Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta il monaco Rabano Mauro in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro
2) Il crocifisso del samurai - Rino Cammilleri racconta la grande rivolta dei samurai cristiani - di Antonio Gaspari
3) Assassinato un missionario austriaco in Sudafrica - Padre Ernest Plochl è stato strangolato da alcuni ladri
4) Se la qualità è la misura della vita il disabile diventa zavorra inutile - Shoccanti risultati di uno studio condotto in Inghilterra: le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate… - di Carlo Bellieni
5) ELEZIONI/ Io voto per le palafitte di Salvador - Roberto Fontolan - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
6) OBAMA/ Così il presidente americano affronta la prova Medio Oriente - Redazione - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) FILOSOFIA/ Quel modo di “fare scienza” che non è positivismo: l’insegnamento di Vailati - Mario Quaranta - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) MATRIMONIO GAY E OBIEZIONE DI COSCIENZA IN SPAGNA - Quando il compromesso dà fiato al relativismo - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 4 giugno 2009
9) Sos: «Gemma» cerca adottanti – Avvenire, 4 giugno 2009 - In quindici anni il «Progetto» del Mpv ha già salvato dall’aborto procurato sedicimila bambini - DI ELISABETTA PITTINO
10) Biogiuristi: quando il diritto protegge la vita di Ilaria Nava – Avvenire, 4 giugno 2009
Benedetto XVI presenta il monaco Rabano Mauro in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 3 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato sul monaco Rabano Mauro.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di un personaggio dell’Occidente latino veramente straordinario: il monaco Rabano Mauro. Insieme a uomini quali Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Ambrogio Autperto, dei quali ho già parlato in catechesi precedenti, egli seppe durante i secoli del cosiddetto Alto Medioevo mantenere il contatto con la grande cultura degli antichi sapienti e dei Padri cristiani. Ricordato spesso come "praeceptor Germaniae", Rabano Mauro fu di una fecondità straordinaria. Con la sua capacità lavorativa assolutamente eccezionale contribuì forse più di tutti a tener viva quella cultura teologica, esegetica e spirituale alla quale avrebbero attinto i secoli successivi. A lui si rifanno sia grandi personaggi appartenenti al mondo dei monaci come Pier Damiani, Pietro il Venerabile e Bernardo di Chiaravalle, come anche un numero sempre più consistente di "clerici" del clero secolare, che nel corso del XII e XIII secolo dettero vita ad una delle fioriture più belle e feconde del pensiero umano.
Nato a Magonza intorno al 780, Rabano era entrato giovanissimo in monastero: gli fu aggiunto il nome di Mauro proprio con riferimento al giovane Mauro che, secondo il Libro II dei Dialoghi di San Gregorio Magno, era stato affidato ancora bambino dai suoi stessi genitori, nobili romani, all’abate Benedetto da Norcia. Questo precoce inserimento di Rabano come "puer oblatus" nel mondo monastico benedettino, e i frutti che egli ne ricavò per la propria crescita umana, culturale e spirituale, aprirebbero da soli uno spiraglio interessantissimo non solo sulla vita dei monaci e della Chiesa, ma anche sull’intera società del suo tempo, abitualmente qualificata come "carolingia". Di essi, o forse di se stesso, Rabano Mauro scrive: "Vi sono alcuni che hanno avuto la fortuna di essere introdotti nella conoscenza delle Scritture fin dalla tenera infanzia ("a cunabulis suis") e sono stati nutriti talmente bene col cibo offerto loro dalla santa Chiesa da poter essere promossi, con l’educazione appropriata, ai più alti ordini sacri" (PL 107, col 419BC).
La straordinaria cultura, per cui Rabano Mauro si distingueva, lo segnalò assai presto all’attenzione dei grandi del suo tempo. Divenne consigliere di Principi. Si impegnò per garantire l’unità dell’Impero e, a livello culturale più ampio, non ricusò mai di offrire a chi lo interrogava una risposta ponderata, che traeva preferibilmente dalla Bibbia e dai testi dei santi Padri. Eletto dapprima Abate del famoso monastero di Fulda e poi Arcivescovo della città natale, Magonza, non smise per questo di proseguire nei suoi studi, dimostrando con l’esempio della sua vita che si può essere simultaneamente a disposizione degli altri, senza privarsi per questo di un congruo tempo per la riflessione, lo studio e la meditazione. Così Rabano Mauro fu esegeta, filosofo, poeta, pastore e uomo di Dio. Le diocesi di Fulda, Magonza, Limbourg e Wrocław lo venerano come santo o beato. Le sue opere riempiono ben sei volumi della Patrologia Latina del Migne. A lui si deve con probabilità uno degli inni più belli e conosciuti della Chiesa latina, il "Veni Creator Spiritus", sintesi straordinaria di pneumatologia cristiana. Il primo impegno teologico di Rabano si espresse, in effetti, sotto forma di poesia ed ebbe come oggetto il mistero della Santa Croce in un’opera intitolata "De laudibus Sanctae Crucis", concepita in modo tale da proporre non soltanto contenuti concettuali ma anche stimoli più squisitamente artistici, utilizzando sia la forma poetica che la forma pittorica all’interno dello stesso codice manoscritto. Proponendo iconograficamente fra le righe del suo scritto l’immagine di Cristo crocifisso, egli ad esempio scrive: "Ecco l’immagine del Salvatore che, con la posizione delle sue membra, rende sacra per noi la saluberrima, dolcissima e amatissima forma della Croce, affinché credendo nel suo nome e obbedendo ai suoi comandamenti possiamo ottenere la vita eterna grazie alla sua Passione. Ogni volta perciò che eleviamo lo sguardo verso la Croce ricordiamoci di Colui che patì per noi per strapparci dal potere delle tenebre, accettando la morte per farci eredi della vita eterna" (Lib. 1, Fig. 1, PL 107 col 151 C).
Questo metodo di combinare tutte le arti, l’intelletto il cuore e i sensi, che proveniva dall’Oriente, avrebbe ricevuto enorme sviluppo in Occidente toccando vertici ineguagliabili nei codici miniati della Bibbia e in altre opere di fede e di arte, che fiorirono in Europa fino all’invenzione della stampa ed anche oltre. Esso dimostra in ogni caso in Rabano Mauro una consapevolezza straordinaria della necessità di coinvolgere, nella esperienza della fede, non soltanto la mente e il cuore, ma anche i sensi mediante quegli altri aspetti del gusto estetico e della sensibilità umana che portano l’uomo a fruire della verità con tutto se stesso, "spirito, anima e corpo". Questo è importante: la fede non è solo pensiero, ma tocca tutto il nostro essere. Poiché Dio si è fatto uomo in carne e ossa, è entrato nel mondo sensibile, noi in tutte le dimensioni del nostro essere dobbiamo cercare e incontrare Dio. Così la realtà di Dio, mediante la fede, penetra nel nostro essere e lo trasforma. Per questo Rabano Mauro ha concentrato la su attenzione soprattutto sulla Liturgia, come sintesi di tutte le dimensioni della nostra percezione della realtà. Questa intuizione di Rabano Mauro lo rende straordinariamente attuale. Di lui rimasero anche famosi i "Carmina", proposti per essere utilizzati soprattutto nelle celebrazioni liturgiche. Infatti era del tutto scontato, dal momento che Rabano era anzitutto un monaco, il suo interesse per la celebrazione liturgica. Egli però non si dedicava all’arte poetica come fine a se stessa, ma piegava l’arte e ogni altro tipo di conoscenza all’approfondimento della Parola di Dio. Cercò perciò, con estremo impegno e rigore, di introdurre i suoi contemporanei, ma soprattutto i ministri (vescovi, presbiteri e diaconi) alla comprensione del significato profondamente teologico e spirituale di tutti gli elementi della celebrazione liturgica.
Tentò così di capire e proporre agli altri i significati teologici nascosti nei riti, attingendo alla Bibbia e alla tradizione dei Padri. Non esitava a dichiarare, per onestà ed anche per dare maggior peso alle sue spiegazioni, le fonti patristiche alle quali doveva il suo sapere. Di esse tuttavia si serviva con libertà e attento discernimento, continuando nello sviluppo del pensiero patristico. Al termine dell’"Epistola prima" diretta a un "corepiscopo" della diocesi di Magonza, per esempio, dopo aver risposto alle richieste di chiarimento sul comportamento da seguire nell’esercizio della responsabilità pastorale, prosegue: "Ti abbiamo scritto tutto questo così come lo abbiamo dedotto dalle Sacre Scritture e dai canoni dei Padri. Tu però, santissimo uomo, prendi le tue decisioni come sembra meglio a te, caso per caso, cercando di temperare la tua valutazione in modo tale da garantire in tutto la discrezione, perché essa è la madre di tutte le virtù" (Epistulae, I, PL 112, col 1510 C). Si vede così la continuità della fede cristiana, che ha i suoi inizi nella Parola di Dio; essa però è sempre viva, si sviluppa e si esprime in nuovi modi, sempre in coerenza con tutta la costruzione, con tutto l'edificio della fede.
Dal momento che parte integrante della celebrazione liturgica è la Parola di Dio, a quest’ultima Rabano Mauro si dedicò con massimo impegno durante l’intera sua esistenza. Produsse spiegazioni esegetiche appropriate pressoché per tutti i libri biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento con intento chiaramente pastorale, che giustificava con parole come queste: "Ho scritto queste cose… sintetizzando spiegazioni e proposte di molti altri per offrire un servizio al lettore povero che non può avere a disposizione molti libri, ma anche per facilitare coloro che in molte cose non riescono ad entrare in profondità nella comprensione dei significati scoperti dai Padri" (Commentariorum in Matthaeum praefatio, PL 107, col. 727D). Di fatto, nel commentare i testi biblici attingeva a piene mani ai Padri antichi, con speciale predilezione per Girolamo, Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno.
La spiccata sensibilità pastorale lo portò poi a farsi carico soprattutto di uno dei problemi più sentiti dai fedeli e dai ministri sacri del suo tempo: quello della Penitenza. Fu compilatore infatti di "Penitenziari" – così li si chiamava – nei quali, secondo la sensibilità dell’epoca, venivano elencati peccati e pene corrispondenti, utilizzando per quanto possibile motivazioni attinte alla Bibbia, alle decisioni dei Concili e alle Decretali dei Papi. Di tali testi si servirono pure i "Carolingi" nel loro tentativo di riforma della Chiesa e della società. Allo stesso intento pastorale rispondevano opere come "De disciplina ecclesiastica" e "De institutione clericorum" in cui, attingendo soprattutto ad Agostino, Rabano spiegava ai semplici e al clero della sua diocesi gli elementi fondamentali della fede cristiana: erano una specie di piccoli catechismi.
Vorrei concludere la presentazione di questo grande "uomo di Chiesa" citando alcune sue parole nelle quali ben si rispecchia la sua convinzione di fondo: "Chi è negligente nella contemplazione ("qui vacare Deo negligit"), si priva da se stesso della visione della luce di Dio; chi poi si lascia prendere in modo indiscreto dalle preoccupazioni e permette ai suoi pensieri di essere travolti dal tumulto delle cose del mondo si condanna all’assoluta impossibilità di penetrare i segreti del Dio invisibile" (Lib. I, PL 112, col. 1263A). Penso che Rabano Mauro rivolga queste parole anche a noi oggi: nei tempi del lavoro, con i suoi ritmi frenetici, e nei tempi delle vacanze dobbiamo riservare momenti a Dio. Aprire a Lui la nostra vita rivolgendoGli un pensiero, una riflessione, una breve preghiera, e soprattutto non dobbiamo dimenticare la domenica come il giorno del Signore, il giorno della liturgia, per percepire nella bellezza delle nostre chiese, della musica sacra e della Parola di Dio la bellezza stessa di Dio, lasciandolo entrare nel nostro essere. Solo così la nostra vita diventa grande, diventa vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Cremona qui convenuti con il loro Vescovo Mons. Dante Lanfranconi, come pure a quelli della diocesi di Verona ed incoraggio ciascuno a seguire in ogni circostanza gli insegnamenti evangelici. Saluto i partecipanti al Capitolo Generale dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù – Dehoniani e, nel formulare fervidi voti augurali al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio, esorto l’intero Istituto a vivere in pienezza il Vangelo della carità. Saluto con affetto i Seminaristi della diocesi di Nardò-Gallipoli, assicurando a tutti il mio orante ricordo.
Rivolgo ora un affettuoso saluto ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Cari giovani, domenica prossima celebreremo la solennità della Santissima Trinità. Vi auguro che la contemplazione del mistero trinitario vi introduca sempre più nell'Amore divino. Cari ammalati, grazie al Battesimo è presente la Santissima Trinità nella vostra vita. Ciò vi sia di sostegno per compiere in ogni circostanza la volontà del Signore. E voi, cari sposi novelli, possiate sempre ispirarvi alla comunione trinitaria per formare una famiglia cristiana nella quale vi sia dato di sperimentare, nel reciproco amore, la gioia della preghiera e dell'accoglienza della vita.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il crocifisso del samurai - Rino Cammilleri racconta la grande rivolta dei samurai cristiani - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 3 giugno 209 (ZENIT.org).- Un romanzo straordinario, il racconto di un fatto vero che ha segnato la storia di un paese e della comunità cristiana, un evento epico e commovente, una vicenda che narra l’eroismo di samurai e contadini, che pur di avere la libertà religiosa morirono tutti martiri.
“Il crocifisso del samurai”, edito da Rizzoli e scritto da Rino Cammilleri, racconta la grande rivolta dei samurai cristiani di Shimabara avvenuta nel 1637.
Quarantamila cristiani giapponesi, donne e bambini compresi, si ribellarono alla persecuzione e si arroccarono nella penisola di Shimabara, nel castello in disuso di Hara. Qui tennero testa per cinque mesi al più grande esercito di samurai che la storia del Giappone avesse mai visto.
Nella battaglia finale i cristiani vennero uccisi, migliaia delle loro teste vennero infilzate su pali per terrorizzare chiunque avesse voluto farsi cristiano.
L’armata dello Shogun riuscì a stroncare la ribellione, ma al costo di settantamila uomini ben armati e addestrati che morirono combattendo contro contadini e anziani samurai cristiani che pure erano affamati e indeboliti dal freddo, ma saldi nella fede in Gesù Cristo.
Per evitare l’onta di non essere riuscito a domare la rivolta il generale giapponese Matsudaira Nobutsuna, offrì ai rivoltosi l’onore delle armi, la dilazione sulle tasse e il perdono, ma questi rifiutarono. L’unica cosa che chiesero era la libertà di professare la religione cristiana.
Ma proprio questa libertà era ciò che le autorità giapponesi temevano. Per i due secoli successivi alla rivolta cristiana, il Giappone si isolò dal mondo e perseguitò tutti coloro che si dicevano seguaci di Cristo.
Eppure, quando nella seconda metà dell’Ottocento i missionari europei poterono tornare in Giappone, trovarono che i discendenti di quegli antichi cristiani avevano conservato la fede nella clandestinità, tramandandosela di generazione in generazione.
Rino Cammilleri, noto giornalista e saggista, ha svolto una intensa ricerca storica per scrivere questo romanzo così avvincente.
Cammilleri, che ha trascorso la vita a indagare la storia della cristianità, è autore di rubriche in diverse testate giornalistiche. Ha pubblicato decine di libri, tra cui “I santi di Milano” (Rizzoli 2000), “Gli occhi di Maria” (con Vittorio Messori, Rizzoli 2001) e “Immortale odium” (Rizzoli 2007).
ZENIT lo ha intervistato.
Per anni lei ha studiato e raccontato la storia del cristianesimo. Come è arrivato a questa struggente storia dei martiri giapponesi?
Cammilleri: Chi mi segue sa che mi sono a lungo occupato di sfatare le “leggende nere” che gravano sulla storia della Chiesa. I presunti scheletri nell’armadio del cristianesimo (Inquisizione, Crociate, Galileo, Conquistadores…) ormai li ho revisionati tutti. Ma in tutti questi anni mi sono imbattuto in storie meravigliose che nessuno ha mai raccontato, almeno non col risalto che meritano. Sono storie così avvincenti da superare la fantasia e sono ideali per un romanzo storico, genere al quale i cattolici non si dedicano più da troppo tempo. Ho deciso, allora di farlo io. Col precedente “Immortale odium” (Rizzoli) ho messo in scena il braccio di ferro ottocentesco tra la Chiesa e la Massoneria, prendendo spunto dall’attacco al corteo funebre del b. Pio IX nel 1881. Con questo “Il crocifisso del samurai” (sempre Rizzoli) ho puntato il riflettore sulla grande rivolta di Shimabara, in cui nel 1637 quasi cinquantamila cristiani giapponesi, guidati da samurai cristiani, si immolarono in nome della libertà religiosa e del loro diritto a professare la religione di Cristo.
Perché le autorità giapponesi ebbero così paura del cristianesimo?
Cammilleri: Con la battaglia di Sekigahara del 1600 erano finite le eterne guerre feudali e il clan dei Tokugawa si era imposto su tutto il Giappone, governando di fatto al posto dell’Imperatore. Il cristianesimo, portato da s. Francesco Saverio, era stato dapprima bene accolto e quasi trecentomila giapponesi si erano fatti battezzare. Ma contro di loro “remavano” i bonzi buddisti e i mercanti protestanti, invidiosi della concorrenza spagnola e portoghese. Misero la pulce nell’orecchio allo Shogun (il dittatore): i missionari cattolici erano l’avanguardia dell’invasione spagnola e portoghese. La prova? Il fatto che i cristiani, quando erano messi di fronte alla scelta tra le leggi dello Shogun e quelle di Cristo, preferivano farsi uccidere anziché disobbedire a quest’ultimo.
Perché il sangue di quei martiri sembra aver generato così poco frutto?
Cammilleri: Non direi, anzi. Per due secoli, proprio a causa di quella rivolta, il Giappone si chiuse al mondo esterno. Quando i missionari poterono tornare, nella seconda metà dell’Ottocento, trovarono che il cristianesimo era sopravvissuto nelle catacombe, tramandato di padre in figlio. I «cristiani nascosti», sfidando la morte (il cristianesimo sul suolo giapponese ebbe il permesso di esistere solo alla fine del secolo), contattarono il primo missionario e gli fecero addirittura l’esame per vedere se era cattolico o protestante. Non si è mai vista una fedeltà così tenace. L’animo giapponese ha anche questo bellissimo aspetto.
Nella parte finale del romanzo lei ricorda la profezia di Tertulliano secondo cui “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”, ma poi riflette anche sul fatto che in tanti luoghi il cristianesimo è stato soffocato nel sangue. Ha una spiegazione teologica per questa apparente contraddizione?
Cammilleri: No. Io posso basarmi solo sui fatti storici. Nei luoghi dove si è stesa la cappa islamica, per esempio, il cristianesimo è praticamente scomparso. In Giappone la maggior concentrazione di cristiani era nella zona di Nagasaki. Ebbene, proprio a Nagasaki è stata sganciata la seconda bomba atomica. La cristianità nipponica è stata azzerata per due volte. Tutti i beatificati giapponesi sono martiri. Tertulliano aveva sotto gli occhi i cristiani romani. Noi, oggi, abbiamo una visuale più ampia della sua. Non basta impiantare il cristianesimo, occorre difenderlo: questo è quanto la storia ci insegna. In Indocina la persecuzione cessò solo quando intervennero le cannoniere francesi. In Cina, i massacri di cristiani da parte della setta dei Boxers smisero quando le potenze occidentali inviarono corpi di spedizione.
Oggi in Giappone solo il 4% della popolazione è cristiano. Crede che la situazione possa cambiare e che i cristiani possano crescere verso cifre significative?
Cammilleri: Il cristianesimo ha dalla sua, agli occhi degli orientali, il prestigio dell’Occidente. Ma anche la pessima immagine di sé che, sul piano morale, l’Occidente secolarizzato ormai offre. E’ l’Occidente che, nel bene e nel male, dà il “la” all’intero pianeta. E se il sale non riacquista sapore non serve davvero a niente. Se si rievangelizza l’Occidente il resto seguirà.
I samurai giapponesi sembrano molto simili ai legionari romani. Con la differenza che i legionari che si convertirono al cristianesimo, che pure morirono a migliaia, generarono chiese, devozione, altre conversioni, fino ad arrivare all’imperatore Costantino. Cosa è accaduto in Giappone perché la storia si svolgesse in maniera così diversa?
Cammilleri: Proviamo a immaginare se non ci fosse stato Costantino, se il cristianesimo fosse stato bandito dalle legioni, se si fosse continuato a perseguitarlo con l’efficacia ossessiva di Diocleziano. Le precedenti persecuzioni erano state sporadiche e localizzate. La pressione non fu mai così capillare da impedire alla pianticella di respirare e svilupparsi. Costantino, da buon giardiniere, diede spazio e acqua e concime. Infatti, già con Teodosio, sessant’anni dopo, il cristianesimo era diventato maggioritario nell’Impero. Ma in Giappone non fu così. Il cristianesimo fu perseguitato nei modi più feroci per più di due secoli, e solo esso. Una pausa di settant’anni, poi, come sappiamo, giù una atomica. Tuttavia, oggi c’è un detto in Giappone: quando si commemora il giorno della bomba, «Hiroshima urla, Nagasaki prega». Proteste antiamericane nella prima, composte liturgie nella seconda. Il “piccolo gregge” giapponese ha la pelle dura, e la testa anche di più.
Per molti anni il mondo giornalistico e letterario cattolico italiano è stato impegnato a rispondere alle calunnie e alle allusioni di diversi scrittori contrari a Cristo e alla Chiesa cattolica. Con questa sua opera così come con il libro di Rosa Alberoni “La prigioniera dell’Abbazia” si può cominciare a dire che emerge e si consolida un filone di romanzi che ruotano attorno ai valori, alle virtù, all’epopea, alla storia, all’eroismo dei cristiani?
Cammilleri: Le cose emergono se c’è qualcuno che le fa emergere. Spero proprio che si tratti di «filone», perché per il momento mi pare solo una cocciuta iniziativa di pochi. Cocciuta, ho detto, perchè questi combattono non più contro intellettuali avversari ma contro il mercato. Se la gente preferisce comprare libri sui vampiri o sui serial killer, i casi sono due: o i romanzieri cattolici non sono capaci di avvincere e non annoiare, o anche il pubblico cattolico preferisce vampiri e serial killer. In quest’ultimo caso siamo davvero messi male.
Assassinato un missionario austriaco in Sudafrica - Padre Ernest Plochl è stato strangolato da alcuni ladri
MATATIELE (Sudafrica), mercoledì, 3 giugno 2009 (ZENIT.org).- Il missionario di origine austriaca Ernest Plochl, della Congregazione dei Missionari di Mariannhill, è stato assassinato questo sabato nella sua missione di Mariazell, nella regione meridionale del Sudafrica.
Il superiore provinciale della sua Congregazione, padre Guy Cloutier, spiega le circostanze della sua morte in una lettera che ha pubblicato sulla pagina web dei Missionari di Mariannhill dopo aver visitato la missione di Mariazell, situata a circa 400 chilometri da Mthatha.
A quanto sembra, sabato pomeriggio alcuni giovani aspettavano il missionario a casa sua per derubarlo del denaro che sapevano aveva preso per pagare quanti lavoravano per lui.
Padre Plochl, tuttavia, aveva pagato i lavoratori sabato mattina perché la fine del mese cadeva di domenica.
Dopo che era tornato a casa dalla cena e dalla riunione comunitaria, i ladri lo hanno spinto nell'ufficio e lo hanno costretto ad aprire la cassetta di sicurezza.
Non trovando la quantità di denaro che speravano, si sono scagliati contro di lui e lo hanno legato e strangolato.
Il missionario aveva 78 anni e si trovava in Sudafrica da più di 40. Attualmente amministrava una scuola con 400 alunni nella città di Matatiele.
I funerali verranno celebrati venerdì mattina nella missione di Mariazell, dove verrà sepolto, visto che, come spiega il superiore provinciale, ha lavorato in quel luogo per la maggior parte della sua vita.
Verrà anche celebrata una Messa di suffragio nella sua città natale, Neumarkt-im-Mühlkreis, dove la notizia della sua morte ha suscitato grande commozione.
Padre Ernest Plochl è il terzo sacerdote cattolico ad essere assassinato in Sudafrica quest'anno. Secondo quanto rende noto l'agenzia Fides, il Paese registra una delle percentuali più alte di crimini violenti al mondo: una media di 50 omicidi al giorno.
Se la qualità è la misura della vita il disabile diventa zavorra inutile - Shoccanti risultati di uno studio condotto in Inghilterra: le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate… - di Carlo Bellieni
È stato pubblicato in questi giorni in Inghilterra un protocollo dal titolo "Valuing People Now" ("Valorizzare da subito le persone") attraverso il quale il Governo britannico rinnova la strategia per sopperire alle gravi carenze del sistema sanitario nei confronti degli individui con handicap mentale denunciate nel luglio 2008 dal rapporto "Healthcare for All" (Cura della Salute per Tutti). Sulla rivista "Lancet", veniva così sintetizzato il risultato del rapporto: "Il rapporto ha mostrato che le persone con disabilità di apprendimento hanno grande difficoltà ad accedere al Sistema Sanitario Nazionale. Purtroppo, i sanitari e il sistema sanitario ignorano ampiamente questi individui. (...) Il fatto è che le persone con difficoltà di apprendimento sono quasi invisibili al Sistema Sanitario Nazionale" (9 agosto 2008).
I risultati della ricerca lasciavano sgomenti sui reali diritti dei disabili in un'epoca in cui la salute è garantita come diritto e le minoranze sono, a parole, tutelate. Il rapporto sosteneva che le persone con ritardo mentale ricevono meno analgesia e meno cure palliative - in particolare se fanno parte di etnie minoritarie - dal momento che i segni di dolore vengono confusi con quelli che sono espressione di malattia mentale. Riportava che in caso di diabete o d'ipertensione ricevono meno test e meno esami degli altri. E la conclusione è shoccante: "Le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate".
Sono tre i punti del documento che spiegano tale carenza omissiva: in primo luogo la carenza di educazione curriculare per medici e infermieri a trattare e interpretare le necessità e i segnali delle persone con disabilità mentale. Il secondo punto è quello che il documento definisce overshadowing (oscuramento) diagnostico, ovvero la tendenza dei medici a scambiare erroneamente i sintomi di comuni malattie per "atteggiamenti" dovuti al ritardo mentale. Il terzo punto è ancora più inquietante: "talora non viene offerta una cura a persone con disabilità mentale perché si traccia un giudizio sul valore di quella persona. Questo giudizio implica che una vita vissuta con disabilità mentale è una vita di minor valore". Quest'ultima frase ricorda un'indagine fatta tra i medici di numerosi Paesi che in maggioranza affermavano proprio come la vita con disabilità neurologica o fisica sia peggiore della morte ("Journal of the American Medical Association", novembre 2000).
L'ultimo punto - ma i primi due sono specchio del terzo - ci riporta a un dato inquietante, così sintetizzato da Didier Sicard, presidente emerito del Comitato Nazionale Francese di Bioetica: l'eugenetica di un tempo si è ora cambiata d'abito, ma scorre ampiamente nella nostra società. Probabilmente è così: non si afferma più che certi esseri umani hanno un "valore inferiore" sulla base di un presunto "bene della Patria" o "della razza"; ma che in fondo è "loro interesse" morire, perché "inevitabilmente soffrono", e perché, se assolutamente dipendenti dagli altri, non avrebbero vita dignitosa; da qui a sostenere che sofferenza e dipendenza facciano perdere la qualità di "persona" il passo è breve. Ma mentre l'inquietante affermazione che nega l'essere "persone" dei disabili trova facile risposta già nella vita di tutti i giorni, attraverso l'amore di tante mamme e mogli che curano con affetto i neonati o i malati gravi, persone a tutti gli effetti, le altre due - riguardanti il dolore "inevitabile" e la "perdita di dignità" - sono affermazioni altrettanto errate, ma che devono essere ben comprese.
Vediamo di capire. Varie ricerche mostrano che per una serie di ragioni, tra cui il livello delle cure e l'ambiente familiare, la qualità di vita percepita dai disabili può essere pari a quella della popolazione generale, come mostrano uno studio su ex prematuri tra cui molti con problemi funzionali (Saroj Saigal, in "Pediatrics" del marzo 2006) o un altro su disabili fisici, di cui solo il 18 per cento poteva camminare senza aiuto (Susanna Chow, in "Quality of Life Research", 2005). La discrepanza tra la qualità di vita vista "dall'esterno" e quella percepita dal malato è un fatto ben noto e fu definita disability paradox da Gary Albrecht e Patrick Devlieger che osservarono che inaspettatamente il 54 per cento dei disabili moderati o gravi del loro studio riportavano di percepire una qualità di vita "eccellente" ("Social Science and Medicine", aprile 1999). Questo non significa che la vita con disabilità non sia una vita colma troppo spesso di fatica e dolore, e soprattutto una vita da curare con priorità, ma significa che dolore e fatica non sono per sé in grado di sopraffare la voglia di vivere - a differenza di quanto invece fanno l'abbandono e la solitudine - e dunque non sono l'ultima definizione della vita dei malati che certamente soffrono, ma riescono anche, con tragica forza talora, ad andare oltre la loro stessa sofferenza. Non è neanche vero che la malattia, anche quella estrema, renda la vita (o la morte) non dignitosa: la dignità dell'uomo resta tale anche in condizioni non dignitose: è un paradosso che reclama di cambiare le condizioni, non di mettere fine alla vita. Le persone malate vanno curate e curate bene e la nostra società ancora è indietro rispetto ad una giusta classifica delle priorità. Ma risulta difficile capire come invertire la tendenza in società che guardano il malato con pietismo e non generando un'attiva solidarietà; che accanitamente moltiplicano i fondi per gli screening prenatali per malattie genetiche non curabili (vedi Joyce Carter sul "Brithish Medical Journal" dell'aprile 2009), riempiono i quotidiani con richieste di apertura all'eutanasia, ma il cui accanimento decade quando invece si tratta di spendere per cercare una cura alle malattie genetiche come la sindrome Down o le altre malattie dell'apprendimento. Una tale disparità di attenzioni mostra quanto oggi i disabili siano realmente degli "indesiderati" e come siano neanche troppo velatamente invitati a farsi da parte.
La cura delle persone malate, secondo quanto emerge dal rapporto "Healthcare for All" - e da un altro significativamente intitolato "Death by Indifference" ("morte per indifferenza", del 2007) - trova dunque il maggiore ostacolo nel vederle come un "corpo estraneo" della società; magari un "corpo estraneo" da integrare e cui dare medicine, ma pur sempre un "corpo estraneo". Questo scatena una vera e propria "handifobia" - come la chiamano in Francia - cioè l'avversione alla stessa presenza fisica della malattia in sé e negli altri, fino all'avversione verso il malato stesso. E l'handifobia genera discriminazione e cattiva cura, come abbiamo visto; è la base della nuova eugenetica, che nasce da una paura totale di ciò che non è programmabile, centellinabile e ostentabile in sé e negli altri. L'handifobia è pericolosa perché passa subdolamente nei media e nelle scuole, mostrando una visione distorta del malato ridotto solo alla sua malattia, censurando l'umanità, gli sforzi e le conquiste dei disabili e delle loro famiglie, riducendo la disabilità a spettacolo o a stato di cui vergognarsi. L'handifobia è dunque un abuso che, come la violenza fisica, merita una sanzione pubblica verso chi la fomenta e chi la tollera, al pari di quanto previsto per altre forme violente di discriminazione sociale.
L'Osservatore Romano - 1-2 giugno 2009
ELEZIONI/ Io voto per le palafitte di Salvador - Roberto Fontolan - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
In Brasile 53 milioni di persone vivono nelle favelas. Di questa massa immensa, più o meno come se gli italiani vivessero tra i rifiuti di Napoli (prima) e Palermo (ora), ci sono seicento famiglie che vivono nella favela del livello più infimo e brutale. Infatti tra le favelas c’è una gerarchia di qualità, data dal tipo di costruzione (muratura, legno, latta, ecc.), dalla localizzazione, dalle strade e così via.
Le palafitte di Salvador de Bahia stanno sicuramente all’ultimo posto. Poggiano sulla fanghiglia intrisa di spazzatura e liquami, si cammina su passerelle malferme per infilarsi nelle “case”, a volte anche di tre vani, esposte a ogni vento, bufera, odore, roditore, scarafaggio. Capita anche che qualcuno cada “di sotto”, rischiando di morire trafitto dai pali anneriti che spuntano dal fondo (immagini spettrali, degne delle fantasie malate dei creatori di film horror), o al minimo beccandosi la leptospirosi.
Seicento nuclei familiari, forse meno, “abitano” ancora sulle ultime palafitte di Salvador de Bahia. Sono l’ultimo gruppo di un processo iniziato nel 1993, quando decine e decine di migliaia di famiglie formavano la più grande favela su palafitte al mondo. L’esodo verso la terraferma è stato lungo e accidentato, ha dovuto superare tortuosità burocratiche e complessità culturali, poteri forti e deboli, è dovuto crescere dai piccoli ai grandi numeri, e anche per tutte queste ragioni è indicato nel mondo come una delle esperienze di maggiore riuscita nel campo della cooperazione allo sviluppo, al punto che lo si vorrebbe esportare in Africa.
Ma quel che è più grande nel progetto non è l’aspetto edilizio (anzi, puntando su questo lo Stato in un primo momento aveva fallito) ma il pazientissimo lavoro sulla tenuta e sulla crescita sociale delle comunità che via via lasciavano le palafitte. Un impegno enorme, capillare, esposto a mille fragilità, destinato a non essere mai terminato, portato avanti giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Chi ha tirato fuori dal fango (eufemismo) persone come Zinelda, che oggi fa la cuoca all’asilo “Don Giussani”, ed Elismar che ha studiato e insegna al Centro di formazione professionale, è stato corresponsabile di un vero miracolo. E così è andata: oggi si può vedere tutto, tra l’area di Alagados, e Novos Alagados. La straordinaria riuscita e anche il non compiuto, il buco nero di quelle famiglie in attesa che i vincitori delle ultime elezioni, due anni fa, rimettano in moto il meccanismo della salvezza dalla palafitta. Tutto il resto è pronto, mancano solo loro, gli atti dei nuovi governanti.
Ma seicento famiglie o giù di lì non hanno peso elettorale, sono un nulla, una entità trascurabile dal sindaco della città, dal governatore dello Stato, dal presidente Lula. Il quale la scorsa settimana era proprio a Salvador de Bahia per un vertice con il presidente venezuelano Hugo Chavez. Hanno parlato di petrolio, naturalmente, e di politica latinoamericana. Sarebbe bastato un suo gesto, forse anche un’alzata di sopracciglio, e le ultime palafitte sarebbero sparite: è vero, il fatto in sé sarebbe stato politicamente irrisorio ma Lula avrebbe accolto Chavez in una città senza più la favela dell’ultimo livello. Un punto a favore dell’immagine, se non dell’umanità. Eppure non l’ha fatto. Perché? Che cosa ci vuole per quest’ultimo passo?
Ora, tutto questo ha a che fare con le imminenti elezioni che io definisco “per l’Europa di Mario Mauro”. Mi spiego: chi ha lavorato nella baia delle palafitte ottenendo il riconoscimento della Banca Mondiale e della Farnesina sono quelli dell’Avsi; l’Avsi opera anche con i fondi dell’Unione Europea; se i discorsi che ha fatto Mario Mauro in campagna elettorale saranno premiati dal voto, Avsi, come altri soggetti della società civile europea, se ne avvantaggeranno.
Perciò in conclusione, se vogliamo aiutare quelli dell’Avsi e come l’Avsi, se vogliamo far vincere una certa idea dello sviluppo, se vogliamo strattonare per la giacca quelli che possono cancellare la vergogna delle ultime palafitte di Salvador, riscuotendoli dalla “distrazione”, è bene puntare su Mario Mauro.
OBAMA/ Così il presidente americano affronta la prova Medio Oriente - Redazione - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
C’è grande attesa per il discorso che il presidente degli Stati Uniti terrà quest’oggi all’università de Il Cairo. La visita del presidente nero col nome e parte della famiglia musulmana ha generato in Egitto grande entusiasmo. Lo stupore tra gli abitanti per la ripulita che il governo ha dato alla metropoli egiziana, dal rifacimento della strada che porta all’università de Il Cairo alla riverniciatura dei lampioni e dei ponti passando per il rimboschimento di vaste aree con piante e siepi, è palpabile nell’aria.
Ieri, Barack Obama, ha incontrato il re dell’Arabia Saudita, re Abdullah, con il quale gli Stati Uniti intrattengono buone relazioni. Il motivo del viaggio di Obama in Medio Oriente è quello, da un lato, di rivitalizzare il processo di pace tra israeliani e palestinesi e dall’altro di mostrare al mondo arabo e musulmano che gli Usa non cercano affatto lo scontro di civiltà ma una via per cooperare insieme. Cade definitivamente la dottrina Bush sull’esportazione della democrazia anche nei paesi governati dalle dittature e si fa largo la promozione, annunciata da Obama in campagna elettorale, di duri e incontri diplomatici.
Secondo Obama, gli Stati Uniti devono ottenere di nuovo credibilità in Medio Oriente dopo la guerra in Iraq se vogliono ottenere la cooperazione e la pacificazione di questa area del mondo. Insomma, coinvolgimento dei più importanti paesi musulmani per assicurare gli interessi degli Stati Uniti e dell’Occidente.
L’impresa è tra le più ardue ma Obama sembra determinato ad andare fino in fondo. Così si spiega la richiesta avanzata ieri da Obama al re dell’Arabia Saudita di premere sulla Lega Araba per un gesto di distensione nei confronti di Israele. «Come ci si può aspettare che gli arabi scendano a patti senza ricevere alcunché in anticipo se Israele esita ancora ad accettare l’idea stessa di costruire due Stati?», ha dichiarato Mohammad Abdullah al-Zulfa, storico e membro del Concilio Saudita della Shura, l’organo che dispensa consigli al Re al posto del parlamento.
Obama probabilmente incasserà un gentile ma fermo rifiuto alla sua richiesta. I sauditi sostengono che il mondo arabo ha già offerto sostanziali concessioni durante l’Iniziativa di Pace Araba, promossa da ventidue nazioni durante il summit della Lega Araba a Beirut in Libano nel 2002. Quella proposta offriva pieno riconoscimento dello Stato di Israele in cambio del ritiro di Israele ai confini del 1967 e al reinserimento nella zona di Gerusalemme Est dei rifugiati palestinesi. Inoltre i sauditi fanno orecchie da mercante sostenendo che qualora autorizzassero in modo unilaterale alcuni gesti di apertura verso Israele fornirebbero una scusa alle nazioni meno motivate per abbandonare il processo di pace.
Poco dopo l’arrivo a Riyadh, in Arabia Saudita, di Barack Obama, la televisione satellitare Al Jazeera ha diffuso un nuovo messaggio audio attribuito a Osama bin Laden, capo di Al Qaeda. La voce trasmessa dal canale arabo ha accusato Obama di continuare sugli stessi passi del suo predecessore George W. Bush aggiungendo che la nuova amministrazione americana «ha piantato i semi per l’odio e rivincita contro l’America».
Oggi gli egiziani e con loro tutto il mondo arabo si aspettano l’appoggio del presidente Obama per il loro sviluppo e per la risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Deputati egiziani, analisti politici e semplici cittadini dicono che si respira un’atmosfera di quello che può essere definito come scettico ottimismo. Nessuno si aspetta un passo avanti nel conflitto arabo-israeliano ma almeno di sentire delle critiche a Israele sulla sua recente presa di posizione di non ritirare le sue colonie dalla Cisgiordania, e con la popolarità di Obama relativamente alta vi è un accenno di ottimismo.
(Mattia Sorbi)
FILOSOFIA/ Quel modo di “fare scienza” che non è positivismo: l’insegnamento di Vailati - Mario Quaranta - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Giovanni Vailati è nato Crema il 24 aprile 1863 ed è morto a Roma il 14 maggio 1909, a soli 46 anni. Siamo quindi a un centenario, che sarà ricordato in un convegno a Milano il 6 e il 7 di ottobre e in uno a Bologna la settimana successiva.
Chi era Vailati? Si è laureato all’Università di Torino in ingegneria nel 1880 e in matematica pura nel 1888. La sua attività scientifica e filosofica si è svolta in due fasi: la prima a Torino, come assistente di Giuseppe Peano e collaboratore al Formulario matematico, prima, e poi di Vito Volterra successivamente ha insegnato matematica negli Istituti tecnici; la seconda a Firenze ove dal 1904 collabora al “Leonardo” (1903-1905) di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, rivestendo un ruolo di spicco nell’elaborazione e diffusione del pragmatismo in Italia. Spesso la cultura filosofica italiana non ha riconosciuto l’importanza e la forza inovatrice di questo pensatore, troppo scienziato per essere filosofo e troppo filosofo per essere scienziato.
Nel periodo torinese Vailati tenne tre corsi di storia della meccanica le cui prolusioni disegnano la sua posizione filosofica ed epistemologica.
Nella prima, la storia della scienza è intesa come un’attività di ricerca di tipo scientifico, che, allo stesso modo delle altre scienze, elabora modelli esplicativi via via più “potenti”.
Nella seconda, la deduzione è vista come la procedura specifica della razionalità scientifica; nella terza sostiene che il progresso scientifico è spesso ostacolato o fuorviato dall’ambiguità o indeterminatezza dei termini; da ciò l’esigenza che il linguaggio di cui ci serviamo sia sottoposto all’analisi logica più rigorosa. Argomenti e posizioni presenti ancor oggi nel dibattito filosofico.
La filosofia, secondo Vailati, non è una superscienza, né ha un ruolo prescrittivo nei confronti della scienza; il suo compito «non è tanto di fare delle scoperte, quanto piuttosto di prepararle, di provocarle, di farle fare», e raggiunge questo obiettivo affinando gli strumenti della ragione, curando la precisione del linguaggio, individuando i non-sensi, le tautologie scambiate per dimostrazioni, i sofismi e così via.
In conclusione, gli scritti vailatiani più impegnativi offrono indicazioni metodologiche e logico-linguistiche di grande interesse e viva attualità, mentre quelli di storia e filosofia della scienza hanno contribuito a delineare una nuova immagine dell’impresa scientifica, largamente apprezzata dalla cultura filosofica scientifica italiana ed europea per la suggestiva ricchezza dei suoi spunti interpretativi.
MATRIMONIO GAY E OBIEZIONE DI COSCIENZA IN SPAGNA - Quando il compromesso dà fiato al relativismo - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 4 giugno 2009
Alla richiesta, motivata da ragioni di coscienza, del magistrato di Sagunto Pablo De la Rubia Comos di essere sostituito da un collega nell’espletamento delle pratiche inerenti alla celebrazione di un matrimonio gay, il Tribunale supremo spagnolo ha dato una risposta fermamente negativa: il diritto all’obiezione di coscienza non ha rango costituzionale e per sussistere va esplicitamente riconosciuto dalla legge. E nel caso in questione la legge spagnola tace completamente. È evidente (anche se sulle prime può dispiacere) che la risoluzione del Tribunale appare non scorretta, non solo dal punto di vista del diritto spagnolo, ma anche in una più generale prospettiva di teoria generale del diritto. Nessun sistema giuridico positivo potrebbe sussistere, se riconoscesse ai cittadini un diritto assoluto e insindacabile a sottrarsi all’osservanza delle sue norme, invocando una qualsiasi clausola di coscienza. Ma è proprio il fatto che giuridicamente la vicenda abbia trovato una soluzione corretta che getta una luce inquietante su di essa. Qui non si trattava di salvaguardare, attraverso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, istanze etico-sociali, religiose o etniche di carattere particolare, ma una dimensione generalissima e costitutiva dell’identità umana, come appunto quella familiare. E infatti l’obiezione non è stata sollevata da un cittadino comune, dal rappresentante di una formazione sociale, di un movimento, di una confessione religiosa o dal militante di un partito; a denunciare l’ingiustizia di una legge e a manifestare la sua ripugnanza ad applicarla, è stato un magistrato nel pieno delle sue funzioni, un giurista, un rappresentante istituzionale di uno dei poteri dello Stato. Ci troviamo di fronte ad una frattura non componibile, anche se pragmaticamente la soluzione della vicenda è stata trovata, con la pronuncia del Tribunale Supremo. A fronte dell’esultanza dei movimenti gay e della delusione dei più impegnati movimenti cattolici per questa pronuncia già si stanno moltiplicando in Spagna gli auspici e gli appelli a non esasperare ulteriormente la questione, a continuare a ricercare 'compromessi ragionevoli' tra le istanze libertarie dello zapaterismo, così pronto a minimizzare i valori della vita e della famiglia, e quelle di un (per noi) ben più realistico comunitarismo, consapevole che attraverso la vita e la famiglia si difende né più né meno che la stessa identità dell’uomo. Di per sé, la ricerca di 'ragionevoli compromessi' merita ogni lode. A chi però si affanna in tal senso, va ricordato che i compromessi possono valere nel breve, anzi nel brevissimo periodo, ma non possono fondare una coesistenza sociale stabile e duratura nel tempo. Nessuna società può sopravvivere se gli stessi magistrati chiamati a rendere giustizia non riescono più a dar credito, come magistrati, alle norme che devono applicare. Nelle questioni economiche un buon compromesso può consentire a tutte le parti in causa di restare soddisfatte, ma nelle questioni morali lo 'scendere a compromessi' le umilia tutte in pari misura. Smettiamola di esaltare il relativismo, come se fosse in sé e per sé un bene morale, anziché il tarlo immorale che incrina il nostro vivere insieme. Se ci riconosciamo, come uomini, tutti eguali tra noi, abbiamo il dovere, per quanto faticoso possa essere, di identificare in un bene comune a tutti il fondamento della nostra vita sociale. È questo il significato ultimo dell’istanza del magistrato De La Rubia: il rigetto cui è andata incontro non le toglie sotto nessun profilo il suo alto valore esemplare.
Sos: «Gemma» cerca adottanti – Avvenire, 4 giugno 2009 - In quindici anni il «Progetto» del Mpv ha già salvato dall’aborto procurato sedicimila bambini - DI ELISABETTA PITTINO
« Adotta una mamma e aiuti il suo bambino» è lo slogan di Progetto Gemma che la responsabile, Erika Palazzi Vitale, ci fa presenta rispondendo a quattordici domande.
Progetto Gemma: cos’è?
È un’adozione prenatale a distanza di una mamma e del suo bambino. Quando una donna incinta per motivi economici è tentata di ricorrere all’aborto, i Centri di aiuto alla vita (Cav) propongono Progetto Gemma: un sostegno economico di 160 Euro per 18 mesi (da 6 mesi prima della nascita a un anno dopo la nascita). È un coordinamento e una distribuzione della beneficenza per donne incinte che abitano in Italia.
Cosa sono i Cav?
Sono 315 associazioni di volontariato che dal 1975 accolgono e assistono la donna incinta che ha problemi per la gravidanza.
Quando è nato Progetto Gemma? Nel maggio del 1994 un gruppo di persone – Giuseppe Garrone, Silvio Ghielmi, Francesco Migliori, Mario Paolo Rocchi, Giuliana Zoppis – ha unito l’esperienza delle adozioni per il terzo mondo a quella dei Cav.
Perché è nato? Per colmare una grave mancanza delle nostre istituzioni, che non prevedono un’adeguata politica per la famiglia, per potenziare e rendere capillare l’azione dei Cav.
Per chi è nato? Per tante mamme con problemi economici, per famiglie con difficoltà di bilancio, per i bambini che vogliono nascere!
Davvero donne e famiglie non possono tenere il figlio
che vorrebbero?
Moltissime situazioni sono di povertà estrema, quasi sconvolgenti. Non è povertà spirituale: sono sempre più le mamme in gravidanza che non vogliono abortire e chiedono aiuto.
Gemma, perché?
È una cosa preziosa da cui si sviluppa il fiore, la foglia, l’intero albero.
Come funziona?
La Segreteria nazionale di Progetto Gemma, in Via Tonezza 5 a Milano, raccoglie le richieste di aiuto selezionate ed inviate dai Cav locali e le offerte dei donatori–adottanti; fa una graduatoria ed abbina gli adottanti all’adottato. L’abbinamento viene comunicato al Cav locale, quindi alla madre e all’adottante– donatore. Il Cav locale comunicherà l’avvenuta nascita del bambino con foto. La donazione dell’adottante va interamente all’adottato.
Chi possono essere gli «adottanti »?
Singoli, gruppi di tutti generi, adulti e bambini, clubs, classi, condomini, famiglie, sposi novelli, colleghi di lavoro, parrocchie, Caritas,… insomma tutti.
Per l’Abruzzo?
Sostegno per 24 mesi, raddoppiato per i gemelli.
Quanti i bambini nati grazie a Progetto Gemma?
Abbiamo aiutato a nascere sedicimila bambini/e.
Quanti ancora da far nascere?
Abbiamo 142 richieste di aiuto e 1 adottante. L’altra mattina sono arrivate 12 domande di adozione.
Un appello..
È un momento difficile, ma dare la vita e aiutare a dare la vita è sconfiggere la crisi. Abbiamo bisogno di speranza. Quel bambino nascerà perché ora tu hai avuto speranza!
Come partecipare a Progetto Gemma?
Sottoscrivendo una dichiarazione d’impegno telefonando allo 0248702890, scrivendo a progettogemma@mpv.org, facendo sottoscrivere ad altri un Progetto Gemma, trovando amici o colleghi, ed insieme, un pò di euro per uno, sostenere un Progetto Gemma.
Biogiuristi: quando il diritto protegge la vita di Ilaria Nava – Avvenire, 4 giugno 2009
Uno spazio di riflessione giuridica aperto al dialogo e ancorato ai diritti dell’uomo, questo sarà 'L’associazione nazionale biogiuristi italiani', dove avvocati, notai, magistrati, docenti universitari e cultori della materia potranno confrontarsi e 'fare cultura' giuridica. È l’ambizioso progetto di Rosaria Elefante, avvocato e docente a contratto alla Federico II di Napoli, condotto insieme ad Alfredo Granata, avvocato. Entrambi in prima linea nella battaglia giudiziaria sulla vicenda Englaro, soprattutto quando su delega di 34 associazioni di pazienti disabili e loro familiari avevano presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Avvocato Elefante, come nasce l’idea di fondare questa associazione?
«Come studiosa me ne occupo da anni, avendo conseguito un dottorato in bioetica all’Università di Napoli e lavorando in uno studio legale specializzato in biogiuridica. Attraverso il mio lavoro da 15 anni affianco familiari di persone disabili, in stato vegetativo o gravi cerebrolesi. La struttura ha sede Napoli ma ci definiamo uno studio itinerante, dal momento che molti nostri assistiti non possono spostarsi a causa della disabilità, e quindi li raggiungiamo noi. Una sezione dello studio è specializzato in tematiche relative alla fecondazione assistita, a cui, soprattutto prima della legge 40, si
Nella vicenda di Eluana la giurisprudenza ha perso di vista il principio cardine della tutela della vita e della persona. Per evitare che si ripeta, nasce un’associazione ancorata ai diritti dell’uomo. Come spiega l’avvocato Elefante
rivolgevano numerose coppie su cui venivano applicate tecniche in via anche sperimentale, senza un’adeguata informazione sui possibili rischi».
Si avverte con urgenza la necessità di una seria e rigorosa riflessione giuridica su questi temi…..
«Infatti, sebbene me ne interessi da anni, sicuramente di recente, in particolare direi dal 2007, ossia dalla sentenza Englaro, ho notato che talvolta i giuristi rischiano di perdere di vista i principi cardine del nostro ordinamento, quali beni siano meritevoli di tutela giuridica. Oggi sembra che tutto possa costituire un nuovo diritto da far valere all’interno dell’ordinamento, ma penso che non tutte le istanze della medicina trovino spazio: e allora è essenziale capire quali di esse trovano spazio e quali non ne possano trovare, cosa necessita di una legge e che cosa è meglio che non sia normato. Il Parlamento, unico organo deputato a legiferare, stimolato da un’attenta dottrina e giurisprudenza, dovrà accogliere solo quelle istanze basate sulla tutela di un diritto riconosciuto in quanto tale».
L’associazione studierà questi temi solo a livello
teorico o porterete avanti anche azioni concrete?
«Non saremo meramente teorici, anche se naturalmente lo studio costituirà un momento essenziale. Saremo anche propositivi, stimoleremo una serie di interventi, anche legislativi, di diretto impatto sociale. Ad esempio, cercheremo di ottenere l’istituzione di sezioni specializzate in biogiuridica nei tribunali. Siamo consapevoli, infatti, che non è ammessa l’improvvisazione in una materia delicata come questa, e le conoscenze giuridiche sono sicuramente la base ma non sono sufficienti. È necessario avere una cultura specifica, composta di competenze anche scientifiche e mediche».
In Italia non esiste un ente con finalità simili?
«Esistono delle correnti di pensiero, delle scuole, dove a mio parere è un po’ carente l’elemento essenziale, ossia il dialogo, l’apertura, il confronto, pur nell’ambito di valori forti di riferimento».
Quali sono i prossimi step?
«Nei prossimi giorni stipuleremo l’atto formale di costituzione dell’associazione, che sarà una Onlus, anche se in realtà siamo operativi da molto tempo; siamo già un gruppo piuttosto numeroso di giuristi, tra cui avvocati, magistrati, notai, docenti, che hanno già maturato un’esperienza significativa nell’ambito del biodiritto. In autunno è previsto il primo evento di rilievo. Per la divulgazione prevediamo di aprire un sito e fondare una rivista dedicata esclusivamente a queste tematiche».
1) Benedetto XVI presenta il monaco Rabano Mauro in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro
2) Il crocifisso del samurai - Rino Cammilleri racconta la grande rivolta dei samurai cristiani - di Antonio Gaspari
3) Assassinato un missionario austriaco in Sudafrica - Padre Ernest Plochl è stato strangolato da alcuni ladri
4) Se la qualità è la misura della vita il disabile diventa zavorra inutile - Shoccanti risultati di uno studio condotto in Inghilterra: le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate… - di Carlo Bellieni
5) ELEZIONI/ Io voto per le palafitte di Salvador - Roberto Fontolan - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
6) OBAMA/ Così il presidente americano affronta la prova Medio Oriente - Redazione - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) FILOSOFIA/ Quel modo di “fare scienza” che non è positivismo: l’insegnamento di Vailati - Mario Quaranta - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) MATRIMONIO GAY E OBIEZIONE DI COSCIENZA IN SPAGNA - Quando il compromesso dà fiato al relativismo - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 4 giugno 2009
9) Sos: «Gemma» cerca adottanti – Avvenire, 4 giugno 2009 - In quindici anni il «Progetto» del Mpv ha già salvato dall’aborto procurato sedicimila bambini - DI ELISABETTA PITTINO
10) Biogiuristi: quando il diritto protegge la vita di Ilaria Nava – Avvenire, 4 giugno 2009
Benedetto XVI presenta il monaco Rabano Mauro in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 3 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato sul monaco Rabano Mauro.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di un personaggio dell’Occidente latino veramente straordinario: il monaco Rabano Mauro. Insieme a uomini quali Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Ambrogio Autperto, dei quali ho già parlato in catechesi precedenti, egli seppe durante i secoli del cosiddetto Alto Medioevo mantenere il contatto con la grande cultura degli antichi sapienti e dei Padri cristiani. Ricordato spesso come "praeceptor Germaniae", Rabano Mauro fu di una fecondità straordinaria. Con la sua capacità lavorativa assolutamente eccezionale contribuì forse più di tutti a tener viva quella cultura teologica, esegetica e spirituale alla quale avrebbero attinto i secoli successivi. A lui si rifanno sia grandi personaggi appartenenti al mondo dei monaci come Pier Damiani, Pietro il Venerabile e Bernardo di Chiaravalle, come anche un numero sempre più consistente di "clerici" del clero secolare, che nel corso del XII e XIII secolo dettero vita ad una delle fioriture più belle e feconde del pensiero umano.
Nato a Magonza intorno al 780, Rabano era entrato giovanissimo in monastero: gli fu aggiunto il nome di Mauro proprio con riferimento al giovane Mauro che, secondo il Libro II dei Dialoghi di San Gregorio Magno, era stato affidato ancora bambino dai suoi stessi genitori, nobili romani, all’abate Benedetto da Norcia. Questo precoce inserimento di Rabano come "puer oblatus" nel mondo monastico benedettino, e i frutti che egli ne ricavò per la propria crescita umana, culturale e spirituale, aprirebbero da soli uno spiraglio interessantissimo non solo sulla vita dei monaci e della Chiesa, ma anche sull’intera società del suo tempo, abitualmente qualificata come "carolingia". Di essi, o forse di se stesso, Rabano Mauro scrive: "Vi sono alcuni che hanno avuto la fortuna di essere introdotti nella conoscenza delle Scritture fin dalla tenera infanzia ("a cunabulis suis") e sono stati nutriti talmente bene col cibo offerto loro dalla santa Chiesa da poter essere promossi, con l’educazione appropriata, ai più alti ordini sacri" (PL 107, col 419BC).
La straordinaria cultura, per cui Rabano Mauro si distingueva, lo segnalò assai presto all’attenzione dei grandi del suo tempo. Divenne consigliere di Principi. Si impegnò per garantire l’unità dell’Impero e, a livello culturale più ampio, non ricusò mai di offrire a chi lo interrogava una risposta ponderata, che traeva preferibilmente dalla Bibbia e dai testi dei santi Padri. Eletto dapprima Abate del famoso monastero di Fulda e poi Arcivescovo della città natale, Magonza, non smise per questo di proseguire nei suoi studi, dimostrando con l’esempio della sua vita che si può essere simultaneamente a disposizione degli altri, senza privarsi per questo di un congruo tempo per la riflessione, lo studio e la meditazione. Così Rabano Mauro fu esegeta, filosofo, poeta, pastore e uomo di Dio. Le diocesi di Fulda, Magonza, Limbourg e Wrocław lo venerano come santo o beato. Le sue opere riempiono ben sei volumi della Patrologia Latina del Migne. A lui si deve con probabilità uno degli inni più belli e conosciuti della Chiesa latina, il "Veni Creator Spiritus", sintesi straordinaria di pneumatologia cristiana. Il primo impegno teologico di Rabano si espresse, in effetti, sotto forma di poesia ed ebbe come oggetto il mistero della Santa Croce in un’opera intitolata "De laudibus Sanctae Crucis", concepita in modo tale da proporre non soltanto contenuti concettuali ma anche stimoli più squisitamente artistici, utilizzando sia la forma poetica che la forma pittorica all’interno dello stesso codice manoscritto. Proponendo iconograficamente fra le righe del suo scritto l’immagine di Cristo crocifisso, egli ad esempio scrive: "Ecco l’immagine del Salvatore che, con la posizione delle sue membra, rende sacra per noi la saluberrima, dolcissima e amatissima forma della Croce, affinché credendo nel suo nome e obbedendo ai suoi comandamenti possiamo ottenere la vita eterna grazie alla sua Passione. Ogni volta perciò che eleviamo lo sguardo verso la Croce ricordiamoci di Colui che patì per noi per strapparci dal potere delle tenebre, accettando la morte per farci eredi della vita eterna" (Lib. 1, Fig. 1, PL 107 col 151 C).
Questo metodo di combinare tutte le arti, l’intelletto il cuore e i sensi, che proveniva dall’Oriente, avrebbe ricevuto enorme sviluppo in Occidente toccando vertici ineguagliabili nei codici miniati della Bibbia e in altre opere di fede e di arte, che fiorirono in Europa fino all’invenzione della stampa ed anche oltre. Esso dimostra in ogni caso in Rabano Mauro una consapevolezza straordinaria della necessità di coinvolgere, nella esperienza della fede, non soltanto la mente e il cuore, ma anche i sensi mediante quegli altri aspetti del gusto estetico e della sensibilità umana che portano l’uomo a fruire della verità con tutto se stesso, "spirito, anima e corpo". Questo è importante: la fede non è solo pensiero, ma tocca tutto il nostro essere. Poiché Dio si è fatto uomo in carne e ossa, è entrato nel mondo sensibile, noi in tutte le dimensioni del nostro essere dobbiamo cercare e incontrare Dio. Così la realtà di Dio, mediante la fede, penetra nel nostro essere e lo trasforma. Per questo Rabano Mauro ha concentrato la su attenzione soprattutto sulla Liturgia, come sintesi di tutte le dimensioni della nostra percezione della realtà. Questa intuizione di Rabano Mauro lo rende straordinariamente attuale. Di lui rimasero anche famosi i "Carmina", proposti per essere utilizzati soprattutto nelle celebrazioni liturgiche. Infatti era del tutto scontato, dal momento che Rabano era anzitutto un monaco, il suo interesse per la celebrazione liturgica. Egli però non si dedicava all’arte poetica come fine a se stessa, ma piegava l’arte e ogni altro tipo di conoscenza all’approfondimento della Parola di Dio. Cercò perciò, con estremo impegno e rigore, di introdurre i suoi contemporanei, ma soprattutto i ministri (vescovi, presbiteri e diaconi) alla comprensione del significato profondamente teologico e spirituale di tutti gli elementi della celebrazione liturgica.
Tentò così di capire e proporre agli altri i significati teologici nascosti nei riti, attingendo alla Bibbia e alla tradizione dei Padri. Non esitava a dichiarare, per onestà ed anche per dare maggior peso alle sue spiegazioni, le fonti patristiche alle quali doveva il suo sapere. Di esse tuttavia si serviva con libertà e attento discernimento, continuando nello sviluppo del pensiero patristico. Al termine dell’"Epistola prima" diretta a un "corepiscopo" della diocesi di Magonza, per esempio, dopo aver risposto alle richieste di chiarimento sul comportamento da seguire nell’esercizio della responsabilità pastorale, prosegue: "Ti abbiamo scritto tutto questo così come lo abbiamo dedotto dalle Sacre Scritture e dai canoni dei Padri. Tu però, santissimo uomo, prendi le tue decisioni come sembra meglio a te, caso per caso, cercando di temperare la tua valutazione in modo tale da garantire in tutto la discrezione, perché essa è la madre di tutte le virtù" (Epistulae, I, PL 112, col 1510 C). Si vede così la continuità della fede cristiana, che ha i suoi inizi nella Parola di Dio; essa però è sempre viva, si sviluppa e si esprime in nuovi modi, sempre in coerenza con tutta la costruzione, con tutto l'edificio della fede.
Dal momento che parte integrante della celebrazione liturgica è la Parola di Dio, a quest’ultima Rabano Mauro si dedicò con massimo impegno durante l’intera sua esistenza. Produsse spiegazioni esegetiche appropriate pressoché per tutti i libri biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento con intento chiaramente pastorale, che giustificava con parole come queste: "Ho scritto queste cose… sintetizzando spiegazioni e proposte di molti altri per offrire un servizio al lettore povero che non può avere a disposizione molti libri, ma anche per facilitare coloro che in molte cose non riescono ad entrare in profondità nella comprensione dei significati scoperti dai Padri" (Commentariorum in Matthaeum praefatio, PL 107, col. 727D). Di fatto, nel commentare i testi biblici attingeva a piene mani ai Padri antichi, con speciale predilezione per Girolamo, Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno.
La spiccata sensibilità pastorale lo portò poi a farsi carico soprattutto di uno dei problemi più sentiti dai fedeli e dai ministri sacri del suo tempo: quello della Penitenza. Fu compilatore infatti di "Penitenziari" – così li si chiamava – nei quali, secondo la sensibilità dell’epoca, venivano elencati peccati e pene corrispondenti, utilizzando per quanto possibile motivazioni attinte alla Bibbia, alle decisioni dei Concili e alle Decretali dei Papi. Di tali testi si servirono pure i "Carolingi" nel loro tentativo di riforma della Chiesa e della società. Allo stesso intento pastorale rispondevano opere come "De disciplina ecclesiastica" e "De institutione clericorum" in cui, attingendo soprattutto ad Agostino, Rabano spiegava ai semplici e al clero della sua diocesi gli elementi fondamentali della fede cristiana: erano una specie di piccoli catechismi.
Vorrei concludere la presentazione di questo grande "uomo di Chiesa" citando alcune sue parole nelle quali ben si rispecchia la sua convinzione di fondo: "Chi è negligente nella contemplazione ("qui vacare Deo negligit"), si priva da se stesso della visione della luce di Dio; chi poi si lascia prendere in modo indiscreto dalle preoccupazioni e permette ai suoi pensieri di essere travolti dal tumulto delle cose del mondo si condanna all’assoluta impossibilità di penetrare i segreti del Dio invisibile" (Lib. I, PL 112, col. 1263A). Penso che Rabano Mauro rivolga queste parole anche a noi oggi: nei tempi del lavoro, con i suoi ritmi frenetici, e nei tempi delle vacanze dobbiamo riservare momenti a Dio. Aprire a Lui la nostra vita rivolgendoGli un pensiero, una riflessione, una breve preghiera, e soprattutto non dobbiamo dimenticare la domenica come il giorno del Signore, il giorno della liturgia, per percepire nella bellezza delle nostre chiese, della musica sacra e della Parola di Dio la bellezza stessa di Dio, lasciandolo entrare nel nostro essere. Solo così la nostra vita diventa grande, diventa vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Cremona qui convenuti con il loro Vescovo Mons. Dante Lanfranconi, come pure a quelli della diocesi di Verona ed incoraggio ciascuno a seguire in ogni circostanza gli insegnamenti evangelici. Saluto i partecipanti al Capitolo Generale dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù – Dehoniani e, nel formulare fervidi voti augurali al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio, esorto l’intero Istituto a vivere in pienezza il Vangelo della carità. Saluto con affetto i Seminaristi della diocesi di Nardò-Gallipoli, assicurando a tutti il mio orante ricordo.
Rivolgo ora un affettuoso saluto ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Cari giovani, domenica prossima celebreremo la solennità della Santissima Trinità. Vi auguro che la contemplazione del mistero trinitario vi introduca sempre più nell'Amore divino. Cari ammalati, grazie al Battesimo è presente la Santissima Trinità nella vostra vita. Ciò vi sia di sostegno per compiere in ogni circostanza la volontà del Signore. E voi, cari sposi novelli, possiate sempre ispirarvi alla comunione trinitaria per formare una famiglia cristiana nella quale vi sia dato di sperimentare, nel reciproco amore, la gioia della preghiera e dell'accoglienza della vita.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il crocifisso del samurai - Rino Cammilleri racconta la grande rivolta dei samurai cristiani - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 3 giugno 209 (ZENIT.org).- Un romanzo straordinario, il racconto di un fatto vero che ha segnato la storia di un paese e della comunità cristiana, un evento epico e commovente, una vicenda che narra l’eroismo di samurai e contadini, che pur di avere la libertà religiosa morirono tutti martiri.
“Il crocifisso del samurai”, edito da Rizzoli e scritto da Rino Cammilleri, racconta la grande rivolta dei samurai cristiani di Shimabara avvenuta nel 1637.
Quarantamila cristiani giapponesi, donne e bambini compresi, si ribellarono alla persecuzione e si arroccarono nella penisola di Shimabara, nel castello in disuso di Hara. Qui tennero testa per cinque mesi al più grande esercito di samurai che la storia del Giappone avesse mai visto.
Nella battaglia finale i cristiani vennero uccisi, migliaia delle loro teste vennero infilzate su pali per terrorizzare chiunque avesse voluto farsi cristiano.
L’armata dello Shogun riuscì a stroncare la ribellione, ma al costo di settantamila uomini ben armati e addestrati che morirono combattendo contro contadini e anziani samurai cristiani che pure erano affamati e indeboliti dal freddo, ma saldi nella fede in Gesù Cristo.
Per evitare l’onta di non essere riuscito a domare la rivolta il generale giapponese Matsudaira Nobutsuna, offrì ai rivoltosi l’onore delle armi, la dilazione sulle tasse e il perdono, ma questi rifiutarono. L’unica cosa che chiesero era la libertà di professare la religione cristiana.
Ma proprio questa libertà era ciò che le autorità giapponesi temevano. Per i due secoli successivi alla rivolta cristiana, il Giappone si isolò dal mondo e perseguitò tutti coloro che si dicevano seguaci di Cristo.
Eppure, quando nella seconda metà dell’Ottocento i missionari europei poterono tornare in Giappone, trovarono che i discendenti di quegli antichi cristiani avevano conservato la fede nella clandestinità, tramandandosela di generazione in generazione.
Rino Cammilleri, noto giornalista e saggista, ha svolto una intensa ricerca storica per scrivere questo romanzo così avvincente.
Cammilleri, che ha trascorso la vita a indagare la storia della cristianità, è autore di rubriche in diverse testate giornalistiche. Ha pubblicato decine di libri, tra cui “I santi di Milano” (Rizzoli 2000), “Gli occhi di Maria” (con Vittorio Messori, Rizzoli 2001) e “Immortale odium” (Rizzoli 2007).
ZENIT lo ha intervistato.
Per anni lei ha studiato e raccontato la storia del cristianesimo. Come è arrivato a questa struggente storia dei martiri giapponesi?
Cammilleri: Chi mi segue sa che mi sono a lungo occupato di sfatare le “leggende nere” che gravano sulla storia della Chiesa. I presunti scheletri nell’armadio del cristianesimo (Inquisizione, Crociate, Galileo, Conquistadores…) ormai li ho revisionati tutti. Ma in tutti questi anni mi sono imbattuto in storie meravigliose che nessuno ha mai raccontato, almeno non col risalto che meritano. Sono storie così avvincenti da superare la fantasia e sono ideali per un romanzo storico, genere al quale i cattolici non si dedicano più da troppo tempo. Ho deciso, allora di farlo io. Col precedente “Immortale odium” (Rizzoli) ho messo in scena il braccio di ferro ottocentesco tra la Chiesa e la Massoneria, prendendo spunto dall’attacco al corteo funebre del b. Pio IX nel 1881. Con questo “Il crocifisso del samurai” (sempre Rizzoli) ho puntato il riflettore sulla grande rivolta di Shimabara, in cui nel 1637 quasi cinquantamila cristiani giapponesi, guidati da samurai cristiani, si immolarono in nome della libertà religiosa e del loro diritto a professare la religione di Cristo.
Perché le autorità giapponesi ebbero così paura del cristianesimo?
Cammilleri: Con la battaglia di Sekigahara del 1600 erano finite le eterne guerre feudali e il clan dei Tokugawa si era imposto su tutto il Giappone, governando di fatto al posto dell’Imperatore. Il cristianesimo, portato da s. Francesco Saverio, era stato dapprima bene accolto e quasi trecentomila giapponesi si erano fatti battezzare. Ma contro di loro “remavano” i bonzi buddisti e i mercanti protestanti, invidiosi della concorrenza spagnola e portoghese. Misero la pulce nell’orecchio allo Shogun (il dittatore): i missionari cattolici erano l’avanguardia dell’invasione spagnola e portoghese. La prova? Il fatto che i cristiani, quando erano messi di fronte alla scelta tra le leggi dello Shogun e quelle di Cristo, preferivano farsi uccidere anziché disobbedire a quest’ultimo.
Perché il sangue di quei martiri sembra aver generato così poco frutto?
Cammilleri: Non direi, anzi. Per due secoli, proprio a causa di quella rivolta, il Giappone si chiuse al mondo esterno. Quando i missionari poterono tornare, nella seconda metà dell’Ottocento, trovarono che il cristianesimo era sopravvissuto nelle catacombe, tramandato di padre in figlio. I «cristiani nascosti», sfidando la morte (il cristianesimo sul suolo giapponese ebbe il permesso di esistere solo alla fine del secolo), contattarono il primo missionario e gli fecero addirittura l’esame per vedere se era cattolico o protestante. Non si è mai vista una fedeltà così tenace. L’animo giapponese ha anche questo bellissimo aspetto.
Nella parte finale del romanzo lei ricorda la profezia di Tertulliano secondo cui “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”, ma poi riflette anche sul fatto che in tanti luoghi il cristianesimo è stato soffocato nel sangue. Ha una spiegazione teologica per questa apparente contraddizione?
Cammilleri: No. Io posso basarmi solo sui fatti storici. Nei luoghi dove si è stesa la cappa islamica, per esempio, il cristianesimo è praticamente scomparso. In Giappone la maggior concentrazione di cristiani era nella zona di Nagasaki. Ebbene, proprio a Nagasaki è stata sganciata la seconda bomba atomica. La cristianità nipponica è stata azzerata per due volte. Tutti i beatificati giapponesi sono martiri. Tertulliano aveva sotto gli occhi i cristiani romani. Noi, oggi, abbiamo una visuale più ampia della sua. Non basta impiantare il cristianesimo, occorre difenderlo: questo è quanto la storia ci insegna. In Indocina la persecuzione cessò solo quando intervennero le cannoniere francesi. In Cina, i massacri di cristiani da parte della setta dei Boxers smisero quando le potenze occidentali inviarono corpi di spedizione.
Oggi in Giappone solo il 4% della popolazione è cristiano. Crede che la situazione possa cambiare e che i cristiani possano crescere verso cifre significative?
Cammilleri: Il cristianesimo ha dalla sua, agli occhi degli orientali, il prestigio dell’Occidente. Ma anche la pessima immagine di sé che, sul piano morale, l’Occidente secolarizzato ormai offre. E’ l’Occidente che, nel bene e nel male, dà il “la” all’intero pianeta. E se il sale non riacquista sapore non serve davvero a niente. Se si rievangelizza l’Occidente il resto seguirà.
I samurai giapponesi sembrano molto simili ai legionari romani. Con la differenza che i legionari che si convertirono al cristianesimo, che pure morirono a migliaia, generarono chiese, devozione, altre conversioni, fino ad arrivare all’imperatore Costantino. Cosa è accaduto in Giappone perché la storia si svolgesse in maniera così diversa?
Cammilleri: Proviamo a immaginare se non ci fosse stato Costantino, se il cristianesimo fosse stato bandito dalle legioni, se si fosse continuato a perseguitarlo con l’efficacia ossessiva di Diocleziano. Le precedenti persecuzioni erano state sporadiche e localizzate. La pressione non fu mai così capillare da impedire alla pianticella di respirare e svilupparsi. Costantino, da buon giardiniere, diede spazio e acqua e concime. Infatti, già con Teodosio, sessant’anni dopo, il cristianesimo era diventato maggioritario nell’Impero. Ma in Giappone non fu così. Il cristianesimo fu perseguitato nei modi più feroci per più di due secoli, e solo esso. Una pausa di settant’anni, poi, come sappiamo, giù una atomica. Tuttavia, oggi c’è un detto in Giappone: quando si commemora il giorno della bomba, «Hiroshima urla, Nagasaki prega». Proteste antiamericane nella prima, composte liturgie nella seconda. Il “piccolo gregge” giapponese ha la pelle dura, e la testa anche di più.
Per molti anni il mondo giornalistico e letterario cattolico italiano è stato impegnato a rispondere alle calunnie e alle allusioni di diversi scrittori contrari a Cristo e alla Chiesa cattolica. Con questa sua opera così come con il libro di Rosa Alberoni “La prigioniera dell’Abbazia” si può cominciare a dire che emerge e si consolida un filone di romanzi che ruotano attorno ai valori, alle virtù, all’epopea, alla storia, all’eroismo dei cristiani?
Cammilleri: Le cose emergono se c’è qualcuno che le fa emergere. Spero proprio che si tratti di «filone», perché per il momento mi pare solo una cocciuta iniziativa di pochi. Cocciuta, ho detto, perchè questi combattono non più contro intellettuali avversari ma contro il mercato. Se la gente preferisce comprare libri sui vampiri o sui serial killer, i casi sono due: o i romanzieri cattolici non sono capaci di avvincere e non annoiare, o anche il pubblico cattolico preferisce vampiri e serial killer. In quest’ultimo caso siamo davvero messi male.
Assassinato un missionario austriaco in Sudafrica - Padre Ernest Plochl è stato strangolato da alcuni ladri
MATATIELE (Sudafrica), mercoledì, 3 giugno 2009 (ZENIT.org).- Il missionario di origine austriaca Ernest Plochl, della Congregazione dei Missionari di Mariannhill, è stato assassinato questo sabato nella sua missione di Mariazell, nella regione meridionale del Sudafrica.
Il superiore provinciale della sua Congregazione, padre Guy Cloutier, spiega le circostanze della sua morte in una lettera che ha pubblicato sulla pagina web dei Missionari di Mariannhill dopo aver visitato la missione di Mariazell, situata a circa 400 chilometri da Mthatha.
A quanto sembra, sabato pomeriggio alcuni giovani aspettavano il missionario a casa sua per derubarlo del denaro che sapevano aveva preso per pagare quanti lavoravano per lui.
Padre Plochl, tuttavia, aveva pagato i lavoratori sabato mattina perché la fine del mese cadeva di domenica.
Dopo che era tornato a casa dalla cena e dalla riunione comunitaria, i ladri lo hanno spinto nell'ufficio e lo hanno costretto ad aprire la cassetta di sicurezza.
Non trovando la quantità di denaro che speravano, si sono scagliati contro di lui e lo hanno legato e strangolato.
Il missionario aveva 78 anni e si trovava in Sudafrica da più di 40. Attualmente amministrava una scuola con 400 alunni nella città di Matatiele.
I funerali verranno celebrati venerdì mattina nella missione di Mariazell, dove verrà sepolto, visto che, come spiega il superiore provinciale, ha lavorato in quel luogo per la maggior parte della sua vita.
Verrà anche celebrata una Messa di suffragio nella sua città natale, Neumarkt-im-Mühlkreis, dove la notizia della sua morte ha suscitato grande commozione.
Padre Ernest Plochl è il terzo sacerdote cattolico ad essere assassinato in Sudafrica quest'anno. Secondo quanto rende noto l'agenzia Fides, il Paese registra una delle percentuali più alte di crimini violenti al mondo: una media di 50 omicidi al giorno.
Se la qualità è la misura della vita il disabile diventa zavorra inutile - Shoccanti risultati di uno studio condotto in Inghilterra: le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate… - di Carlo Bellieni
È stato pubblicato in questi giorni in Inghilterra un protocollo dal titolo "Valuing People Now" ("Valorizzare da subito le persone") attraverso il quale il Governo britannico rinnova la strategia per sopperire alle gravi carenze del sistema sanitario nei confronti degli individui con handicap mentale denunciate nel luglio 2008 dal rapporto "Healthcare for All" (Cura della Salute per Tutti). Sulla rivista "Lancet", veniva così sintetizzato il risultato del rapporto: "Il rapporto ha mostrato che le persone con disabilità di apprendimento hanno grande difficoltà ad accedere al Sistema Sanitario Nazionale. Purtroppo, i sanitari e il sistema sanitario ignorano ampiamente questi individui. (...) Il fatto è che le persone con difficoltà di apprendimento sono quasi invisibili al Sistema Sanitario Nazionale" (9 agosto 2008).
I risultati della ricerca lasciavano sgomenti sui reali diritti dei disabili in un'epoca in cui la salute è garantita come diritto e le minoranze sono, a parole, tutelate. Il rapporto sosteneva che le persone con ritardo mentale ricevono meno analgesia e meno cure palliative - in particolare se fanno parte di etnie minoritarie - dal momento che i segni di dolore vengono confusi con quelli che sono espressione di malattia mentale. Riportava che in caso di diabete o d'ipertensione ricevono meno test e meno esami degli altri. E la conclusione è shoccante: "Le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate".
Sono tre i punti del documento che spiegano tale carenza omissiva: in primo luogo la carenza di educazione curriculare per medici e infermieri a trattare e interpretare le necessità e i segnali delle persone con disabilità mentale. Il secondo punto è quello che il documento definisce overshadowing (oscuramento) diagnostico, ovvero la tendenza dei medici a scambiare erroneamente i sintomi di comuni malattie per "atteggiamenti" dovuti al ritardo mentale. Il terzo punto è ancora più inquietante: "talora non viene offerta una cura a persone con disabilità mentale perché si traccia un giudizio sul valore di quella persona. Questo giudizio implica che una vita vissuta con disabilità mentale è una vita di minor valore". Quest'ultima frase ricorda un'indagine fatta tra i medici di numerosi Paesi che in maggioranza affermavano proprio come la vita con disabilità neurologica o fisica sia peggiore della morte ("Journal of the American Medical Association", novembre 2000).
L'ultimo punto - ma i primi due sono specchio del terzo - ci riporta a un dato inquietante, così sintetizzato da Didier Sicard, presidente emerito del Comitato Nazionale Francese di Bioetica: l'eugenetica di un tempo si è ora cambiata d'abito, ma scorre ampiamente nella nostra società. Probabilmente è così: non si afferma più che certi esseri umani hanno un "valore inferiore" sulla base di un presunto "bene della Patria" o "della razza"; ma che in fondo è "loro interesse" morire, perché "inevitabilmente soffrono", e perché, se assolutamente dipendenti dagli altri, non avrebbero vita dignitosa; da qui a sostenere che sofferenza e dipendenza facciano perdere la qualità di "persona" il passo è breve. Ma mentre l'inquietante affermazione che nega l'essere "persone" dei disabili trova facile risposta già nella vita di tutti i giorni, attraverso l'amore di tante mamme e mogli che curano con affetto i neonati o i malati gravi, persone a tutti gli effetti, le altre due - riguardanti il dolore "inevitabile" e la "perdita di dignità" - sono affermazioni altrettanto errate, ma che devono essere ben comprese.
Vediamo di capire. Varie ricerche mostrano che per una serie di ragioni, tra cui il livello delle cure e l'ambiente familiare, la qualità di vita percepita dai disabili può essere pari a quella della popolazione generale, come mostrano uno studio su ex prematuri tra cui molti con problemi funzionali (Saroj Saigal, in "Pediatrics" del marzo 2006) o un altro su disabili fisici, di cui solo il 18 per cento poteva camminare senza aiuto (Susanna Chow, in "Quality of Life Research", 2005). La discrepanza tra la qualità di vita vista "dall'esterno" e quella percepita dal malato è un fatto ben noto e fu definita disability paradox da Gary Albrecht e Patrick Devlieger che osservarono che inaspettatamente il 54 per cento dei disabili moderati o gravi del loro studio riportavano di percepire una qualità di vita "eccellente" ("Social Science and Medicine", aprile 1999). Questo non significa che la vita con disabilità non sia una vita colma troppo spesso di fatica e dolore, e soprattutto una vita da curare con priorità, ma significa che dolore e fatica non sono per sé in grado di sopraffare la voglia di vivere - a differenza di quanto invece fanno l'abbandono e la solitudine - e dunque non sono l'ultima definizione della vita dei malati che certamente soffrono, ma riescono anche, con tragica forza talora, ad andare oltre la loro stessa sofferenza. Non è neanche vero che la malattia, anche quella estrema, renda la vita (o la morte) non dignitosa: la dignità dell'uomo resta tale anche in condizioni non dignitose: è un paradosso che reclama di cambiare le condizioni, non di mettere fine alla vita. Le persone malate vanno curate e curate bene e la nostra società ancora è indietro rispetto ad una giusta classifica delle priorità. Ma risulta difficile capire come invertire la tendenza in società che guardano il malato con pietismo e non generando un'attiva solidarietà; che accanitamente moltiplicano i fondi per gli screening prenatali per malattie genetiche non curabili (vedi Joyce Carter sul "Brithish Medical Journal" dell'aprile 2009), riempiono i quotidiani con richieste di apertura all'eutanasia, ma il cui accanimento decade quando invece si tratta di spendere per cercare una cura alle malattie genetiche come la sindrome Down o le altre malattie dell'apprendimento. Una tale disparità di attenzioni mostra quanto oggi i disabili siano realmente degli "indesiderati" e come siano neanche troppo velatamente invitati a farsi da parte.
La cura delle persone malate, secondo quanto emerge dal rapporto "Healthcare for All" - e da un altro significativamente intitolato "Death by Indifference" ("morte per indifferenza", del 2007) - trova dunque il maggiore ostacolo nel vederle come un "corpo estraneo" della società; magari un "corpo estraneo" da integrare e cui dare medicine, ma pur sempre un "corpo estraneo". Questo scatena una vera e propria "handifobia" - come la chiamano in Francia - cioè l'avversione alla stessa presenza fisica della malattia in sé e negli altri, fino all'avversione verso il malato stesso. E l'handifobia genera discriminazione e cattiva cura, come abbiamo visto; è la base della nuova eugenetica, che nasce da una paura totale di ciò che non è programmabile, centellinabile e ostentabile in sé e negli altri. L'handifobia è pericolosa perché passa subdolamente nei media e nelle scuole, mostrando una visione distorta del malato ridotto solo alla sua malattia, censurando l'umanità, gli sforzi e le conquiste dei disabili e delle loro famiglie, riducendo la disabilità a spettacolo o a stato di cui vergognarsi. L'handifobia è dunque un abuso che, come la violenza fisica, merita una sanzione pubblica verso chi la fomenta e chi la tollera, al pari di quanto previsto per altre forme violente di discriminazione sociale.
L'Osservatore Romano - 1-2 giugno 2009
ELEZIONI/ Io voto per le palafitte di Salvador - Roberto Fontolan - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
In Brasile 53 milioni di persone vivono nelle favelas. Di questa massa immensa, più o meno come se gli italiani vivessero tra i rifiuti di Napoli (prima) e Palermo (ora), ci sono seicento famiglie che vivono nella favela del livello più infimo e brutale. Infatti tra le favelas c’è una gerarchia di qualità, data dal tipo di costruzione (muratura, legno, latta, ecc.), dalla localizzazione, dalle strade e così via.
Le palafitte di Salvador de Bahia stanno sicuramente all’ultimo posto. Poggiano sulla fanghiglia intrisa di spazzatura e liquami, si cammina su passerelle malferme per infilarsi nelle “case”, a volte anche di tre vani, esposte a ogni vento, bufera, odore, roditore, scarafaggio. Capita anche che qualcuno cada “di sotto”, rischiando di morire trafitto dai pali anneriti che spuntano dal fondo (immagini spettrali, degne delle fantasie malate dei creatori di film horror), o al minimo beccandosi la leptospirosi.
Seicento nuclei familiari, forse meno, “abitano” ancora sulle ultime palafitte di Salvador de Bahia. Sono l’ultimo gruppo di un processo iniziato nel 1993, quando decine e decine di migliaia di famiglie formavano la più grande favela su palafitte al mondo. L’esodo verso la terraferma è stato lungo e accidentato, ha dovuto superare tortuosità burocratiche e complessità culturali, poteri forti e deboli, è dovuto crescere dai piccoli ai grandi numeri, e anche per tutte queste ragioni è indicato nel mondo come una delle esperienze di maggiore riuscita nel campo della cooperazione allo sviluppo, al punto che lo si vorrebbe esportare in Africa.
Ma quel che è più grande nel progetto non è l’aspetto edilizio (anzi, puntando su questo lo Stato in un primo momento aveva fallito) ma il pazientissimo lavoro sulla tenuta e sulla crescita sociale delle comunità che via via lasciavano le palafitte. Un impegno enorme, capillare, esposto a mille fragilità, destinato a non essere mai terminato, portato avanti giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Chi ha tirato fuori dal fango (eufemismo) persone come Zinelda, che oggi fa la cuoca all’asilo “Don Giussani”, ed Elismar che ha studiato e insegna al Centro di formazione professionale, è stato corresponsabile di un vero miracolo. E così è andata: oggi si può vedere tutto, tra l’area di Alagados, e Novos Alagados. La straordinaria riuscita e anche il non compiuto, il buco nero di quelle famiglie in attesa che i vincitori delle ultime elezioni, due anni fa, rimettano in moto il meccanismo della salvezza dalla palafitta. Tutto il resto è pronto, mancano solo loro, gli atti dei nuovi governanti.
Ma seicento famiglie o giù di lì non hanno peso elettorale, sono un nulla, una entità trascurabile dal sindaco della città, dal governatore dello Stato, dal presidente Lula. Il quale la scorsa settimana era proprio a Salvador de Bahia per un vertice con il presidente venezuelano Hugo Chavez. Hanno parlato di petrolio, naturalmente, e di politica latinoamericana. Sarebbe bastato un suo gesto, forse anche un’alzata di sopracciglio, e le ultime palafitte sarebbero sparite: è vero, il fatto in sé sarebbe stato politicamente irrisorio ma Lula avrebbe accolto Chavez in una città senza più la favela dell’ultimo livello. Un punto a favore dell’immagine, se non dell’umanità. Eppure non l’ha fatto. Perché? Che cosa ci vuole per quest’ultimo passo?
Ora, tutto questo ha a che fare con le imminenti elezioni che io definisco “per l’Europa di Mario Mauro”. Mi spiego: chi ha lavorato nella baia delle palafitte ottenendo il riconoscimento della Banca Mondiale e della Farnesina sono quelli dell’Avsi; l’Avsi opera anche con i fondi dell’Unione Europea; se i discorsi che ha fatto Mario Mauro in campagna elettorale saranno premiati dal voto, Avsi, come altri soggetti della società civile europea, se ne avvantaggeranno.
Perciò in conclusione, se vogliamo aiutare quelli dell’Avsi e come l’Avsi, se vogliamo far vincere una certa idea dello sviluppo, se vogliamo strattonare per la giacca quelli che possono cancellare la vergogna delle ultime palafitte di Salvador, riscuotendoli dalla “distrazione”, è bene puntare su Mario Mauro.
OBAMA/ Così il presidente americano affronta la prova Medio Oriente - Redazione - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
C’è grande attesa per il discorso che il presidente degli Stati Uniti terrà quest’oggi all’università de Il Cairo. La visita del presidente nero col nome e parte della famiglia musulmana ha generato in Egitto grande entusiasmo. Lo stupore tra gli abitanti per la ripulita che il governo ha dato alla metropoli egiziana, dal rifacimento della strada che porta all’università de Il Cairo alla riverniciatura dei lampioni e dei ponti passando per il rimboschimento di vaste aree con piante e siepi, è palpabile nell’aria.
Ieri, Barack Obama, ha incontrato il re dell’Arabia Saudita, re Abdullah, con il quale gli Stati Uniti intrattengono buone relazioni. Il motivo del viaggio di Obama in Medio Oriente è quello, da un lato, di rivitalizzare il processo di pace tra israeliani e palestinesi e dall’altro di mostrare al mondo arabo e musulmano che gli Usa non cercano affatto lo scontro di civiltà ma una via per cooperare insieme. Cade definitivamente la dottrina Bush sull’esportazione della democrazia anche nei paesi governati dalle dittature e si fa largo la promozione, annunciata da Obama in campagna elettorale, di duri e incontri diplomatici.
Secondo Obama, gli Stati Uniti devono ottenere di nuovo credibilità in Medio Oriente dopo la guerra in Iraq se vogliono ottenere la cooperazione e la pacificazione di questa area del mondo. Insomma, coinvolgimento dei più importanti paesi musulmani per assicurare gli interessi degli Stati Uniti e dell’Occidente.
L’impresa è tra le più ardue ma Obama sembra determinato ad andare fino in fondo. Così si spiega la richiesta avanzata ieri da Obama al re dell’Arabia Saudita di premere sulla Lega Araba per un gesto di distensione nei confronti di Israele. «Come ci si può aspettare che gli arabi scendano a patti senza ricevere alcunché in anticipo se Israele esita ancora ad accettare l’idea stessa di costruire due Stati?», ha dichiarato Mohammad Abdullah al-Zulfa, storico e membro del Concilio Saudita della Shura, l’organo che dispensa consigli al Re al posto del parlamento.
Obama probabilmente incasserà un gentile ma fermo rifiuto alla sua richiesta. I sauditi sostengono che il mondo arabo ha già offerto sostanziali concessioni durante l’Iniziativa di Pace Araba, promossa da ventidue nazioni durante il summit della Lega Araba a Beirut in Libano nel 2002. Quella proposta offriva pieno riconoscimento dello Stato di Israele in cambio del ritiro di Israele ai confini del 1967 e al reinserimento nella zona di Gerusalemme Est dei rifugiati palestinesi. Inoltre i sauditi fanno orecchie da mercante sostenendo che qualora autorizzassero in modo unilaterale alcuni gesti di apertura verso Israele fornirebbero una scusa alle nazioni meno motivate per abbandonare il processo di pace.
Poco dopo l’arrivo a Riyadh, in Arabia Saudita, di Barack Obama, la televisione satellitare Al Jazeera ha diffuso un nuovo messaggio audio attribuito a Osama bin Laden, capo di Al Qaeda. La voce trasmessa dal canale arabo ha accusato Obama di continuare sugli stessi passi del suo predecessore George W. Bush aggiungendo che la nuova amministrazione americana «ha piantato i semi per l’odio e rivincita contro l’America».
Oggi gli egiziani e con loro tutto il mondo arabo si aspettano l’appoggio del presidente Obama per il loro sviluppo e per la risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Deputati egiziani, analisti politici e semplici cittadini dicono che si respira un’atmosfera di quello che può essere definito come scettico ottimismo. Nessuno si aspetta un passo avanti nel conflitto arabo-israeliano ma almeno di sentire delle critiche a Israele sulla sua recente presa di posizione di non ritirare le sue colonie dalla Cisgiordania, e con la popolarità di Obama relativamente alta vi è un accenno di ottimismo.
(Mattia Sorbi)
FILOSOFIA/ Quel modo di “fare scienza” che non è positivismo: l’insegnamento di Vailati - Mario Quaranta - giovedì 4 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Giovanni Vailati è nato Crema il 24 aprile 1863 ed è morto a Roma il 14 maggio 1909, a soli 46 anni. Siamo quindi a un centenario, che sarà ricordato in un convegno a Milano il 6 e il 7 di ottobre e in uno a Bologna la settimana successiva.
Chi era Vailati? Si è laureato all’Università di Torino in ingegneria nel 1880 e in matematica pura nel 1888. La sua attività scientifica e filosofica si è svolta in due fasi: la prima a Torino, come assistente di Giuseppe Peano e collaboratore al Formulario matematico, prima, e poi di Vito Volterra successivamente ha insegnato matematica negli Istituti tecnici; la seconda a Firenze ove dal 1904 collabora al “Leonardo” (1903-1905) di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, rivestendo un ruolo di spicco nell’elaborazione e diffusione del pragmatismo in Italia. Spesso la cultura filosofica italiana non ha riconosciuto l’importanza e la forza inovatrice di questo pensatore, troppo scienziato per essere filosofo e troppo filosofo per essere scienziato.
Nel periodo torinese Vailati tenne tre corsi di storia della meccanica le cui prolusioni disegnano la sua posizione filosofica ed epistemologica.
Nella prima, la storia della scienza è intesa come un’attività di ricerca di tipo scientifico, che, allo stesso modo delle altre scienze, elabora modelli esplicativi via via più “potenti”.
Nella seconda, la deduzione è vista come la procedura specifica della razionalità scientifica; nella terza sostiene che il progresso scientifico è spesso ostacolato o fuorviato dall’ambiguità o indeterminatezza dei termini; da ciò l’esigenza che il linguaggio di cui ci serviamo sia sottoposto all’analisi logica più rigorosa. Argomenti e posizioni presenti ancor oggi nel dibattito filosofico.
La filosofia, secondo Vailati, non è una superscienza, né ha un ruolo prescrittivo nei confronti della scienza; il suo compito «non è tanto di fare delle scoperte, quanto piuttosto di prepararle, di provocarle, di farle fare», e raggiunge questo obiettivo affinando gli strumenti della ragione, curando la precisione del linguaggio, individuando i non-sensi, le tautologie scambiate per dimostrazioni, i sofismi e così via.
In conclusione, gli scritti vailatiani più impegnativi offrono indicazioni metodologiche e logico-linguistiche di grande interesse e viva attualità, mentre quelli di storia e filosofia della scienza hanno contribuito a delineare una nuova immagine dell’impresa scientifica, largamente apprezzata dalla cultura filosofica scientifica italiana ed europea per la suggestiva ricchezza dei suoi spunti interpretativi.
MATRIMONIO GAY E OBIEZIONE DI COSCIENZA IN SPAGNA - Quando il compromesso dà fiato al relativismo - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 4 giugno 2009
Alla richiesta, motivata da ragioni di coscienza, del magistrato di Sagunto Pablo De la Rubia Comos di essere sostituito da un collega nell’espletamento delle pratiche inerenti alla celebrazione di un matrimonio gay, il Tribunale supremo spagnolo ha dato una risposta fermamente negativa: il diritto all’obiezione di coscienza non ha rango costituzionale e per sussistere va esplicitamente riconosciuto dalla legge. E nel caso in questione la legge spagnola tace completamente. È evidente (anche se sulle prime può dispiacere) che la risoluzione del Tribunale appare non scorretta, non solo dal punto di vista del diritto spagnolo, ma anche in una più generale prospettiva di teoria generale del diritto. Nessun sistema giuridico positivo potrebbe sussistere, se riconoscesse ai cittadini un diritto assoluto e insindacabile a sottrarsi all’osservanza delle sue norme, invocando una qualsiasi clausola di coscienza. Ma è proprio il fatto che giuridicamente la vicenda abbia trovato una soluzione corretta che getta una luce inquietante su di essa. Qui non si trattava di salvaguardare, attraverso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, istanze etico-sociali, religiose o etniche di carattere particolare, ma una dimensione generalissima e costitutiva dell’identità umana, come appunto quella familiare. E infatti l’obiezione non è stata sollevata da un cittadino comune, dal rappresentante di una formazione sociale, di un movimento, di una confessione religiosa o dal militante di un partito; a denunciare l’ingiustizia di una legge e a manifestare la sua ripugnanza ad applicarla, è stato un magistrato nel pieno delle sue funzioni, un giurista, un rappresentante istituzionale di uno dei poteri dello Stato. Ci troviamo di fronte ad una frattura non componibile, anche se pragmaticamente la soluzione della vicenda è stata trovata, con la pronuncia del Tribunale Supremo. A fronte dell’esultanza dei movimenti gay e della delusione dei più impegnati movimenti cattolici per questa pronuncia già si stanno moltiplicando in Spagna gli auspici e gli appelli a non esasperare ulteriormente la questione, a continuare a ricercare 'compromessi ragionevoli' tra le istanze libertarie dello zapaterismo, così pronto a minimizzare i valori della vita e della famiglia, e quelle di un (per noi) ben più realistico comunitarismo, consapevole che attraverso la vita e la famiglia si difende né più né meno che la stessa identità dell’uomo. Di per sé, la ricerca di 'ragionevoli compromessi' merita ogni lode. A chi però si affanna in tal senso, va ricordato che i compromessi possono valere nel breve, anzi nel brevissimo periodo, ma non possono fondare una coesistenza sociale stabile e duratura nel tempo. Nessuna società può sopravvivere se gli stessi magistrati chiamati a rendere giustizia non riescono più a dar credito, come magistrati, alle norme che devono applicare. Nelle questioni economiche un buon compromesso può consentire a tutte le parti in causa di restare soddisfatte, ma nelle questioni morali lo 'scendere a compromessi' le umilia tutte in pari misura. Smettiamola di esaltare il relativismo, come se fosse in sé e per sé un bene morale, anziché il tarlo immorale che incrina il nostro vivere insieme. Se ci riconosciamo, come uomini, tutti eguali tra noi, abbiamo il dovere, per quanto faticoso possa essere, di identificare in un bene comune a tutti il fondamento della nostra vita sociale. È questo il significato ultimo dell’istanza del magistrato De La Rubia: il rigetto cui è andata incontro non le toglie sotto nessun profilo il suo alto valore esemplare.
Sos: «Gemma» cerca adottanti – Avvenire, 4 giugno 2009 - In quindici anni il «Progetto» del Mpv ha già salvato dall’aborto procurato sedicimila bambini - DI ELISABETTA PITTINO
« Adotta una mamma e aiuti il suo bambino» è lo slogan di Progetto Gemma che la responsabile, Erika Palazzi Vitale, ci fa presenta rispondendo a quattordici domande.
Progetto Gemma: cos’è?
È un’adozione prenatale a distanza di una mamma e del suo bambino. Quando una donna incinta per motivi economici è tentata di ricorrere all’aborto, i Centri di aiuto alla vita (Cav) propongono Progetto Gemma: un sostegno economico di 160 Euro per 18 mesi (da 6 mesi prima della nascita a un anno dopo la nascita). È un coordinamento e una distribuzione della beneficenza per donne incinte che abitano in Italia.
Cosa sono i Cav?
Sono 315 associazioni di volontariato che dal 1975 accolgono e assistono la donna incinta che ha problemi per la gravidanza.
Quando è nato Progetto Gemma? Nel maggio del 1994 un gruppo di persone – Giuseppe Garrone, Silvio Ghielmi, Francesco Migliori, Mario Paolo Rocchi, Giuliana Zoppis – ha unito l’esperienza delle adozioni per il terzo mondo a quella dei Cav.
Perché è nato? Per colmare una grave mancanza delle nostre istituzioni, che non prevedono un’adeguata politica per la famiglia, per potenziare e rendere capillare l’azione dei Cav.
Per chi è nato? Per tante mamme con problemi economici, per famiglie con difficoltà di bilancio, per i bambini che vogliono nascere!
Davvero donne e famiglie non possono tenere il figlio
che vorrebbero?
Moltissime situazioni sono di povertà estrema, quasi sconvolgenti. Non è povertà spirituale: sono sempre più le mamme in gravidanza che non vogliono abortire e chiedono aiuto.
Gemma, perché?
È una cosa preziosa da cui si sviluppa il fiore, la foglia, l’intero albero.
Come funziona?
La Segreteria nazionale di Progetto Gemma, in Via Tonezza 5 a Milano, raccoglie le richieste di aiuto selezionate ed inviate dai Cav locali e le offerte dei donatori–adottanti; fa una graduatoria ed abbina gli adottanti all’adottato. L’abbinamento viene comunicato al Cav locale, quindi alla madre e all’adottante– donatore. Il Cav locale comunicherà l’avvenuta nascita del bambino con foto. La donazione dell’adottante va interamente all’adottato.
Chi possono essere gli «adottanti »?
Singoli, gruppi di tutti generi, adulti e bambini, clubs, classi, condomini, famiglie, sposi novelli, colleghi di lavoro, parrocchie, Caritas,… insomma tutti.
Per l’Abruzzo?
Sostegno per 24 mesi, raddoppiato per i gemelli.
Quanti i bambini nati grazie a Progetto Gemma?
Abbiamo aiutato a nascere sedicimila bambini/e.
Quanti ancora da far nascere?
Abbiamo 142 richieste di aiuto e 1 adottante. L’altra mattina sono arrivate 12 domande di adozione.
Un appello..
È un momento difficile, ma dare la vita e aiutare a dare la vita è sconfiggere la crisi. Abbiamo bisogno di speranza. Quel bambino nascerà perché ora tu hai avuto speranza!
Come partecipare a Progetto Gemma?
Sottoscrivendo una dichiarazione d’impegno telefonando allo 0248702890, scrivendo a progettogemma@mpv.org, facendo sottoscrivere ad altri un Progetto Gemma, trovando amici o colleghi, ed insieme, un pò di euro per uno, sostenere un Progetto Gemma.
Biogiuristi: quando il diritto protegge la vita di Ilaria Nava – Avvenire, 4 giugno 2009
Uno spazio di riflessione giuridica aperto al dialogo e ancorato ai diritti dell’uomo, questo sarà 'L’associazione nazionale biogiuristi italiani', dove avvocati, notai, magistrati, docenti universitari e cultori della materia potranno confrontarsi e 'fare cultura' giuridica. È l’ambizioso progetto di Rosaria Elefante, avvocato e docente a contratto alla Federico II di Napoli, condotto insieme ad Alfredo Granata, avvocato. Entrambi in prima linea nella battaglia giudiziaria sulla vicenda Englaro, soprattutto quando su delega di 34 associazioni di pazienti disabili e loro familiari avevano presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Avvocato Elefante, come nasce l’idea di fondare questa associazione?
«Come studiosa me ne occupo da anni, avendo conseguito un dottorato in bioetica all’Università di Napoli e lavorando in uno studio legale specializzato in biogiuridica. Attraverso il mio lavoro da 15 anni affianco familiari di persone disabili, in stato vegetativo o gravi cerebrolesi. La struttura ha sede Napoli ma ci definiamo uno studio itinerante, dal momento che molti nostri assistiti non possono spostarsi a causa della disabilità, e quindi li raggiungiamo noi. Una sezione dello studio è specializzato in tematiche relative alla fecondazione assistita, a cui, soprattutto prima della legge 40, si
Nella vicenda di Eluana la giurisprudenza ha perso di vista il principio cardine della tutela della vita e della persona. Per evitare che si ripeta, nasce un’associazione ancorata ai diritti dell’uomo. Come spiega l’avvocato Elefante
rivolgevano numerose coppie su cui venivano applicate tecniche in via anche sperimentale, senza un’adeguata informazione sui possibili rischi».
Si avverte con urgenza la necessità di una seria e rigorosa riflessione giuridica su questi temi…..
«Infatti, sebbene me ne interessi da anni, sicuramente di recente, in particolare direi dal 2007, ossia dalla sentenza Englaro, ho notato che talvolta i giuristi rischiano di perdere di vista i principi cardine del nostro ordinamento, quali beni siano meritevoli di tutela giuridica. Oggi sembra che tutto possa costituire un nuovo diritto da far valere all’interno dell’ordinamento, ma penso che non tutte le istanze della medicina trovino spazio: e allora è essenziale capire quali di esse trovano spazio e quali non ne possano trovare, cosa necessita di una legge e che cosa è meglio che non sia normato. Il Parlamento, unico organo deputato a legiferare, stimolato da un’attenta dottrina e giurisprudenza, dovrà accogliere solo quelle istanze basate sulla tutela di un diritto riconosciuto in quanto tale».
L’associazione studierà questi temi solo a livello
teorico o porterete avanti anche azioni concrete?
«Non saremo meramente teorici, anche se naturalmente lo studio costituirà un momento essenziale. Saremo anche propositivi, stimoleremo una serie di interventi, anche legislativi, di diretto impatto sociale. Ad esempio, cercheremo di ottenere l’istituzione di sezioni specializzate in biogiuridica nei tribunali. Siamo consapevoli, infatti, che non è ammessa l’improvvisazione in una materia delicata come questa, e le conoscenze giuridiche sono sicuramente la base ma non sono sufficienti. È necessario avere una cultura specifica, composta di competenze anche scientifiche e mediche».
In Italia non esiste un ente con finalità simili?
«Esistono delle correnti di pensiero, delle scuole, dove a mio parere è un po’ carente l’elemento essenziale, ossia il dialogo, l’apertura, il confronto, pur nell’ambito di valori forti di riferimento».
Quali sono i prossimi step?
«Nei prossimi giorni stipuleremo l’atto formale di costituzione dell’associazione, che sarà una Onlus, anche se in realtà siamo operativi da molto tempo; siamo già un gruppo piuttosto numeroso di giuristi, tra cui avvocati, magistrati, notai, docenti, che hanno già maturato un’esperienza significativa nell’ambito del biodiritto. In autunno è previsto il primo evento di rilievo. Per la divulgazione prevediamo di aprire un sito e fondare una rivista dedicata esclusivamente a queste tematiche».