sabato 13 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Omelia del Papa per la solennità del Corpus Domini
2) La storia di Wanda Poltawska, la "sorellina" di Giovanni Paolo II - di Renzo Allegri
3) Una via aperta a tutti – L’Osservatore Romano, 12-13 Giugno 2009
4) Lo studio medico delle guarigioni ritenute miracolose - Guarigioni miracolose? La parola anzitutto ai medici - di Patrizio Polisca Università di Tor Vergata Presidente della Consulta Medica della Congregazione delle Cause dei Santi – L’Osservatore Romano, 12-13 Giugno 2009
5) A quarant'anni dall'istituzione della Congregazione delle Cause dei Santi - Quel di più che rende umana la vita - di Angelo Amato Arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi – L’Osservatore Romano, 12-13 Giugno 2009
6) Un Rabbino americano chiede la canonizzazione di Pio XII - Nella prefazione all’ultimo libro di suor Margherita Marchione - di Antonio Gaspari
7) Per una scuola che parla al futuro - Dalla Cdo sei proposte per affrontare davvero l’emergenza educativa e poter rilanciare il rapporto educativo «Un impegno che coinvolge l’intero mondo degli adulti» - DA MILANO ENRICO LENZI – Avvenire, 13 giugno 2009
8) Alla Macerata-Loreto le «voci» dell’Abruzzo – Avvenire, 13 giugno 2009


Omelia del Papa per la solennità del Corpus Domini
ROMA, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata questo giovedì da Benedetto XVI nel celebrare la Santa Messa sul sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
* * *
"Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue "
Cari fratelli e sorelle,
queste parole che Gesù pronunciò nell’Ultima Cena, vengono ripetute ogni volta che si rinnova il Sacrificio eucaristico. Le abbiamo ascoltate poco fa nel Vangelo di Marco e risuonano con singolare potenza evocativa quest’oggi, solennità del Corpus Domini. Esse ci conducono idealmente nel Cenacolo, ci fanno rivivere il clima spirituale di quella notte quando, celebrando la Pasqua con i suoi, il Signore nel mistero anticipò il sacrificio che si sarebbe consumato il giorno dopo sulla croce. L’istituzione dell’Eucaristia ci appare così come anticipazione e accettazione da parte di Gesù della sua morte. Scrive in proposito sant’Efrem Siro: Durante la cena Gesù immolò se stesso; sulla croce Egli fu immolato dagli altri (cfr Inno sulla crocifissione 3, 1).
"Questo è il mio sangue". Chiaro è qui il riferimento al linguaggio sacrificale di Israele. Gesù presenta se stesso come il vero e definitivo sacrificio, nel quale si realizza l’espiazione dei peccati che, nei riti dell’Antico Testamento, non era mai stata totalmente compiuta. A questa espressione ne seguono altre due molto significative. Innanzitutto, Gesù Cristo dice che il suo sangue "è versato per molti" con un comprensibile riferimento ai canti del Servo di Dio, che si trovano nel libro di Isaia (cfr cap. 53). Con l’aggiunta - "sangue dell’alleanza" -, Gesù rende inoltre manifesto che, grazie alla sua morte, si realizza la profezia della nuova alleanza fondata sulla fedeltà e sull’amore infinito del Figlio fattosi uomo, un’alleanza perciò più forte di tutti i peccati dell’umanità. L’antica alleanza era stata sancita sul Sinai con un rito sacrificale di animali, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, e il popolo eletto, liberato dalla schiavitù dell’Egitto, aveva promesso di eseguire tutti i comandamenti dati dal Signore (cfr Es 24, 3).
In verità, Israele sin da subito, con la costruzione del vitello d'oro, si mostrò incapace di mantenersi fedele a questa promessa e così al patto intervenuto, che anzi in seguito trasgredì molto spesso, adattando al suo cuore di pietra la Legge che avrebbe dovuto insegnargli la via della vita. Il Signore però non venne meno alla sua promessa e, attraverso i profeti, si preoccupò di richiamare la dimensione interiore dell’alleanza, ed annunciò che ne avrebbe scritta una nuova nei cuori dei suoi fedeli (cfr Ger 31,33), trasformandoli con il dono dello Spirito (cfr Ez 36, 25-27). E fu durante l’Ultima Cena che strinse con i discepoli e con l’umanità questa nuova alleanza, confermandola non con sacrifici di animali come avveniva in passato, bensì con il suo sangue, divenuto "sangue della nuova alleanza". La fondò quindi sulla propria obbedienza, più forte, come ho detto, di tutti i nostri peccati.
Questo viene ben evidenziato nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, dove l'autore sacro dichiara che Gesù è "mediatore di una alleanza nuova" (9,15). Lo è diventato grazie al suo sangue o, più esattamente, grazie al dono di se stesso, che dà pieno valore allo spargimento del suo sangue. Sulla croce, Gesù è al tempo stesso vittima e sacerdote: vittima degna di Dio perché senza macchia, e sommo sacerdote che offre se stesso, sotto l'impulso dello Spirito Santo, ed intercede per l’intera umanità. La Croce è pertanto mistero di amore e di salvezza, che ci purifica – come dice la Lettera agli Ebrei - dalle "opere morte", cioè dai peccati, e ci santifica scolpendo l’alleanza nuova nel nostro cuore; l’Eucaristia, rendendo presente il sacrificio della Croce, ci rende capaci di vivere fedelmente la comunione con Dio.
Cari fratelli e sorelle - che saluto tutti con affetto ad iniziare dal Cardinale Vicario e dagli altri Cardinali e Vescovi presenti - come il popolo eletto riunito nell’assemblea del Sinai, anche noi questa sera vogliamo ribadire la nostra fedeltà al Signore. Qualche giorno fa, aprendo l’annuale convegno diocesano, ho richiamato l’importanza di restare, come Chiesa, in ascolto della Parola di Dio nella preghiera e scrutando le Scritture, specialmente con la pratica della lectio divina, cioè della lettura meditata e adorante della Bibbia. So che tante iniziative sono state promosse al riguardo nelle parrocchie, nei seminari, nelle comunità religiose, all’interno delle confraternite, delle associazioni e dei movimenti apostolici, che arricchiscono la nostra comunità diocesana. Ai membri di questi molteplici organismi ecclesiali rivolgo il mio fraterno saluto. La vostra numerosa presenza a questa celebrazione, cari amici, pone in luce che la nostra comunità, caratterizzata da una pluralità di culture e di esperienze diverse, Dio la plasma come "suo" popolo, come l’unico Corpo di Cristo, grazie alla nostra sincera partecipazione alla duplice mensa della Parola e dell’Eucaristia. Nutriti di Cristo, noi, suoi discepoli, riceviamo la missione di essere "l’anima" di questa nostra città (cfr Lettera a Diogneto, 6: ed. Funk, I, p. 400; vedi anche LG, 38) fermento di rinnovamento, pane "spezzato" per tutti, soprattutto per coloro che versano in situazioni di disagio, di povertà e di sofferenza fisica e spirituale. Diventiamo testimoni del suo amore.
Mi rivolgo particolarmente a voi, cari sacerdoti, che Cristo ha scelto perché insieme a Lui possiate vivere la vostra vita quale sacrificio di lode per la salvezza del mondo. Solo dall’unione con Gesù potete trarre quella fecondità spirituale che è generatrice di speranza nel vostro ministero pastorale. Ricorda san Leone Magno che "la nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende a nient’altro che a diventare ciò che riceviamo" (Sermo 12, De Passione 3,7, PL 54). Se questo è vero per ogni cristiano, lo è a maggior ragione per noi sacerdoti. Divenire Eucaristia! Sia proprio questo il nostro costante desiderio e impegno, perché all’offerta del corpo e del sangue del Signore che facciamo sull’altare, si accompagni il sacrificio della nostra esistenza. Ogni giorno, attingiamo dal Corpo e Sangue del Signore quell’amore libero e puro che ci rende degni ministri del Cristo e testimoni della sua gioia. E’ ciò che i fedeli attendono dal sacerdote: l’esempio cioè di una autentica devozione per l’Eucaristia; amano vederlo trascorrere lunghe pause di silenzio e di adorazione dinanzi a Gesù come faceva il santo Curato d’Ars, che ricorderemo in modo particolare durante l’ormai imminente Anno Sacerdotale.
San Giovanni Maria Vianney amava dire ai suoi parrocchiani: "Venite alla comunione…E’ vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno" (Bernard Nodet, Le curé d’Ars. Sa pensée - Son coeur, éd. Xavier Mappus, Paris 1995, p. 119). Con la consapevolezza di essere inadeguati a causa dei peccati, ma bisognosi di nutrirci dell’amore che il Signore ci offre nel sacramento eucaristico, rinnoviamo questa sera la nostra fede nella reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Non bisogna dare per scontata questa fede! C’è oggi il rischio di una secolarizzazione strisciante anche all’interno della Chiesa, che può tradursi in un culto eucaristico formale e vuoto, in celebrazioni prive di quella partecipazione del cuore che si esprime in venerazione e rispetto per la liturgia. E’ sempre forte la tentazione di ridurre la preghiera a momenti superficiali e frettolosi, lasciandosi sopraffare dalle attività e dalle preoccupazioni terrene. Quando tra poco ripeteremo il Padre Nostro, la preghiera per eccellenza, diremo: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano", pensando naturalmente al pane d’ogni giorno per noi e per tutti gli uomini. Questa domanda, però, contiene qualcosa di più profondo. Il termine greco epioúsios, che traduciamo con "quotidiano", potrebbe alludere anche al pane "sopra-sostanziale", al pane "del mondo a venire". Alcuni Padri della Chiesa hanno visto qui un riferimento all’Eucaristia, il pane della vita eterna, del nuovo mondo, che ci è dato già oggi nella Santa Messa, affinché sin da ora il mondo futuro abbia inizio in noi. Con l’Eucaristia dunque il cielo viene sulla terra, il domani di Dio si cala nel presente e il tempo è come abbracciato dall’eternità divina.
Cari fratelli e sorelle, come ogni anno, al termine della Santa Messa, si snoderà la tradizionale processione eucaristica ed eleveremo, con le preghiere e i canti, una corale implorazione al Signore presente nell’ostia consacrata. Gli diremo a nome dell’intera Città: Resta con noi Gesù, facci dono di te e dacci il pane che ci nutre per la vita eterna! Libera questo mondo dal veleno del male, della violenza e dell’odio che inquina le coscienze, purificalo con la potenza del tuo amore misericordioso. E tu, Maria, che sei stata donna "eucaristica" in tutta la tua vita, aiutaci a camminare uniti verso la meta celeste, nutriti dal Corpo e dal Sangue di Cristo, pane di vita eterna e farmaco dell’immortalità divina. Amen!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


La storia di Wanda Poltawska, la "sorellina" di Giovanni Paolo II - di Renzo Allegri
ROMA, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org).- Da qualche settimana, il suo nome circola sui giornali di mezzo mondo. Si chiama Wanda Poltawska, è polacca, ha 88 anni ed è medico psichiatra.
La ragione di questo improvviso interesse della stampa sta nel fatto che la Poltawska ha reso pubbliche molte delle lettere che ha ricevuto da Giovanni Paolo II. E, come era prevedibile, alcuni mezzi di comunicazione hanno voluto fare delle lettere di un Papa a una donna uno scandalo.
Le lettere, pubblicate in un libro, uscito alcune settimane fa in Polonia, fanno parte di una intensa corrispondenza intercorsa tra la Poltawska e Wojtyla nell’arco di 55 anni. I due si sono conosciuti subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono diventati amici, hanno collaborato in numerose iniziative insieme.
Prima a Cracovia, nelle attività culturali e sociali della diocesi, soprattutto per i problemi della famiglia; e, dopo l’elezione di Karol Wojtyla a Pontefice, a Roma, dove la Poltawska divenne membro del Pontificio Consiglio per la Famiglia, consultore del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute e membro della Pontificia Accademia per la Vita.
Una attività intensa, un’amicizia solare, che tutti conoscevano. Un’amicizia che ebbe una straordinaria visibilità nel 1984, quando si seppe che la Poltawska aveva ottenuto un miracolo per intercessione di padre Pio, tramite richiesta di Karol Wojtyla.
La vicenda risale al 1962. Ammalata di tumore, Wanda stava per morire. I medici non davano speranze. Volevano comunque tentate un intervento chirurgico. Wojtyla, giovane vescovo, si trovava a Roma per il Concilio. Venne informato e scrisse subito una lettera a padre Pio, chiedendogli di pregare per quella donna.
La lettera porta la data del 17 novembre 1962. Fu recapitata a padre Pio a mano, da Angelo Battisti, che era amministratore della Casa Sollievo della Sofferenza. padre Pio chiese a Battisti di leggergli la lettera. Al termine, disse: “Angiolino, a questo non si può dire di no”. Battisti, che conosceva bene i carismi di padre Pio, tornò a Roma stupito e continuava a chiedersi il “perché” di quella frase: “A questo non si può dire di no”.
Undici giorni più tardi, e cioè il 28 novembre fu incaricato di portare una nuova lettera a padre Pio. In questa, il vescovo polacco ringraziava il padre delle preghiere perché “la donna ammalata di tumore, era guarita all’improvviso, prima di entrare in sala operatoria”. Un vero e strepitoso miracolo quindi, attestato dai medici.
Conosco bene questa vicenda perché fui io a farla conoscere per la prima volta nel 1984, in una biografia di padre Pio che scrissi per Mondadori. Le lettere di Wojtyla mi erano state date da Angelo Battisti il quale mi aveva anche riferito il dettaglio del commento incredibile del Padre: “A questo non si può dire di no”.
Appena uscito il mio libro, quelle lettere furono riprese dalla stampa di mezzo mondo e quindi, fin da allora, l’amicizia tra Karol Wojtyla e Wanda Poltawska era nota. In seguito furono scritti molti altri articoli sull’argomento, da me e da altri colleghi, e furono pubblicate numerose e bellissime fotografie, che ora sono riportate in vari giornali. Niente di nuovo, perciò. Una grande amicizia, una straordinaria collaborazione che non furono interrotte con l’elezione di Wojtyla al soglio Pontificio.
La pubblicazione delle lettere, però, suscita scalpore. E anche preoccupazione, soprattutto nel mondo ecclesiastico. Il cardinale di Cracovia, in una intervista, fatta nel pieno delle polemiche, ha rimproverato la dottoressa Poltawska dicendo che doveva stare zitta. Ma, esaminando la situazione a mente fredda, si arriva a dare ragione alla dottoressa Poltawska. Ha fatto bene a pubblicare quelle lettere.
La sua amicizia era nota. Molti sapevano di quella corrispondenza. Presso la Congregazione per le Cause dei santi volevano quelle lettere. Ma non si sa come le avrebbero giudicate. E il loro giudizio sarebbe rimasto segreto, sepolto negli archivi di quei palazzi invalicabili. La dottoressa Poltawska ha preferito la luce del sole. Proprio perché non c’è niente da nascondere. Anzi, sono lettere bellissime, di una ricchezza spirituale e umana commovente. Dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza smisurata del cuore di Karol Wojtyla, l’immenso amore che aveva in quel suo cuore, “immenso” proprio perché “amava” con l’amore di Dio.
Una vicenda del genere si era verificata nel corso della causa di beatificazione di padre Pio. Intorno al 1990, la causa era bloccata. E proprio per una serie di lettere che il Padre aveva scritto a una sua “figlia spirituale”, Cleonice Morcaldi. L’aveva conosciuta intorno al 1930. quando era una ragazza ed era rimasta orfana di entrambi i genitori. Come aveva promesso alla madre morente della ragazza, padre Pio se ne prese cura , come fosse una vera “figlia adottiva”. E da allora la trattò sempre con affetto e amore grandissimi, come un padre tratta una figlia.
Amicizia contrastata, condannata, causa di grandi sofferenze e umiliazioni per padre Pio, di calunnie e insinuazioni gravissime. E anche in quella vicenda vi erano le lettere, considerate troppo affettuose.
Un giorno quelle lettere mi furono date da due sacerdoti, figli spirituali di padre Pio e amici di Cleonice Morcaldi. Mi chiesero di pubblicarle, affinchè il mondo giudicasse se quelle erano “lettere del peccato” o invece straordinarie prove di una amicizia spirituale altissima.
Le pubblicai nel mio libro “A tu per tu con padre Pio”. Subito suscitarono un autentico putiferio, ma poi la verità finì per emergere e nessuno più parlò di scandalo, anzi, quelle lettere contribuirono a capire in modo ancor più profondo la grandezza del cuore di padre Pio.
Nei vari articoli usciti in questi giorni si parla delle lettere del Papa alla dottoressa Poltawska, ma nessuno si sofferma a spiegare chi sia questa donna e perché sia stata tanto amica di Karol Wojtyla.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, Wanda Poltawska era una giovane studentessa universitaria. Aveva diciotto anni. Frequentava, i circoli degli studenti cattolici. E quando i nazisti invasero la Polonia, come tanti altri suoi coetanei, entrò a far parte della Resistenza partigiana, per difendere la patria. Ma venne scoperta, arrestata, tradotta in Germania e trascorse cinque anni in un lager.
Tornata a casa, riprese gli studi, si laureò in medicina, si specializzò in psichiatria. Persona riservata, non parlava mai di quanto aveva sofferto. Volle però trascrivere in un quaderno quanto ricordava perché non andasse perduto. E solo all’inizio degli anni Ottanta si lasciò convincere da un’amica a pubblicare quelle sue memorie in un libretto, che si intitola "E ho paura dei miei sogni... Una donna nel Lager di Ravensbrück".
Me lo fece conoscere nel 1996 il professor Adolfo Turano, microbiologo, che lo stava traducendo per pubblicarlo anche in Italia. Conservo ancora il manoscritto che mi diede. Poi il professore morì prematuramente, ma so che il libro, lo scorso anno, è stato pubblicato anche nel nostro paese, dalle Edizioni dell’Orso.
E’ un documento sconvolgente. Svela particolari tremendi, alcuni inediti, sulle crudeltà degli aguzzini nazisti. La Poltawska racconta la propria vicenda di giovane prigioniera che vive un dramma spaventoso, ma la racconta con una commovente e meravigliosa partecipazione alla sofferenza degli altri.
La Poltawska non si limita a riferire, in quelle pagine, i propri patimenti, le proprie ansie, le proprie sofferenze. Guarda a se stessa e a tutte le compagne con lo stesso interesse. E questo è un dato da tenere ben presente perché dimostra che le disumane sofferenze patite non spensero mai nel suo cuore la bontà, la dignità umana, la solidarietà. Nei Lager tedeschi ci fu l’inferno, dilagò il “Male personificato” ma tra le vittime innocenti ci furono luminosi e incredibili esempi di bene, di altruismo eroico.
"Una sera", scrive Wanda Pol­tawska all'inizio di quel suo libretto di memorie (cito dalla traduzione che mi diede il professor Turano) "studiavo a casa quando all'ingresso una voce maschile, in po­lacco, risuonò strana e aggressiva: 'Chi di voi è Wanda?'. E così co­minciò. Mi alzai, uscii... e sono tornata solo adesso, dopo quasi cinque anni di campo di concen­tramento".
La ragazza, dapprima fu portata al co­mando della Gestapo, a Cracovia, e sottoposta a un interrogatorio che durò alcuni giorni. Venne picchiata, violente­mente, con pugni in faccia, nello stomaco, minacciata con una ri­voltella.
Venne poi rinchiusa in una cella zeppa di persone. "Nella prigione c'erano pidocchi, pulci, sporcizia, non c'era l'acqua ed era scoppiato il tifo. Di notte, a volte, all'im­provviso, accendevano le luci fa­cendoci stare sull'attenti, comin­ciavano a chiamare alcune di noi. Dopo, in cella, non si dormiva più, si pregava per quelle che erano andate via. E poco dopo, sotto le no­stre finestre sentivamo i colpi d'arma da fuoco dell'esecuzione".
Dopo quasi sette mesi, le pri­gioniere furono caricate su un treno merci e inviate in Germania, nel famigerato lager di Ravensbrück, dove i medici tedeschi fa­cevano esperimenti su cavie uma­ne. "Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchia­vano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano di­struggere la nostra personalità".
Cominciarono i lavori, pesanti, pesantissimi. "Caricavano una quantità smisura­ta di pesi sulle nostre spalle... Ri­cordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel pe­so perché dietro di me c'era un'al­tra prigioniera e l'avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Aveva­mo accanto le sorveglianti con ter­ribili cani che ringhiavano minac­ciosi appena una di noi si riposava un poco. Le mani sanguinavano. Al mattino la sabbia era bagnata e pesante, durante il giorno si asciu­gava con il vento, si alzava, entra­va negli occhi, nella bocca, nelle orecchie".
Un tormento terribile era costi­tuito dal freddo. "Dove dormiva­mo pendevano dal soffitto i ghiac­cioli. Sulle nostre coperte c'era la brina e la sorvegliante ci ordinava sistematicamente che aprissimo le finestre dei due lati del dormitorio per colpirci con le correnti d'aria”.
"Nelle baracche dove andava­mo a lavorare era, invece, molto caldo. La baracca era superaffolla­ta e sudavamo. Indossavamo ve­stiti leggeri, con le maniche corte. Il mio turno terminava alle cinque del mattino, ci sbattevano fuori, tutte sudate e con gli stessi vestiti leggeri rimanevamo ore e ore al gelo”.
"Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci but­tavamo sulle brande e dopo un'ora suonava la sirena e dovevamo al­zarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un'altra ora ancora la sirena per l'appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli, si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Era­vamo magre come scheletri. Neanche la vista delle donne nude, in coda per il bagno, terribilmente magre, causava più disgusto.
“Guardavamo con indifferenza la no­stra magrezza e quella delle altre, così come la per­dita dei seni e la morte. Per la fame eravamo diven­tate ladre, ci rubavamo un tozzo di pane, litigavamo per poche bricio­le".
E poi, ecco, a un certo momento, l'appello di un gruppo che viene portato nel padiglione dell'infer­meria, tra esse anche Wanda. Ven­gono lavate, un'infermiera depila le loro gambe, pratica delle inie­zioni che fanno perdere la coscien­za e quando le ragazze si sveglia­no si trovano con le gambe inges­sate. Che cosa é accaduto? Non lo sanno. Vengono riportate nel dor­mitorio su una sedia a rotelle. Messe a letto e, nel corso della notte, quando termina l'effetto del potente sonnifero, cominciano do­lori lancinanti.
Inizia così il martirio. Quelle ragazze diventano delle cavie u­mane per atroci esperimenti medi­ci. Gli interventi chirurgici alle gambe si succedono a periodi fis­si. Le ferite praticate vengono trat­tate con medicinali particolari che producono infe­zioni, cancrene. In quello stato le vit­time vengono ab­bandonate sole nel dormitorio, senza alcuna assistenza.
Wanda, pur non riuscendo a reggersi in piedi, si la­scia cadere dal letto e, aggrappan­dosi alle brande delle compagne, raggiunge quelle più sofferenti per dare loro un po' di conforto, bagna i visi bruciati dalla febbre con stracci inumiditi, conforta chi sta agonizzando.
Di giorno arrivano i medici che osservano le ferite e ordinano altri esperimenti. Le po­vere cavie umane vengono ripor­tate nel padiglione dell'infermeria e sottoposte ad altre orribili muti­lazioni, asportazioni di pezzi di os­sa, iniezioni di batteri nelle ferite. Un calvario spaventoso e interminabile. Ogni tanto una ragazza muore. Se ne vanno in questo mo­do in molte. Wanda le ricorda, scrivendo i loro nomi, come su una lapide, perché sono vittime in­nocenti, uccise da un odio assurdo, freddo, cinico, umanamente in­concepibile.
L'esasperazione delle sopravvissute è indicibile. Ma Wanda, anche in quella tremenda situazione, riesce a mantenere il suo equilibrio cristiano. “Non pro­vavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tede­schi? Li guardavo e cercavo in lo­ro le persone”.
Questa, in una rapidissima sin­tesi, l'incredibile e orribile espe­rienza che Wanda Poltawska fece, dai 18 ai 23 anni, nel lager di Ravensbrück. Un'esperienza capace di distruggere qualsiasi equilibrio psichico. Wanda è sopravvissuta fi­sicamente e psichicamente a que­gli orrori grazie alla sua fede. E grazie all’aiuto di un giovane sacerdote, Karol Wojtyla, conosciuto al suo rientro a casa, riuscì a superare e a vincere le conseguenze devastanti che gli orrori patiti avrebbero certamente lasciato nella sua personalità.
A quel sacerdote confidò i suoi drammi spaventosi e quel sacerdote potè “capire”, perché anche lui, negli anni della guerra, era stato martoriato da grandi dolori personali che lo avevano condotto alla vocazione sacerdotale. E nacque così un’amicizia, continuata per il resto della vita, intensa di attività e di iniziative per promuovere i valori che da quelle lontane sofferenze erano germogliati.


Una via aperta a tutti – L’Osservatore Romano, 12-13 Giugno 2009
Tempo fa i santi potevano apparire anche come figure sorpassate e polverose, agli occhi di società sempre più scintillanti e tecnologiche. Poi è venuto il Vaticano ii che in uno dei suoi documenti più importanti - la costituzione Lumen gentium, che presenta al mondo moderno il volto e l'anima della Chiesa cattolica - ha dedicato un capitolo all'universale vocazione alla santità di ogni credente. A seguito di questo rilancio, si sono aggiornate le procedure per le cause di beatificazione e canonizzazione in uso da alcuni secoli. In questa opera di aggiornamento, il rigore delle procedure per rispondere a una richiesta della pubblica opinione sempre più esigente, si è tuttavia accompagnato alla convinzione diffusa che una vita specchiata nel vangelo - possibilità aperta a tutti - rimane la migliore garanzia per dare credito alla presenza di Dio nella storia del mondo. Il fascino dei santi cristiani ha conquistato i non praticanti e perfino numerosi non credenti che si sentono in sintonia con figure straordinarie quali san Francesco e madre Teresa forse a motivo della loro grande umanità. Consapevole di questo richiamo per la verità molto antico e del fatto che nella canonizzazione dei santi è impegnata la credibilità del magistero pontificio, la Chiesa ha cercato di rendere la proclamazione dei santi sempre più accessibile, trasparente e comprensibile a tutti. Chiarendo in particolare le obiezioni, sia sul grado di verità dottrinale proprio di una canonizzazione, sia mediante l'esame accurato delle virtù dei candidati e la serietà dei miracoli attribuiti all'intercessione dei candidati agli onori degli altari. Nella Curia romana opera un'apposita struttura a questo scopo, la Congregazione delle Cause dei Santi. Con una punta critica qualcuno l'ha definita la "fabbrica dei santi". Un'immagine che non dispiace tuttavia all'arcivescovo Angelo Amato, che ora la presiede, a condizione che si tratti di una "fabbrica di alta qualità". A tale scopo la procedura è diventata sempre più accurata e con Benedetto XVI ancora più esigente. Tanto che, sebbene per figure molto popolari come Giovanni Paolo II si sia aperta una sorta di corsia preferenziale, il prefetto precisa che questo non annulla la procedura rigorosa che comunque deve essere seguita. "La nostra congregazione - ribadisce - non è un'istituzione devozionale, ma di alta teologia poiché cerca di riscontrare l'evidenza di vita in Cristo richiesta ai candidati agli onori degli altari. La santità è l'incarnazione concreta del vangelo in una persona". Tra i tanti dottori in teologia e in storia della Chiesa, la sostanza dell'essere cristiani l'aveva capita bene un giovane allievo di don Bosco, quel prete santo che una volta definì la gioia come "la più bella creatura uscita dalle mani di Dio dopo l'amore" e che faceva consistere la santità dei suoi ragazzi nello stare molto allegri evitando il peccato. L'allievo è Domenico Savio che fu lesto a recepire la lezione, stilando un programma inconsueto per un giovanissimo: "Voglio farmi santo", e lo fondò su un impegno sbalorditivo per ogni tipo di adulto: "La morte ma non peccati". Don Bosco gli aveva detto: "È volontà di Dio che ci facciamo santi". Il concilio Vaticano ii avrebbe scritto cento anni dopo: "Tutti i fedeli di qualsiasi stato e grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano". Il più delle volte capita di leggere le più fantasiose analisi sulla Chiesa. Il suo vero progetto invece è quello di spingere tutti sulla via della santità. Quando non lo si fa, nasce il problema. E allora guardare dentro la Congregazione delle Cause dei Santi - dicastero che nella forma rinnovata compie quarant'anni - è come guardare nel cuore della Chiesa.
c. d. c.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 giugno 2009)


Lo studio medico delle guarigioni ritenute miracolose - Guarigioni miracolose? La parola anzitutto ai medici - di Patrizio Polisca Università di Tor Vergata Presidente della Consulta Medica della Congregazione delle Cause dei Santi – L’Osservatore Romano, 12-13 Giugno 2009
Lo studio scientifico delle guarigioni ritenute miracolose riveste un ruolo centrale nell'iter processuale di una causa di beatificazione o canonizzazione, ma il riconoscimento del "miracolo" non appartiene alla scienza medica, essendo una nozione di pertinenza teologica. Il significato del "miracolo" è essenzialmente legato alla religione e alla teologia pur contenendo valenze di rilevanza scientifica e filosofica. Infatti da una parte esso si collega alle leggi naturali - ambito scientifico-filosofico - dall'altra rimanda alla sua significatività soprannaturale, ambito teologico. Che cosa può dire la scienza al riguardo? Le possibili risposte: trovarsi di fronte a un evento le cui cause sono ignote; trovarsi di fronte a un evento inusitato che contraddice l'esperienza comune (ad esempio: guarigione istantanea di grave malformazione congenita, reversibilità di un fenomeno certamente irreversibile); trovarsi di fronte a un certo evento il quale, in base alle conoscenze oggi acquisite, resta inusitato e inspiegabile. Una parte preponderante dei miracoli è rappresentata, oggi come al tempo di Gesù, dai "miracoli di guarigione". Questo il motivo per il quale il loro studio medico-scientifico viene affidato a periti medici i quali, riuniti in Consulta medica - organo consultivo della Congregazione per le Cause dei Santi - appositamente istituita, sono chiamati a esprimere un giudizio finale di spiegabilità scientifica o meno circa la guarigione proposta. L'assetto definitivo della Consulta medica si deve a Pio XII, dopo la sua istituzione che risale a Sisto V. Un giudizio conclusivo viene raggiunto in sede di Consulta medica, dopo le esposizioni dei periti d'ufficio, dei vari esperti, che a seconda della natura delle guarigioni in esame possono essere internisti, chirurghi, pediatri, cardiologi e così via, fino alla "discussione collegiale". I procedimenti per giungere al definitivo giudizio non sono mai semplici poiché la documentazione presentata, cioè accertamenti vari, spesso complessi - esami radiologici, endoscopici, esami istologici, cardiologici, neurologici, oltre la valutazione delle testimonianze - è corposa e richiede competenze specifiche: neurologiche, cardiologiche, pediatriche, e via dicendo. Il giudizio conclusivo della Consulta medica viene infine espresso attraverso la definizione della diagnosi della malattia con relativa prognosi, della terapia e infine, della guarigione stessa con riferimento alla sua spiegabilità scientifica o meno. Accertata all'unanimità o a netta maggioranza l'inspiegabilità di una determinata guarigione questa passa all'esame della Consulta teologica per la eventuale definizione di miracolo. La metodologica attuata in sede di Consulta medica è la stessa che presiede alla ricerca scientifica la quale, prendendo le mosse dalla osservazione, passa alla formulazione dell'ipotesi interpretativa (diagnosi) con le conseguenti deduzioni e infine la verifica, decorso della malattia, sua guarigione o cronicizzazione o exitus. Certamente si tratta di una visione scientifica di stampo realista, consapevole di poter raggiungere una conoscenza reale dei fenomeni naturali attraverso la scoperta delle loro cause, presupponendo la nozione di un universo razionale. "È la razionalità del mondo a provocare nell'uomo la ricerca della causa dei fenomeni" diceva Max Planck. Al giudizio di spiegabilità scientifica delle guarigioni si perviene attraverso un percorso metodologico ormai ben consolidato e così individuabile. La "malattia" può essere definita come la rottura del normale equilibrio fisiologico tra le funzioni vitali (omeostasi) basato su delicati meccanismi biologici di autoregolazione. La "diagnosi" è il giudizio attuale sulla malattia in esame e rappresenta una lettura adeguata del soggetto malato tramite l'osservazione e il collegamento logico della sintomatologia interpretata secondo un modello biologico. La diagnosi deve essere di solito accreditata e suffragata da prove idonee al raggiungimento di un sufficiente livello di certezza. La povertà di prove valide o di limitato valore ai fini del giudizio diagnostico sulla malattia può indurre in errore o a difficoltà interpretative del caso clinico in esame. Soprattutto è dalla qualità delle prove diagnostiche assunte che si può desumere, con maggiore o minore certezza, l'attendibilità della diagnosi. Il criterio delle prove diagnostiche è sempre da riportare all'epoca in cui esse furono eseguite. Se queste appartengono a casi clinici risalenti a molti anni prima, per cui è realmente impossibile rintracciare elementi di valutazione probanti, si parla di "caso storico". La povertà diagnostica per esiguità di prove vincolanti o fortemente indicative di uno stato morboso inficia la plausibilità del giudizio diagnostico e, quindi, finale poiché vengono a mancare elementi di supporto affidabili e necessari per la giusta definizione interpretativa della patologia in questione. Un aspetto essenziale della malattia è rappresentato dal suo "decorso" che si identifica con la sua storia naturale nei suoi tratti di durata, gravità e complicanze e che risulta decisivo ai fini del giudizio prognostico sulla malattia stessa. Appare, perciò, indispensabile la raccolta dei documenti medici riferentisi al periodo della malattia precedente la guarigione (certificazioni mediche, prove diagnostiche, cartelle cliniche, testimonianze del personale di assistenza, familiari e via dicendo, ottenuti tramite interrogatori particolareggiati sullo svolgimento dei fatti in sede processuale che extragiudiziale). Tutto ciò al fine di confrontare la compatibilità della guarigione con quanto si conosce della storia naturale della malattia in esame o in dipendenza di cure appropriate. La prognosi, inoltre, rappresenta un giudizio di previsione, ossia di probabilità o possibilità circa il decorso e l'evoluzione della malattia per ciò che concerne la sopravvivenza quoad vitam o il recupero funzionale, quoad valetudinem. Ai fini della spiegabilità della asserita guarigione miracolosa è di fondamentale importanza studiare da parte dei periti il rapporto di causalità tra guarigione e terapia "ricercandone la proporzionalità causale efficiente". Soprattutto l'esame e il giudizio dei periti medici viene focalizzato sulla sufficienza o sull'insufficienza causale della terapia a risolvere una certa situazione, a seconda delle possibili scelte terapeutiche del momento. La guarigione per essere definita scientificamente non spiegabile o straordinaria - i termini devono essere assunti quali sinonimi - e quindi utile alla definizione teologica di miracolo necessita di speciali attribuzioni. Si deve al cardinale Prospero Lambertini, poi Benedetto XIV, il merito di aver precisato le caratteristiche del miracolo anche sotto l'aspetto medico-scientifico. Infatti nella De servorum beatificatione et beatorum canonizatione (libro IV, capitolo VIII, 2 - 1734) egli fissava precisi criteri per il riconoscimento della straordinarietà o inspiegabilità di una guarigione: Primum est, ut morbus sit gravis, et vel impossibilis, vel curatu difficilis ("bisogna che la malattia sia grave, incurabile o difficoltosa a trattarsi"). Secundum, ut morbus, qui depellitur, non sit in ultima parte status, ita ut non multo post declinare debeat ("in secondo luogo, bisogna che la malattia vinta non sia all'ultimo stadio o al punto da poter guarire spontaneamente"). Tertium, ut nulla fuerit adhibita medicamenta, vel, si fuerint adhibita, certum sit, ea non profuisse ("in terzo luogo occorre che nessun farmaco sia stato impiegato, o, se impiegato, che ne sia stata accertata la mancanza di effetti"). Quartum, ut sanatio sit subita, et momentanea ("in quarto luogo bisogna che la guarigione avvenga all'improvviso e istantaneamente"). Quintum, ut sanatio sit perfecta, non manca, aut concisa ("in quinto luogo è necessario che la guarigione sia perfetta, e non difettosa o parziale"). Sextum, ut nulla notatu digna evacuatio, seu crisis praecedat temporibus debitis, et cum causa; si enim ita accidat, tunc vero prodigiosa sanatio dicenda non erit, sed vel ex voto, vel ex parte naturalis ("in sesto luogo bisogna che ogni escrezione o crisi degne di nota siano avvenute a tempo debito, ragionevolmente in dipendenza di una causa accertata, precedentemente alla guarigione; in tale eventualità la guarigione non sarebbe da considerare prodigiosa, ma piuttosto, totalmente o parzialmente naturale"). Ultimum, ut sublatus morbus non redeat ("per ultimo bisogna che la malattia debellata non si riproduca").
I criteri stabiliti da Benedetto XIV sottendono, realmente: una forte sproporzione tra la guarigione e la gravità della malattia iniziale che appare inguaribile o difficilmente curabile; il mancato rapporto causale con la terapia praticata; la rapidità della risoluzione; la completezza della guarigione e la stabilità nel tempo della stessa. Questi rappresentano anche al presente il giusto riferimento per il giudizio di non-spiegabilità poiché colgono realmente nella sua sostanza l'inspiegabilità del fenomeno definendo compiutamente una guarigione "non scientificamente spiegabile".
Una guarigione che contenga i caratteri della inspiegabilità, sopra esposti, mostra, alla interpretazione clinico-biologica un imprevedibile salto qualitativo, di ordine essenziale, cioè riguardante la intrinseca natura o sostanza degli avvenimenti biologici che esulano dalle ordinarie previsioni rendendosi evidente la loro innaturale risoluzione. In tali casi la guarigione non appare più compatibile con le leggi scientifiche conosciute.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 giugno 2009)


A quarant'anni dall'istituzione della Congregazione delle Cause dei Santi - Quel di più che rende umana la vita - di Angelo Amato Arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi – L’Osservatore Romano, 12-13 Giugno 2009
Sin dai primi secoli i martiri erano considerati una nuova immagine di Cristo sul Calvario. La loro passione era la riproposizione della passione di Cristo. Il protomartire Stefano è assimilato a Cristo, che soffre e si sacrifica per la Chiesa. La preghiera per i suoi uccisori è la stessa di Gesù per i suoi crocifissori (cfr. Atti, 7, 60; Luca, 23, 31). Anche nel martirio di Policarpo, avvenuto, pare, il 23 febbraio 155 a Smirne, il martire viene visto come il perfetto imitatore della via dolorosa di Cristo: "Policarpo, che fu il dodicesimo a subire il martirio in Smirne con quelli di Filadelfia (...) non solo fu maestro insigne, ma anche martire eccelso, il cui martirio tutti aspirano a imitare, avvenuto com'è a somiglianza di quello di Cristo narrato dal Vangelo". Per questo i cristiani veneravano i martiri quali perfetti discepoli del Signore, al quale avevano manifestato un amore insuperabile. Esaltando il sacrificio della giovane nobildonna Perpetua, martirizzata a Cartagine nel 202 con Felicita e tre catecumeni, Agostino commenta: "I martiri di Cristo per il nome e la giustizia di Cristo vinsero il timore della morte e quello dei tormenti: non temettero né la morte né le sofferenze: vinse in essi Colui che visse in essi". Nelle persecuzioni Cristo è a fianco dei martiri, combatte con loro e dà loro la forza di sopportare i supplizi più atroci senza lamento, anzi, col sorriso sulle labbra. Spesso i martiri vedono "la gloria del Signore" e sono confortati da visioni e voci celesti. Nel patire passano dalla condizione terrena a quella celeste: "Non più uomini, ma già angeli". Il loro corpo consunto dai supplizi emana una divina fragranza. Sono già "perfetti" ed entrano immediatamente nella gloria del cielo. I martiri mostrarono ai primi cristiani la fermezza della fede, l'amore a Gesù e la comunione con la Chiesa. Il loro coraggio rivelava la fierezza di essere cristiani e di proclamare fino al sacrificio della vita la verità del Vangelo. C'è relazione di causa ed effetto tra la sequela Christi e il martirio. A ragione Agostino precisava che non tanto la pena quanto la causa contraddistingueva i martiri cristiani: Quoniam martyres discernit non poena sed causa. Ciò destava stupore e imitazione, come mostrano, ad esempio, le conversioni di Tertulliano e di Giustino. Nell'esaltare i martiri cristiani, quest'ultimo scriveva: "Nessuno credette mai a Socrate, sino al punto di dare la vita per la sua filosofia". Accanto al battesimo di acqua si pone, quindi, il battesimo di sangue: "Solo il battesimo di sangue - afferma Origene - ci può rendere più puri di quanto ci rese il battesimo di acqua". Se il battesimo introduce il neofita nella terra promessa, il martirio dà al martire il possesso del regno. Per i cristiani il martirio era sicurezza di salvezza: "Nell'anfiteatro di Cartagine alla fine dei giochi" fu scagliato contro Saturo un leopardo che "con un colpo di zanne lo bagnò nel suo sangue". Come a testimoniare un secondo battesimo, la folla gridò: "Eccolo ben lavato! Eccolo salvato". Era sicuramente salvato, aggiungono gli Atti, colui che "era stato lavato nel proprio sangue". Cipriano illustra ampiamente il significato dei due battesimi: "Noi che, con il permesso del Signore, abbiamo conferito ai credenti il primo battesimo, prepariamo i singoli al secondo, insinuando e insegnando che questo è il battesimo nel quale battezzano gli angeli, il battesimo nel quale Dio e Cristo esultano, battesimo dopo il quale non si può più peccare, battesimo consumatore della perfezione della nostra fede, battesimo che ci unisce subito a Dio, dopo aver lasciato questo mondo. Nel battesimo di acqua si ha la remissione dei peccati, nel battesimo di sangue la corona delle virtù". I martiri cristiani vincevano l'angoscia dei supplizi e della morte nella certezza della resurrezione. Il loro eroismo, non come atteggiamento stoico ma come speranza di felicità eterna, confortava le prime generazioni cristiane a familiarizzarsi con la morte, non più traguardo tragico dell'esistenza, ma porta del cielo. I martiri non si avviavano alla morte ma alla vita. Il martire Apollonio, rimproverato dal giudice pagano perché amava la morte, rispose: "Io amo la vita (...) ma l'amore della vita non mi fa temere la morte. Niente è migliore della vita, ma io intendo la vita eterna". Nel corso dei secoli, oltre al ricordo degli apostoli e dei martiri si imposero all'ammirazione e quindi alla venerazione dei fedeli anche quelle figure eminenti per la loro vita di fede e per la loro testimonianza della verità. Per questo già verso il terzo secolo Clemente d'Alessandria ritiene martire non solo chi muore per Cristo ma anche chi lo testimonia lungo tutta la sua vita: "Se professare apertamente la fede in Dio è testimonianza, qualsiasi persona che organizza la sua vita in dipendenza da Dio e osserva i comandamenti di Lui è martire, sia in forza della vita che fa, sia in forza delle parole che dice, qualsiasi possa essere la sua morte: egli sparge la sua fede come sangue per tutta la vita e all'uscita della vita". Per Clemente il martirio non è solo un atto, ma uno stato permanente di testimonianza di vita in Cristo. Per lui una esistenza martiriale significa in concreto la pratica delle beatitudini evangeliche. Nella sua Storia ecclesiastica Eusebio (circa 265-340), parlando dei martiri della Gallia meridionale al tempo di Marco Aurelio, accenna ai cristiani del luogo, che, nonostante i terribili tormenti sopportati, sopravvivono e quindi rifiutano di essere designati come martiri, ma si dicono "modesti e poveri confessori". Qui per la prima volta appare la distinzione tra homòlogoi (confessori) e màrtyroi (martiri). A ogni modo fin dai primi secoli la tradizione ci ha consegnato non solo gli atti e le passioni dei martiri ma anche le biografie di straordinari testimoni della fede non martiri. Citiamo, tra le molte, la Vita di Antonio di Atanasio di Alessandria, la Vita di Cipriano del diacono Ponzio - che volle aggiungere agli atti del martirio del santo vescovo anche la presentazione della sua dottrina e dei suoi scritti - la Vita di Martino del letterato di chiara fama Sulpicio Severo, la Vita di Ambrogio del diacono Paolino, la Vita di Agostino del vescovo Possidio. Le biografie antiche seguono in filigrana la narratio evangelica cercando i punti di convergenza con la vita di Cristo. I passi evangelici sorreggono l'intera trama dell'esistenza del santo biografato, le cui gesta ricalcano le gesta di Cristo. Nonostante il riferimento unico a Cristo, di cui rispecchiano i valori più alti, ognuno mantiene la propria identità e originalità. Il messaggio profondo delle biografie antiche è la proclamazione del mistero di Dio nell'esistenza umana: questi eroi cristiani suscitano ammirazione non tanto per la loro grandezza umana, ma "come segno di quanto veramente grande può diventare l'uomo, quando rinuncia ai suoi ideali umani per abbracciare totalmente quelli che gli propone Dio". La tradizione agiografica della Chiesa si è arricchita lungo i secoli di narrazioni esemplari di uomini e donne che, alla scuola del Vangelo, sono diventati testimoni credibili della presenza di Dio nella storia. Alcuni di essi sono stati ufficialmente canonizzati dalla Chiesa. Questa splendida Bibliotheca Sanctorum continua ad ampliarsi anche in questo terzo millennio. Si tratta dell'eterna primavera della Chiesa, che vede in questi suoi figli e figlie di ogni lingua e nazione il trionfo della grazia divina. Fin dalla sua istituzione la Congregazione delle Cause dei Santi ha dedicato la sua attenzione al discernimento dell'esercizio eroico delle virtù cristiane dei suoi fedeli, testimoni valorosi di Cristo anche mediante l'effusione del sangue. I santi sono persone che edificano la Chiesa con la loro carità. Allo stesso tempo immettono nella società quel "di più" di amore, di misericordia e di bontà che la rende autenticamente umana. Del resto, come mostra il calendario, i giorni della nostra esistenza sono scanditi dalla loro presenza protettrice. Forse per questo c'è tanto interesse per i santi, antichi e nuovi.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 giugno 2009)


Un Rabbino americano chiede la canonizzazione di Pio XII - Nella prefazione all’ultimo libro di suor Margherita Marchione - di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org).- E’ un Rabbino statunitense, fino al settembre del 2008 aveva sollevato dubbi sull’idoneità per la beatificazione di Pio XII, mentre adesso prega per il Pontefice e propone di riconoscere Papa Pacelli come santo
Nella prefazione all’ultimo libro di suor Margherita Marchione, “Papa Pio XII. Un antologia di testi nel 70° anniversario dell’incoronazione”, edito in italiano e inglese dalla Libreria Editrice Vaticana, il Rabbino americano Erich A. Silver del Temple Beth David in Cheshire, responsabile per il miglioramento delle relazioni tra Giudaismo e Chiesa Cattolica, racconta il perchè del suo cambio di opinione.
“Credevo – ha scritto Silver nella prefazione al libro della Marchione – che poteva fare di più. Volevo sapere se, infatti, fosse stato un collaboratore, un antisemita passivo, mentre milioni furono uccisi, alcuni in vista del Vaticano”.
Poi – ha raccontato il Rabbino – nel mese di settembre del 2008 venne a Roma, invitato da Gary Krupp a partecipare ad un simposio organizzato dalla Pave The Way Foundation, in cui si voleva esplorare il ruolo di Pio XII durante l’Olocausto.
In quell’occasione il Rabbino Silver conobbe suor Marchione e una cinquantina tra, Rabbini, sacerdoti, studiosi e giornalisti che avevano studiato e indagato a fondo sul tema.
Per Silver, quel simposio è stata una folgorazione: “Le prove che ho visto – ha scritto – mi hanno convinto che la sua sola motivazione (di Pio XII ndr) è stata di salvare tutti gli ebrei che poteva”.
E l’immagine negativa contro Pio XII? Secondo Silver, tutto è cominciato con la pubblicazione del libro “The Deputy” con la diffusione di bugie e l’abitudine a non indagare i fatti storici. Così molte persone sono diventate “strumento di coloro che detestano Pio XII perchè fu sempre anticomunista”.
“E’ da notare – ha rilevato Silver – che, dopo la fine della guerra, e fino alla sua morte gli ebrei lo hanno lodato continuamente riconoscendolo come salvatore”.
“Io spero – ha auspicato il Rabbino – che la canonizzazione di Papa Pio XII possa procedere speditamente, affinché non solo i cattolici, ma tutto il mondo possa conoscere il bene compiuto da quest’uomo di Dio”.
Nella parte finale della sua introduzione al libro della Marchione, Silver ha ricordato che nel 50° anniversario della morte di Pio XII, nella predica di Yom Kippur, “ho parlato del bisogno che c’è di correggere gli sbagli fatti nel passato. Dopo tutto, Eugenio Pacelli è un amico speciale di Dio – un santo. Tocca a noi riconoscere questo fatto”.
Intervistata da ZENIT suor Margherita Marchione, conosciuta come “Fighting Nun” (la suora che combatte), autrice di oltre 15 libri sulla figura di Pio XII, ha ricordato di aver conosciuto e incontrato Papa Pacelli nell’estate del 1957, quando venne in Italia per condurre una serie di ricerche sul poeta Clemente Rebora.
Per suor Margherita, Pio XII è la più grande personalità dell’epoca della Seconda Guerra Mondiale. “Questo Papa – ha detto a ZENIT – nel silenzio e nella sofferenza, senza armi e senza eserciti, riuscì a salvare tante vite umane e ad alleviare tante pene. E’ la verità storica”.
Suor Margherita ha dimostrato che Pio XII fu nemico acerrimo dei nazisti e dei comunisti.
Come ha scritto monsignor Fulton J. Sheen, “il Vaticano è stato tacciato di comunismo dai nazisti, di nazismo dai nazisti, di antifascismo dai fascisti, ma in realtà si oppone a ogni ideologia antireligiosa”.
In merito al rapporto con gli ebrei, suor Margherita può dimostrare che “Pio XII ha salvato più ebrei di qualsiasi altra persona inclusi Oskar Schindler e Raoul Wallemberg”.
“Durante la guerra – ha aggiunto – Pio XII ha fatto di più di qualsiasi altro capo di stato come il presidente americano Franklin Roosevelt oppure Winston Churchill i quali potevano servirsi di mezzi militari. L’unico capo mondiale che ha salvato migliaia di ebrei è stato Pio XII, il quale non aveva mezzi militari”.
“Per questo motivo – ha concluso la religiosa – Pio XII merita di essere riconosciuto come beato” .


Per una scuola che parla al futuro - Dalla Cdo sei proposte per affrontare davvero l’emergenza educativa e poter rilanciare il rapporto educativo «Un impegno che coinvolge l’intero mondo degli adulti» - DA MILANO ENRICO LENZI – Avvenire, 13 giugno 2009
Vera autonomia delle scuole, reale li­bertà di scelta per le famiglie e percor­si di studio «flessibili e personalizzati». Ma anche docenti e dirigenti considerati co­me dei «professionisti», ordinamenti «in linea con il principio di sussidiarietà», valutazione esterna delle scuole e «abolizione del valore le­gale del titolo di studio». Sono le sei direzioni indicate dal manifesto «Una scuola che parla al futuro», diffuso dalla Compagnia delle O­pere, per « rendere il tema del futuro della scuola di pubblico dominio. Ma anche per ri­chiamare l’attenzione – spiega il presidente della Cdo Bernhard Scholz – di tutti coloro cui sta a cuore il cammino della conoscenza dei nostri giovani, affinché si crei attorno ad al­cuni, pochi, punti fondamentali una rifles­sione e un consenso attivi e operosi».
E da parte sua la Cdo, che è presente «nel mon­do della scuola con diverse associazioni che hanno sottoscritto il documento» (i docenti di Diesse, le scuole del Foe, Il rischio educati­vo, i dirigenti scolastici della Disal, Consorzio scuole-lavoro, Associazione Portofranco Ita­lia), offre il proprio contributo a questo di­battito «in questo momento particolare che attraversa il sistema formativo nel nostro Pae­se » aggiunge il presidente della Cdo. «Del re­sto l’educazione è una risposta decisiva alle domande dell’uomo sulla situazione attuale», senza dimenticare che «il compito dell’edu­cazione è quello di aiutare le persone a for­mulare un giudizio su ciò che accade, in cui sia implicato l’io, il soggetto della domanda e, nello stesso tempo, sia valorizzato in tutte le sue dimensione l’oggetto della conoscenza». Ma nell’analisi che il documento della Cdo svolge prima di formulare le sei proposte pra­tiche, il richiamo non è rivolto solo alla scuo­la, bensì «all’interno mondo degli adulti, com­prese le famiglie, gli educatori, gli esponenti del mondo del lavoro e dell’impresa».
Sono, dunque, sei le «direzioni dei provvedi­menti da prendere» per «avviare un vero cam­biamento della scuola» capace di affrontare «le sfide educative e dell’innovazione». In alcuni casi si tratta di potenziare quanto «la legge i­taliana già riconosce», come l’autonoma del­le scuole, che « deve essere completata, ag­giungendovi l’autonomia finanziaria e realiz­zando una vera sussidiarietà che sostenga a tutti i livelli i soggetti operanti nella società ci­vile e ne valorizzi le risorse». Come farlo? «Per­mettendo agli istituti di passare al regime di Fondazioni, creando un Consiglio di ammi­nistrazione aperto al mondo esterno, per­mettendo l’assunzione diretto di dirigente e docenti, erogando alla scuola risorse in base al numero degli iscritti, ognuno dei quali ti­tolare di una quota capitaria». Anche sul ver­sante della parità, il documento chiede «una vera libertà di scelta per le famiglie, in aiuto delle quale lo Stato intervenga con soluzioni opportune ed eventualmente diversificate». Già fattibile anche la creazione di «percorsi di studio flessibili e personalizzati». Il richiamo è a una maggior offerta formativa, che tenga conto di una pluralità di percorsi.
Decisamente innovative, anche se non com­pletamente nuove nel dibattito scolastico, le altre tre piste indicate dal documento, a ini­ziare dal considerare docenti e dirigenti sco­lastici come «dei professionisti», rivedendo la professione sia nella fase d’ingresso (auspi­cato un anno di praticantato durante la for­mazione, così come le prove di abilitazione non solo sulla teoria), sia durante il percorso lavorativo (assunzione diretta dalla scuola, ma anche un vera e propria carriera). Se una scuo­la è autonoma, va rivisto anche il ruolo dello Stato. Il documento della Cdo propone che gli « ordinamenti siano il linea con il principio della sussidiarietà». Insomma «il sistema na­zionale dovrebbe offrire un quadro generale, chiaro e stabile nel tempo, essenziale nelle de­finizione di conoscenze, abilità e competen­ze da acquisire al termine dei vari percorsi». Il resto viene lasciato alla scuola dell’autono­mia, che però deve imparare a confrontarsi – altro punto dolente – con «una valutazione e­sterna della qualità dell’offerta formativa». Un «obiettivo che bisogna porsi con decisione». Ultimo punto, quasi come conseguenza degli altri, è «l’abolizione del valore legale del tito­lo di studio, che oggi non corrisponde al va­lore reale, cioè alla certificazione di cono­scenze, competenze e abilità effettivamente conquistate».


Alla Macerata-Loreto le «voci» dell’Abruzzo – Avvenire, 13 giugno 2009
Stasera le testimonianze dalla terra colpita dal terremoto apriranno la 31ª edizione del tradizionale cammino notturno
Più di 40 pullman da Milano, sette da Rimini e da Pesaro, cinque dal Friuli e da Firenze, quattro da Forlì e da Roma, tre da Cremona e dalla Svizzera, altri da Brescia, Bologna, Foggia, Matera, Napoli. Oggi pomeriggio arriverà gente da tutta Italia per partecipare alla trentunesima edizione del Pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto. Nutrita la presenza degli abruzzesi, molti dei quali provenienti dalle tendopoli dell’Aquila. Le ferite del terremoto e la speranza che nasce dalla fede saranno oggetto delle testimonianze proposte allo stadio Helvia Recina di Macerata, dove ci si raduna prima di cominciare il cammino notturno, dall’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari, e dal dirigente d’azienda Marco Gentile. L’appuntamento è per le 20 di stasera, ma già dalle 18 i cancelli dello stadio verranno aperti per consentire l’ingresso. Alle 21 la Messa celebrata dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, assieme a Molinari e ai vescovi delle diocesi marchigiane Alle 22 si parte in direzione di Villa Potenza, a seguire i momenti che fanno parte della tradizione di questo gesto: la benedizione eucaristica a Sambucheto, la benedizione della croce a San Firmano, la fiaccolata e i fuochi d’artificio. L’arrivo a Loreto è previsto attorno alle 6 di domani (info: www.pellegrinaggio.org). Tra le presenze è annunciata quella del responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della Cei, don Nicolò Anselmi. Un gesto personale e insieme popolare, nel segno di una frase di don Giussani: «Il vero protagonista della storia è il mendicante». Proposto da Comunione e liberazione in unità con le diocesi marchigiane, il Pellegrinaggio è il più partecipato tra quelli che si svolgono a piedi in Italia (l’anno scorso 80 mila persone).Vi prendono parte persone appartenenti a movimenti, associazioni, gruppi parrocchiali, moltissimi giovani ma anche ottantenni, gente alla ricerca di risposte convincenti alle grandi domande sul senso della vita. Un gesto per tutti, che lascia un segno indelebile in chi decide di camminare verso la Santa Casa, quella che Giovanni Paolo II definì «non solo una reliquia, ma una preziosa, concreta icona».
Giorgio Paolucci