venerdì 5 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) ELEZIONI/ Vittadini: l'Europa in cui crediamo - Giorgio Vittadini - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
2) Anna e il palloncino elettorale - Pigi Colognesi - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
3) La divisione della Chiesa occidentale: integrati e alternativi - Segnala il segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica - di Patricia Navas
4) Cardinal Cipriani: il relativismo dentro e fuori della Chiesa - Intervista all’Arcivescovo di Lima - di Carmen Elena Villa
5) ANNIVERSARIO - Tienanmen: vent'anni dopo in Cina cova la nuova protesta - di Bernardo Cervellera
6) Nel film "Terminator Salvation" la guerra tra macchine e uomini - Bit e sentimenti Due mondi a confronto - di Luca Pellegrini – L’Osservatore Romano, 5 giugno 2009
7) La sfida educativa: una sfida epocale - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it – 3 giugno 2009
8) Lettera di Iván Simonovis al Parlamento Europeo - Autore: Simonovis, Ivan Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 3 giugno 2009 - Abbiamo ricevuto questa lettera dal nostro corrispondente in Venezuela. La pubblichiamo con speranza di essere in qualche modo di aiuto
9) MEDIO ORIENTE/ 1. Parsi: Obama archivia Bush e mette Israele all’angolo - INT. Vittorio Emanuele Parsi - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
10) MEDIO ORIENTE/ 2. Caracciolo: ma ora Obama dovrà fare i conti con la realpolitik - INT. Lucio Caracciolo - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
11) STORIA D’EUROPA/ 6. Da Schuman, Adenauer e De Gasperi al tradimento delle radici cristiane - Gianfranco Morra - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
12) Arriva il bisbiglio della vita L’eco della parola responsabilità - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 5 giugno 2009
13) QUANDO LA « NERA » DIVENTA CRONACA « BIANCA » - Quel convertitore magico che è il coraggio del bene - DON GIANCARLO CONTE – Avvenire, 5 giugno 2009
14) «Così sono uscita viva dalla camera a gas» - «Ero entrata, fui spinta contro la porta da quelli che volevano fuggire. Un soldato mi gettò fuori» «Mi addormentai abbracciata a un’amica per il freddo. Al risveglio mi accorsi che lei era morta» - DA STOCCOLMA FRANCESCO SAVERIO ALONZO – Avvenire, 5 giugno 2009


ELEZIONI/ Vittadini: l'Europa in cui crediamo - Giorgio Vittadini - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Siamo al voto europeo, ma il dibattito che l’ha preceduto in questi mesi non è servito a delineare i tratti di una personalità del nostro continente, non solo matura e unitaria, ma nemmeno cosciente della strada per esserlo. Ciò che la affligge è un problema di identità. Dove è finito quell’afflato ideale che ne ha costituito il DNA originario e per cui cinquantacinque anni fa Paesi che si erano massacrati senza esclusione di colpi decisero, non solo di trovare un accordo, ma di fare scelte determinate da ideali comuni? Dove sono gli ideali di riferimento che attingevano nel background dei padri fondatori Adenauer, De Gasperi, Schumann, Monnet e che hanno determinato lo straordinario successo del processo di integrazione europea? Dietro una retorica europeista ipocrita dominano pensieri di breve respiro e mancanza di valori.
L’idea liberista vigente, degna solo della ideologia – rivelatasi ormai perdente – di un Financial Times, impedisce ai governi di intervenire, per non alterare la concorrenza, quando piccole e medie imprese avrebbero bisogno di incentivi, ma quando si tratta di grandi imprese la Francia non esita a scendere in campo per difendere la “francesità” della Danone o della Suez o i privilegi corporativi della sua agricoltura; i tedeschi entrano a gamba tesa a determinare le sorti della Opel; gli italiani cambiano le regole sugli slot per garantire il monopolio della Nuova Alitalia.
Si parla di Europa dei popoli, ma si cerca di far fuori ogni residuo di economia sociale normalizzando le banche popolari, le banche di credito cooperativo, le realtà non profit, le cooperative, semplicemente facendo finta che non esistono.
Si dice di difendere la dignità della persona e, soprattutto per iniziativa di Paesi nordici, si vogliono introdurre novità degradanti il valore dell’uomo, quali l’assenza di vincoli nell’abortire, l’eutanasia, le sperimentazioni sugli embrioni.
Si parla di Europa unita nel difendere le libertà dei popoli nel mondo, ma molti Paesi europei praticano politiche neocolonialiste o di acquiescenza con Paesi canaglia o si scannano per un seggio individuale nel nuovo Consiglio di sicurezza.
Si vuole superare lo statalismo e si è generata una burocrazia multinazionale mostruosa e una legislazione lontana e sorda di fronte alle realtà sociali dei diversi Paesi. Il venir meno della politica nel suo compito di esprimere pensiero e volontà popolari lascia campo libero alle prassi acefale dei burocrati. E il loro potere è davvero grande, più di quanto si dica: su 100 leggi pubblicate in Gazzetta Ufficiale, ormai 78 sono esecuzioni di normative europee.
Non è strano allora che i cittadini europei, quando sono interpellati, bocciano l’Europa. Determinati dalla volontà di difendere privilegi o dalla paura di un Moloch che avanza, è comunque evidente il loro scetticismo nei confronti di una entità sempre più senz’anima.
Bisogna allora astenersi dal voto? No. Quello che occorre è la fatica di discernere dove sono tenuti vivi quegli ideali (cristiani, socialisti, liberali) che sono ancora nelle nostre fondamenta e, per questo, possono ridare vita ad un’Europa dei popoli.
E per questo bisogna scegliere quegli uomini che vogliono promuovere, a partire dalla legislazione, un’idea di uomo come essere unico e irripetibile, i cui diritti fondamentali hanno un valore oggettivo che si basa sulla sua natura profonda, uguale in ogni tempo e luogo e lo rende capace di perseguire il bene per sé e per gli altri.
Occorrono uomini che promuovendo il principio di sussidiarietà, favoriscano cioè la crescita dei corpi sociali, delle comunità intermedie che educano l’uomo a prendere consapevolezza di sé e della realtà, e lo fanno in modo non coercitivo e repressivo, difendendolo contro le riduzioni individuali e del potere.
Occorrono uomini che, per questo, invece di difendere un preistorico welfare state o un pernicioso mercato selvaggio sappiano vedere, ascoltare, valorizzare ciò che liberamente si sviluppa come risposta “dal basso” ai bisogni dei singoli e della collettività, anche e soprattutto dalle realtà non profit.
Occorrono uomini che, capito l’inganno di uno sviluppo basato sull’ideologia finanziaria degli ultimi anni, promuovano la crescita di quel mondo operoso di imprese che producono beni e servizi; non solo le grandi e grandissime, ma anche le medie, piccole, piccolissime, patrimonio insostituibile europeo e soprattutto del nostro Paese.
Le imminenti votazioni europee dovrebbero rappresentare per tutti i partiti e gli schieramenti l’opportunità di invertire la rotta promuovendo ai vertici europei persone impegnate in questa rinascita ideale, unica decisiva battaglia per il nostro futuro.


Anna e il palloncino elettorale - Pigi Colognesi - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Vorrei raccontare un piccolo episodio della campagna elettorale per le europee. È un fatterello minuto, quasi irrilevante. Ma di quelli che fanno tirare il fiato in questi tempi un po’ sconci di giornali pieni di foto rubate e di pruriginose occhiate buttate nelle intimità familiari dei politici. Tempi di degrado di quel dialogo ideale che dovrebbe caratterizzare una scadenza così importante come quella che ci porta ad esprimere il nostro voto.
Anna è al mercato per proporre di segnare sulla scheda la preferenza per Mario Mauro. Tra i vari gadget a sua disposizione ci sono anche dei palloncini. Arriva una giovane mamma che spinge una carrozzina con su il figlio. Il piccolo strilla perché vuole il palloncino; la mamma legge la firma in calce al volantino di Anna e dice al bambino: «Niente palloncino; questi non sono della nostra parte». Anna resta per un po’ interdetta. Poi dice: «Mi scusi, signora, ma a me pare che il suo bambino sia più ragionevole di lei». «Scusi?». «Proprio così. Vede, suo figlio ha visto una cosa che lo interessa e la desidera. Lei, invece, ha deciso che non le interessa prima ancora di capire di cosa si tratti; solo perché non è della “sua parte”. Così facendo, tra l’altro, insegna a suo figlio che ci sono cose che non si debbono guardare, comprendere ed eventualmente rifiutare; ma a ragion veduta, dopo averle attentamente giudicate. In questo modo riduce la naturale apertura curiosa che suo figlio ha». Questa volta è la giovane mamma a rimanere per un po’ interdetta. Poi risponde: «Beh, ci penserò. Sa che nessuno mi aveva mai detto niente di simile?».
Non so cosa quella mamma voterà. Ma certamente, almeno per un momento, ha potuto vedere un approccio strano alle cose della vita (di cui anche le elezioni fanno parte). Un approccio che potremmo chiamare radicalmente anti ideologico. Si dice che l’epoca delle ideologie è ormai tramontata. Ma non è vero. Sono – forse – finite quelle ideologie che si sostenevano su imponenti sistemi teorici e conseguenti apparati politici. Ma non è certo finito l’approccio ideologico; quello per cui prima ancora di guardare la realtà come mi si presenta le appiccico l’ipotesi di lettura che su di essa già mi sono fatto, senza disponibilità a mettermi in discussione.
Proprio la sera in cui mi hanno raccontato questo episodio, ho letto alcune pagine di Charles Péguy, che è stato senz’altro uno dei più grandi combattenti in favore della realtà contro ogni ideologia. Siamo nel 1900 e Péguy è ancora un giovane e focoso socialista ateo; ha appena iniziato l’avventura della sua rivista quindicinale – i Cahiers – e, poco prima dell’uscita del terzo numero, si ammala di influenza. Appena rimesso, scrive un immaginario colloquio in cui riassume le riflessioni che quell’episodio gli aveva suscitato. Scrive tra l’altro:
«- Ero contento perché i Cahiers, per la prima volta in vita loro, sarebbero usciti puntualmente; ne godevo dentro di me. Nel momento in cui mi affidavo a una speranza priva di senso, un intero reggimento di microbi nemici mi invadeva l’organismo marciando contro di me con tutte le loro forze. Ero malato.
- Quali sono stati i vostri sentimenti?
- Ero seriamente infastidito perché ero sempre vissuto con l’idea che non sarei mai stato malato.
- Ah si! E su che cosa fondavate quest’idea?
- Non la fondavo affatto; credevo vagamente e profondamente di essere forte.
- Era dunque una semplice ipotesi?
- Una semplice ipotesi che gli avvenimenti hanno smentito.
- Non vi è mai capitato di pensare che ad aver torto fossero gli avvenimenti e che l’ipotesi invece fosse giusta?
- No, mai.
- Siete stato bravo. Non sapete che ciò che voi non avete fatto, oggi, si fa comunemente?».
Péguy era, dunque realista e non ideologico. Come Anna. E come, almeno per un momento, quella mamma al mercato in una normale mattina di campagna elettorale.


La divisione della Chiesa occidentale: integrati e alternativi - Segnala il segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica - di Patricia Navas

ROMA, giovedì, 4 giugno 2009 (ZENIT.org).- Due correnti - “di composizione” e “di contestazione” - dividono attualmente la Chiesa in Occidente.
E' l'analisi compiuta dal segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica, l'Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, O.P., nel suo intervento durante l'ultimo incontro annuale dei rettori dei seminari pontifici, secondo quanto ha reso noto “L'Osservatore Romano”.
“Esiste oramai nella Chiesa europea, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, forse di frattura, che varia indubbiamente da un Paese all'altro, e introduce quelle che chiamerò una 'corrente di composizione' e una 'corrente di contestazione'”, ha affermato.
L'Arcivescovo ha spiegato che la prima corrente “ci porta a osservare che esistono dei valori a forte densità cristiana nella secolarizzazione, come l'uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione”.
“La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze – ha aggiunto –. Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate” e “propone dunque un modello alternativo al modello dominante”.
Il presule ha osservato che “la prima corrente è risultata predominante nel dopo-Concilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e durante il successivo decennio”.
“Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, particolarmente – ma non esclusivamente –sotto l'influenza di Giovanni Paolo II”, ha proseguito il domenicano francese.
Monsignor Bruguès ha indicato che i cattolici del primo gruppo sono in genere di età avanzata, ma hanno ancora ruoli chiave nella Chiesa, mentre la corrente del modello alternativo “si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante”.
“Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente”, ha commentato.
L'Arcivescovo ha sottolineato che queste differenze si plasmano in ambiti diversi, di modo che le università e le scuole cattoliche, i seminari e le case religiose, ad esempio, “si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione”.
“Alcune giocano la carta dell'adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell'aspetto della dottrina o della morale cattolica”, ha detto. “Altre, d'ispirazione più recente, mettono l'accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all'evangelizzazione”.
Per l'Arcivescovo, la maggior parte della Chiesa occidentale ha vissuto “un'autosecolarizzazione estremamente potente”.
Per rispondere a questa divisione negativa, propone un'interpretazione autentica del Concilio Vaticano II, il che forse significa, ha considerato, passare “da un modello ecclesiale a un altro”.
Formazione sacerdotale organica
Nel suo intervento, intitolato “Formazione per il sacerdozio, tra secolarismo e modello ecclesiale”, monsignor Bruguès ha chiesto per i seminaristi di oggi “una formazione teologica sintetica, organica e che punta all'essenziale”.
La “mancanza di cultura generale” provocata dalla secolarizzazione rende “indispensabile” fornire ai giovani un periodo di un anno o più di “formazione iniziale”, di tipo catechetico e culturale, ha osservato.
“L'apprendimento della metafisica, per quanto ingrato, rappresenta la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia”.
L'Arcivescovo ha riconosciuto che la volontà di dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e di alto livello ha portato a offrire programmi in modo “esagerato”, scoraggiando i seminaristi.
Per questo, si è chiesto se “questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un'accumulazione dei corsi e un'impostazione eccessivamente storicizzante”.


Cardinal Cipriani: il relativismo dentro e fuori della Chiesa - Intervista all’Arcivescovo di Lima - di Carmen Elena Villa
CITTÀ DEL VATICANO, giovedì, 4 giugno 2009 (ZENIT.org).- Il Cardinale Juan Luis Cipriani, Arcivescovo di Lima, ha espresso grande preoccupazione per il grado di relativismo morale presente in America Latina, sia all’interno che all’esterno della Chiesa.

Intervistato da ZENIT, al termine della visita “ad limina apostolorum” dei Vescovi del Perù, il porporato ha raccontato la sua esperienza decennale di servizio episcopale nell’Arcidiocesi di Lima.

Come è andato l’incontro che i Vescovi del Perù hanno avuto il 18 maggio con il Papa Benedetto XVI?

Cardinale Juan Luis Cipriani: Abbiamo trovato il Papa, come sempre, pieno di gioia e con una grande pace interiore. Personalmente, ciò che mi ha colpito di più è come sia riuscito a confermarci nella bellezza del messaggio di Cristo. Essere chiari nell’annunciare Cristo ha una bellezza e un entusiasmo che il Papa in questa sua giovinezza spirituale ci ha trasmesso. Ci ha accolto come un padre con uno spirito e un entusiasmo molto fresco, nonostante fosse appena tornato dal viaggio in Terra Santa.

Si sta per concludere l’Anno paolino e i Vescovi del Perù hanno avuto l’opportunità di celebrare l’Eucaristia nella Basilica di San Paolo fuori le mura a Roma. Che cosa può insegnare al mondo di oggi l’Apostolo delle genti?

Cardinale Juan Luis Cipriani: San Paolo è un uomo la cui credibilità è proporzionale al suo martirio. San Paolo cresce fra i gentili eppure è una delle colonne della Chiesa.

Credo che oggi ciò che manca nella Chiesa sia il martirio della fede: avere l’audacia e il coraggio di vivere una fede che ci porti a quel morire ai capricci personali, alla superbia personale, alla sensualità. Dobbiamo arrivare a morire a quell’insieme del relativismo che vorrebbe che tutte le posizioni fossero uguali; dobbiamo vincerlo. Dobbiamo avere il coraggio di proporre Cristo vivo e, pertanto, di vivere quel rispetto e quella riverenza al Corpo di Cristo nell’Eucaristia, ricevendolo degnamente, abbandonando le posizioni tiepide e timorose che in molti settori della Chiesa stanno creando un enorme problema di tiepidezza, ovvero una sorta di religione “à la carte” a scelta del consumatore, o come una ONG impegnata nella tutela dell’ambiente.

Ci manca il sapore proprio di una Teresa di Calcutta, di un Josemaría Escrivà o, certamente, di un san Paolo. È la via del martirio, la via della contemplazione. Se lasciamo da parte la contemplazione, questa esperienza dell’incontro con Cristo, alla quale ci invita Benedetto XVI nella sua prima enciclica, per vedere realmente con gli occhi di Cristo, parlare con le sue parole, soffrire con le sue sofferenze, se lasciamo da parte il martirio e la contemplazione, rimaniamo senza resurrezione, allora la gioia di questa fede diventa il peso delle contraddizioni, la via del compromesso. Alla fine, il messaggio cristiano si dissolve in una mera chiamata alla buona volontà di alcuni.

Credo che Papa Benedetto XVI, così come Giovanni Paolo II, entrambi in modo diverso, stanno chiamando tutti – cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e certamente i laici – a non temere di lanciarsi verso questo martirio della croce: la croce di chi non ha paura ad affermare la verità, nel lavoro, nella politica, nell’economia; il martirio che implica che il sacerdote celebri la Messa rispettando le norme del Magistero, che i religiosi pieni di entusiasmo leggano una e mille volte la vita dei loro santi fondatori e non abbiano paura di donarsi senza limiti: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gàlati 2,20).

Per questo San Paolo ci porta ad una proposta di conversione che per me è una chiamata a cui si spera possiamo avere il coraggio di rispondere, perché di belle parole ne abbiamo avute abbastanza: abbiamo bisogno di santi, che camminando per le strade e guidando le proprie famiglie, e facendo i lavori più umili o essendo grandi economisti o politici, irradino una luce così forte, abbiano un sale così saporito, da farci tornare a vedere quella primavera di cui ci parlava Giovanni Paolo II, nella famiglia, nelle scuole. Non è un’utopia, è una possibilità, quella di raggiungere la santità. Se non prendiamo la decisione di essere santi, non capiremo mai il messaggio di San Paolo.

Come vede concretamente in America latina quel relativismo, quella tiepidezza di cui parla?

Cardinale Juan Luis Cipriani: Si parla tanto dei diritti umani..., ma poi ci confrontiamo con quei bambini denutriti, abbandonati dai genitori, che non hanno quella famiglia che dovrebbero avere, quella scuola che emana il calore, il rispetto e la testimonianza degli insegnanti. Questo rappresenta una enorme violazione dei diritti umani di quei giovani e di quei bambini. La legislazione dovrebbe tutelare quei bambini, appoggiando le famiglie numerose, dando possibilità di accesso alle madri di famiglia quando hanno altri figli, aiutando a ridurre quel dilagante fenomeno dei figli naturali.

Un altro modo molto concreto sono i seminari. Nei seminari penso che si stanno facendo progressi interessanti, ma bisogna continuare ad impegnarsi perché questi giovani, che si stanno preparando per essere alter Christus, possano avere il sapore che ha un buon momento di preghiera davanti al Santissimo, che hanno le ore di studio ben programmate, che ha quell’autodisciplina che consente di distinguere ciò che è pornografia nella televisione, in Internet, nelle e-mail, e così poter essere persone mature, che si mettono al servizio degli altri, avendo avuto quella libertà e quella esperienza di contemplazione e di studio serio. Bisogna promuovere in loro una personalità umana matura, che non era nascosta, ma che ha maturato per potersi dare agli altri, e in questo modo poter andare per le strade senza quella superficialità di una mancanza di maturità affettiva che poi genera problemi.

In qualsiasi ambito potremmo parlare di politica. La politica deve essere più coerente con la verità. Questa crisi finanziaria internazionale, come abbiamo visto, deriva principalmente da una sfiducia dovuta alla mancanza di etica e di morale, e agli abusi. Manca quel rispetto delle norme giuridiche, politiche; non abusare della posizione che uno ricopre. Evidentemente tutte queste strutture che cercano di unire di più sarebbero utili, ma che dire delle Nazioni Unite, una struttura puramente economica, vuota di contenuti etici e morali? E di tutte quelle organizzazioni internazionali che, focalizzando unicamente su questioni puramente esteriori, non cercano di creare un clima di maggiore formazione morale, spirituale, etica? La tiepidezza ha invaso il sistema mondiale e questa tiepidezza genera spiriti indecisi, molte volte disonesti. In questo modo, hanno successo gli operatori dell’inganno e della menzogna, i potenti della corruzione. Può essere forte quello che dico, ma non credo che il vuoto in cui viviamo abbia un rimedio facile. Credo che bisognerebbe assumere medicine più efficaci.

In che modo i problemi che lei ha citato toccano la realtà ecclesiale dell’America latina?

Cardinale Juan Luis Cipriani: Io penso che c’è qualcosa di molto profondo dell’essere umano: il voler apparire, la vanità. Quando il responsabile, che sia sacerdote o vescovo, anziché essere un servitore, un tappeto che possa essere calpestato da suoi fratelli, l’ultimo dei suoi servitori..., pensa che la carica che ricopre gli conferisca benefici, comodità e potere, allora purtroppo questa scuola di vanità, di superficialità produce un percorso che non funziona. Molte volte vediamo che chi sta ai vertici di un’istituzione o che ha responsabilità, più che servire gli altri si serve degli altri. Penso che molte volte queste azioni abbiano un’etichetta di aiuto al prossimo, sotto la quale tuttavia si nasconde un contenuto ideologico-politico, come in qualsiasi altro gruppo.

I sacerdoti non possono servirsi della Chiesa per costruire uno scenario e poi trattarla male, con un’ipocrisia e un cinismo che veramente è ogni giorno più sconcertante. Questo si aggiusta con un pochino più di autorità e di rispetto delle norme stabilite.

Molti diranno che questo suona ad “autoritarismo medievale”, ma non possiamo lasciarci intimorire da simili critiche maliziose. Ogni essere umano ha bisogno di una guida e di un esempio. In ogni istituzione esistono norme e colui che non vi si attiene esce dall’istituzione. Credo che manca, a molti livelli della Chiesa, una maggiore autorità e una maggiore obbedienza. E credo che questo non sia né medievale, né moderno, né postmoderno. Così fu sin da Adamo ed Eva, e così sarà fino alla fine dei secoli.


ANNIVERSARIO - Tienanmen: vent'anni dopo in Cina cova la nuova protesta - di Bernardo Cervellera
La Pechino di oggi sembra tutta un’altra cosa rispetto alla città che vide il massacro di Tienan­men 20 anni fa. Grattacieli e alberghi modernissimi in acciaio, alluminio e vetro hanno sostituito le grigie co­struzioni in stile stalinista; biciclette e tricicli con cui i giovani trasportava­no i morti e i feriti sanguinanti sono quasi scomparsi, rimpiazzati da auto di lusso, pullman e metropolitana su­perveloce.

Il Paese è cambiato: riven­dica il secondo posto nell’economia globale e se la crisi sta minando i suc­cessi degli ultimi due decenni, la Ci­na rimane comunque la speranza più forte per la ripresa mondiale. I giova­ni, a causa della censura e del silen­zio del regime, non sanno nemmeno che cosa sia accaduto 20 anni fa; gli studenti di oggi studiano e lottano per vincere la concorrenza nella corsa a un posto di lavoro, e hanno dimenti­cato Tienanmen. Ma proprio questa Cina modernissi­ma e internazionale, nel bene e nel male, è frutto di quel massacro. L’'ac­celerazione delle riforme', lanciata da Deng Xiaoping nel ’92, è stato il ten­tativo di far rinascere nella gente la stima per il Partito che aveva ucciso i loro figli. Il tentativo di rendere 'ric­chi e gloriosi' i cinesi doveva servire da sedativo, così che il benessere can­cellasse il ricordo di quella notte di sangue e il popolo tornasse a onora­re l’imperatore garante di stabilità e consumismo. Deng e Jiang Zemin so­no arrivati perfino a giustificare il mas­sacro come «un male minore», il prez­zo pagato per garantire la «stabilità» e raggiungere lo sviluppo che ne è se­guito.

Ma, all’indomani di Tienanmen, le a­desioni al Partito sono crollate fino al 70% e la gente ha compreso che i 'li­beratori' dall’invasione giapponese e i 'timonieri' dell’unità e delle rifor­me sono soltanto un’oligarchia che domina il popolo a proprio vantag­gio. La disillusione verso il regime è andata crescendo. Mentre i leader at­tuali predicano la «società armonio­sa », le dissonanze divengono insoste­nibili: il divario fra ricchi e poveri (un esercito di circa 900 milioni) ha rag­giunto livelli da Terzo mondo; i segre­tari di Partito e i capi-villaggio depre­dano terre e case di contadini per rivenderle e operare speculazioni edi­lizie; i migranti che hanno fatto bella la Pechino delle Olimpiadi non hanno salario, né sanità, né istruzione per i propri figli; lo sviluppo selvaggio di questi 20 anni ha reso la Cina il Paese più inquinato della Terra, dove ogni anno muoiono 400mila persone per malattie respiratorie.

La nazione di oggi è frutto di quanto il massacro ha fermato. Al Partito che aveva operato le 4 modernizzazioni e­conomiche, i giovani chiedevano la 'quinta modernizzazione', la demo­crazia, senza di cui la società sarebbe stata ingoiata dalla corruzione e dal­l’ingiustizia. I continui scandali alimentari (il latte alla melamina), quelli finanziari che coinvolgono pezzi grossi del Partito (a Shanghai, Xiamen, Guangzhou...), quelli delle scuole del Sichuan, crolla­te nel terremoto come 'budini di to­fu' uccidendo 8mila bambini, mo­strano che la Cina di oggi è ancora più corrotta di quella dell’89 e continua a produrre massacri. Nonostante ciò, il governo di Pechino mette a tacere gli scandali, annacqua le sentenze e vie­ta alle vittime di cercare giustizia per vie legali.

La Cina di oggi, senza democrazia né libertà di parola, è il frutto incompiu­to del movimento di Tienanmen. Ma in questi 20 anni quel movimento si è diffuso in modo capillare, generando una società civile più consapevole: at­tivisti per i diritti umani, avvocati che difendono i poveri, giornalisti e inter­nauti che diffondo l’informazione ne­gata. La massa di operai sfruttati, di contadini defraudati, di famiglie av­velenate genera ogni giorno un fiume di petizioni, dimostrazioni e richieste che mettono in crisi la stessa capacità di governo del Partito.

Secondo il mi­nistero della Sicurezza, vi sono alme­no 87mila «incidenti di massa» (scon­tri fra polizia e manifestanti) ogni an­no; le cause di lavoro – per salari non pagati o licenziamenti – nel 2008 so­no state un milione. Davanti alle richieste della società ci­vile, il governo-Partito si trova, come ai tempi di Tienanmen, davanti a un crocevia: deve decidere se seguire un sentiero di dialogo e democrazia o la via della repressione. Nessuno degli attivisti cerca oggi di rovesciare il si­stema o di condannare il Partito co­munista: chiedono giustizia e dialogo all’interno della risicata cornice lega­le disponibile. Molti di coloro che sol­lecitano le riforme sono membri del Partito e personalità dell’intellighen­zia statale.

Eppure, la risposta del re­gime è la stessa di 20 anni fa: silenzio, arresti, divieti di associazione e di pub­blicazione via Internet o sui giornali di riflessioni su scandali, corruzione e democrazia. Nessuno sa fin quando potrà durare questo contenimento fatto di controlli polizieschi e militari. Ma certo un con­fronto aperto sul massacro di 20 anni fa e il riconoscimento delle colpe aiu­terebbe alla riconciliazione. Purtrop­po, la Cina sembra dirigersi in modo pericolosissimo verso una ripetizione amplificata di quel massacro. Vale anche la pena mettere in luce il legame fra movimento democratico e libertà religiosa. Nei primi anni dopo l’89, il braccio di ferro fra i dissidenti e il Partito è rimasto troppe volte a li­vello di rivendicazione economica o di libertà individuale.

Ma ormai in Ci­na si diffonde sempre più una cultu­ra che mette al centro la persona e i suoi diritti inalienabili, rispettando il potere dello Stato, ma criticando la sua dittatura autoritaria. Ciò è avvenuto 'grazie' a Tienanmen: diversi dissi­denti, espulsi o imprigionati, hanno avuto contatto con comunità cristia­ne. Personalità come Gao Zhisheng, Han Dongfang, Hu Jia hanno scoper­to la fede quale base del valore asso­luto della persona, fondamento della difesa dei diritti umani. Questo inne­sto fra impegno civile e libertà religio­sa è uno dei frutti che fa più sperare per un futuro di giustizia.
Bernardo Cervellera


Nel film "Terminator Salvation" la guerra tra macchine e uomini - Bit e sentimenti Due mondi a confronto - di Luca Pellegrini – L’Osservatore Romano, 5 giugno 2009
Ah! Gli innocui elettrodomestici che tutti i giorni ci aiutano nelle incombenze terrene. E i computer, senza i quali il mondo si fermerebbe? Macchine: di ogni genere, dimensione, precisione, velocità, importanza. Ovunque, a ogni angolo della casa e della città, ecco telecamere, telecomandi, televisori, teleallarmi, telepass. Schermi e ronzii, brusii, ticchettii e luci intermittenti. Confessiamolo: il lavoro duro lo abbiamo delegato alle macchine. Si occupano e preoccupano della nostra salute, della nostra sicurezza, della nostra difesa, della nostra stessa sopravvivenza. Sono brave e addomesticate. Se fanno le bizze, basta staccare la spina, abbassare il contatore. Ma se un giorno quei solerti e fidati hard disk cominciassero a pensare di testa loro e decidessero che noi umani, ossia i loro creatori, non gli siamo per nulla utili e simpatici? Anzi, se con la nostra coscienza che sa distinguere tra bene e male, con il nostro cuore che sa provare pietà e compassione, con il nostro anelito spirituale che crede ad una vita oltre la vita, noi diventassimo addirittura obsoleti, un intralcio da spazzare via per consentire la nascita di un mondo perfetto, efficiente, indistruttibile e, appunto, disumano? Non è una storiellina banale d'altri tempi quella nata nel 1984 con la saga di Terminator, regista James Cameron e icona della serie Arnold Schwarzenegger in versione dura, tonica e prepolitica. Tutto concorreva, già venticinque anni fa, a farne un successo cinematografico duraturo e globale, per una somma di ingredienti spettacolari capaci di creare il kolossal cui si aggiungevano anche piccole e grandi paure di una fine non troppo futuribile, non eccessivamente lontana, non assolutamente impossibile. John Connor, il protagonista di tutti i capitoli, in questo futuro vicino e assai poco piacevole diventa un pericolo serio per le macchine perché organizza l'eroica resistenza dell'umanità e dei valori che incarna, quindi va assolutamente eliminato. Già dalla nascita gli mettono alle costole nuovi modelli di robot molto efficienti nello sterminio computerizzato: in Terminator. Il giorno del giudizio del 1991, stessi protagonisti del precedente capitolo, la macchina killer ha l'aspetto di un giovanotto implacabile e rimodellabile grazie a un metallo liquido addirittura intelligente e nel 2003, in Terminator. Le macchine ribelli di Jonathan Mostow, le forme sono quelle di un'inossidabile ragazza che uccide senza tanti complimenti e fronteggia, logica della serialità, il vecchio modello - sempre Schwarzenegger - un poco arrugginito e passato fortunatamente dalla nostra parte. Poi la serie è entrata in crisi, dopo aver partorito nidiate di videogiochi - divertenti ma, come spesso avviene, non troppo educativi - assieme a parecchi libri, fumetti e derivati. Infine, uno sconosciuto regista americano di spot pubblicitari, ma affermato produttore, dal nome d'arte McG, al quale Hollywood ha messo in mano quasi duecento milioni di dollari da spendere per risollevare lo spettacolo e le avventure mozzafiato di John Connor, è riuscito a convincere il pensoso e irritabile Christian Bale a interpretarlo, calandolo in un 2018 piuttosto lugubre e decisamente ostile. Le bombe sono scoppiate ovunque quattordici anni prima, il cielo è strano, flora e fauna sono quasi scomparse, le città sono scheletri e l'umanità sopravvissuta si riunisce per autodifesa in piccoli gruppi senza grandi progetti, mentre tutt'intorno pullulano macchine geneticamente modificate, rapide, spietate e capaci di predare l'uomo per terra, per cielo e per mare, coordinate dal diabolico cervellone centrale di nome Skynet. Terminator Salvation è davvero un film avvincente, con overdose di effetti speciali e caratterizzazioni di prammatica. Nel suo genere è l'erede di quella bizzarra fantatecnologia che fin dai tempi lontani di Metropolis del profetico Fritz Lang (era il 1927) non ha mai cessato di affascinare la celluloide, campo neutro per immaginare diversi scenari in cui il progresso raggiunge i limiti consentiti dall'etica e dalla ragione, spesso disastrosamente sorpassandoli. L'umanità ora è ridotta in schiavitù dalle macchine e anzi le deve servire e sostituire - infernale contrappasso - i ribelli sono eroi con molti muscoli, molti dubbi e molta paura. La confusione scatena anche la rabbia quando appare chissà da dove e perché una variabile sconosciuta, tale Marcus Wright (il bravo Sam Worthington), che dal passato nel quale incautamente aveva donato il proprio corpo alla scienza, si sveglia nel futuro e scopre in modo sgradevole di essere una nuova creatura, sempre assemblata con parecchi ferri e i fili, ma anche dotata di un vero cuore che batte e di sentimenti che lo mandano più volte in cortocircuito. L'ibridazione, a questo punto, sembra essere totale. Ricapitolando: la perfezione delle macchine aveva supplito inizialmente il limite umano; poi, interpretato il limite come un'inutile, dannosa debolezza, loro erano riuscite facilmente a combatterlo e debellarlo. Sembrerebbe ora che nel nuovo mondo dei terminator dominanti, l'imperfezione e la debolezza siano di nuovo dalla parte delle macchine. La storia è pronta per ricominciare e noi per riprenderci il nostro giusto posto. Forse.
(©L'Osservatore Romano - 5 giugno 2009)


La sfida educativa: una sfida epocale - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it – 3 giugno 2009
Di cosa ha bisogno la scuola oggi? Di adulti che accettano questa sfida, che colgono la provocazione dei ragazzi che si trovano davanti come una sfida per sé ad “andare più in là”. Se io insegnante non mi lascio provocare da ciò che mi circonda, da ciò che accade, che domanda posso avere sulla realtà? E se non ho domande come posso sorprendermi della risposta?
Scriveva profeticamente Chesterton nel 1932: “L’età moderna è una età anti-educativa. E’ una età in cui per la prima volta viene stabilito il diritto dello stato di educare i figli dei suoi cittadini. Ed è anche l’età in cui per la prima volta viene negato il diritto del padre di famiglia di educare i suoi figli. E’ l’epoca in cui gli sperimentatori desiderano insegnare a tutti i costi ogni cosa ad un piccolo e allegro teppistello, dalla criminologia all’equilibrio cosmico, al sistema Maya del ritmo decorativo. Ma è anche l’epoca in cui volonterosi filosofi mettono in dubbio se sia giusto insegnare alcunché a qualcuno: persino di evitare di avvelenarsi, o di cadere dai precipizi”.
Chesterton in queste parole afferma chiaramente quella che io considero la più grande sfida epocale: la sfida educativa. Con una metafora la esprimerei così: “Se il seme piantato non lo si alimenta e non cresce, muore”. Mi riferisco alle decine di ragazzi che ogni giorno un educatore si trova di fronte, che hanno una grandissima “sete” di significato, un grandissimo desiderio di corrispondenza alle attese del loro cuore.
Scrive, al proposito, una mia alunna: “Un giorno mi ritrovo per caso ad ascoltare una canzone, propone uno di quei ritornelli che presto si imprimono nella mente e che ti viene voglia di cantare di continuo. Quel giorno come al solito ero immersa nei miei pensieri e riflettevo su quale fosse il valore e il significato della vita. Me lo domando ogni giorno, mi sveglio al mattino e davanti allo specchio mi chiedo: “Troverò in questa giornata una ragione di vita?”. Con malavoglia esco di casa, con l’idea che forse quel nuovo giorno non riuscirà a dirmi tanto di più rispetto al giorno prima. Nonostante la prima impressione non mi perdo d’animo, mantengo viva in me la speranza dell’esistenza di una risposta, ma inevitabilmente mi perdo via in pensieri futili e nella routine. Ecco che allora comincio a sentirmi come l’Orlando dell’Ariosto che tutto intento nella ricerca della sua amata Angelica, perde di vista il suo obiettivo principale, distratto dagli oggetti che trova sul suo percorso. Così perde la strada e si ritrova sempre al punto di partenza. Anch’io come lui mi ritrovo sempre al punto di partenza, perché mi ripeto di continuo le stesse domande senza trovare una risposta adeguata. Mi sento persa, mi sembra di “non vivere” e anche se fuori c’è il sole nulla mi appare chiaro, e dentro di me c’è solo un insieme confuso di pensieri e sensazioni. In quel momento mi giungono all’orecchio le parole di quella canzone che dice: “Meraviglioso…ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso?”; poi ancora: “Ma guarda intorno a te che doni ti hanno fatto, ti hanno inventato il mare…Tu dici non ho niente: ti sembra niente il sole, la vita, l’amore?”. Ricomincio a pensare e inizio a rendermi conto che forse è la vita di tutti i giorni, l’abitudine che ci imprigiona e ci separa dal significato. Abbiamo gli occhi coperti perché ciò che ci viene offerto ogni giorno lo riteniamo scontato. E’ tutto lì davanti a noi, ma noi non lo vediamo. Quando la canzone parla del mare mi viene in mente la sua immagine, quanto sia immenso, infinito, proprio come le innumerevoli domande che mi pongo e che fanno parte dell’uomo. Forse basterebbe guardare, contemplare la bellezza e la vastità del mare per capire quanto sia grande la ragione per cui esistiamo; forse basterebbe non tenere gli occhi chiusi di fronte a tutto ciò che è intorno a noi e ci viene donato. Capisco allora che tutto è meraviglioso, perché meraviglioso è lo stupore che proviamo, ogni volta che osserviamo con attenzione ciò che prima osservavamo con superficialità. Ogni cosa ci lancia un messaggio, per questo non bisogna distogliere lo sguardo”.
E’ attraverso l’impatto con la realtà, la provocazione della realtà che un giovane scopre la sua umanità, ma è come se si levasse un grido da chi incontriamo ogni giorno: “Ho gli occhi, ma non riesco a vedere la luce! I miei occhi sono chiusi, sono coperti, aiutami a guardare, aiutami ad afferrare il senso di quello che mi sta di fronte, che mi accade”. Ricordando Montale è come se dicesse: “Aiutami ad andare più in là del già conosciuto, di ciò che è scontato, abitudinario, ripetitivo, di ciò che non mi soddisfa perché il mio cuore urge una risposta esauriente”. Di cosa ha bisogno la scuola oggi? Di adulti che accettano questa sfida, che colgono la provocazione dei ragazzi che si trovano davanti come una sfida per sé ad “andare più in là”. Se io insegnante non mi lascio provocare da ciò che mi circonda, da ciò che accade, che domanda posso avere sulla realtà? E se non ho domande come posso sorprendermi della risposta? Il pericolo dell’abitudine, della scontatezza, della noia è sempre in agguato. Ci troviamo di fronte a una generazione di giovani che chiede di vedere, di guardare a fondo, di giudicare, perché si rende conto del limite del proprio sguardo. E’ in gioco dunque la sanità esistenziale dell’IO, la salvaguardia della propria umanità, la salvezza della ragione, la possibilità di vivere pienamente da uomini, di riconoscere il senso e il valore della realtà, per questo ho parlato di sfida educativa epocale. La strada non è quella di proporre dei valori astratti, ma di implicarsi in un rapporto coi giovani, di vivere insieme un’esperienza: l’avventura della scoperta della propria umanità, l’avventura esaltante della conoscenza. La prima mossa della libertà di chi ci sta di fronte avviene per un fascino, per una attrattiva, non per l’introduzione di nuove regole o di una maggiore severità, avviene per l’offerta di una ipotesi e di un cammino alla scoperta di ciò che ci corrisponde. La scuola della separazione fra ragione e interesse/passione per la vita è una scuola morta, inutile. Qualsiasi lezione di qualsiasi materia deve sempre partire da questo interesse che è dell’alunno, come dell’insegnante. Solo adulti così possono ridare vita a una scuola che sembra ogni giorno agonizzare nella routine del già visto, dello scontato, del non senso o delle riforme, dei regolamenti, delle circolari che non sembrano mai voler affrontare il problema di fondo.


Lettera di Iván Simonovis al Parlamento Europeo - Autore: Simonovis, Ivan Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 3 giugno 2009 - Abbiamo ricevuto questa lettera dal nostro corrispondente in Venezuela. La pubblichiamo con speranza di essere in qualche modo di aiuto
Gent.mo
Presidente Hans - Pert Pöttering e ulteriori membri del Parlamento Europeo
Rue Wiertz 60Wiertzstraat 60B-1047.
Bruxelles

Il mio nome è Iván Simonovis, di anni 49, di professione Ricercatore Criminale. Durante 23 anni ininterrotti ho lavorato presso la Polizia di ricerca Criminale del Venezuela e, per i miei meriti, nell’anno 2000 sono stato scelto per occupare la carica di Segretario di Sicurezza Cittadina del Distretto Capitale, mansione che ho svolto durante i fatidici fatti dell’11 Aprile 2002. La mia funzione era il coordinamento e supervisione delle politiche di sicurezza pubblica della città di Caracas, Venezuela.

Sono incarcerato presso la Direzione Generale Settoriale dei Servizi d’Intelligenza e Prevenzione del Ministero dell’Interno e di Giustizia (DISIP), a Caracas, Venezuela, dal 22 Novembre 2004, condannato a 30 anni di prigionia, vale a dire, una condanna a morte, dopo un processo di 3 anni (il processo più lungo della storia venezuelana) oltre che 4 anni e 6 mesi di reclusione, per il delitto di “complicità corrispettiva” della morte di 2 dei 19 deceduti a Caracas quell’11 Aprile 2002.

Mi trovo, in effetti, in una cella di 4 metri quadrati nello scantinato della sede della polizia politica di Caracas, senza ventilazione né luce naturale. Ho accesso alla luce del sole, 2 ore ogni 2 fine settimana. In totale 48 ore, [2 giorni] all’anno di luce naturale. Il luogo dove sono rinchiuso non è una prigione, è la sede della polizia politica del Venezuela e questa struttura non è disegnata per albergare, durante tanto tempo, una persona privata della sua libertà. Di conseguenza e date queste condizioni, le mie condizioni fisiche e mentali hanno subito un palese deterioramento, da meritare l’attenzione medica e, in alcuni casi, addirittura interventi chirurgici quando ne ho avuto bisogno. Inoltre c’é una severa restrizione dei miei diritti per ricevere visite di parenti, amici, rappresentanti di ONG nazionali e internazionali, giornalisti, violando così gli articoli della Convenzione Americana dei Diritti Umani di San José, Costa Rica.

Sono stato sottoposto a un processo senza senso e completamente privo di sostanza per la morte di solo 2 delle 19 persone che purtroppo sono decedute quell’11 aprile, durante 225 udienze. Tale processo è stato radicato in un Tribunale a 100 chilometri da Caracas, che è il luogo dove sono detenuto, fatto che ha implicato il dover viaggiare ammanettato per più di 39.000 chilometri.

Durante il processo, sono state ascoltate le dichiarazioni di 198 testimoni dei fatti e 48 esperti, sono state valutate più di 250 prove di perizia tecnico-scientifiche; sono state analizzate più di 5.700 fotografie e video. Nessuna di queste prove dimostra la mia colpevolezza in quanto ai fatti che mi sono stati imputati.

In quello stesso periodo di tempo, sono state identificate 67 persone, tutte simpatizzanti del Governo di Hugo Chávez, sparando con armi lunghe e corte contro manifestanti oppositori disarmati. Tutte queste persone sono state assolte o perdonate dal Presidente della Repubblica mediante una Legge di Amnistia dettata dall’Assemblea Nazionale su richiesta dello stesso, nel Dicembre 2007.

Il 3 Aprile sono stato condannato a 30 anni di presidio senza nessun tipo di attenuante o beneficio processuale per il delitto di “complicità corrispettiva” senza autori materiali. Insisto, è una pena di morte.

Quest’ abominevole sentenza non è nemmeno paragonabile alla recente sentenza dettata all’ ex Presidente peruviano Alberto Fujimori, condannato a 25 anni di carcere, per essere l’autore intellettuale, dalla Presidenza della Repubblica, di assassinii premeditati, sequestro aggravato e lesioni gravi in fatti accaduti negli anni 1991 e 1992 in Perù.

Signori: la mia casa è stata attaccata con bombe molotov; la mia famiglia, includendo i miei figli minori, è stata minacciata nella sua integrità fisica in modo pubblico da gruppi radicali armati, simpatizzanti del governo nazionale; mia moglie, che inoltre agisce come mio avvocato, insieme ai miei figli, è cittadina spagnola ed è stata sottoposta alla scherno pubblico, è stata minacciata nelle reti tv e stazioni radio ufficiali ed è stata attaccata nel suo onore come persona e come donna, in maniera sistematica da gruppi di accoliti al governo, che erano trasportati sino alla parte esterna della sede del Tribunale per proferire improperi e minacce mentre entrava e usciva dalle udienze.

Siamo accuditi presso tutte le istanze giudiziarie e abbiamo esaurito tutte le risorse che la legge venezuelana stabilisce, per ottenere la realizzazione di un processo giusto e che si attenga al rispetto dei diritti umani, ma tutto questo non ha dato frutti.

Questa lettera possibilmente provochi conseguenze negative per me e la mia famiglia, ma dinanzi al mio stato di indifesa e dinanzi alla sistematica violazione dei miei diritti umani, accudisco con tutto il rispetto a Voi per richiedere che, a conseguenza della risoluzione recentemente approvata dal Parlamento Europeo in riferimento alla situazione di persecuzione politica in Venezuela, esauriate tutti i meccanismi possibili perché una commissione del Parlamento visiti la nostra nazione e possa costatare l’uso della giustizia nella persecuzione politica.

Il caso che vi ho narrato, non è l’unico. In Venezuela esistono oltre 40 prigionieri politici, vittime del castigo e della dissidenza politica.

Vi sarò sempre grato su qualsiasi gestione che il Parlamento possa fare per proteggere i diritti umani ed evitare che casi come questi continuino ad accadere in Venezuela. Mia moglie e avvocato è a Vs completa disposizione per sostenere questa conversazione in modo personale con chiunque le sia da Voi indicato, per ampliare i mille dettagli, vessazioni e aggressioni che questa nota non riporta. Per portarVi tutti i documenti che supportano ognuna delle mie parole. Per fare le pratiche che fossero necessarie per ottenere dal Parlamento Europeo l’aiuto che richiedo in maniera e come misura disperata.
Distinti saluti
Iván Simonovis
Prigioniero Politico


MEDIO ORIENTE/ 1. Parsi: Obama archivia Bush e mette Israele all’angolo - INT. Vittorio Emanuele Parsi - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
L’atteso discorso del presidente Usa all’Università Al Azhar del Cairo sui rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico non ha tradito le aspettative. L’islam, ha detto Obama, è parte integrante dell’America. «America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo». E poi i problemi dell’agenda politica: chiudere la vicenda irachena, affrontare la questione israelo-palestinese e il nodo della proliferazione nucleare. Ecco perché, secondo Vittorio Emanuele Parsi, editorialista de La Stampa, le premesse per un cambiamento ci sono tutte.
Obama ha detto che America e Islam non si escludono e hanno principi comuni. Questo però lo diceva anche l’Amministrazione precedente. Dove sta allora la differenza?
Sta intanto in chi lo dice e non è poco. Obama ha giocato la carta della propria storia personale, e lo ha fatto per aumentare la propria credibilità. E poi c’è la presa di posizione sull’Iraq: Obama è sempre stato pubblicamente contrario e questo ha il suo peso. Ha usato molta diplomazia perché non ha criticato apertamente la scelta dell’Amministrazione precedente, ma nel dire: cerchiamo una via d’intesa, la guerra in Iraq è stata una scelta, in qualche modo ha alluso al fatto di una scelta che non tutti hanno condiviso. Ha anche detto però che gli iracheni stanno meglio senza Saddam.
E per quanto riguarda Israele?
Ha detto che l’alleanza con Israele è “unbreakable”, cioè non si può mettere in discussione, ma ha anche detto che gli Usa si riservano il diritto di criticare Israele se Israele attuerà singole politiche che possono essere un oggettivo ostacolo sul percorso di pace.
Il discorso di Obama arriva dopo il no esplicito di Netanyahu a «due stati sovrani e indipendenti» chiesti dal presidente Usa. E dopo che gli insediamenti israeliani sono stati definiti «controproducenti», un ostacolo alla pace.
Il punto è proprio questo. Israele sa di poter contare sull’amicizia degli Stati Uniti e sa che gli Stati Uniti saranno al suo fianco qualora la sua esistenza fosse minacciata, però ora sanno che gli Usa non potranno accondiscendere a qualunque singola scelta politica israeliana. Ed è questo che è cambiato rispetto a Bush. Negli anni ’70 e ’80 quando Israele era circondato da una totale ostilità nel mondo arabo, gli americani non facevano critiche aperte perché ritenevano che in un ambiente così ostile questo comportamento avrebbe messo ulteriormente a rischio l’esistenza stessa dello stato ebraico.
E Israele non è più minacciata come allora.
Obama infatti parte da questo. La fine della guerra fredda, la guerra del 1990-91, l’11 settembre hanno mutato lo scenario. E questa amministrazione Usa non vuole sentirsi vincolata ad un giudizio politico unilaterale, perché Israele in questo momento si trova in un contesto non più così ostile ma più vario, esistono voci che sono più disponibili a dialogare con Israele. Obama ritiene che certe scelte politiche del governo israeliano possano mettere in difficoltà queste voci e alimentare l’estremismo.
Cosa potrebbe cambiare?
Israele potrebbe ritrovarsi più sola, perché gli americani non l’assisteranno più qualsiasi cosa faccia. Ma sono convinto che questa scelta degli Stati Uniti aiuterà il processo di pace, beneficiando anche ad Israele.
Le pare che il discorso di Obama possa davvero dare nuove basi al dialogo con i paesi musulmani?
Come ha detto lui stesso, non sarà un discorso a cambiare la storia. Nel frattempo però ha messo i paletti, con molta chiarezza, sui punti che dividono gli Stati Uniti dal mondo islamico e arabo in particolare e su quali sono gli elementi comuni. Il senso è stato: esistono valori e convincimenti profondi che ci accomunano ed esistono differenze su posizioni politiche. Cerchiamo di capire dove i nostri valori comuni possono essere la base per avvicinare il nostro giudizio politico.
Il Medio oriente ha però un’altra grave incognita: l’Iran.
L’Iran è in difficoltà perché mondo arabo non ha grandi amici. Il problema vero è che non esiste nessuno strumento realmente dissuasivo verso chi vuole andare avanti nella proliferazione nucleare. L’opzione militare esiste ma è molto difficile da percorrere, non perché sia impossibile, ma perché i vantaggi sarebbero pochi e di breve periodo a fronte di svantaggi cospicui e irreversibili. Lo stesso Netanyahu ha detto che non c’è alcuna intenzione da parte israeliana di lanciare un’operazione militare contro l’Iran. In realtà solo l’Iran può decidere se andare avanti o fermarsi. Ma come spingerli a fermarsi è molto difficile.
L’Europa va al voto domani. Quali sono gli spazi per una politica europea nell’area?
L’Ue fa parte ancora del Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue, ndr.) e se si rimette mano ad una road map, un ruolo effettivamente ci può essere. Ci sono truppe Ue schierate a difesa dei confini tra Libano e Israele, le truppe europee sono parte dell’Aisaf in Afghanistan e quindi non siamo mai stati così tanto impegnati. Più che una politica dell’Unione - che sarebbe comunque auspicabile -, basterebbe che la politica dei sei principali paesi europei fosse minimamente coordinata. Saremmo nella condizione di appoggiare fattivamente qualunque progresso verso la pace. L’“isolazionismo” non ha mai portato a nulla di buono.


MEDIO ORIENTE/ 2. Caracciolo: ma ora Obama dovrà fare i conti con la realpolitik - INT. Lucio Caracciolo - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Il discorso del presidente americano Barack Obama al mondo arabo pronunciato dall’università del Cairo per la sua apertura nei confronti dei paesi musulmani non solo segna una rottura evidente con la precedente amministrazione repubblicana ma anche con la storia delle relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente. Obama ha dichiarato che «l’Islam è senza ombra di dubbio parte dell’America» con i suoi sette milioni di abitanti di fede musulmana, un numero superiore alla popolazione di alcuni paese arabi. Con il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, analizziamo i passaggi più importanti del discorso del presidente americano.
Professor Caracciolo, il presidente Obama è davvero convinto che un modello di convivenza e di rispetto della libertà religiosa possa nel lungo periodo funzionare anche nei paesi arabi?
Penso che il presidente degli Stati Uniti creda davvero in quello che ha detto. Obama ha una visione universalista della politica: le divisioni di razza, religione, nazione non rappresentano delle barriere che possono eliminare in qualche modo la comune radice e i comuni valori di libertà che uniscono tutti gli essere umani. Se poi questo possa tradursi in una politica concreta è tutt’altro discorso.
Obama ha dichiarato come uno degli obiettivi prioritari per l’interesse americano, israeliano e internazionale, la costruzione di uno Stato palestinese. Il presidente andrà fino in fondo nell’adempimento di questo obiettivo?
Obama supporta senza dubbio la costruzione di uno Stato palestinese, ma non ci sono le condizioni per realizzarlo. Questo iato tra la sua volontà e i fatti sul terreno rischia di essere micidiale per Obama. Il governo israeliano attuale non ne vuole sapere di creare uno Stato palestinese e allo stesso tempo le forze terroristiche all’interno del territorio e della popolazione palestinese sono ancora molto forti e rifiutano l’esistenza stessa dello Stato d’Israele.
Obama può riuscire nel suo intento di un’alleanza tra l’Islam moderato e gli Stati Uniti nella ricerca di un “terreno comune” contro il fondamentalismo?
La categoria di alleanza appartiene alla politica, mentre l’Islam moderato è una categoria più dello spirito che della politica. Vi sono tanti islam quanti musulmani e soprattutto a livello politico vi sono grandissime differenze tra un paese a maggioranza musulmana e un altro. Insomma il Pakistan non è la Tunisia e la Turchia non è il Marocco. Per un leader politico che deve scegliere delle priorità e fare delle scelte, immaginarsi che esista un mondo arabo coeso a cui riferirsi e che invece non c’è può essere rischioso.
Se il dialogo che Obama vuol intraprendere con Iran e Hamas non dovesse dare risultati, è possibile che cerchi di tagliarli fuori con un’intesa con il primo ministro israeliano Nethanyahu per porre le fondamenta di uno Stato Palestinese?
È l’ultima cosa che Obama vorrebbe, ma è anche uno scenario plausibile. Se la sua attuale politica dovesse fallire, non è affatto da escludere questa eventualità.
Il discorso di Obama è stato pervaso da un accento religioso. La sua scelta di porre la religione come elemento di unità e non di divisione è stata lungimirante?
Può rappresentare un buon avvio, soprattutto per quanto riguarda l’opinione pubblica dei paesi del Medio Oriente. In quei paesi tuttavia decidono poche persone, i poteri formali e informali che detengono il controllo degli Stati. Dunque se l’azione di Obama non avrà un seguito politico la situazione in quei paesi resterà così come è.


STORIA D’EUROPA/ 6. Da Schuman, Adenauer e De Gasperi al tradimento delle radici cristiane - Gianfranco Morra - venerdì 5 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman: i tre padri fondatori dell’Europa traevano dalla fede religiosa, professata e vissuta, e dall’impegno politico popolare una comune consapevolezza: che solo il cristianesimo può essere il cemento dell’unità europea. Europa e Cristianesimo sono un binomio inscindibile. Nello stesso senso di Leone XIII, essi affermano che l’Europa e la democrazia o saranno cristiane o non saranno affatto. Scriveva Schuman: «Tutti i paesi dell’Europa sono permeati della civiltà cristiana. Essa è l’anima dell’Europa, che occorre ridarle».
L’auspicio dei tre padri fondatori dell’Europa fu, dunque, quello di un’unione di stati laici, consapevoli delle loro radici cristiane. Non è difficile accorgersi che le tendenze prevalenti nell’Unione Europea sono oggi ben diverse da quelle sperate dai nostri tre artefici. Tutto quanto avviene a Bruxelles o a Strasburgo ha un referente privilegiato, che è il mercato. Certo, i primi passi dell’Europa furono economici: il carbone, l’acciaio, l’atomo, il mercato. Adenauer, De Gasperi e Schuman erano politici troppo accorti per non capir che proprio da lì occorreva cominciare. Ma solo per giungere ad una unione etica e politica. Che non c’è mai stata. L’Unione Europea ben poco ha a che fare con i popoli, dominata com’è da economisti, programmatori, burocrati e tecnocrati. Nata per seppellire i regimi autoritari, manca quasi del tutto di democrazia e gli accordi vengono assunti fra i governi, senza tener conto della volontà dei cittadini.
In altre parole, si tratta di un’Europa che non solo dimentica nel Trattato costituzionale i suoi fondamenti storici, ma spesso esalta e propone comportamenti in totale contrasto con la tradizione europea. Non paga di occuparsi delle dimensioni dei fagiolini, delle misure dei preservativi, del rumore degli sciacquoni igienici, della quadruplice classificazione di peperoni e melanzane, piselli e asparagi, della formula aritmetica per distinguere i pomodori dai pomodorini, l’Unione affronta argomenti che appartengono alla libertà e alla intimità della persona, con proposte amorali che vengono dai tecnocrati dei cosiddetti paesi più “evoluti”, i quali non di rado sono anche i più degradati.
Troppo spesso gli interventi dei politici, degli economisti e dei tecnocrati dell’Ue sono una continua invasione di campi che, in base al principio di sussidiarietà, dovrebbero spettare agli stati membri, non al Consiglio d’Europa. In un delirio di onnipotenza che tiene in poco conto le tradizioni nazionali e la sovranità degli stati. Soprattutto quando tali decisioni entrano nella sfera personale e intima della persona e quando non esitano a rifiutare costumi della tradizione europea legati al diritto di natura. Anche in ciò l’eredità dei tre padri fondatori è stata tradita. Si pensi alle risoluzioni a favore dei matrimoni omosessuali, per l’uso libertario degli embrioni, in difesa dell’aborto, della clonazione e dell’eutanasia.
Questo mancato riferimento alla radici cristiane dell’Europa non è né un caso, né un espediente per evitare conflitti di ideologie o di confessioni. È, invece, l’espressione evidente di quell’atteggiamento, che un grande teorico del diritto, Josef H. Weiler, ha chiamato “cristofobia”. Naturalmente mistificato e venduto come neutralità dal sofisma nichilista imperante: dato che non appare dubbio che la categoria di “neutro”, quando si parla di valori e non di lucido per scarpe, è solo un espediente ideologico per giustificare una scelta relativista e nichilista.
Bastano a provarlo due eventi accaduti nel Consiglio d’Europa. Come è noto il leit motiv ricorrente nell’aula di Strasburgo è il rispetto per tutte le opinioni. Ecco perché nemico numero uno viene considerata la cosiddetta “discriminazione” – termine usato più in senso emotivo che logico. Tuttavia, gli stessi che difendono tutte le opinioni non di rado si mostrano intolleranti e persecutorî. Nell’aprile del 2007 i partiti di sinistra presenti nel Parlamento Europeo hanno presentato una mozione di condanna (poi caduta) del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Angelo Bagnasco, perché si era espresso contro i matrimoni omofili. Dunque esaltarli è permesso, anzi obbligatorio, criticarli non è lecito.
L’altro episodio è ancora più grave. Il Parlamento Europeo, nell’ottobre 2004, bocciò la candidatura dell’on. Rocco Buttiglione a Commissario Europeo per la “Giustizia, libertà e sicurezza”. Quale il motivo? Che, essendo cattolico, non avrebbe dato sufficiente garanzia di laicità e di rispetto delle opinioni diverse dalle sua. Per singolare paradosso, proprio gli strenui avversari della “discriminazione” non esitano a farne uso, quando si tratti di cattolici. Aveva davvero ragione l’allora cardinale Ratzinger a parlare di «secolarismo aggressivo e a tratti persino intollerante».
I tre “grandi vecchi” avevano enunciato, sulla base della tradizione del Vangelo e della dottrina sociale cristiana, l’unità e la potenza dell’Europa. Esse sono state meno realizzate che tradite. Tanto che prevalgono, nei popoli europei, sfiducia, scetticismo e assenteismo elettorale. L’Europa sembra un bastimento alla deriva. Per metterlo in sesto occorre ciò che Giovanni Paolo II indicò, proprio davanti al parlamento europeo: «La chiesa, per rispondere alla sua missione oggi in Europa, deve avere la coscienza che, lungi dall’essere estranea all’uomo europeo, porta invece in se stessa i rimedi alle difficoltà e alle speranza del domani dell’Europa».
Il ricordo dei tre fondatori dovrebbe indurre l’Europa a mettere da parte le tentazione masochistiche. Per uscire dalla crisi l’Europa deve solo essere nuovamente se stessa. Deve recuperare la sua identità, altrimenti, ci dice Benedetto XVI, «un albero, senza radici, si secca».


Arriva il bisbiglio della vita L’eco della parola responsabilità - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 5 giugno 2009
Bisogna notare i particolari, per capire le epoche. E più che le trombe occorre spesso ascoltare i bisbigli. A Venezia in questi giorni va in scena l’arte contemporanea. La Biennale apre i battenti e con il consueto corredo di trovate, di gusto per il paradosso e di polemiche sui giornali si discute dell’evento. Il quale, grandioso ed esteso com’è, è difficile da raccontare e da sintetizzare. Buona parte degli osservatori nostrani si sono dati da fare per criticare preventivamente il padiglione Italia, riportato dopo decenni alla sua posizione (l’Italia non aveva un suo spazio come tutti i Paesi) e affidato alla cura di due critici Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, 'colpevoli' di non aver seguito i dettami imperanti nel cosiddetto 'mondo dell’arte'. Un mondo, appunto, che appartandosi sempre di più nelle sue perplesse e ironiche trovate, appare alla maggior parte delle persone come una specie di ben remunerata zona giochi per adolescenti viziati, un mondo pronto a dissacrare tutto ciò che è comodo e chic dissacrare.
La colpa dei due curatori è stato di mostrare che non esiste 'un mondo' dell’arte, chiuso e autoreferenziale nei suoi riti, ma che ci sono anche artisti in Italia che sentono una responsabilità nel rappresentare la realtà e la vita. Artisti bravi, e di nome. Indiscutibili. E alcuni giovani.
Ecco, forse è la parola responsabilità dell’arte che fa paura. Che mette a disagio. Nel testo del catalogo della mostra firmato da Beatrice Buscaroli, la parola responsabilità appare citata da due fonti che potrebbero sembrar lontane: Damien Hirst, uno dei più importanti artisti odierni. E Giovanni Paolo II, dalla sua 'Lettera agli artisti' che compie 10 anni. L’arte è responsabile dell’«umano» diceva il Papa in quella lettera. Nessuno può arrogarsi il diritto di decidere per tutti cosa sia tale «umano» che l’arte è responsabile di rappresentare, onorare e provocare. Ma di certo un mondo dell’arte che, per non mettersi mai in discussione, celebrasse la propria irresponsabilità e non accettasse di confrontarsi con tale parola, sarebbe un mondo di morti.
Un artista vero si interroga sempre su qual è l’appello a cui sta rispondendo. E se tale appello è quello del mercato o del successo o della vanità allora genera arte morta. Pur se infiocchettata e circondata dal
glamour.
In questa nostra epoca dura e meravigliosa, l’umano che in ciascuno si agita e soffre lancia il proprio appello agli artisti: non sia vanagloria, ma onore e sguardo profondo, riverente alla vita degli uomini. Sì riverente alla vita, alla sua dura e però luminosa realtà, e al mistero che la abita. Onorare la vita non significa coprirsi gli occhi o evitare di rappresentarne le contraddizioni e i possibili precipizi di non-senso. Ma onorare l’esistenza è di certo evitare di ridurne la rappresentazione a un rimasuglio di detriti e di ironia acida. Lo insegnano tutti i grandi antichi e i recenti, da Giotto a Michelangelo da Martini a Burri a Bacon. La parola che il Papa ha lanciato come un appello o meglio come una estrema supplica agli artisti ora, per quanto coperta da strèpiti o occultata, anima in profondo lo spazio italiano e il dibattito della grande mostra.
Possono far finta di ignorare la supplica, la parola pronunciata all’unisono dal Papa e da chi la vita dell’arte la conosce davvero. Non una parola di parte, ma di tutta l’arte più grande. Così a Venezia, laddove spesso la ricerca di un insolito qualunque diviene ferrea e buffissima norma, e proprio nel padiglione del Paese cristiano che fu maestro nei secoli, sta succedendo qualcosa di nuovo e insolito davvero.


QUANDO LA « NERA » DIVENTA CRONACA « BIANCA » - Quel convertitore magico che è il coraggio del bene - DON GIANCARLO CONTE – Avvenire, 5 giugno 2009
Sopraffatti da una caterva di brutte notizie forniteci dai telegiornali e dai quotidiani, è indispensabile fermarsi a riflettere anche su quei versanti della vita che – pur di cronaca nera – mostrano come il bene non muore.
È noto a tutti il contemporaneo decesso di tre operai di una raffineria sarda.
Perché sono morti in tre? Perché il secondo – non sentendo segnali di vita dal primo che si era calato nella cisterna per iniziare l’opera di pulizia – è sceso per soccorrerlo. Ma anche lui viene ucciso dai potentissimi veleni respirati.
Il terzo a sua volta – mosso dal desiderio di salvare i suoi compagni di lavoro – scende e subisce la stessa sorte. Un quarto operaio si è salvato, pur intossicato, perché sconsigliato da altri a calarsi nella cisterna.
Episodi simili, operai che muoiono per pulire cisterne di camion o di raffinerie, hanno sempre avuto questo percorso: uno scende e non si fa più sentire, gli altri scendono per soccorrerlo e muoiono. È possibile pensare che gli operai – dopo il primo – non abbiano pensato che forse sarebbe toccato anche a loro la stessa sorte? Un po’ le cronache delle precedenti disgrazie e un po’ di competenza nel proprio lavoro li avrebbero dovuto spingere a non rischiare. Invece, uno dopo l’altro, muoiono: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per un amico» ( Vangelo). Facciamo troppe poche riflessioni su questa solidarietà che c’è tra i poveri che talvolta è grande a rischio della vita.
È recentissima la notizia dei due nonni falciati sulle strisce pedonali – dalla solita auto impazzita – che però riescono a salvare il nipotino di tre anni. Un telegiornale dandone notizia così si esprime: «Eroi per caso». Credo invece che non si diventa eroi in un istante se non c’è già nel cuore tanto coraggio e un grande amore per gli altri. Il bimbo di tre anni è sopravvissuto – e pare stia guarendo – per la forza d’animo e l’amore dei due nonni.
E come non ricordare i salvataggi in mare? C’è una persona che sta annegando e grida aiuto; uno qualunque, pur non sapendo nuotare, si tuffa e lo salva, ma poi muore d’infarto. Piccoli eroi che non saranno ricordati se non dai familiari in pianto.
Fra i tanti casi degli ultimi giorni non si può dimenticarne un altro: la storia di due immigrati nigeriani a Palermo.
Vedono un giovane pazzo, armato di martello, irrompere sulla folla e colpire e uccidere un anziano e ferirne gravemente la moglie. Si mettono all’inseguimento del pazzo e – a rischio della propria incolumità – lo immobilizzano e lo consegnano alla polizia.
I due sono irregolari, vivono lavorando come parcheggiatori abusivi e dormono nella 'Missione Speranza e Carità', punto di riferimento per tanti miserabili. La loro storia ricorda quella di molti altri: l’attraversata del Mediterraneo su un barcone, l’approdo a Lampedusa nel novembre scorso, l’identificazione e… adesso attendono il permesso di soggiorno come giusto premio al loro coraggio.
Tutta cronaca nera che si trasforma in cronaca bianca, grazie alla generosità di qualcuno che sa rischiare la propria vita. Anche il Vangelo è ricco di episodi di cronaca nera: il giovane che lascia la casa e sciupa tutti i soldi della sua eredità; ma il padre ne aspetta il ritorno, lo perdona e fa festa per lui. Un uomo scende da Gerusalemme a Gerico e viene derubato e ferito dai banditi. Ma un samaritano passa, lo vede e lo soccorre. Dovremmo fare come Gesù che, dai fatti tristi della vita, sa mettere in luce anche e soprattutto il bene.
Perché anche i giornalisti non fanno così?
Dei fatti tristi della vita dovremmo sapere mettere in luce anche e soprattutto gli aspetti positivi


«Così sono uscita viva dalla camera a gas» - «Ero entrata, fui spinta contro la porta da quelli che volevano fuggire. Un soldato mi gettò fuori» «Mi addormentai abbracciata a un’amica per il freddo. Al risveglio mi accorsi che lei era morta» - DA STOCCOLMA FRANCESCO SAVERIO ALONZO – Avvenire, 5 giugno 2009
Ci accoglie con un sorriso un po’ for­zato, lasciando da parte per un’ora i dolori che l’affligggono da tempo, fa­cendoci accomodare in un angolo della bella ca­sa di cura per anziani nel centro di Stoccolma.
Le è costato molta fati­ca decidere di racconta­re la sua odissea, ria­prendo così le ferite che molto lentamente si e­rano richiuse nella sua anima. E che l’hanno segnata per sempre. «Vede, forse le sem­brerà strano, ma la sola vista di un cane pa­store tedesco mi far star male ancora oggi perché era con quei cani da guardia, sem­pre minacciosi, che i soldati ci tenevano in riga». Poi, tirando un sospiro profondo, Sa­ra Rosenbaum ci dice: «Se sapesse… dopo che sono apparsa alla televisione svede­se… ho ricevuto tante minacce dai neona­zisti, anche recentemente, e non vorrei che approfittassero di questa occasione per tor­nare all’attacco. Molti amici mi avevano sconsigliato di parlare ancora temendo per la mia incolumità, ma ho pensato: bisogna che qualcuno racconti anche oggi la verità dello sterminio degli ebrei mediante e l’or­rore delle camere a gas, che qualcuno è ar­rivato a mettere in discussione come ve­rità storica. Io sono una delle poche per­sone, forse l’unica vivente, che sia uscita viva da uno di quei luoghi di morte e che abbia visto con i propri occhi i risultati del­le cosiddette 'disinfezioni'.
Da quanto tempo si trovava ad Auschwitz quando sfuggì miracolosamente alla mor­te?
Mi trovavo nel campo di sterminio da po­che ore, era l’inverno del 1944. Tre anni pri­ma, nel 1941, i tedeschi e i loro collabora­tori locali avevano iniziato in Lituania, do­ve risiedevo, la pulizia etnica, arrestando tutti gli ebrei. Mio padre e mio fratello fu­rono rinchiusi nella 'Fortezza numero set­te' (una prigione militare ndr) e uccisi po­chi giorni dopo insieme con altre centinaia di ebrei. Anche mia madre e mia sorella fu­rono deportate, di loro non si è piú saputo nulla. Io, che avevo appena dieci anni, fui rinchiusa in un campo per bambini e vi ri­masi per tre anni. Avevo perso totalmente la nozione del tempo, non sapevo piú che giorno fosse, notavo soltanto il cambia­mento delle stagioni. Un freddo giorno d’inverno fummo raccolti, noi bambini provenienti dagli Stati baltici e dall’Un- gheria, e caricati su carri bestiame per es­sere inviati a lavorare in uno zuccherificio. Arrivati ad Auschwitz, sporchi e maleodo­ranti, fummo passati in rivista dal dottor Mengele. Lo ricordo bene: alto, in unifor­me delle SS, guanti bianchi.
E lì cosa accadde?
Con un dito indicava quali bambini dovesse­ro andare a destra e quali a sinistra. Io finii nel gruppo di sinistra e le ausiliarie tedesche ci spiegarono che sarem­mo andati a fare la doc­cia. Ci spogliammo, ma, all’atto di entrare nel locale del bagno, non so perché, decisi di essere l’ultima della fila. Quasi subito si udirono i primi che urlavano dopo essersi accorti che in quel locale non c’era l’acqua. Il panico si diffuse rapidamente, qualcuno aveva già sentito parlare delle camere a gas, e tutti cercavano disperatamente di uscire dalla camera delle docce. Io fui spinta con­tro la porta da coloro che tentavano di scap­pare. Il soldato addetto alla porta tentò di chiuderla, ma non ci riuscì perché il mio corpo la bloccava. Allora, con uno stratto­ne, mi tirò fuori e quindi chiuse la porta si­gillata con strisce di gomma. Quella fu la mia miracolosa salvezza.
Una volta in salvo, cosa fece?
Ero nuda e uscii all’aperto. Un soldato mi domandò in tedesco: «Dove sei stata?». «A fare la doccia » , risposi. « E con chi sei? » . «Con noi», risposero alcune donne di un gruppo di zingari che sostava fuori del lo­cale.
Mi procurarono su­bito degli indumenti e poi entrai con loro, reg­gendo un idrante, per la­vare i cadaveri dei bam­bini uccisi che doveva­no essere caricati sulle carrette e condotti ai for­ni crematori.
Ma non vi furono altri tentativi di ucciderla con il gas?
No. Quello era stato, di­ciamo cosí, l’ultimo atto di Auschwitz, con il sa­crificio di cinquecento bambini e ragazzi. Qua­si subito fummo inco­lonnati e lasciammo il lager, inziando quella che sarebbe stata ' la marcia della morte' sot­to l’incalzare delle trup­pe sovietiche. Ricordo che un alto ufficiale ci urlò: «Maledetti ebrei, è finita per noi, ma ci fa­rete compagnia». Chi ca­deva per terra, veniva abbandonato e chi rallentava veniva freddato con un colpo di pistola.
Dove eravate diretti?
Non so. Forse ai tedeschi premeva soltan­to di svuotare il lager. I soldati che ci scor­tavano erano frustrati e stanchi. Una sera ci stiparono in una stalla e poco dopo ven­ne un sergente e domandò se ci fosse qual­cuno capace di cantare. La mia migliore a­mica, Clary, un’ebrea cecoslovacca, si pre­sentò insieme con me. Cantammo delle belle canzoni e i soldati ci ricompensaro­no con minestra e pane. Tornate nella stal­la, Clary mi disse che sentiva tanto freddo. La strinsi a me. Eravamo cosí magre (io pe­savo 23 chili) che ciascuna sentiva sul suo corpo le ossa dell’altra. Al mattino, quan­do mi svegliai, sentii che Clary era gelida. Era morta nelle mie braccia.
Quanto durò questo calvario?
Il 3 marzo 1944 fummo finalmente liberati dalle truppe sovietiche ed io venni ricoverata in ospedale. Un ca­pitano medico ebreo constatò un principio di tubercolosi ossea e mi domandò se non avessi qualche parente negli Stati Uniti. Sapevo soltanto che un mio zio abitava a Brooklin, ma riuscirono, non so co­me, a reperirlo. Non era ricco, ma mi inviò comunque cinque gram­mi di streptomicina che costava ventotto dollari al grammo. Il mio medico mi disse: con questo quantitativo non ri­solviamo nulla. Vendiamoli e con i soldi ti farò avere cibo nutriente. E cosí fu. Latte, uova, carne mi rimisero in sesto e guarii.
Lei si recò quindi in Israele e là iniziò una nuova vita prima di incontrare il suo fu­turo marito, un ebreo svedese di origini polacche, e di trasferirsi qui in Svezia.
Proprio cosí. Ma voglio riferirle un episo­dio emblematico. Abitavo nel cosiddetto 'kibbutz dei bambini' e un giorno stava­mo per partire per una gita, a bordo di un autobus, quando vidi un signore che ci in­seguiva correndo, facendo cenno di fer­marci. L’autista arrestò il mezzo e io feci se­dere il sopravvenuto accanto a me. Par­lammo del piú e del meno e io gli raccon­tai del modo in cui ero sfuggita alla morte nella camera a gas. Allora lui mi chiese se fosse stato in occasione dell’eccidio degli ultimi cinquecento bambini. Risposi di sì ed egli mi disse, rivolgendomi uno sguar­do affettuoso: sono Simon Wiesenthal e, nel corso delle mie ricerche sull’Olocausto, ho avuto la conferma della tua storia da quel soldato tedesco che ti tirò fuori dalla camera a gas.