un vento impetuoso, e lingue come di fuoco si posarono su ciascuno dei presenti. Gli Apostoli uscirono allora e incominciarono a proclamare in diverse lingue che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, morto e risorto (cfr At 2,1-4). Lo Spirito Santo, che con il Padre e il Figlio ha creato l'universo, che ha guidato la storia del popolo d'Israele e ha parlato per mezzo dei profeti, che nella pienezza dei tempi ha cooperato alla nostra redenzione, a Pentecoste è disceso sulla Chiesa nascente e l'ha resa missionaria, inviandola ad annunciare a tutti i popoli la vittoria dell'amore divino sul peccato e sulla morte.
Lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa. Senza di Lui a che cosa essa si ridurrebbe? Sarebbe certamente un grande movimento storico, una complessa e solida istituzione sociale, forse una sorta di agenzia umanitaria. Ed in verità è così che la ritengono quanti la considerano al di fuori di un'ottica di fede. In realtà, però, nella sua vera natura e anche nella sua più autentica presenza storica, la Chiesa è incessantemente plasmata e guidata dallo Spirito del suo Signore. E' un corpo vivo, la cui vitalità è appunto frutto dell'invisibile Spirito divino.
Cari amici, quest'anno la solennità di Pentecoste cade nell'ultimo giorno del mese di maggio, in cui abitualmente si celebra la bella festa mariana della Visitazione. Questo fatto ci invita a lasciarci ispirare e come istruire dalla Vergine Maria, la quale fu protagonista di entrambi gli eventi. A Nazaret, Ella ricevette l'annuncio della sua singolare maternità, e, subito dopo aver concepito Gesù per opera dello Spirito Santo, dallo stesso Spirito d'amore fu spinta ad andare in aiuto dell'anziana parente Elisabetta, giunta al sesto mese di una gravidanza pure prodigiosa. La giovane Maria, che porta in grembo Gesù e, dimentica di sé, accorre in aiuto del prossimo, è icona stupenda della Chiesa nella perenne giovinezza dello Spirito, della Chiesa missionaria del Verbo incarnato, chiamata a portarlo al mondo e a testimoniarlo specialmente nel servizio della carità. Invochiamo pertanto l'intercessione di Maria Santissima, perché ottenga alla Chiesa del nostro tempo di essere potentemente rafforzata dallo Spirito Santo. In modo particolare, sentano la presenza confortatrice del Paraclito le comunità ecclesiali che soffrono persecuzione per il nome di Cristo, perché, partecipando alle sue sofferenze, ricevano in abbondanza lo Spirito della gloria (cfr 1 Pt 4,13-14).
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
In questi giorni, i giovani dell'Abruzzo si stanno raccogliendo numerosi intorno alla Croce delle Giornate Mondiali della Gioventù, portata in pellegrinaggio nella loro regione da un gruppo di volontari inviati dal Centro internazionale giovanile San Lorenzo di Roma. In comunione con i giovani di quella terra duramente colpita dal terremoto, chiediamo a Cristo morto e risorto di effondere su di loro il suo Spirito di consolazione e di speranza. Estendo il mio saluto a tutti i giovani italiani che oggi, nelle rispettive diocesi, si ritrovano per concludere con i loro Vescovi il triennio dell'Agorà. Ricordo con gioia gli indimenticabili eventi che hanno segnato questo triennio: l'incontro a Loreto, nel settembre 2007, e la Giornata Mondiale a Sydney, nel luglio scorso. Cari giovani italiani, con la forza dello Spirito Santo, siate testimoni del Signore risorto!
E infine saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Vigevano, Valgoglio, Milano e Ponsacco; le Suore della Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, i ragazzi di Osilo e quelli di Cividino Quintano; il gruppo ciclistico AVIS-AIDO di Grumello del Monte, con le Suore delle Poverelle e le ragazze dell'Istituto Palazzolo. Un saluto speciale rivolgo ai bambini della Prima Comunione di Bagno de L'Aquila, dove, dopo il terremoto, si celebra la Messa in una tenda. Nell'odierna Giornata Nazionale del Sollievo, assicuro un particolare ricordo nella preghiera ai malati più gravi, ai loro familiari e a quanti con amore stanno loro vicino. A tutti auguro una buona domenica, nella luce e nella pace dello Spirito Santo.
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Omelia di Benedetto XVI nella solennità di Pentecoste
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 31 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI in questa Domenica di Pentecoste presiedendo la Santa Messa della solennità nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, viviamo nella fede il mistero che si compie sull'altare, partecipiamo cioè al supremo atto di amore che Cristo ha realizzato con la sua morte e risurrezione. L'unico e medesimo centro della liturgia e della vita cristiana - il mistero pasquale - assume poi, nelle diverse solennità e feste, "forme" specifiche, con ulteriori significati e con particolari doni di grazia. Tra tutte le solennità, la Pentecoste si distingue per importanza, perché in essa si attua quello che Gesù stesso aveva annunciato essere lo scopo di tutta la sua missione sulla terra. Mentre infatti saliva a Gerusalemme, aveva dichiarato ai discepoli: "Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!" (Lc 12,49). Queste parole trovano la loro più evidente realizzazione cinquanta giorni dopo la risurrezione, nella Pentecoste, antica festa ebraica che nella Chiesa è diventata la festa per eccellenza dello Spirito Santo: "Apparvero loro lingue come di fuoco... e tutti furono colmati di Spirito Santo" (At 2,3-4). Il vero fuoco, lo Spirito Santo, è stato portato sulla terra da Cristo. Egli non lo ha strappato agli dèi, come fece Prometeo, secondo il mito greco, ma si è fatto mediatore del "dono di Dio" ottenendolo per noi con il più grande atto d'amore della storia: la sua morte in croce.
Dio vuole continuare a donare questo "fuoco" ad ogni generazione umana, e naturalmente è libero di farlo come e quando vuole. Egli è spirito, e lo spirito "soffia dove vuole" (cfr Gv 3,8). C'è però una "via normale" che Dio stesso ha scelto per "gettare il fuoco sulla terra": questa via è Gesù, il suo Figlio Unigenito incarnato, morto e risorto. A sua volta, Gesù Cristo ha costituito la Chiesa quale suo Corpo mistico, perché ne prolunghi la missione nella storia. "Ricevete lo Spirito Santo" - disse il Signore agli Apostoli la sera della risurrezione, accompagnando quelle parole con un gesto espressivo: "soffiò" su di loro (cfr Gv 20,22). Manifestò così che trasmetteva ad essi il suo Spirito, lo Spirito del Padre e del Figlio. Ora, cari fratelli e sorelle, nell'odierna solennità la Scrittura ci dice ancora una volta come dev'essere la comunità, come dobbiamo essere noi per ricevere il dono dello Spirito Santo. Nel racconto, che descrive l'evento di Pentecoste, l'Autore sacro ricorda che i discepoli "si trovavano tutti insieme nello stesso luogo". Questo "luogo" è il Cenacolo, la "stanza al piano superiore" dove Gesù aveva fatto con i suoi Apostoli l'Ultima Cena, dove era apparso loro risorto; quella stanza che era diventata per così dire la "sede" della Chiesa nascente (cfr At 1,13). Gli Atti degli Apostoli tuttavia, più che insistere sul luogo fisico, intendono rimarcare l'atteggiamento interiore dei discepoli: "Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera" (At 1,14). Dunque, la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo; e presupposto della concordia è la preghiera.
Questo, cari fratelli e sorelle, vale anche per la Chiesa di oggi, vale per noi, che siamo qui riuniti. Se vogliamo che la Pentecoste non si riduca ad un semplice rito o ad una pur suggestiva commemorazione, ma sia evento attuale di salvezza, dobbiamo predisporci in religiosa attesa del dono di Dio mediante l'umile e silenzioso ascolto della sua Parola. Perché la Pentecoste si rinnovi nel nostro tempo, bisogna forse - senza nulla togliere alla libertà di Dio - che la Chiesa sia meno "affannata" per le attività e più dedita alla preghiera. Ce lo insegna la Madre della Chiesa, Maria Santissima, Sposa dello Spirito Santo. Quest'anno la Pentecoste ricorre proprio nell'ultimo giorno di maggio, in cui si celebra solitamente la festa della Visitazione. Anche quella fu una sorta di piccola "pentecoste", che fece sgorgare la gioia e la lode dai cuori di Elisabetta e di Maria, una sterile e l'altra vergine, divenute entrambe madri per straordinario intervento divino (cfr Lc 1,41-45). La musica e il canto, che accompagnano questa nostra liturgia, ci aiutano anch'essi ad essere concordi nella preghiera, e per questo esprimo viva riconoscenza al Coro del Duomo e alla Kammerorchester di Colonia. Per questa liturgia, nel bicentenario della morte di Joseph Haydn, è stata infatti scelta molto opportunamente la sua Harmoniemesse, l'ultima delle "Messe" composte dal grande musicista, una sublime sinfonia per la gloria di Dio. A voi tutti convenuti per questa circostanza rivolgo il mio più cordiale saluto.
Per indicare lo Spirito Santo, nel racconto della Pentecoste gli Atti degli Apostoli utilizzano due grandi immagini: l'immagine della tempesta e quella del fuoco. Chiaramente san Luca ha in mente la teofania del Sinai, raccontata nei libri dell'Esodo (19,16-19) e del Deuteronomio (4,10-12.36). Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l'uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta è descritta come "vento impetuoso", e questo fa pensare all'aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso. Quello che l'aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l'ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l'esistenza spirituale. Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell'aria - e per questo l'impegno ecologico rappresenta oggi una priorità -, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito. Sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre società - ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l'uomo e la donna - a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l'animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà. La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l'aria salubre dello spirito che è l'amore!
L'altra immagine dello Spirito Santo che troviamo negli Atti degli Apostoli è il fuoco. Accennavo all'inizio al confronto tra Gesù e la figura mitologica di Prometeo, che richiama un aspetto caratteristico dell'uomo moderno. Impossessatosi delle energie del cosmo - il "fuoco" - l'essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il Creatore dell'universo. L'uomo non vuole più essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto. Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di Lui si è costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre. Nelle mani di un uomo così, il "fuoco" e le sue enormi potenzialità diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l'umanità stessa, come dimostra purtroppo la storia. A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l'energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite.
Si potrebbero in verità trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realtà di ogni giorno. La Sacra Scrittura ci rivela che l'energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l'azione dello "spirito di Dio che aleggiava sulle acque" (Gn 1,2) all'inizio della creazione. E Gesù Cristo ha "portato sulla terra" non la forza vitale, che già vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioè l'amore di Dio che "rinnova la faccia della terra" purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte (cfr Sal 103/104,29-30). Questo "fuoco" puro, essenziale e personale, il fuoco dell'amore, è disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell'opera rinnovatrice di Cristo.
Infine, un ultimo pensiero si ricava ancora dal racconto degli Atti degli Apostoli: lo Spirito Santo vince la paura. Sappiamo come i discepoli si erano rifugiati nel Cenacolo dopo l'arresto del loro Maestro e vi erano rimasti segregati per timore di subire la sua stessa sorte. Dopo la risurrezione di Gesù questa loro paura non scomparve all'improvviso. Ma ecco che a Pentecoste, quando lo Spirito Santo si posò su di loro, quegli uomini uscirono fuori senza timore e incominciarono ad annunciare a tutti la buona notizia di Cristo crocifisso e risorto. Non avevano alcun timore, perché si sentivano nelle mani del più forte. Sì, cari fratelli e sorelle, lo Spirito di Dio, dove entra, scaccia la paura; ci fa conoscere e sentire che siamo nelle mani di una Onnipotenza d'amore: qualunque cosa accada, il suo amore infinito non ci abbandona. Lo dimostra la testimonianza dei martiri, il coraggio dei confessori della fede, l'intrepido slancio dei missionari, la franchezza dei predicatori, l'esempio di tutti i santi, alcuni persino adolescenti e bambini. Lo dimostra l'esistenza stessa della Chiesa che, malgrado i limiti e le colpe degli uomini, continua ad attraversare l'oceano della storia, sospinta dal soffio di Dio e animata dal suo fuoco purificatore. Con questa fede e questa gioiosa speranza ripetiamo oggi, per intercessione di Maria: "Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra!".
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Contro l'emergenza educativa servono “testimoni credibili” - Afferma il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
ROMA, lunedì, 1° giugno 2009 (ZENIT.org).- L'emergenza educativa va affrontata attraverso una testimonianza credibile e fornendo modelli coerenti, per questo gli educatori devono essere “persone vive, adulte, mature, appassionate”.
E' quanto ha affermato il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in una intervista a “L'Osservatore Romano” in cui ha affrontato alcune urgenze del Paese, esaminate e discusse nel corso della 59a Assemblea generale dei Vescovi italiani conclusasi di recente.
Nella sua prolusione il porporato aveva citato Romano Guardini per dire che “la luce si accende solamente con la luce”, perché “il tema della formazione permanente riguarda anche gli educatori ed è, senza dubbio, un tema sempre attuale. Tanto più che in un processo educativo c'è sempre, come sappiamo, un'interazione fra il discepolo e il maestro”.
Infatti, ciò che è visibile al giorno d'oggi è “quanto sia ancor più necessario riapprofondire la cultura cattolica da parte dell'intera comunità cristiana”.
L'emergenza educativa, ha sottolineato nell'intervista, “provoca anzitutto noi adulti [...] che dobbiamo essere testimoni credibili. Quindi punti di riferimento, modelli credibili ai quali i giovani possano guardare con fiducia e con attrattiva”.
“Il problema fondamentale dei giovani sono gli adulti, siamo noi – ha ribadito –. Perché io ritengo che nei giovani ci sia un animo, un cuore che cerca ideali grandi per rispondere alla propria vita con generosità e anche con sacrificio”.
A questo proposito, il Cardinale ha evidenziato la necessità di avere “criteri educativi chiari, solidi, che vadano anche controcorrente se necessario, contro le mode dominanti, che partano da una antropologia completa che per noi cristiani si radica nella persona di Gesù Cristo”.
“Da qui bisogna partire per avere il coraggio, la fiducia, la speranza di poter educare le giovani generazioni che sono portatrici di questa domanda interiore”, ha detto.
“È possibile educare, non dobbiamo arrenderci, perché sono i giovani stessi a chiedere questo aiuto a noi adulti”, ha continuato.
Infatti, “in una cultura fortemente segnata dal relativismo e dall'individualismo, si vive dentro un'atmosfera dove l'unità della persona si è smarrita”, e dove “un disagio profondo [...] non tarda a produrre fatti molto gravi e deprecabili, quali ci riporta la cronaca”.
“È un disagio che nasce dal vivere in una società e in una cultura molto liquida, friabile, dove non c'è nulla di solido su cui poggiare e costruire l'edificio umano”, ha spiegato il Cardinale Bagnasco.
“Questo clima culturale interpella il mondo degli adulti, chi ha responsabilità educative, e spinge a prendere sul serio questa urgenza”, ha detto infine.
Benedetto XVI ai bambini: “pregare può cambiare il mondo” - Riceve in udienza i membri dell'Opera per l'Infanzia Missionaria
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 1° giugno 2009 (ZENIT.org).- “Pregare può cambiare il mondo”. E' questo il messaggio che Benedetto XVI ha voluto lasciare questo sabato ricevendo in udienza i bambini dell'Opera per l'Infanzia Missionaria.
“La preghiera è una realtà: Dio ci ascolta e, quando preghiamo, Dio entra nella nostra vita, diventa presente tra di noi, operante – ha spiegato –. Pregare è una cosa molto importante, che può cambiare il mondo, perché rende presente la forza di Dio”.
Per questo, ha chiesto di “cominciare la giornata con una piccola preghiera e poi anche finire il giorno con una piccola preghiera”, “pregare prima del pranzo, prima della cena, e in occasione della comune celebrazione della domenica”.
“Una domenica senza la Messa, la grande preghiera comune della Chiesa, non è una vera domenica: manca proprio il cuore della domenica e così anche la luce per la settimana”, ha osservato.
Allo stesso modo, ha chiesto ai bambini di “insegnare agli altri a pregare: pregare con loro e così introdurre gli altri nella comunione con Dio”.
Accanto alla preghiera, ha sottolineato l'importanza di “ascoltare, cioè imparare realmente che cosa ci dice Gesù”, e di “conoscere la Sacra Scrittura, la Bibbia”, perché nella storia di Gesù “impariamo come è Dio”.
Il Papa ha quindi ricordato che “è importante conoscere Gesù profondamente, personalmente”, perché Egli “tramite la nostra vita, entra nel mondo”, e che bisogna condividere. “Se vediamo un altro che forse ha bisogno, che è meno dotato, dobbiamo aiutarlo e così rendere presente l'amore di Dio senza grandi parole, nel nostro personale piccolo mondo, che fa parte del grande mondo”.
In questo modo, ha constatato, “diventiamo insieme una famiglia, dove uno ha rispetto per l'altro: sopportare l'altro nella sua alterità, accettare proprio anche gli antipatici, non lasciare che uno sia marginalizzato, ma aiutarlo a inserirsi nella comunità. Tutto questo vuol dire semplicemente vivere in questa grande famiglia della Chiesa, in questa grande famiglia missionaria”.
Riconoscendo che “qualche volta nella vita umana sembra inevitabile litigare”, il Papa ha dichiarato che “importante resta, comunque, l'arte di riconciliarsi, il perdono, il ricominciare di nuovo e non lasciare amarezza nell'anima”.
“Nonostante le nostre debolezze ci accettiamo e con Gesù Cristo, con la Chiesa troviamo insieme la strada della pace e impariamo a vivere bene”.
A una bambina che gli ha chiesto se avrebbe mai pensato di diventare Papa, Benedetto XVI ha infine risposto di no: “Sono stato un ragazzo abbastanza ingenuo in un piccolo paese molto lontano dai centri, nella provincia dimenticata. Eravamo felici di essere in questa provincia e non pensavamo ad altre cose”.
“Naturalmente abbiamo conosciuto, venerato e amato il Papa – era Pio XI – ma per noi era a un'altezza irraggiungibile, un altro mondo quasi: un nostro padre, ma tuttavia una realtà molto superiore a tutti noi”.
“Ancora oggi ho difficoltà a capire come il Signore abbia potuto pensare a me, destinare me a questo ministero – ha confessato –. Ma lo accetto dalle sue mani, anche se è una cosa sorprendente e mi sembra molto oltre le mie forze. Ma il Signore mi aiuta”.
Pentecoste sul Monte Athos - Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo - di Sandro Magister
MONTE ATHOS – Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell'Athos. Perchè lì sono cose d'altri tempi. Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo. Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole. E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l'Athos più vive e più palpita. Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio. Non è per tutti. Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani. L'ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa. Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata. A nulla le valse d'esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli. Entrata in un monastero dell'Athos, un'icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna. Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna. Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS
Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo. Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all'ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi. La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia. Il quale è sempre severo nel tutelare l'extraterritorialità dell'Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d'un lasciapassare. Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo. E pochissimi sono i visti d'ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine. Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d'imbarco. Perché nell'Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo. Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo. Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell'Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS
A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d'incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell'autobus e una trattoria. C'è anche un telefono pubblico, che ha tutta l'aria d'essere il primo e l'ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti. Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti. Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz'ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao. Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori. Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo. L'Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c'è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l'uno e l'altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d'obbligo.
GRANDE LAVRA
Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso. La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna. Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto. Ricompare come l'angelo dell'Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz'ora, ristorandovi con un bicchier d'acqua fresca, un bicchierino di liquor d'anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato. È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti. Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l'asciugamano. Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare. I monasteri dell'Athos non sono come quelli d'Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva. Sull'Athos c'è di tutto e per tutti. C'è l'eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta. Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna. Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti. Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno. Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po' a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi. Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini. Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale. Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese. Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s'avviano al katholikón, la chiesa centrale. Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella. Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche. Al vespero accorre impaziente. Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno. Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C'è profumo d'Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra. C'è aroma di cipresso e d'incenso, fragranza di cera d'api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime. Perchè i monaci dell'Athos non patiscono il tempo. Vi parlano dei loro santi, di quel sant'Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell'anno 1000 ma appena ieri, come se l'avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza. Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d'oro e d'argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo. La luce del tramonto li accende, li fa vibrare. E s'accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell'iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch'esso l'architettura di una chiesa ed è anch'esso tutto affrescato dal grande Teofane. È la stessa liturgia che continua. L'igúmeno prende posto al centro dell'abside. Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi. Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria. Anche l'uscita avviene in processione. Un monaco porge a ciascuno del pane santificato. Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI
Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi. Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane. Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio. E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall'Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato. E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente. Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell'Athos. Ma poi è venuta la sferza purificatrice d'un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica. Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti. Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l'aristocrazia dell'Athos. Dice solenne l'igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: "L'Athos è unico. È il solo Stato monastico al mondo". Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev'essere sublime. Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero. Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste. Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell'Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un'iconostasi fulgentissima d'ori e d'icone. Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose. Sembra volare, come le note.
E poi le luci. C'è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa. Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch'esso parte del rito. In ogni katholikón dell'Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione. Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all'iconostasi che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c'è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse. Almeno un'ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi. Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l'onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell'Athos. Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d'iniziare a simili misteri e d'infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d'oggi. All'Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d'umanizzare Dio, le Chiese d'Occidente lo fanno sparire. "Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale", sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu. "Un Dio che non deifichi l'uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno. È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell'ondata di ateismo in Occidente".
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell'altro monastero di Ivíron: "In Occidente comanda l'azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla. Rispondo: cosa fa l'embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio. È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora. Siamo nel cuore della comunione dei santi".
SIMONOS PETRA
Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita. Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell'Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio. Eliseo, l'igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia. Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano. Ma giudica la Chiesa occidentale troppo "prigioniera di un sistema", troppo "istituzionale".
L'Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici. All'Athos "il logos si sposa alla praxis", la parola ai fatti. "Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà. Vivere il Vangelo in modo perfetto. Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo. Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci".
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell'Athos. Ha dato vita a un monastero per monache, un'ottantina, nel cuore della penisola Calcidica. Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria. E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia. È un monastero colto, dotato d'una ricca biblioteca. A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne. Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche. Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato. A Dafne si risale sul traghetto. Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani. La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un'apparizione. Con la folgorante bellezza d'una Nike di Samotracia.
Il mistero che guida l'incontro tra l'uomo e la donna - Affidati l'uno all'altra per riconoscersi in un solo Volto - La relazione del cardinale patriarca di Venezia nel pomeriggio di martedì 2 giugno ha chiuso a Vicenza la quinta edizione del Festival Biblico intitolato "I volti delle Scritture". Pubblichiamo quasi integralmente il suo intervento. - di Angelo Scola – L’Osservatore Romano, 3 giugno 2009
"Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell'uomo in una giovane donna" (Proverbi, 30, 18-19). Con potenti immagini l'autore del Libro dei Proverbi esprime la meraviglia carica di ontologico timore dell'uomo, creatura finita, di fronte all'infinito da cui pure è attratto. La coscienza della propria strutturale sproporzione a comprendere il senso della totalità del reale è certo la cifra della sua piccolezza, ma anche della sua grandezza. L'ampiezza del cielo in cui l'aquila vola indica la possibilità di uno sguardo senza confini. La solidità della roccia fa sì che il serpente possa attraversarla ma non sgretolarla: il male non riesce a conquistare definitivamente la vita. La profondità del mare sostiene il viaggio dell'uomo nella vita. Ma più enigmatica ancora di tale ampiezza, solidità e profondità, è "la via dell'uomo in una giovane donna". L'icastica bellezza di quest'ultima affermazione ci introduce di schianto nel tema di questa sera. L'uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita. Molto acuto è il commento che ci propone Paul Beauchamp, uno dei più importanti esegeti del nostro tempo: "L'enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi, è la "strada dell'uomo attraverso la donna" (Proverbi, 30, 18 e seguenti), ossia è ciò che fa passare l'uomo attraverso l'immagine di colei che sta al suo inizio e lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell'incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo" (L'uno e l'altro Testamento, Brescia 1985). Beauchamp richiama un tratto costitutivo dell'esperienza elementare di ogni uomo, a cui le Scritture rendono testimonianza, svelandone anche la ragion d'essere: nell'incontro tra l'uomo e la donna accade "un ricominciamento e qualcosa di nuovo". Il nuovo è possibile perché l'incontro amoroso pone inevitabilmente all'uomo la domanda ontologica sulla propria origine. Potremmo dirla così: chi sono "io" che incontrando "te" incontro me stesso? Questa novità avviene perché la donna dice l'alterità ultimamente da me inafferrabile, quell'alterità che mi "sposta" (dif-ferenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Così la donna, ponendosi, mi impone, attraverso il suo volto amante, di ricominciare. Nella sorpresa davanti al volto della donna, misteriosa eppure familiare "alterità", è donato all'uomo il proprio volto, cioè la propria irriducibile "identità". Il volto biblico dell'uomo/donna dice a un tempo identità ed alterità. Fin dal principio la donna è posta davanti all'uomo (e viceversa) come un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure profondamente corrispondente a sé. L'uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l'essere umano, fin nell'ultima sua particella: il corpo dell'uomo, infatti, è in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile. La differenza sessuale svela che l'alterità è una dimensione interna alla persona stessa, che ne segna la strutturale insufficienza, aprendola in tal modo al "fuori di sé". E così l'"altro" è per me tanto inaccessibile - mi resta sempre altro - quanto necessario. L'uomo/donna rappresenta uno dei luoghi originari in cui ognuno di noi fa l'esperienza della propria dipendenza e della conseguente capacità di relazione. Come, con impareggiabile intensità, recita il Cantico dei Cantici: "Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!" (4, 9). Il disegno originario di Dio nel crearci sempre e solo come maschi o come femmine (Mulieris dignitatem, 1) vuol educarci a capire il peso dell'"io" e il peso dell'"altro". La differenza sessuale si rivela così come una grande scuola. Si tratta di imparare l'"io" attraverso l'"altro" e l'"altro" attraverso l'"io". Il bisogno/desiderio dell'"altro" che, a partire dall'uomo/donna, come uomo e come donna, ogni persona sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l'eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine. E in questo modo "la via dell'uomo in una giovane donna", la via della differenza sessuale, dell'amore per sempre, dell'apertura alla vita appare come via privilegiata di accesso a Dio, come una strada a tutti possibile per intuire che all'origine della nostra esistenza c'è un Mistero buono che ci chiama a Sé. La Scrittura insiste sulla possibilità dell'uomo di risalire dalla contemplazione del creato all'affermazione del Creatore: "Se affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza" (Sapienza, 13, 3). Sul volto pieno di attrattiva della donna risplende il Volto di Colui che l'ha creata e condotta verso l'uomo. Per ogni uomo e per ogni donna l'esperienza dell'amore è via di accesso al riconoscimento di Dio. Proprio per questa sua necessaria ma enigmatica profondità l'esperienza dell'amore non è esente dalla più grande tentazione che minaccia l'uomo: quella dell'idolatria. L'ingiunzione di Dio al suo popolo nel deserto - "Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra" (Esodo, 20, 3-4) - è rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna perché non si arresti al volto dell'amato/a, ma in esso renda gloria a Colui che gli ha donato un/a compagno/a di cammino. Siamo tutti ben consapevoli di cosa succede quando nell'esperienza dell'amore si confonde l'altro con Dio. Quando cioè ci si aspetta - addirittura si pretende - dall'altro tutto, cioè il compimento della propria vita. Delusione e scetticismo fino alla violenza prendono il posto prima occupato dallo stupore e dalla gratitudine. Con potente lucidità lo descrive il Libro del Siracide: "Speranze vane e fallaci sono quelle dello stolto, e i sogni danno le ali a chi è privo di senno. Come uno che afferra le ombre e insegue il vento, così è per chi si appoggia sui sogni. Una cosa di fronte all'altra: tale è la visione dei sogni, di fronte a un volto l'immagine di un volto" (34, 1-3). Negata la natura di segno del volto dell'amata, la consistenza di tale volto sfuma e non resta altro che la sua pallida "immagine". Ma un'immagine non basta a soddisfare la nostra sete profonda. Il desiderio si spegne nella malinconia o facilmente si dissolve sulla superficie di uno specchio che non ci rimanda altro che il nostro volto. Abbiamo bisogno di una presenza che ci insegni ad amare, a imparare la strada dell'"altro/altra" quale cammino concreto e possibile verso l'Altro alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati. Ma a questo bisogno non possiamo rispondere con le nostre forze. Dio stesso ha voluto mostrarci la via, o meglio ha mandato Suo Figlio tra noi come Via alla verità e alla vita. Numerose sono le occasioni in cui i vangeli ci presentano Gesù Cristo, il nuovo Adamo, che incontra e si coinvolge con donne di diversa età e condizione sociale, svelandoci in tal modo il volto pieno dell'uomo/donna. E sempre lo sguardo che Egli - in netta antitesi con i costumi del suo tempo - porta alla figura femminile è uno sguardo integrale che ne afferma la assoluta dignità e la singolare vocazione. "L'uomo e la donna - scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem - furono reciprocamente affidati l'uno all'altra come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell'amore" (14). Di tale affidamento, di tale compagnia amorevole nella suprema prova della morte, ci dà, ancora una volta, splendida testimonianza un memorabile passaggio del vangelo di Giovanni: "Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre!"" (19, 26-27). Per questo la Lettera agli Efesini svela il volto biblico dell'uomo/donna inserendo il matrimonio nel "luogo" deputato all'esperienza compiuta del bell'amore: il rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa: "Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito" (Esodo, 5, 32).
(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)
Tra etica e metafisica - Una ricchezza morale chiamata persona - Pubblichiamo parte della lezione tenuta dal direttore della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" della Pontificia Università Lateranense nell'ambito del ciclo di incontri sul teologo di Aquino. - di Mario Pangallo – L’Osservatore Romano, 3 giugno 2009
La deduzione dei trascendentali rappresenta il fondamento ultimo dell'unità tra etica e metafisica, pur nella distinzione tra i due ambiti di realtà e tra le due rispettive discipline. Il fondamento prossimo di tale unità è l'unità tra essere e agire nella persona umana. San Tommaso riconosce con Aristotele la relativa autonomia della disciplina morale: il bene morale è il bene che è oggetto dell'azione, non è il bene sommo, l'idea del bene; l'etica non è semplicemente una metafisica applicata all'azione umana. Tuttavia la prospettiva metafisica tomista accentua notevolmente la subordinazione del pensiero morale al sapere speculativo, della ragion pratica alla ragione teoretica. Si può notare questo nel confronto tra l'Etica nicomachea di Aristotele e il Commento di san Tommaso. Nella parte iniziale di tale commento, l'Aquinate puntualizza che il compito della ragione è di conoscere l'ordine delle cose. Vi sono quattro tipi di ordine e quindi quattro modi attraverso i quali la ragione si mette in relazione con l'ordine. L'ordine ontologico, l'ordine logico, l'ordine morale e l'ordine tecnico-estetico. L'unità nella distinzione di un quadruplice ordine della realtà riflette nell'ambito categoriale l'unità-distinzione degli aspetti trascendentali dell'essere stesso. Si potrebbe anche dire, usando il linguaggio di Benedetto Croce - ma prendendo ovviamente le distanze dalla sua concezione dello Spirito - che vi sia una reciproca implicanza nella differenziazione tra i distinti aspetti attraverso i quali si rivela l'unico ordine (lògos) reale. Rispetto all'ordine ontologico la ragione è "contemplativa", nel senso che guarda la realtà, cercando di capirla. Rispetto all'ordine logico, tecnico-estetico ed etico, la ragione è invece attiva. Per tal motivo secondo san Tommaso l'ordine morale - come quello logico e tecnico - è subordinato all'ordine ontologico. La ragione pratica ha il compito di conoscere quale sia il bene morale e di realizzarlo nella vita concreta. Ora il bene morale è un aspetto del bene trascendentale, che è l'essere stesso in quanto appetibile; e pertanto non vi può essere una totale autonomia della scienza del bene morale rispetto alla scienza dell'ente in quanto ente. Si può affermare che vi sia una coappartenenza trascendentale, logica e ontologica, tra essere e bene, da cui si deduce la subordinazione del bene morale al bene ontologico e quindi la dipendenza dell'etica dalla metafisica. Ma il primato della metafisica sull'etica include la dimensione etica della metafisica. Anzitutto occorre riflettere sull'arricchimento della ratio entis realizzato dal bonum trascendentale, che aggiunge all'ente la relazione di quanto è perfettivo rispetto alla volontà: il bene è perfettivo dell'ente non solo in ordine all'appetibilità che aggiunge ad esso ma anche in ordine all'essere effettivamente "fine". Attraverso il conseguimento del bene morale, l'aspetto perfettivo del bene in ordine all'essere, diventa perfezionamento dell'essere del soggetto spirituale, ovvero della persona umana. La dimensione etica, costitutiva della persona, rappresenta, di conseguenza, un momento fondamentale della metafisica del soggetto spirituale, cioè dell'antropologia metafisica. La persona esprime riferimento al bene morale in quanto è di natura razionale. Ma considerando la natura umana in quanto tale, il riferimento al bene morale è essenziale per la volontà in sé stessa; invece considerando il singolo uomo, la volontà è chiamata a esprimere in modo libero e concreto, nella determinazione di atti buoni, quel riferimento necessario al bene morale che per natura le compete. E così per la persona il riferimento al bene è anche esistenziale; per certi aspetti è soprattutto esistenziale. Sarebbe perciò riduttivo concepire la dimensione personale ed esistenziale dell'etica quasi come una "caduta" di perfezione rispetto all'ordine morale naturale-essenziale. Nella persona l'ordine morale, che è nella natura umana, non solo si perfeziona quando si realizza - viene ad esistere in re e non solo in conceptu - ma anche in quanto, realizzandosi in molti modi, mostra attualmente tutte le potenzialità proprie del bene, dispiegando nella realtà concreta ogni valore per l'uomo. Tale dispiegamento dell'ordine morale grazie alle singole persone avviene secondo gradi di maggiore o minore perfezione: e anche questo consente al bene di splendere, per così dire, nel mondo umano, per il fatto che la comparazione di forme di bene meno perfette con forme di bene più perfette contribuisce alla comprensione della trascendenza del Bene; il Bene non si esaurisce in nessuna forma finita. La stessa legge morale naturale sussiste concretamente nella persona, pur essendo fondata nella natura humana communis. Pertanto si può dire che la persona arricchisce la natura umana nella direzione della moralità; cioè rende la natura umana una natura qualificata come essenzialmente morale. La persona arricchisce la natura umana nella direzione della moralità, non perché essa aumenta la perfezione ontologica della stessa natura, ma perché la persona aggiunge alla natura un perfezionamento della sua qualificazione morale grazie a un proprio atto d'essere, creato direttamente da Dio e quindi costitutivamente relazionato alla Bontà divina. Nella dimensione morale l'essere della persona, rapportandosi al Bene nella coscienza di sé, emerge oltre l'essere degli enti mondani, governato dalla necessità dell'ordine cosmico, e si eleva al livello della libertà; qui si esprimono la nobiltà e la dignità della persona, ma anche la incompiutezza e la precarietà del suo essere individuale, da cui può riscattarsi mediante l'agire morale. In più l'antropologia teologica cristiana insegna che ciò può avvenire soltanto con il necessario aiuto della Grazia divina. In questo senso, squisitamente esistenziale, la dimensione etica della metafisica contribuisce a delineare le grandi prospettive e i limiti della filosofia dell'essere; la conoscenza umana dell'essere, infatti, diventa una conoscenza "amorosa", e quindi tende all'unione con l'Essere supremo, solo nel momento in cui lo assume anche come scopo del vivere, cosicché la persona orienta tutta se stessa all'Essere divino scoperto come Assoluto Bene, da amare assolutamente. In conclusione, si può dire, che riflettere sul bene morale quale aspetto del bene ontologico può significare per la conoscenza metafisica l'approdo ad una teologia filosofica non solo "naturalistica" ma anche "personalistica". Infatti, se il bene morale ha significato in relazione all'essere personale, allora, ultimamente, la pienezza del bene morale ha significato in relazione a un Essere perfettissimo personale, assolutamente libero. Questo significa che nella conoscenza metafisica dell'essere personale, cui contribuisce non poco la conoscenza della verità morale, la filosofia dell'essere trova una via privilegiata per giungere a Dio-Amore sussistente, che è "preambolo" alla fede nel Dio di Gesù Cristo, il Dio che si dona per salvare l'uomo dal male e per rivelargli la pienezza di senso della sua responsabilità e libertà.
(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)
EUROPEE/ 1. Mauro: senza radici culturali avremo solo un mostro giuridico - Mario Mauro - mercoledì 3 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Il 2009 è stato un anno di sfide senza precedenti per l’Europa. Siamo alla vigilia delle elezioni europee del 6 e 7 giugno che rappresentano una tappa fondamentale per il nostro futuro. Tante le sfide che le istituzioni europee saranno chiamate ad affrontare durante la prossima legislatura e altrettanti i nodi ancora irrisolti che chi prenderà in mano le sorti del nostro continente è chiamato a cercare di sciogliere. L’integrazione europea, ad esempio, oggi rappresenta una delle maggiori incognite della nostra società.
Nonostante le battute d’arresto, porzioni non indifferenti di discrezionalità decisionale sono in mano all’Ue, con conseguenti ricadute in molteplici ambiti di rilievo, se non addirittura strategici: etica, economia, mercato, diplomazia, politica monetaria e così via. La crisi del progetto europeo è frutto di un approccio errato al processo di integrazione, di una posizione politica che non vuole partire dalla realtà, dalla domanda «cos’è l’Europa?», emblematica interrogazione sui fondamenti stessi dell’integrazione europea. Benedetto XVI ricorda come i grandi pericoli contemporanei per la convivenza fra gli uomini giungano dal fondamentalismo - la pretesa di prendere Dio come pretesto per un progetto di potere - e dal relativismo, ossia il ritenere che tutte le opinioni siano vere allo stesso modo.
L’involuzione del progetto politico che chiamiamo Unione europea è riconducibile proprio a questi fattori. Il problema dell’Europa nasce dal fatto che il rapporto tra ragione e politica si è sostanzialmente sviato da ciò che è la nozione stessa di verità. Il compromesso, giustamente presentato come senso della stessa vita politica, è oggi concepito fine a sé stesso. È per questo che si è scelto di mettere a fuoco le principali politiche dell’Unione europea utilizzando come filo conduttore le intuizioni dei padri fondatori e la promozione della dignità umana insita nell’esperienza cristiana.
La situazione di empasse in cui l’Europa si muove deve condurre a una profonda riflessione. Al di là della capacità di giungere a un buon accordo sul bilancio, il vecchio continente sta perdendo il proprio orizzonte e la propria dimensione. Dopo l’«era Kohl» l’Europa è stata dominata da politici senza il coraggio necessario per generare il «domani» e senza la forza per mantener fede alla costruzione creata poco più di cinquant’anni prima dai padri fondatori. È comparsa sulla scena una generazione di politici giunta a un’idea di Europa - bocciata poi dai referendum francese e olandese - per cui l’integrazione sempre più stretta è diventata un valore in quanto tale.
Ma, qual è la politica dell’Europa? Qual è il peso reale dell’Europa nel mondo globalizzato? Il problema dell’Europa, oltre che istituzionale, è un problema di definizione delle politiche comunitarie. Sulla base della mia esperienza, ritengo che i cinque nodi su cui si gioca il futuro dell’Europa siano rappresentati dalla crisi demografica, dall’immigrazione, dall’allargamento, dalla strategia di Lisbona e dalla politica estera, che sono poi strettamente collegati da un comune denominatore: l’identità dell’Europa.
Senza aver chiara la sua identità, l’Europa non potrà infatti fare alcun passo in avanti rispetto a queste cinque sfide. Corriamo il rischio che la risposta alla crisi demografica sia puramente ideologica e che privilegi opere di ingegneria sociale. L’Ue non può ignorare il fattore culturale nell’incidenza sui tassi di fertilità, ovvero le convinzioni personali che sostengono l’apertura alla vita. Come potremo gestire e integrare i flussi migratori senza saper proporre un nostro modello culturale di civiltà? Come decidere i criteri per i prossimi allargamenti dell’Ue senza sapere se l’Europa è definita da criteri geografici o culturali? Come pretendere di parlare con una sola voce nel mondo se il pensiero comune pensa che l’Ue sia soltanto la somma di interessi puramente economici? Come implementare le riforme necessarie per lo sviluppo economico se i popoli non ritrovano la fiducia in sé stessi? Occorre una disposizione alla generosità che permetta di superare l’egoismo e generare nuovi figli. Occorre evitare il solito conformismo del «politicamente corretto», per cui basta garantire l’informazione per far fare le scelte giuste.
In realtà, il criterio di scelta si basa sulla concezione della vita: qui entra in gioco la secolarizzazione dell’Europa. Infatti, anche la crisi politica è strettamente connessa con la perdita delle radici cristiane del nostro continente. Robert Schuman era solito dire «l’Europa non potrà farsi una sola volta», l’Ue, infatti, non è un blocco monolitico, ma il risultato delle azioni di uomini e, in quanto tale, per vivere è chiamata a rinnovarsi nel tempo. L’Europa può ripartire dai valori su cui è stata creata, dai buoni risultati finora raggiunti e da una buona dose di realismo.