giovedì 11 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di Giovanni Scoto Eriugena - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
2) Crisi, Cei: "Si sfilaccia il tessuto sociale. Forti disuguaglianze"
3) Avvenire 6 Giugno 2009 – AGIOGRAFIA: Tommaso non mise il dito nella piaga di Roberto Beretta - Glenn W. Most, Il dito nella piaga, Le storie di Tommaso l’Incredulo - Einaudi. Pagine 230. Euro 22,00.
4) Attesi in 70.000 al pellegrinaggio Macerata-Loreto – L’Osservatore Romano, 11 giugno 2009
5) Chiuso l'anno scolastico, cosa resta? - Giovanni Cominelli - giovedì 11 giugno 2009 – ilsussidiario.net
6) ELEZIONI 2009/ Pigi Battista: la svolta culturale? Una politica che si lasci “assalire” dalla realtà - INT. Pierluigi Battista - giovedì 11 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) MALINCONICA CONDIZIONE AI NOSTRI GIORNI - Ci stiamo ammalando di solitudine Neppure le elezioni ci guariscono - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 giugno 2008
8) test prenatali - Quel «dovere sociale» dell’amniocentesi - Edi Giulia Galeotti – Avvenire, 11 giugno 2009 - Dieci anni dopo il «rapporto» Usa sull’impatto sociale dell’esame prenatale, lo screening – e di conseguenza l’aborto dei feti imperfetti – è diventato un vero 'obbligo sociale'. E chi vi si sottrae deve giustificarsi
9) In Olanda cresce l’eutanasia. Insieme agli abusi – Avvenire, 11 giugno 2009

Benedetto XVI presenta la figura di Giovanni Scoto Eriugena - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Giovanni Scoto Eriugena.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di un notevole pensatore dell’Occidente cristiano: Giovanni Scoto Eriugena, le cui origini però sono oscure. Proveniva certamente dall’Irlanda, dove era nato agli inizi dell’800, ma non sappiamo quando abbia lasciato la sua Isola per attraversare la Manica ed entrare così a far parte pienamente di quel mondo culturale che stava rinascendo intorno ai Carolingi, e in particolare intorno a Carlo il Calvo, nella Francia del IX secolo. Come non si conosce la data certa della sua nascita, così ignoriamo anche l’anno della sua morte che, secondo gli studiosi, dovrebbe comunque collocarsi intorno all’anno 870.
Giovanni Scoto Eriugena aveva una cultura patristica, sia greca che latina, di prima mano: conosceva infatti direttamente gli scritti dei Padri latini e greci. Conosceva bene, fra le altre, le opere di Agostino, di Ambrogio, di Gregorio Magno, grandi Padri dell’Occidente cristiano, ma conosceva altrettanto bene il pensiero di Origene, di Gregorio di Nissa, di Giovanni Crisostomo e di altri Padri cristiani di Oriente non meno grandi. Era un uomo eccezionale, che dominava in quel tempo anche la lingua greca. Dimostrò un’attenzione particolarissima per San Massimo il Confessore e, soprattutto, per Dionigi l’Areopagita. Sotto questo pseudonimo si nasconde uno scrittore ecclesiastico del V secolo, della Siria, ma tutto il Medioevo e anche Giovanni Scoto Eriugena, fu convinto che questo autore fosse identico ad un discepolo diretto di san Paolo, del quale si parla negli Atti degli Apostoli (17,34). Scoto Eriugena, convinto di questa apostolicità degli scritti di Dionigi, lo qualificava ‘autore divino’ per eccellenza; gli scritti di lui furono perciò una fonte eminente del suo pensiero. Giovanni Scoto tradusse in latino le sue opere. I grandi teologi medioevali, come san Bonaventura, hanno conosciuto le opere di Dionigi tramite questa traduzione. Si dedicò per tutta la vita ad approfondire e sviluppare il suo pensiero, attingendo a questi scritti, al punto che ancora oggi qualche volta può essere arduo distinguere dove abbiamo a che fare col pensiero di Scoto Eriugena e dove invece egli non fa altro che riproporre il pensiero dello Pseudo Dionigi.
In verità, il lavoro teologico di Giovanni Scoto non ebbe molta fortuna. Non solo la fine dell’era carolingia fece dimenticare le sue opere; anche una censura da parte dell’Autorità ecclesiastica gettò un’ombra sulla sua figura. In realtà, Giovanni Scoto rappresenta un platonismo radicale, che qualche volta sembra avvicinarsi ad una visione panteistica, anche se le sue intenzioni personali soggettive furono sempre ortodosse. Di Giovanni Scoto Eriugena ci sono giunte alcune opere, tra le quali meritano di essere ricordate, in particolare, il trattato "Sulla divisione della natura" e le "Esposizioni sulla gerarchia celeste di san Dionigi". Egli vi sviluppa stimolanti riflessioni teologiche e spirituali, che potrebbero suggerire interessanti approfondimenti anche ai teologi contemporanei. Mi riferisco, ad esempio, a quanto egli scrive sul dovere di esercitare un discernimento appropriato su ciò che viene presentato come auctoritas vera, oppure sull’impegno di continuare a cercare la verità fino a che non se ne raggiunga una qualche esperienza nell’adorazione silenziosa di Dio.
Il nostro autore dice: "Salus nostra ex fide inchoat: la nostra salvezza comincia con la fede". Non possiamo cioè parlare di Dio partendo dalle nostre invenzioni, ma da quanto dice Dio di se stesso nelle Sacre Scritture. Poiché tuttavia Dio dice solo la verità, Scoto Eriugena è convinto che l’autorità e la ragione non possano mai essere in contrasto l’una con l’altra; è convinto che la vera religione e la vera filosofia coincidono. In questa prospettiva scrive: "Qualunque tipo di autorità che non venga confermata da una vera ragione dovrebbe essere considerata debole… Non è infatti vera autorità se non quella che coincide con la verità scoperta in forza della ragione, anche se si dovesse trattare di un’autorità raccomandata e trasmessa per l’utilità dei posteri dai santi Padri" (I, PL 122, col 513BC). Conseguentemente, egli ammonisce: "Nessuna autorità ti intimorisca o ti distragga da ciò che ti fa capire la persuasione ottenuta grazie ad una retta contemplazione razionale. Infatti l’autentica autorità non contraddice mai la retta ragione, né quest’ultima può mai contraddire una vera autorità. L’una e l’altra provengono senza alcun dubbio dalla stessa fonte, che è la sapienza divina" (I, PL 122, col 511B). Vediamo qui una coraggiosa affermazione del valore della ragione, fondata sulla certezza che l’autorità vera è ragionevole, perchè Dio è la ragione creatrice.
La Scrittura stessa non sfugge, secondo Eriugena, alla necessità di essere accostata utilizzando il medesimo criterio di discernimento. La Scrittura infatti - sostiene il teologo irlandese riproponendo una riflessione già presente in Giovanni Crisostomo - pur provenendo da Dio, non sarebbe stata necessaria se l’uomo non avesse peccato. Si deve dunque dedurre che la Scrittura fu data da Dio con un intento pedagogico e per condiscendenza, perché l’uomo potesse ricordare tutto ciò che gli era stato impresso nel cuore fin dal momento della sua creazione "ad immagine e somiglianza di Dio" (cfr Gn 1,26) e che la caduta originale gli aveva fatto dimenticare. Scrive l’Eriugena nelle Expositiones: "Non è l’uomo che è stato creato per la Scrittura, della quale non avrebbe avuto bisogno se non avesse peccato, ma è piuttosto la Scrittura – intessuta di dottrina e di simboli - che è stata data per l’uomo. Grazie ad essa infatti la nostra natura razionale può essere introdotta nei segreti dell’autentica pura contemplazione di Dio" (II, PL 122, col 146C). La parola della Sacra Scrittura purifica la nostra ragione un po’ cieca e ci aiuta a ritornare al ricordo di ciò che noi, in quanto immagine di Dio, portiamo nel nostro cuore, vulnerato purtroppo dal peccato.
Derivano da qui alcune conseguenze ermeneutiche, circa il modo di interpretare la Scrittura, che possono indicare ancora oggi la strada giusta per una corretta lettura della Sacra Scrittura. Si tratta infatti di scoprire il senso nascosto nel testo sacro e questo suppone un particolare esercizio interiore grazie al quale la ragione si apre al cammino sicuro verso la verità. Tale esercizio consiste nel coltivare una costante disponibilità alla conversione. Per giungere infatti alla visione in profondità del testo è necessario progredire simultaneamente nella conversione del cuore e nell’analisi concettuale della pagina biblica sia essa di carattere cosmico, storico o dottrinale. E’ infatti solo grazie alla costante purificazione sia dell’occhio del cuore che dell’occhio della mente che si può conquistare l’esatta comprensione.
Questo cammino impervio, esigente ed entusiasmante, fatto di continue conquiste e relativizzazioni del sapere umano, porta la creatura intelligente fin sulla soglia del Mistero divino, dove tutte le nozioni accusano la propria debolezza e incapacità e impongono perciò, con la semplice forza libera e dolce della verità, di andare sempre oltre tutto ciò che viene continuamente acquisito. Il riconoscimento adorante e silenzioso del Mistero, che sfocia nella comunione unificante, si rivela perciò come l’unica strada di una relazione con la verità che sia insieme la più intima possibile e la più scrupolosamente rispettosa dell’alterità. Giovanni Scoto - utilizzando anche in questo un vocabolario caro alla tradizione cristiana di lingua greca - ha chiamato questa esperienza alla quale tendiamo "theosis" o divinizzazione, con affermazioni ardite al punto che fu possibile sospettarlo di panteismo eterodosso. Resta forte comunque l’emozione di fronte a testi come il seguente dove - ricorrendo all’antica metafora della fusione del ferro - scrive: "Dunque come tutto il ferro reso rovente si è liquefatto al punto che sembra esserci soltanto fuoco e tuttavia restano distinte le sostanze dell’uno e dell’altro, così si deve accettare che dopo la fine di questo mondo tutta la natura, sia quella corporea che quella incorporea, manifesti soltanto Dio e tuttavia resti integra in modo tale che Dio possa essere in qualche modo com-preso pur restando in-comprensibile e la creatura stessa venga trasformata, con meraviglia ineffabile, in Dio" (V, PL 122, col 451B).
In realtà, l’intero pensiero teologico di Giovanni Scoto è la dimostrazione più palese del tentativo di esprimere il dicibile dell’indicibile Dio, fondandosi unicamente sul mistero del Verbo fatto carne in Gesù di Nazaret. Le tante metafore da lui utilizzate per indicare questa realtà ineffabile dimostrano quanto egli sia consapevole dell’assoluta inadeguatezza dei termini con cui noi parliamo di queste cose. E tuttavia resta l’incanto e quell’atmosfera di autentica esperienza mistica che si può di tanto in tanto toccare con mano nei suoi testi. Basti citare, a riprova di ciò, una pagina del De divisione naturae che tocca in profondità l’animo anche di noi credenti del XXI secolo: "Non si deve desiderare altro – egli scrive - se non la gioia della verità che è Cristo, né altro evitare se non l’assenza di Lui. Questa infatti si dovrebbe ritenere causa unica di totale ed eterna tristezza. Toglimi Cristo e non mi rimarrà alcun bene né altro mi atterrirà quanto la sua assenza. Il più grande tormento di una creatura razionale sono la privazione e l’assenza di Lui" (V, PL 122, col 989a). Sono parole che possiamo fare nostre, traducendole in preghiera a Colui che costituisce l’anelito anche del nostro cuore.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti della diocesi di Padova assicurando la mia preghiera affinchè il loro ministero sia spiritualmente fecondo. Saluto i fedeli di Poggio Sannita, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Domenico Scotti e li esorto a proseguire nell’autentica devozione alla Vergine santa, Madre della Grazia. Saluto i fedeli di Bolsena e, nel ringraziarli per l’omaggio florale che hanno realizzato, li incoraggio ad attingere dall’Eucaristia la forza per testimoniare incessantemente i valori cristiani.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. La festa del Corpus Domini, che celebreremo domani, ci offre l'occasione per approfondire la nostra fede ed il nostro amore per l'Eucaristia. Cari giovani - specialmente voi, cari ragazzi di Castellaneta, che avete ricevuto da poco la Prima Comunione - il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo sia l'alimento spirituale d'ogni giorno per avanzare nel cammino della santità; per voi, cari ammalati, sia il sostegno ed il conforto nella prova e nella sofferenza; e per voi, cari sposi novelli, sia la ragione profonda del vostro amore che si esprime nella vostra quotidiana condotta.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Crisi, Cei: "Si sfilaccia il tessuto sociale. Forti disuguaglianze"
di Redazione

I vescovi denunciano il dramma di chi perde il lavoro: "I costi del difficile momento presente ricadono sulle fasce più deboli della popolazione". Sull'immigrazione: "Non affrontare il problema solo su esigenze di ordine pubblico". Brunetta: "Povertà diminuita"
Roma - I "costi" del "difficile momento presente" ricadono "in misura prevalente sulle fasce più deboli della popolazione". E' la denuncia che i vescovi italiani tornano a fare relativamente alla crisi economica e, più specificamente, al dramma di chi perde il lavoro. Poi, riguardo ai problemi legati all'immigrazione, la Cei invita la politica a non affrontarli concentrandosi unicamente sulle "esigenze di ordine pubblico". Ma il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ribatte: "In Italia la povertà è diminuita".
Il richiamo dei vescovi Rifacendosi al richiamo del cardinale presidente, Angelo Bagnasco, a non sottovalutare la crisi occupazionale in corso "come si trattasse di alleggerire la nave di futile zavorra", la Conferenza episcopale italiana ha voluto rimarcare l'allarme economico e sociale che affligge il Belpaese. "Anche nel dibattito assembleare è stato sottolineato come il termine 'esubero' non tenga nel debito conto un tessuto sociale che va sfilacciandosi, a motivo delle disuguaglianze che aumentano invece di diminuire", spiega la Cei sottolineando che "nessuno ignora il pesante impatto della sfavorevole congiuntura economica internazionale, di cui non si riesce a cogliere ancora esattamente la portata". Ma la Cei avverte: "Non si intende minimizzare l’impegno profuso da chi detiene l’autorità".
Colpite le fasce più deboli Secondo il "parlamento" dei vescovi resta evidente che "i costi del difficile momento presente ricadono in misura prevalente sulle fasce più deboli della popolazione". "Di qui l’esigenza di avviare una prossimità ancora più concreta al mondo del lavoro, non limitandosi a riproporre modelli del passato, ma come 'segno di un’attenzione nuova verso la profonda relazione tra la fede e la vita'", continuano i vescovi che hanno "preso positivamente atto" delle molteplici iniziative promosse nei mesi passati in tutta Italia dalle diocesi e dalle Conferenze episcopali regionali "per fronteggiare le difficoltà del mondo del lavoro". In tale contesto, l’iniziativa della Cei di costituire un fondo di garanzia per le famiglie numerose che abbiano perso l’unica fonte di reddito "costituisce un ulteriore e corale seme di speranza". La colletta promossa a tale scopo il 31 maggio in tutte le chiese italiane "ha avuto un indubbio valore pedagogico ed è stata indice di una spiccata sensibilità che non deve spegnersi".
I problemi legati all'immigrazione La Cei evidenzia come l’elogio di una "società multietnica, multiculturale e multireligiosa" vada accompagnato con uno sforzo di educazione alla nuova situazione e preparano un "osservatorio" nazionale sull’integrazione degli immigrati. "Sulla questione dell’immigrazione, che negli ultimi tempi ha suscitato ampi dibattiti - spiega la Cei - i vescovi hanno concordato sul fatto che si tratta di un fenomeno assai complesso, che proprio per questo deve essere governato e non subìto. È peraltro evidente che una risposta dettata dalle sole esigenze di ordine pubblico risulta insufficiente, se non ci si interroga sulle cause profonde di un simile fenomeno". Per l’episcopato, "due azioni convergenti sembrano irrinunciabili": impedire che "i figli di Paesi poveri" siano costretti ad abbandonare la loro terra, "a costo di pericoli gravissimi, pur di trovare una speranza di vita" e "favorire l’effettiva integrazione di quanti giungono dall’estero, evitando il formarsi di gruppi chiusi e preparando ’patti di cittadinanzà che definiscano i rapporti e trasformino questa drammatica emergenza in un’opportunità per tutti". Ciò "è possibile se si tiene conto della tradizionale disponibilità degli italiani ad accogliere l’altro e a integrarlo nel tessuto sociale". A questo proposito, i vescovi puntualizzano che "suonerebbe infatti retorico l’elogio di una società multietnica, multiculturale e multireligiosa, se non si accompagnasse con la cura di educare a questa nuova condizione, che non è più di omogeneità e che richiede obiettivamente una maturità culturale e spirituale".
La replica di Brunetta "In italia è diminuita la povertà. Il ministro della Funzione pubblica spiega che "la crisi ha creato 300mila/400mila disoccupati e cassaintegrati che, comunque, hanno integrazioni al reddito". "E' un dato preoccupante ma non gravissimo - continua Brunetta - continuiamo ad avere 15 milioni di lavoratori dipendenti per i quali le dinamiche salariali progrediscono del 3-4% l’anno e per i quali il potere di acquisto è aumentato" anche grazie alla bassa inflazione. Ai lavoratori dipendenti, ha sottolineato il ministro della funzione pubblica, "si aggiungono 15/16 milioni di pensionati che hanno mantenuto un incremento del potere di acquisto con dinamiche simili. Abbiamo circa 30 milioni di lavoratori dipendenti e pensionati che in questi 13 mesi hanno mantenuto o incrementato il potere di acquisto. E' diminuita la povertà: sembra paradossale, controcorrente, rumoreggiate pure, ma queste sono le statistiche". Secondo Brunetta, infatti, il "vero impatto della crisi, al netto dei 3/400mila cassi integrati, è sui lavoratori autonomi" che hanno visto "diminuire il loro fatturato del 30/40%. Preoccupa la dinamica negativa sul lavoro autonomo non sul lavoro dipendente".


Avvenire 6 Giugno 2009 – AGIOGRAFIA: Tommaso non mise il dito nella piaga di Roberto Beretta - Glenn W. Most, Il dito nella piaga, Le storie di Tommaso l’Incredulo - Einaudi. Pagine 230. Euro 22,00.
Tutto gira intorno a quel dito: ha toccato oppure no il corpo risorto di Cristo? Perché in effetti, anche se la maggioranza sarebbe disposta a giurarlo, i Vangeli non lo dicono proprio: «Poi Gesù – scrive Giovanni – disse a Tommaso: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Ma l’apostolo diffidente non ebbe poi bisogno di mettere in pratica l’invito, per esprimere la sua professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!», aggiunge infatti il Vangelo. Al che fa seguito la conclusione del Maestro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». «Perché mi hai veduto»: non «perché mi hai toccato»...

E proprio dallo smascheramento dell’equivoco muove Glenn W. Most, professore di Filologia greca alla Normale di Pisa, per seguire Il dito nella piaga, intrigante nel suo indagare tra esegesi, apocrifi e iconografia. Ma è poi così importante sapere se l’apostolo abbia davvero toccato la piaga del costato del Crocifisso, oppure si sia limitato a cedere all’evidenza di un morto resuscitato che stava davanti a lui e gli parlava? Sì, se è vero – come il grecista Most dimostra – che tutto il capitolo 20 di Giovanni (il testo su cui si fonda il mito dell’incredulità di Tommaso) è imbastito intorno a una sottile simmetria contrappositiva tra la prima e la seconda parte, tra una donna che ha creduto subito e un uomo incredulo ad oltranza, tra l’emozione e la ragione, insomma tra la Maddalena cui fu interdetto persino il semplice «toccare» (Noli me tangere...) e Tommaso invitato invece a mettere la mano intera nella ferita. «Giovanni – così sunteggia la sua tesi l’autore – decide di concentrare tutta la complessa questione della fede in Gesù nel rapporto tra vedere e credere»; non per nulla in quel capitolo 20, su 31 versetti sono presenti ben 13 forme del verbo «vedere» e 8 per «credere».

Il «toccare» non serve, o meglio così sembra anche leggendo i Vangeli sinottici; nei quali ad esempio – per dare una prova della sua esistenza materiale ai discepoli che non osavano toccarlo – Gesù domanda da mangiare. Solo Tommaso sembra voler andare oltre, chiedendo inizialmente – anzi pretendendo in modo persino blasfemo – di «mettere il dito nel posto dei chiodi». Poi però, giunto al dunque, non lo fa, tanto che per Most «supporre che Tommaso abbia effettivamente toccato Gesù significa non solo fraintendere un particolare del racconto di Giovanni, ma anche il contenuto più profondo e vitale del suo messaggio». Quello cioè che non solo non è indispensabile «toccare per credere», ma non è necessario nemmeno vedere: «Beati quelli che pur non avendo visto...». Dal tatto alla vista, all’udito: ecco la salita che porta allo «status più nobile» della fede. Infatti a chi si deve in primis il travisamento di Tommaso come l’uomo che effettivamente mise il dito nella piaga?

Agli «eretici», ovvero gli apocrifi di sapore gnostico (sono almeno 5 quelli intitolati al discepolo il cui nome significa «gemello») per i quali Tommaso rappresenta appunto la perfetta incarnazione di una fede raggiungibile per via razionale – «toccabile» – da una élite di pochi adepti e con un sovrano disprezzo per la materia (il corpo). Si può dunque ipotizzare che fu anche l’intento cattolico di reagire alla spiritualizzazione operata dagli gnostici a sospingere la devozione popolare (ma anche i Padri della Chiesa e la Scolastica, da Tertulliano all’Aquinate, con sporadiche eccezioni) verso il convincimento che Tommaso toccò davvero la carne di Cristo. Ma poi di mezzo ci sono stati soprattutto i pittori, e Caravaggio su tutti; furono loro a veicolare nell’immaginario comune l’idea del dito nella piaga.

Tuttavia, se dal IV secolo fino al Rinascimento la trascrizione iconografica dell’episodio ha sempre avuto alcuni canoni fissi (inserimento in un ciclo di altre immagini sacre, rappresentazione dei personaggi a figura intera) che tendono a relativizzare il gesto singolo, con la sua «Incredulità di san Tommaso» il pittore lombardo non solo ha sovvertito i modelli tradizionali – i soggetti sono ripresi infatti in piano americano e l’impianto non è certo devoto –, ma anche trasforma l’atto dell’apostolo in modo brutale, quasi rendendolo un’invasiva ispezione medica, addirittura – sostiene Most – «uno stupro».

Quale il motivo? A parte ritrovarne alcuni stilemi nella pittura «protestante» nordica, l’autore sostiene che «il quadro ribadisce risolutamente la fisicità del miracolo di Tommaso contro chi tendeva a dubitarne (per esempio i riformati tedeschi)», ma allo stesso tempo prende atto di una fede – quella Controriformistica – che non sa più credere senza toccare, o almeno vivamente immaginare di toccare. «Tutte queste ferite – scrisse del resto san Carlo Borromeo in un’omelia dedicata appunto a san Tommaso – sono in effetti come molti squarci e il Signore vuole che penetriamo in essi, se vogliamo leggere». Caravaggio avvicina carnalmente il dubbio di Tommaso a noi, ai nostri dubbi; però potrebbe pure indurre a un errore: quello proverbiale dello stolto che si sofferma a fissare il dito mentre il saggio indica la luna.


Attesi in 70.000 al pellegrinaggio Macerata-Loreto – L’Osservatore Romano, 11 giugno 2009
Roma, 10. La presenza di un centinaio di terremotati dell'Aquila, la preghiera per i lavoratori colpiti dalla crisi economica e per la Cina perché riscopra la bellezza della fede testimoniata da un illustre maceratese, il gesuita Matteo Ricci: questi i principali tratti caratteristici del 31° pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto, che si svolgerà nella notte tra il 13 e il 14 giugno. L'iniziativa, promossa da Comunione e liberazione, conta quest'anno di superare le 70.000 presenze della passata edizione.
Il pellegrinaggio verrà aperto dall'arrivo della fiaccola della pace - benedetta oggi dal Papa nel corso dell'udienza generale e che farà tappa all'Aquila - e dalla messa presieduta dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli.
(©L'Osservatore Romano - 11 giugno 2009)


Chiuso l'anno scolastico, cosa resta? - Giovanni Cominelli - giovedì 11 giugno 2009 – ilsussidiario.net
L’anno è partito con un lampo, che ha fatto pensare a qualcuno – non a noi - ad un nuovo ’68, in rivolta contro i tagli della Legge Finanziaria e contro il “maestro unico”. Ma il tuono non è mai arrivato.
Poi un’altra scossa annunciata: quella della serietà, del voto in condotta che fa o non fa media, della sufficienza in tutte le materie quale condizione per la promozione in terza media o per l’ammissione alla “maturità”. Il messaggio è stato: ora basta con il facilismo, con il lassismo, con il ‘68! Per un attimo i ragazzi si sono spaventati, gli insegnanti si sono visti restituire ruolo sociale e dignità professionale, gli esperti e opinion leaders hanno esclamato: finalmente! E’ durato un attimo, soltanto. Perchè prendere sul serio la serietà vorrebbe dire, se i dati che il Ministero ha fornito sui risultati degli scrutini intermedi hanno una credibilità, che occorrerebbe bocciare, alla fine dell’anno, tra la metà e un terzo dei ragazzi della scuola media e un terzo dei maturandi. Non accadrà. Il sistema non è in grado di reggere un tale trauma, che metterebbe in discussione le sue fondamenta e obbligherebbe forse a prendere atto di una verità autoevidente: che le promesse del sistema educativo - inclusione, eguaglianza, cittadinanza, mobilità - non sono più da tempo mantenute e onorabili all’interno del sistema stesso. E forse ha ragione Marshall Smith, consigliere di Arne Duncan, Ministro statunitense dell’Istruzione: “cambiamenti marginali non servono all’interno del vecchio sistema: consentono solo miglioramenti marginali”. Solo a luglio conosceremo i risultati degli esami finali della scuola secondaria di primo grado e di quella secondaria di secondo grado. Ma, c’è da scommetterci, non si discosteranno di molto da quelli degli altri anni. L’effetto paradossale, all’italiana, è che la campagna ministeriale e mass-mediatica contro il “6 politico” sta approdando nelle migliaia di Consigli di classe a un uso massiccio del “6 politico”.
Un discorso credibile e coerente sulla severità dovrebbe partire dalla certificazione rigorosa della qualità dell’insegnamento prima che dell’apprendimento, nell’ipotesi che ci sia una qualche relazione di causalità tra il primo e il secondo. E mettere in atto innovazioni che garantiscano la qualità nella formazione iniziale, nel reclutamento, nella gestione del personale docente e dirigente.
Finchè questo non accade, ogni discorso appare superficiale, ipocrita, puramente propagandistico. I ragazzi sono i primi ad accorgersi di avere in mano un’arma potente di ricatto: non possono essere bocciati, perché sennò si renderebbe visibile e si aggraverebbe la dispersione – che già ora interessa 200 mila ragazzi l’anno – e le cattedre verrebbero falcidiate. E così la scuola va, come osserva uno del milione di docenti regolari e precari, “come una nave nella tempesta e senza nocchiero”. Abbastanza grande da non affondare, ma abbandonata a se stessa, in preda ai marosi, senza porto in vista. La disconnessione del sistema educativo dalla realtà e dalla vita reale ha effetti diversi sui ragazzi e sugli insegnanti. I ragazzi hanno abbassato le attese verso la scuola e verso di sé: perciò passano il tempo a “socializzare”, raccolgono qualche brandello di sapere qua e là, sempre meno. Non è di lì che passa la loro vita, il loro destino. Del resto il 70% delle cose che sanno non lo prendono a scuola, ma da altre fonti. La maggioranza degli insegnanti e dei dirigenti sperimenta una disperazione quieta e rassegnata, in parte lenita dal rapporto personale con i ragazzi, che è più forte di ogni imbrigliatura burocratica, ma che non basta a conferire loro un ruolo civile e sociale. Una consistente minoranza si assume una responsabilità “in situazione”, senza premio né castigo, gratuità pura, per rispetto di sé e per amore dei ragazzi.
Fanno parte del paesaggio i “pueri cantores” del cosiddetto “realismo”, che compaiono ad ogni legislatura e con malinconica regolarità annunciano, dai corridoi ministeriali, che le riforme non si possono fare, non si possono comunque fare in fretta, occorre gradualità, no al massimalismo, no al “tutto e subito”, che occorre tempo e tempo, che l’opposizione minaccia sfracelli, che i sindacati sono sul piede di guerra, che il quadro politico, che le alleanze, che i soldi... e via rinviando, di legislatura in legislatura, da decenni. La quota dei progetti di riforma falliti ha ormai raggiunto i 33. C’è solo da dire che un Paese, in cui il sistema educativo è disconnesso dal cuore giovane del Paese, rischia il collasso, la disconnessione dalla storia del mondo.
Così, anche quest’anno scolastico si chiude. C’è speranza? Nessuna legge, nessun decreto, nessuna circolare la può produrre.
Essa rinasce ogni volta dal desiderio di conoscere e di andare incontro alla vita che le generazioni nuove incessantemente ci buttano davanti. Tra meno di tre mesi parte l’anno scolastico di grazia 2009-2010.


ELEZIONI 2009/ Pigi Battista: la svolta culturale? Una politica che si lasci “assalire” dalla realtà - INT. Pierluigi Battista - giovedì 11 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Tempo scaduto per il Pd. Così titolava ieri l’editoriale in prima pagina del Corriere della Sera. Ma, forse, sarebbe il caso di dire che è tempo scaduto per tutta la politica italiana: senza più indugi e calcoli di vario genere, è tempo ormai di ridare uno scossone al dibattito politico, e riportare tutto a un livello culturale più dignitoso rispetto a quanto visto nell’ultima, imbarazzante campagna elettorale. Pierluigi Battista, vicedirettore del Corriere e autore del citato editoriale, ripercorre in questa conversazione con ilsussidiario.net gli aspetti più rilevanti del dibattito post-elettorale.
Battista, il Pd, diceva ieri nel suo editoriale, deve riscoprire la perduta “vocazione maggioritaria”. Ma non ha l’impressione che quella vocazione sia già stata abbandonata, e che si prepari ormai il ritorno alla politica delle alleanze?
Questo è certamente il problema che sta al fondo dei travagli del Pd. Un partito le cui difficoltà nascono naturalmente dalla rovinosa sconfitta di un anno fa. Nonostante questo, Veltroni aveva promesso che avrebbe cambiato le regole del gioco: no alla rassicurante pigrizia culturale della grande coalizione anti-berlusconiana, in cui mettere dentro di tutto pur di vincere; sì alla rischiosa ma virtuosa sfida del partito a vocazione maggioritaria. Una partita che aveva generato comportamenti virtuosi anche da parte di Berlusconi. Così facendo, tra l’altro, i due contendenti avevano già un anno fa messo la parola fine sugli effetti peggiori di quella legge elettorale che ora si vorrebbe abolire.
In che senso dice che Veltroni e Berlusconi avevano superato i difetti della legge elettorale?
La legge vigente imporrebbe di fatto l’aggregazione di chiunque pur di avere un punto in più della coalizione avversaria. Questa fu la maledizione nel 2006 del governo Prodi. Avendo invece loro rinunciato alle alleanze (Veltroni con l’estrema sinistra, Berlusconi con Casini e la destra di Storace), giusto o sbagliato che fosse, avevano dimostrato di volere governi omogenei con alleanze ridotte al minimo: due grandi partiti, alleati da una parte con un partito territoriale, dall’altra con un partito un po’ sui generis come quello Di Pietro (e fu un errore di Veltroni). Ora questo schema viene sempre più abbandonato dalla sinistra, che ritorna alla ricerca di alleanze di qualunque tipo, per creare il calderone antiberlusconiano. Questo è il vero pericolo.
Al momento si tratta però, come lei dice, solo di un pericolo.
Qui si apre un altro problema: non è nemmeno chiaro a quale gioco si stia giocando. Non c’è un’aperta lotta politica tra chi sostiene un’alleanza piuttosto che un’altra. Se si vuole Di Pietro come alleato, infatti, si ha un certo progetto politico; se si vuole recuperare il centro, si ha un altro progetto; se si vuole tornare al dialogo con l’estrema sinistra, si ha un altro progetto ancora. Tutti sappiamo che esistono queste diverse anime politiche nel Pd: eppure rimangono lì a marcire, senza mai essere esplicitate fino in fondo, senza che si mettano in circolo le idee con un’aperta discussione politica. D’altronde non è certo un problema che un partito non abbia una posizione unanime. Le grandi figure della politica europea sono emerse vincendo una battaglia nel loro partito: così è stato per Blair con i laburisti, e così anche per la Merkel nella Cdu tedesca. Ma l’hanno spuntata giocando della vere partite a viso aperto. Il Pd deve fare lo stesso, o continuerà a logorarsi e a sopravvivere.
Ora uno sguardo al centrodestra. Si è detto: il Pdl non sfonda, la maggioranza comunque tiene, e diventa anzi sempre più radicata sul territorio con la netta vittoria nelle amministrative. C’è però un riequilibrio di forze in favore della Lega. Che conseguenze avrà questo dato?
La Lega certamente avrà molte più pretese di quante non ne abbia avute fino ad ora; e in questo senso qualche malumore dalla parte più vicina a Fini già lo si vede. Ma non credo che la cosa creerà particolari problemi: la Lega ha sempre fatto scelte intelligenti da questo punto di vista, a differenza di quanto fece, ad esempio, Rifondazione con il centrosinistra. Rifondazione aveva un rapporto di conflitto permanente, su qualunque punto del dibattito. La Lega, invece, da quindici anni a questa parte è sempre stata legata in modo quasi ossessivo a due argomenti: il federalismo e la sicurezza. Ha posto questi due punti irrinunciabili, e sul resto non fa guerriglia. Una scelta intelligente e saggia, che è anche la forza di questa coalizione. Ecco perché non vedo particolari scontri all’orizzonte. Direi anzi che se il Pd dovesse tornare a ipotizzare un rapporto con l’estrema sinistra, dovrebbe prendere esempio, fissando i paletti su alcuni temi particolari, come ad esempio il lavoro, ed evitando scelte confusionarie, come le 270 pagine del libro di Prodi.
Si è detto a più riprese che questa è stata una campagna elettorale brutta; e con questo termine si intende soprattutto uno svilimento culturale del dibattito politico. Questo “abbrutimento” a cosa è dovuto?
Da una parte è evidente che chi ha lanciato questo tipo di campagna ha cercato di far rivivere una cosa che sembrava scomparsa, e che invece continua a covare sotto la cenere: la battaglia campale contro Berlusconi, costi quel che costi. Detto questo, c’è anche da aggiungere che il problema del rapporto tra pubblico e privato, per chi governa, c’è. Un presidente del consiglio deve avere certi atteggiamenti, e non altri. Non è ipocrisia; o lo è solo nei termini in cui l’ipocrisia è funzionale al vivere civile (anche la cortesia, in fondo, un po’ è ipocrita, ma giusta e utile). Quindi c’è stato sì un arretramento nel dibattito; ma al tempo stesso bisognava evitare di dare il gancio all’avversario per fare questo.
Ora su quali basi culturali bisogna rifondare il dibattito politico nel nostro paese? Ci sono punti da cui ripartire, o bisogna ricostruire tutto da zero?
Io ritengo che il comune denominatore dei problemi culturali del dibattito politico non sia la mancanza di elevatezza, ma il fatto che ci sia poca realtà. Nella discussione politico-culturale c’è una grande surrealtà, ideologica e propagandistica. Piacerebbe invece che si studiassero i fenomeni e li si portassero a soluzione. Manca generalmente la conoscenza della realtà italiana; e chi questa conoscenza ce l’ha, vince. In questo il successo dei “leghisti” – non tanto nella proiezione nazionale, quanto nel radicamento nel territorio – è molto chiaro: loro sono immersi nella realtà. Poi possono anche dare risposte sbagliate, il che è ovvio nella politica: però ci si accorge immediatamente, vedendo un sindaco leghista di un piccolo comune, che lì c’è un realismo che manca altrove, sia a destra che a sinistra. Il punto non è allora cercare una maggiore elevatezza culturale: come si dice in America, con un’espressione molto bella, il problema culturale è che bisogna farsi assalire dalla realtà. E la realtà è sempre più complicata dell’ideologia, ed esige uno studio e un impegno più sistematico.
Un’ultima riflessione sul voto europeo. Si è parlato molto di astensionismo: perché, e che segni lascia?
Penso sinceramente che l’astensionismo così massiccio sia l’ultimo esempio di un disamore che gli europei hanno per l’Europa politica. Così com’è non va: ogni volta che la gente ha avuto modo di esprimersi, votando, è emersa una grande disillusione e una distanza dai tecno-burocrati di Bruxelles. Non è una considerazione da euroscettico: la distanza tra gli europei e l’Europa politica è un fenomeno epocale e culturale molto vasto, da riconsiderare completamente.
(Rossano Salini)


MALINCONICA CONDIZIONE AI NOSTRI GIORNI - Ci stiamo ammalando di solitudine Neppure le elezioni ci guariscono - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 giugno 2008
Nel momento elettorale si stringono mani. Si danno appuntamenti. Ci si richiama. C’è gente che mobilita amici e parenti.
Magari ci si ricorda di qualcuno che chissà... Nel momento elettorale si fanno cene, a volte aperitivi, si invita a casa della gente o si va da qualcuno. Nel momento elettorale la gente si trova, si discute. E anche se i dati dell’astensionismo indicano che molti sono stati solo a guardare, fermi a distanza da una politica che non attrae, possiamo dire che in queste settimane un sacco di italiani si sono stretti la mano, si sono trovati, hanno avuto momenti insieme. In modo speciale rispetto agli altri periodi della vita normale. Forse solo quando ci sono le fasi finali di un mondiale di calcio si assiste a una simile voglia di trovarsi, di riunirsi.
Tutto questo è avvenuto in un Paese che si sta ammalando di solitudine. Ce lo dicono tremendi fatti di cronaca e dati sociologici sulle ansie e sulla tenuta dei nuclei di vita in comune. Ce lo dicono le emergenze educative che crescono grazie alla solitudine di ragazzi e di padri e di madri, ce lo dicono la crescita dei fenomeni che 'scimmiottano' e/o stanno surrogando le relazioni – dai network virtuali alle varie forme di reti. In un Paese malato di solitudine ecco che per settimane le persone si sono cercate, si sono incontrate.
Tutto questo solo per 'prendere voti'? Tutto questo per il consenso politico e basta? Che il nostro sia un Paese malato di solitudine lo dimostra anche il dato stesso dell’astensionismo. Per interessarsi alla politica infatti occorre un motivo che, per così dire, venga prima della politica.
Insomma una motivazione che, più forte di ogni fin troppo facile lamento sulla situazione o sulla classe politica, peschi nella vita e nella normalità del proprio impegno la decisione se e chi votare. È più facile dunque che si 'astenga' anche dall’elementare diritto di voto chi non avendo vita in comune, impegni collettivi o legami vivaci, si ritrova solo e disgustato di quel che tv e giornali gli offrono a proposito della politica. Dunque tutte queste strette di mano ci lasceranno soli come prima? O la movimentazione elettorale, così come gli abbracci che ci si scambia quando l’Italia vince, possono essere una occasione per guardarsi negli occhi e capire che nessuno è fatto per esser solo? Quante volte, anche dietro un’apparente vivacissima vita di relazioni, vediamo emergere negli occhi di persone che conosciamo il demone della solitudine... Specialmente di fronte alle circostanze che più mettono alla prova – magari un lavoro che non gira più, un amore che se ne va, un problema coi figli. E nella solitudine salgono le ombre della disperazione, e della mancanza di energie.
Cesare Pavese, che ben conosceva quel demone, scrisse nella sua ultima opera,
Dialoghi con Leucò,
che persino gli dei ammirano l’incontrarsi libero degli uomini.
Abbiamo vissuto settimane in cui si vedevano incontri, ritrovi, e appuntamenti.
Una volta finito tutto questo ci sarà meno solitudine? O importava solo davvero dei voti? Non interessava agli uni della vita degli altri davvero niente di niente? Crediamo davvero che l’avversario tremendo sia colui che indossa per un po’ di tempo un’altra casacca, una fazione politica diversa? Non vediamo quale è il grande muto avversario che sta divorando il volto della nostra bella Italia, che le sta mangiando il cuore? Viva i ritrovi politici, le strette di mano, gli: 'arrivederci', i 'mi lasci la e-mail', se saranno tutti piccoli gesti contro solitudine e l’avanzare delle sue maree silenziose. Se saranno, anche solo in piccola parte, l’assaggio di quel gusto di amicizia per cui siamo fatti. Avvisava il grande poeta Eliot, dando voce a colei che è Straniera nella società di oggi: che vita è la vostra se non avete vita in comune? Lascerete come eredità solo un mucchio di bottiglie vuote o migliaia di palline da golf perdute? Un Paese dove si rompono i nuclei di convivenza, un Paese di gente sola non è né di centrodestra né di centrosinistra. È un Paese al centro della propria crisi. E non sarà la politica a tirarlo fuori. Anche se le decisioni della politica possono dare una mano a non ritardare la diagnosi, a non distrarsi in faccende secondarie e a favorire tutto ciò che lotta contro la solitudine. Non la politica da sola, ma gente che ha una allegria di amicizia nel cuore, una ospitalità negli occhi e una pazienza nelle mani potrà riempire di senso vero e futuro questo periodo di saluti, di appuntamenti, di apparente minor solitudine, di ritrovi e riconoscimenti...


test prenatali - Quel «dovere sociale» dell’amniocentesi - Edi Giulia Galeotti – Avvenire, 11 giugno 2009 - Dieci anni dopo il «rapporto» Usa sull’impatto sociale dell’esame prenatale, lo screening – e di conseguenza l’aborto dei feti imperfetti – è diventato un vero 'obbligo sociale'. E chi vi si sottrae deve giustificarsi
Esattamente dieci fa, la celebre casa editrice newyorkese Routledge pubblicava 'Testing Women. Testing the Fetus', il volume di Rayna Rapp che, stando al sottotitolo, ana­lizzava 'l’impatto sociale dell’amniocente­si' negli Usa. In un decennio questo test ha visto un’ascesa trionfale, radicandosi forte­mente nella quotidianità. Se già nel 1999 la Rapp notava come l’amniocentesi fosse routine per alcune categorie di donne (con dolore, raccontava che lei stessa, nel 1983, a 36 anni, vi si sottopose, decidendo poi di abortire il feto perché Down), oggi lo è pressoché indiscriminatamente. Del resto, le scelte di Obama di aumentare i fondi de­putati agli screening prenatali sono il sug­gello di un trend ormai di grande successo. Rayna Rapp notava con sconcerto come l’amniocentesi avesse reso le donne incin­te arbitre del concetto di normalità, obbli­gandole a valutare la qualità dei loro feti e a prendere decisioni atte a fissare gli stan­dard minimi necessari per nascere. Così lo sforzo congiunto di scienza e diritto ha da­to alla donna (da sempre deputata alla vi­ta) il potere di scegliere quale feto meriti e quale feto non meriti di entrare nella co­munità umana. Ma se fino a qualche anno fa era ancora possibile credere che questa (mortifera) scelta fosse davvero lasciata alla donna, og­gi è ormai chiaro che si tratta di una libertà solo apparente. Gli Stati, infatti, hanno pre­cise politiche verso l’amniocentesi, riassu­mibili nel motto secondo cui abortire in caso di risposta 'positiva' è un obbligo cui non è lecito sottrarsi (l’alternativa è un e­vidente caso di spreco delle risorse nazio­nali, mediche e non solo). Se in alcuni ospedali americani chi rifiuta di sottoporsi all’amniocentesi deve firma­re un modulo per il consenso informato, se dinnanzi alla nascita di un bimbo Down tanti sono i medici che si infuriano con le madri che (nonostante l’età o la predispo­sizione genetica) non hanno fatto l’esame, il grande problema è che l’amniocentesi in­dividua disabilità per lo più non curabili. E questo (negli Usa e non solo), manda i medici in tilt. I bimbi Down sono così i bambini 'sbagliati' per eccellenza giacché non sono correggibili.
Del resto, leggendo la Rapp ci accorgia­mo che dieci anni fa ancora nutrivamo qualche dubbio sulla verità e sull’onnipotenza scientifica, mentre oggi la nostra fede è cieca e assoluta. L’informazione ben difficilmente è neutra, e tutto il meccanismo della consulenza genetica negli Stati Uniti ne è il paradigma. La Rapp è chiara quando scrive che «mentre la genetica si svilup­pa come una scienza, l’eugenetica viene so­stituita con il genetic couseling (individuale o familiare)». È un gatto che si morde la co­da: diffondendosi l’amniocentesi, si diffon­de la consulenza genetica. Quella consu­lenza che, dietro a una falsa neutralità, si preoccupa di tutelare non la singola persona che ha dinnanzi, quanto piuttosto l’ospe­dale da possibili responsabilità civile o pe­nali.
Dieci anni fa negli Usa l’amniocentesi (di fatto prodromica all’aborto) veniva rifiuta­ta da due categorie di donne. Da quante te­mevano che essa potesse uccidere il feto (terrore diffuso specie tra chi aveva già su­bito un aborto, o aveva faticato a restare in­cinta), giacché il rischio della perdita so­vrastava il rischio della disabilità. E dalle donne cattoliche (una giovane filippina la rifiuta caparbiamente perché alle spalle ha una famiglia solida e unita: se dovrà esse­re, ce ne occuperemo tutti insieme, non sarò sola). E oggi? Chi ha oggi la forza di rifiu­tare l’amniocentesi? Attualmente il fronte dei critici vede strette in una vitale allean­za la Chiesa cattolica e una parte consistente del mondo femminista, fortemente con­traria alla tecnologizzazione della nascita che continua (in forme moderne) la stori­ca espropriazione del corpo muliebre.
Ma Rayna Rapp notava come tutto que­sto parlare di test prenatali stesse ob­bligando la società americana a con­frontarsi con la disabilità. È la chiave che può aiutare a disinnescare il potere di­struttivo dell’amniocentesi, che si regge sul­la paura del diverso, facendo leva sul ter­rore di ciò che non si conosce, di ciò che appare rotto e fallato perché si hanno oc­chi per valutare solo ciò che appare. È l’o­dio atavico e primordiale per chi è altro da noi. Conoscere e ascoltare la realtà del­l’handicap potrebbe fare il vero miracolo. Potrebbe essere questa la scommessa per il decennio a venire?


In Olanda cresce l’eutanasia. Insieme agli abusi – Avvenire, 11 giugno 2009
Crescono in Olanda le richieste ufficiali di eutanasia, la cui legalizzazione risale al 2002.
Nel 2008 le richieste sono state 2.331, con un incremento netto del 10% rispetto all’anno precedente ( 2.120 i casi del 2007). È quanto emerge dal rapporto annuale elaborato e reso pubblico dalle cinque commissioni regionali che hanno il compito di monitorare la pratica dell’eutanasia e le sue modalità. Le cifre sono vivisezionate, distinguendo tra eutanasia vera e propria ( 2.146 casi), suicidio assistito ( 152 casi) e combinazione di entrambi i metodi ( 33 casi). È possibile anche risalire al luogo in cui è sopraggiunta la morte: 1.851 persone sono decedute tra le mura domestiche, 145 all’ospedale, 198 in case di cura e 137 in altri luoghi. Tra le 2.331 richieste del 2008, dieci sono state quelle in cui si sono ravvedute irregolarità, con conseguente denuncia agli organi competenti.
Statistiche la cui freddezza è impressionante se si pensa che stiamo parlando di morte procurata per esseri umani che si trovano in stato di sofferenza, in maggioranza malati di cancro, sempre secondo quanto riportato nel rapporto annuale. La relazione illustra anche due casi in cui il paziente soffriva di disturbi psichiatrici, per i quali tutto si è svolto nel rispetto delle norme vigenti in Olanda. I dati assumono ancor più significato osservando l’andamento negli anni: anche il 2007 aveva fatto registrare un aumento del 10% rispetto al 2006, confermando la continua crescita dopo il 2003 ( 1.815 casi) con i 1.886 casi del 2004 e i 1.933 del 2005.
l presidente della commissione olandese che verifica la corretta applicazione della legge sull’eutanasia, Jan Suyver, ha inoltre parlato di previsioni di una crescita per l’anno in corso che potrebbe sfiorare il 20%. Non si deve neppure
Idimenticare, come ha sottolineato Wesley J. Smith sul proprio blog collegato alla rivista First Things, che sono molti gli studi che dimostrano che circa il 40% dei casi non è riportato nei rapporti ufficiali. In molti di essi accade ad esempio che i medici aumentino intenzionalmente le dosi di morfina per ottenere la morte del paziente, e che dunque non si configuri un caso di eutanasia ' ufficiale' tramite somministrazione di barbiturici. O, ancora, che si verifichino episodi di cosiddetta ' autoeutanasia', in cui il medico si limita a fornire indicazioni per il suicidio senza parteciparvi direttamente.

Il giorno seguente alla pubblicazione dei numeri relativi all’eutanasia, nella stessa Olanda ha destato scalpore il caso che ha visto protagonista il presidente, mai citato per nome, di un’associazione per la promozione dell’eutanasia, arrestato con l’accusa di aver collaborato al suicidio assistito di una ottantenne malata di Parkinson. Alla donna sarebbe stata somministrata una dose letale di pentobarbital, dopo che il medico incaricato si era rifiutato di farlo perché non aveva riscontrato sofferenze insopportabili o condizioni senza speranza. Proprio per questo è scattata l’indagine: in Olanda solo i medici possono occuparsi delle pratiche legate a eutanasia e suicidio assistito. L’associazione in questione risponde al nome di Stichting Vrijwillig Leven ( SVL, fondazione per la vita volontaria) e opera in Olanda sin dal 1996, ovvero da ben prima della legalizzazione dell’eutanasia. Tra i suoi obiettivi, l’associazione si propone quello di rendere la legge olandese ancor più permissiva, soprattutto in tema di suicidio assistito, garantendo maggiore assistenza per coloro che lo richiedono.
Prendendo spunto da questa notizia e dal sempre crescente numero di richieste di eutanasia, il quotidiano de Volkskrant il 3 giugno scorso ha pubblicato un editoriale in cui si puntualizzava come in Olanda la decisione del medico non sempre viene rispettata, nonostante la legge sia molto chiara a tal proposito.
« L’eutanasia in Olanda sembra diventare sempre più accettata » , proseguiva l’articolo. Effetti di una pericolosa tendenza.