mercoledì 1 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Don Giussani contro il “gulag” della modernità - Julián Carrón - mercoledì 1 luglio 2009 – pubblicato su Avvenire 1.7.2009
2) CARITAS IN VERITATE/ I punti saldi della nuova enciclica di Benedetto XVI - Flavio Felice - martedì 30 giugno 2009 – ilsussidiario.net
3) CHIESA/ Vian: San Paolo sepolto da “imperatore”, così la scienza dà ragione alla tradizione - INT. Giovanni Maria Vian – ilsussidiario.net - martedì 30 giugno 2009
4) La conversione di Oscar Wilde - Intervista allo scrittore e saggista Paolo Gulisano - di Antonio Gaspari
5) L'educazione nel nostro tempo - Alle fonti dell'essere cristiano - La Congregazione per l'Educazione Cattolica ha nominato per il prossimo triennio il nuovo rettore dell'Università Pontificia Salesiana, che entra in carica il 1° luglio. Docente di Filosofia dell'educazione e di pedagogia della scuola nella Facoltà di scienze dello stesso Ateneo, il rettore ha recentemente dato alle stampe il volume Educare cristianamente. Lettere spirituali a educatori insegnanti e formatori (Torino, Elledici, 2008, pagine 206, euro 13), dal quale pubblichiamo un estratto. - di Carlo Nanni – L’Osservatore Romano, 30 giugno – 1 luglio 2009
6) Raccolte in un volume le catechesi di Benedetto XVI dedicate a «L'apostolo Paolo » - Un'esegesi scientifica immersa nella Tradizione - Nell'ambito del progetto "Imago Veritatis", il 30 giugno alle ore 18, presso Auditorium di via della Conciliazione a Roma, si presenta il volume L'apostolo Paolo di Benedetto XVI. Pubblichiamo uno stralcio dell'intervento del cardinale presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. - di Giovanni Lajolo - L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009
7) «La vita è uguale per tutti» di Paola Binetti - Le ragioni laiche per opporsi all'eutanasia - Viene presentato il primo luglio presso l'Istituto Luigi Sturzo a Roma il volume di Paola Binetti La vita è uguale per tutti. La legge italiana e la dignità della persona (Mondadori, Milano, 2009, pagine 132, euro 14). Tra gli interventi è previsto quello dell'arcivescovo Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. - di Laura Palazzani – L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009
8) Il paradosso di Michael Jackson - Lorenzo Albacete - mercoledì 1 luglio 2009 – ilsussidiario.net
9) IRAN/ Aslan: in atto un colpo di stato, Ahmadinejad ha perso la sua legittimità - INT. Reza Aslan - mercoledì 1 luglio 2009 – ilsussidiario.net
10) SENZA CONFORMISMI - FEDE ADULTA IL CONTROPIEDE DI BENEDETTO - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 1 luglio 2009
11) Roccella: no all’educazione sessuale a scuola - Il sottosegretario replica alla proposta della Sigo: per i ragazzi fondamentale il ruolo delle famiglie – Avvenire, 1 luglio 2009


Don Giussani contro il “gulag” della modernità - Julián Carrón - mercoledì 1 luglio 2009 – pubblicato su Avvenire 1.7.2009
«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Forse nessuno più di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov ha posto in modo sintetico e perentorio la sfida davanti alla quale si trova il cristianesimo nella modernità. Don Giussani ha avuto il coraggio di misurarsi con questa sfida storica, radicalizzandola, se possibile.
Infatti, scommette tutto sulla capacità della sua proposta educativa di generare un tipo di soggetto cristiano per cui «anche se andassero via tutti - tutti! -, chi ha questa dimensione di coscienza personale (che la fede genera) non può fare altro che ricominciare le cose da solo». E la stessa, identica, scommessa che lo stesso Gesù non ebbe paura di correre coi suoi. Che cosa avrebbe fatto Gesù nell`ipotetico caso che, davanti alla sfida: «Anche voi volete andarvene?», tutti i discepoli l`avessero abbandonato? Nessuno ha alcun dubbio: avrebbe ricominciato da solo.
Che cosa può consentire una tale capacità di ripresa, nelle attuali circostanze storiche? Possiamo incominciare a intravedere la risposta, se cerchiamo di immedesimarci con Gesù: che cosa l`avrebbe potuto fare ripartire da capo? È evidente che Lui non si sarebbe potuto appoggiare su una logica di gruppo, dal momento che, nella nostra ipotesi, era rimasto da solo. Per potere affrontare questa sfida occorre passare «da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale».
Gesù sarebbe stato costretto a poggiare tutto sul contenuto della sua autocoscienza, della sua appartenenza al Padre. «Qual è il contenuto di questa dimensione di coscienza personale? La definizione dell`io è "appartenenza". L’appartenenza definisce ciò che sono; come l`essere figli è definito dall’appartenenza al padre e alla madre; e non è schiavitù, perché tale appartenenza non è estrinseca. Dire che l’io è rapporto con l’Infinito vuole dire che l’essenza dell’io, nel senso stretto della parola, è appartenenza a un Altro».
Così don Giussani indica che quello che potrebbe far ripartire da capo ciascuno è la stessa cosa per cui Gesù ha cominciato: la coscienza della sua appartenenza al Padre. Non è, dunque, una capacità nostra, una energia propria, una nostra bravura, ma è l’esito di una appartenenza.
In questo modo don Giussani non fa altro che identificare lo scopo ultimo dell’opera salvifica di Cristo. Infatti Lui è diventato uomo, è morto e risorto, perché mediante il dono dello Spirito potessimo vivere con la coscienza di figli, come “figli nel Figlio”. Prendere consapevolezza del nostro essere figli, cioè della nostra appartenenza al Padre, è il compito di ogni educazione cristiana, che ha la verifica della sua verità nella capacità dell’io - così educato - di ricominciare da capo, se tutti se ne andassero. Questo chiarisce la strada che ognuno di noi deve cercare di percorrere: che la vita diventi un cammino che ci renda sempre più certi e consapevoli della nostra appartenenza.
Ma acquistare questa consapevolezza è possibile soltanto se essa è verificata nelle circostanze della vita: «L’impatto con le circostanze, il rapporto con la realtà, non è nient’altro che l’avvenimento della vita come vocazione, in cui il “soggetto” è l’appartenenza a ciò che è accaduto - Cristo dentro la fragilità effimera della comunità - mentre il contenuto “oggettivo”, su cui questo soggetto è chiamato ad agire, è l’incontro con quel complesso di circostanze finalizzate che si chiamano appunto “vocazione” perché Dio non fa nulla per caso. Il complesso di circostanze sollecita il soggetto e questo agisce secondo l’origine totalizzante che ha dentro, secondo quel principio formale, quel principio determinante, che è stato l’incontro».
Raggiungere questa coscienza è una lotta che chiede a ciascuno di noi la disponibilità alla conversione, vale a dire a vivere secondo un`altra mentalità. La ragione è evidente. Questa posizione entra in contrasto con l`atteggiamento diffuso in questo preciso momento storico, in cui siamo chiamati a vivere la fede, e ci penetra molto più di quanto pensiamo: «L’uomo moderno ha creduto di evitare tutto dicendo: "L’uomo appartiene a se stesso", che è la più grande menzogna, perché prima non c`era, perciò va contro l`evidenza più chiara. “L’uomo appartiene a se stesso” vuole dire: l’uomo diventa possesso del potere, appartiene al potere, cioè appartiene agli uomini che lo determinano».
Le conseguenze di questa scelta adesso sono più documentabili di quando furono dette queste parole, a metà degli anni Ottanta: «Amici miei, siamo in un`epoca di una pericolosità sterminata. Siamo in un`epoca in cui le catene non sono portate ai piedi, ma alla motilità delle prime origini del nostro io e della nostra vita. L’Occidente sta, non lentamente, ma violentemente spingendo tutta la realtà umana, anche nostra, verso il "gulag" di un asservimento mentale e psicologico inaudito: la perdita dell`umano, di cui Teilhard de Chardin segnalava già il sintomo più impressionante, che è la perdita del gusto del vivere».
(Pubblicato su Avvenire 1 luglio 2009)


CARITAS IN VERITATE/ I punti saldi della nuova enciclica di Benedetto XVI - Flavio Felice - martedì 30 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Ieri, 29 giugno 2009, festa solenne dei santi Pietro e Paolo, Benedetto XVI ha firmato la sua terza enciclica, la prima del suo Magistero sociale. Lo scorso 13 giugno, durante l'udienza concessa ai soci e ai corsisti della Fondazione “Centesimus Annus”, il Papa aveva sostenuto la necessità di ripensare i «paradigmi economico-finanziari dominanti negli ultimi anni». Secondo il Pontefice, proprio «la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni».
Il Pontefice, parlando di economia di mercato, cita un passaggio decisivo della Centesimus annus del 1991, ritenendo che «la libertà nel settore dell'economia deve inquadrarsi in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale, una libertà responsabile il cui centro è etico e religioso». A questo punto del discorso il Papa ricorda ai presenti l'imminente pubblicazione dell'Enciclica dedicata all'economia, al lavoro e allo sviluppo: la Caritas in veritate. L’enciclica sociale sullo sviluppo che nelle intenzioni del Pontefice celebra e aggiorna la Populorum progressio di Paolo VI del 1967. È stata proprio l’enciclica di Paolo VI a insistere, oltre che sull’apprezzamento della cultura e della civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell’uomo, anche sul «dovere gravissimo», che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di «aiutare i Paesi in via di sviluppo».
Con riferimento all’enciclica firmata ieri, Benedetto XVI ha detto ai soci e ai corsisti della Fondazione “Centesimus Annus”: «Come sapete, verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell'economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale». Nell'occasione, Benedetto XVI cita un passaggio della Centesimus Annus: «Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti».
Mercato, proprietà, impresa, profitto, lavoro assumono un significato cristianamente consistente nella misura in cui il centro è Cristo; Cristo redentore che, rivelando Dio all’uomo, rivela l’uomo all’uomo. Il mercato dunque può assumere i caratteri cristiani della “relazionalità”, la proprietà assume la cifra della “responsabilità”, con il lavoro l’uomo - creato ad immagine e somiglianza del Padre-Creatore - “soggettivamente” partecipa in un certo senso all’“opera creatrice” del Padre-Creatore, l’impresa è la “comunità” di lavoro nella quale sperimenta il suo profondo legame con l’umanità intera e il profitto è uno dei tanti (ma indispensabile) “parametri” per misurare la corretta (responsabile) allocazione dei beni della terra.
Al centro della riflessione della Caritas in veritate troveremo la questione dello sviluppo integrale della persona. Ricordiamo quanto riconosciuto e proposto da Giovanni Paolo II e ripreso dallo stesso Benedetto XVI durante l’udienza del 13 giugno: «Un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia».
Il senso di queste affermazioni, confermate e rafforzate da Benedetto XVI, incontra un caposaldo della tradizione dell’“economia sociale di mercato”: le attività economiche, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizzano mai in un vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. In questa prospettiva, una sana “economia di mercato”, “economia d’impresa”, “economia libera” - ovvero un capitalismo rettamente inteso - sono sempre limitate da un ordine giuridico che le regola e da istituzioni morali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi che, nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, interagiscono con esse e le influenzano, essendone esse stesse influenzate.
L’economia di mercato è sempre plasmata dalla cultura nella quale essa vive, e a sua volta, è influenzata dalle azioni e dalle abitudini quotidiane di coloro che la pongono in essere, poiché le azioni dei singoli influenzano la qualità della vita all’interno della società. È questo il “personalismo metodologico” che ha pervaso il Magistero sociale di Wojtyla e che continuerà a plasmare la cura pastorale di Benedetto XVI anche in ambito socio-economico.


CHIESA/ Vian: San Paolo sepolto da “imperatore”, così la scienza dà ragione alla tradizione - INT. Giovanni Maria Vian – ilsussidiario.net - martedì 30 giugno 2009
Il messaggio è stato annunciato niente meno che da Sua Santità Benedetto XVI domenica scorsa in occasione della festa dei Santi Pietro e Paolo che sarebbe seguita il giorno successivo. Quello sepolto sotto la Basilica di San Paolo sotto le mura è proprio lui, l’Apostolo delle Genti. A dirlo o, meglio, a confermare quello che la tradizione già da duemila anni affermava, è la scienza. Il carbonio parla chiaro: un uomo vissuto a cavallo fra il I e il II secolo. Ma parlano chiaro anche le altre tracce, il tessuto ritrovato, le scritte, le fonti storiche e, come detto prima, anche la tradizione popolare. Fatto sta che un’ufficializzazione, sebbene ancora rivestita di toni prudenziali, la Chiesa l’ha fatta. E la memoria ritorna alle precedenti grandi rivelazioni come quella del 23 dicembre 1950 quando Pio XII pronunciò la famosa frase per cui la cupola michelangiolesca s’inarcava “esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma”, quando quest’ultimo venne alla luce. E poi ancora il ritrovamento delle ossa del primo papa annunciato con queste parole: nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica.
Ora è il “momento” di San Paolo. Le stesse analisi, la stessa cura e la medesima prudenza il Vaticano ha riservate e probabilmente continuerà a riservare alla tomba di questo Apostolo. Ne abbiamo parlato con Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano nonché docente di Storia della tradizione e della identità cristiane
Qual è la genesi di questa scoperta?
I dettagli sono quelli che ha reso pubblici oggi il cardinale arciprete di San Paolo. Il segreto pontificio per il momento rende impossibile entrare più profondamente nella procedura mediante la quale si è svolta l’analisi. Certo è che negli ambienti vaticani la notizia si era appresa da molto tempo. Il tutto è cominciato su ordine del Pontefice. Si è approfittato dei “lavori in corso” in atto sulla basilica Ostiense realizzati in occasione dell’Anno Paolino per indagare più a fondo anche nell’area più sacra della basilica che, per tradizione, si riteneva conservasse il sepolcro di San Paolo.
Perché non si è voluto aprire interamente il sarcofago?
Fondamentalmente perché si trova in una situazione archeologicamente particolare, collocata com’è fra due grossi blocchi di pietra. Si comprende che, considerata la delicatezza dell’oggetto in questione, le ragioni di un’indagine prudenziale non siano mai deboli. A questo si aggiunge anche la memoria di tutte le diatribe che c’erano state per gli scavi a San Pietro. In quell’occasione, voluti per volontà del papa Pio XII e del suo predecessore Pio XI, gli scavi durarono circa dieci anni, fino all’annuncio del 1950.
Che cosa è stato scoperto esattamente?
Né più né meno di quanto ha dichiarato il Papa domenica scorsa. Sono stati trovati, oltre a resti ossei, anche alcuni frammenti di lino e porpora con tracce di oro. Il papa è stato molto preciso: tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora e laminato con oro zecchino, un tessuto azzurro con filamenti di lino. Quello che ci terrei a precisare è che Benedetto XVI Il ha dichiarato tutto ciò sulla base di appunti assolutamente scientifici. I piccolissimi frammenti ossei sono stati infatti sottoposti all’esame del C14 da esperti che non sapevano da dove provenissero e che hanno confermato la tradizione, ossia che appartengono a una persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione dei resti mortali dell’Apostolo Paolo.
La descrizione di questi vestiti che cosa lascia a intendere? Perché dovrebbe essere un’ulteriore conferma al carbonio 14?
Per capire questo punto occorre rifarsi sempre alla scoperta della tomba di San Pietro e agli studi su di essa compiuti dalla grande studiosa Margherita Guarducci. Più che di vestiti infatti quello di cui si parla sembra essere un panno, di tessuto analogo a quello di Pietro. In età tardo antica la porpora è per eccellenza il tessuto imperiale. Ciò autorizzò la studiosa a confermare le proprie ipotesi. Spiegandoci meglio: quando Pietro morì venne probabilmente sepolto in quella che allora era la necropoli pagana. Un certo Caio, vissuto intorno al 200 d.C. ci informa della presenza di due piccole “edicole” funerarie, quelle che egli chiama “trofei”, l’una nella necropoli Vaticana e l’altra sulla via Ostiense. Sono le edicole dei due santi. Quando fu il tempo di Costantino, l’imperatore fece costruire una basilica sull’edicola di San Pietro, interrando la necropoli, e un’altra su quella di San Paolo. È assai probabile che, come avviene anche al giorno d’oggi, i corpi siano stati riesumati e avvolti in quello che Margherita Guarducci non esitò a definire, in occasione della scoperta della tomba di San Pietro, «un panno riservato all’autorità imperiale». E un panno di questa foggia non poteva che venire utilizzato per onorare un principe della Chiesa. Dunque ciò che fu fatto per San Pietro fu ripetuto per San Paolo.
Da un punto di vista filologico, oltre che archeologico, che cosa cambierà questa scoperta?
Non cambierà più di tanto la narrazione contenuta negli Atti degli Apostoli che, come sappiamo, si interrompe ex abrupto, suscitando, anche questa, numerose e suggestive ipotesi. Diciamo più che altro che il grandissimo corpus di tradizioni orali non conservate all’interno del Nuovo Testamento, viene sicuramente rafforzato. La tradizione del martirio di San Paolo, narrazione non considerata canonica, ma rispettata in quanto antichissima e a pieno titolo appartenente alla cultura cristiano cattolica, ne esce parecchio rafforzata, in quanto le indicazioni “geografiche” in essa contenute avrebbero trovato piena conferma. A questo si aggiunga, sempre nel discorso dei luoghi del martirio, il recente ritrovamento di un affresco raffigurante l’Apostolo delle Genti.
Si riferisce a quello di Santa Tecla, scoperto lo scorso 19 giugno?
Precisamente, le catacombe di Santa Tecla. Quella di Santa Tecla è una piccola catacomba, poco distante, un po’ a Sud della basilica di San Paolo fuori le mura. È un sito noto dal 1700, pur tuttavia si cominciò a scavare intorno agli anni ’50 e, come si vede, non si è ancora finito. Qualche giorno fa una restauratrice mentre ripuliva una parete con un laser leggerissimo si è accorta che stavano emergendo i tratti di una figura coloratissima, riconoscibile in quella di Paolo.
Un’intera zona dedicata al santo è in effetti particolare
Si tenga poi conto che quel sito ospitava la tomba di una famiglia benestante che con tutta probabilità si fece seppellire vicino a San Paolo. All’epoca la basilica, costruita nel 324 d.C. da Costantino, era infatti già stata allargata per opera di papa Damaso nella cui età cominciò la vera e propria concezione dei santi Pietro e Paolo come concordia apostolorum. Pietro e Paolo vennero sempre più raffigurati insieme perché fondatori della Chiesa e concepiti come nuovi dioscuri dell’era cristiana.


La conversione di Oscar Wilde - Intervista allo scrittore e saggista Paolo Gulisano - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 30 giugno 2009 (ZENIT.org).- Oscar Wilde è fin troppo famoso, ma ben poco conosciuto. L’esteta, il commediografo brillante, l’icona del mondo gay, fu allo stesso tempo un ricercatore inesausto del Bello, del Buono, ma anche e soprattutto di quel Dio che non aveva peraltro mai avversato, dal quale si fece pienamente abbracciare dopo l’esperienza drammatica del carcere.
Wilde arrivò a chiudere il suo itinerario umano in comunione con la Chiesa Cattolica, adempiendo a quello che aveva scritto anni prima: “il Cattolicesimo è la sola religione in cui morirei”.
A rivelare la profonda cattolicità di Wilde è Paolo Gulisano, scrittore e saggista esperto del mondo britannico (è autore di diversi volumi su Tolkien, Lewis, Chesterton e Belloc) che ha appena pubblicato: “Il Ritratto di Oscar Wilde” (Editrice Ancora, pag 190 euro 14).
Si tratta di un ritratto a tutto tondo di Oscar Wilde, che rappresenta tutta la complessa personalità, ne evidenzia tutti gli aspetti, andando alla scoperta degli scenari su cui recitò la sua parte nel gran teatro della vita, delle sue passioni, dei suoi interessi, del suo immaginario e della sua attenzione ai problemi sociali, e infine del suo sentimento religioso profondo e autentico.
Per meglio conoscere la storia di un commediografo le cui opere vengono rappresentate nei teatri di tutto il mondo, ZENIT ha intervistato Paolo Gulisano.
Lei rintraccia nella figura di Wilde uno spessore ben maggiore di quello comunemente attribuitogli, cioè di un dandy brillante e superficiale, un esteta dalla battuta pronta ma effimera. Viceversa lei tira in ballo nozioni come Bellezza e Verità…
Gulisano: Oscar Wilde rappresenta un mistero non ancora pienamente svelato, un uomo e un artista dalla personalità poliedrica, complessa, ricca. Non solo un anticonformista che amava stupire la conservatrice società dell’Inghilterra vittoriana, ma anche un lucido analizzatore della Modernità con i suoi aspetti positivi e soprattutto inquietanti.
Il Ritratto di Dorian Gray è il racconto straordinario dell’uomo moderno che insegue disperatamente un’Eterna Giovinezza, che si pone l’obiettivo utopistico di vincere o perlomeno ingannare la morte. Non solo un’esteta, il cantore dell’effimero, il brillante protagonista dei salotti londinesi, ma anche un uomo che dietro la maschera dell’amoralità si interrogava e invitava a porsi il problema di ciò che fosse giusto o sbagliato, vero o falso, persino nelle sue principali commedie degli equivoci.
Wilde è ancora oggi una icona gay per il celebre processo subito che segnò la fine della sua fortuna. Può riassumere in breve la vicenda giudiziaria ed anche la correzione di prospettiva che lei introduce?
Gulisano: Wilde non può essere definito tout court “Gay”: aveva amato profondamente sua moglie, dalla quale aveva avuto due figli che aveva sempre amato teneramente e ai quali, da bambini, aveva dedicato alcune tra le più belle fiabe mai scritte, quali “Il Gigante egoista” o “Il Principe Felice”. Il processo fu un guaio in cui finì per aver querelato per diffamazione il Marchese di Queensberry, padre del suo amico Bosie, che lo aveva accusato di “atteggiarsi a sodomita”. Al processo Wilde si trovò di fronte l’avvocato Carson, che odiava irlandesi e cattolici, e la sua condanna non fu soltanto il risultato dell’omofobia vittoriana.
Qual è stato il tormentato rapporto tra Wilde e la verità cattolica, rapporto che è un po' il file rouge del suo lavoro?
Gulisano: Il cammino esistenziale di Oscar Wilde può anche essere visto come un lungo e difficile itinerario di conversione al cattolicesimo. Una conversione di cui nessuno parla, e che fu una scelta meditata a lungo, e a lungo rimandata, anche se - con uno dei paradossi che tanto amava- , Wilde affermò un giorno a chi gli chiedeva se non si stesse avvicinando troppo pericolosamente alla Chiesa Cattolica: "Io non sono un cattolico. Io sono semplicemente un acceso papista". Dietro la battuta c’è la complessità della vita che può essere vista come una lunga e difficile marcia di avvicinamento al Mistero, a Dio.
Ci sono molte curiosità a proposito di Wilde. Una è che le figure che determinarono la sua esistenza finirono quasi tutte per convertirsi...
Gulisano: Esatto: amici come Robbie Ross, Aubrey Beardsley, e addirittura quel John Gray che gli ispirò la figura di Dorian Gray che diventato cattolico entrò anche in Seminario a Roma e divenne un apprezzatissimo sacerdote in Scozia. Infine, anche il figlio minore di Wilde divenne cattolico.
Lei da anni indaga, nei suoi libri, il filo d'oro culturale e religioso che percorre in modo a volte celato, la cristianità anglosassone, da cinque secoli staccata da Roma e per certi versi una centrale mondiale di secolarizzazione e anticattolicità. C'è un disegno in queste sue indagini? Dove trova le motivazioni? Perchè questa ricerca?
Gulisano: L’Inghilterra cattolica ha conosciuto per prima in Europa la persecuzione, la secolarizzazione, il tentativo di emarginare la Fede; per questo ha sviluppato quegli anticorpi spirituali che sono presenti in autori quali Newman, Chesterton, Tolkien. E possono fornire ancora oggi un utile vaccino contro i mali spirituali del nostro tempo.


L'educazione nel nostro tempo - Alle fonti dell'essere cristiano - La Congregazione per l'Educazione Cattolica ha nominato per il prossimo triennio il nuovo rettore dell'Università Pontificia Salesiana, che entra in carica il 1° luglio. Docente di Filosofia dell'educazione e di pedagogia della scuola nella Facoltà di scienze dello stesso Ateneo, il rettore ha recentemente dato alle stampe il volume Educare cristianamente. Lettere spirituali a educatori insegnanti e formatori (Torino, Elledici, 2008, pagine 206, euro 13), dal quale pubblichiamo un estratto. - di Carlo Nanni – L’Osservatore Romano, 30 giugno – 1 luglio 2009
A scuola con i ragazzi e le ragazze, con i colleghi e le colleghe, a casa e fuori casa, in parrocchia e in giro si è sempre più messi in questione su ciò che è fondamentale nella nostra vita: chi siamo, cosa vogliamo essere, come comportarci con gli altri, come far fronte agli avvenimenti, alle novità e ai cambiamenti velocissimi che ci si parano davanti quasi ogni giorno. Non c'è da spaventarsi più di tanto. In fondo si tratta di un'occasione per qualificare meglio l'esistenza e le relazioni personali, e in particolare dare maggior spessore all'insegnamento e alla funzione educativa. Ma è indubbio che certi modi di vedere tradizionali non sono più all'altezza del tempo e della storia. Anzi, secondo molti, c'è da rivedere gran parte di quella che diciamo la modernità, vale a dire la mentalità e la cultura che da dopo la rivoluzione francese, in Occidente e nel mondo intero, si è offerta come simbolo e strumento di progresso, di successo, di ideale libertà, fraternità, giustizia. L'uomo occidentale moderno si sente tutto centrato su se stesso e costruttore del suo destino. Il rischio è la caduta nel soggettivismo e in una spasmodica ricerca dell'efficienza e della produttività. La libertà è pensata quasi esclusivamente come assenza di costrizione e soprattutto come libertà di scelta, possibilità di fare ciò che si vuole. La razionalità esaltata è quella scientifica e tecnologica. Di fronte alle difficoltà presenti magari ci si rifugia nelle tradizioni o nella religione, che però rischia, così, di rimanere fonte di passività e di oscurantismo, strumento di oppressione e di autoritarismo individuale, familiare e sociale. Un corretto e solido pensiero cristianamente ispirato ci può aiutare a superare questi possibili rischi dell'umanesimo moderno-occidentale illuministico. Infatti, ci invita a pensare l'uomo, uomo-donna, come persona, cioè al contempo soggetto responsabile e aperto agli altri, agli animali, alle cose, al mondo, a Dio, che si presentano "di fronte" con una loro consistenza ontologica, cioè in rapporto, ma non riconducibili, al mondo dell'io e alle sue aspirazioni, e tanto meno fagocitabili da esso. Anche i figli, somigliano, ma non sono la fotocopia o la riproduzione dei genitori. Gli alunni non si riducono a puri "destinatari", cioè a "complementi di termine" della maestria degli insegnanti. L'agire ne deve fare i conti. Secondo Antonio Rosmini, il pensatore cristiano dell'Ottocento recentemente beatificato, la regola aurea dell'agire era riassumibile nella massima: "adegua il tuo amore all'essere di ciascuna realtà con cui hai a che fare". Il personalismo cristiano ci ha, inoltre, stimolato a dare spessore alla nostra libertà di scelta: rapportandola con il bene da fare, con i valori da riconoscere e da attuare; impegnandola a dar senso al mondo e alle cose, oltre che a se stessi; spingendola a partecipare responsabilmente e solidarmente a uno sviluppo storicamente sostenibile, umanamente degno per tutti e per ciascuno, per gli individui, per i popoli e per le nazioni. Ma c'è un punto in cui si ha dà rivalutare attentamente i personali modi di vedere! L'Occidente moderno è fondamentalmente empirico, sociologistico, sbilanciato sul pubblico: pensa cioè fatti, persone, eventi e cose solo in quanto appaiono alla superficie dell'esperienza storico-spaziale; distende i pensieri nel tempo e nello spazio sociale, limitandosi a ciò che è di pubblico interesse, mettendo da parte o privatizzando ciò che riguarda l'interiorità e la spiritualità personale. L'eterno è come non ci fosse: c'è solo l'attuale, il futuro, l'ulteriore, l'oltre. Per questo siamo tendenzialmente materialisti, presentisti e molto trascinabili dalla mentalità consumistica del "tutto insieme e subito" e del "piglia consuma e butta via". Il faccia-a-faccia fa dimenticare il profondo e l'alto delle relazioni. L'orizzontale fa perdere di vista il verticale. La vita, invece, in ogni suo momento, è giocata all'incrocio e nella dinamicità di tutte e due le coordinate: quella orizzontale e quella verticale. Noi non siamo chiusi in noi stessi. Oltre che verso il sé e verso l'altro noi siamo protesi verso il profondo e verso l'alto, come diceva Pier Giorgio Frassati. In questo clima di multicultura, di innovazione tecnologica e di globalizzazione, l'ispirazione cristiana invita a riandare alle radici della spiritualità, a recuperare culturalmente e mentalmente la specificità cristiana. Nell'orizzonte della creazione, dell'incarnazione e della presenza dello Spirito Santo nel tempo e nella storia, l'ispirazione cristiana permetterà di non essere travolti dalla globalizzazione, perché darà la possibilità non solo di aprirci all'altro, al mondo e al futuro, ma anche di rivolgere lo sguardo verso l'alto e verso il profondo. Potremo, cioè, cogliere e sentire intuitivamente e misteriosamente che la nostra vita è in Dio; che il tempo e l'eterno sono collegati intrinsecamente in ogni istante della nostra esistenza; che possiamo camminare nel tempo ma attaccati all'eterno, per cui anche l'offerta di un bicchiere d'acqua diventa atto divino, come fatto a Dio! Potremo, in particolare, vivere la scuola e l'insegnamento come un modo concreto di "camminare nello Spirito" e come "ricerca del Regno di Dio", nella compagnia di Gesù e secondo il suo Vangelo, nella giustizia e nella verità, "facendo la verità nella carità": in quel Dio, che nel turbinio del tempo, come ci ricorda anche Dante per bocca di Piccarda Donati, "in la sua voluntade è nostra pace" (Paradiso, III, 85).
(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)


Raccolte in un volume le catechesi di Benedetto XVI dedicate a «L'apostolo Paolo » - Un'esegesi scientifica immersa nella Tradizione - Nell'ambito del progetto "Imago Veritatis", il 30 giugno alle ore 18, presso Auditorium di via della Conciliazione a Roma, si presenta il volume L'apostolo Paolo di Benedetto XVI. Pubblichiamo uno stralcio dell'intervento del cardinale presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. - di Giovanni Lajolo - L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009
Al termine dell'Anno paolino, possiamo dire ormai in limine discessus, la Libreria Editrice Vaticana ci fa un grande dono da portare con noi negli anni a venire. È la raccolta delle catechesi nelle udienze generali del mercoledì del Santo Padre Benedetto XVI, dedicate a san Paolo durante l'Anno paolino. Si tratta di venti catechesi, a partire dal periodo 2 luglio 2008 fino al 4 febbraio 2009. Non si tratta di una raccolta miscellanea, ma di un tutto organico, corrispondente a un piano accuratamente studiato. La figura di Paolo è anzitutto inserita nel suo contesto storico, religioso, culturale, è seguita nei momenti salienti della sua storia impetuosa e avventurosa, ed è presentata poi nei grandi temi teologici del suo pensiero, per concludere infine con una rapida carrellata, attraverso la storia, su come Paolo è stato recepito, interpretato, rifiutato e rivissuto. Tra i primi otto capitoli e gli altri nove, ve ne sono tre dedicati alla cristologia paolina. Nessun altro tema riceve una tale attenzione. Si può quindi dedurre che, secondo Benedetto XVI, questo è il centro del pensiero di Paolo. La trattazione della cristologia paolina si articola secondo tre prospettive più specifiche: preesistenza e incarnazione di Cristo, teologia della croce, definitività della risurrezione. "Per san Paolo - dice Benedetto XVI - la segreta identità di Gesù, più ancora che nell'incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione" (pp. 100-102). Dopo il tema della cristologia paolina, segue per importanza nell'esposizione di Benedetto XVI quello della dottrina della giustificazione, al quale sono dedicati due capitoli, articolati in maniera speculare: dalle opere alla fede, dalla fede alle opere. Qui Benedetto XVI si preoccupa di chiarire la grande questione della giustificazione in forza della fede. La questione della giustificazione risponde alla domanda: "Come diventa giusto l'uomo agli occhi di Dio?" (p. 113). È nella risposta a questa questione che si trova il discrimine originante la separazione del protestantesimo dalla Chiesa cattolica. Lutero, nella sua interpretazione della lettera di Paolo ai romani, era giunto alla conclusione che l'uomo è giustificato solo grazie alla fede senza le opere: sola fide. Il Concilio di Trento, nella sessione del gennaio 1547, condannò l'interpretazione luterana. Come ne tratta ora Benedetto XVI? Nel primo dei due capitoli dedicati al tema della giustificazione: "dalle opere alla fede", il Papa offre una spiegazione della problematica paolina, collocandola nel contesto culturale vissuto, e sofferto, da Paolo. La Legge mosaica costituiva come un "muro" opposto alla pressione culturale del mondo pagano, che minacciava l'identità israelitica e la stessa fede nell'unico Dio. Tale situazione subì una radicale trasformazione con la risurrezione di Cristo. Con essa il Dio di Israele diventa il Dio di tutti i popoli. Cade, perché superfluo, il "muro" della Legge mosaica, fatta di prescrizioni e di decreti, dal momento che Cristo, scrive Benedetto XVI "garantisce la nostra identità nella diversità delle culture (p. 118). Il Papa si riferisce esplicitamente al memorabile passo della Lettera agli Efesini: "In Cristo Gesù, (...) ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, (...) annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace" (2, 13-15). Sulla natura della giustificazione e il suo aggancio alla fede, alla sola fede, il Papa dice quindi: "Essere giusti vuole semplicemente dire essere in Cristo, con Cristo, e questo basta. (...) L'espressione sola fide di Lutero è vera se non si oppone la fede alla carità, all'amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita" (pp. 118-119). Il Papa aggiunge: "Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo" (p. 125). Tra il tema della cristologia e quello della giustificazione è inserito un tema non facile, ma imprescindibile, "Escatologia: l'attesa della parusia". Escatologia è il discorso delle "cose ultime", parusia significa "il presentarsi", "ritorno": il ritorno del Signore. Ecco il famoso brano della prima lettera ai Tessalonicesi (che è anche il primo scritto di Paolo): "Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore" (4, 16-17). Ed ecco la spiegazione, molto diretta di Benedetto XVI: "Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. È questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è "essere con il Signore"; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vita eterna, è già cominciata" (pp. 105-106). Un altro punto, che non poteva mancare in questa presentazione di Paolo, è il rapporto di Paolo con Pietro. Benedetto XVI dedica un capitolo al Concilio di Gerusalemme e all'"incidente di Antiochia". Sotto questo nome va il focoso rimprovero che Paolo rivolse a Pietro. Antiochia era ai tempi di Paolo capitale romana della Siria. È ad Antiochia che l'afflusso dei pagani alla Chiesa nascente non rimase solo limitato a singole persone, ma si fece socialmente così consistente che "ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani" (Atti, 11, 26). Il fatto di Antiochia è questo, ed è narrato dallo stesso Paolo nella Lettera ai Galati: Pietro, giunto anch'egli ad Antiochia, condivideva, come già prima faceva, la mensa con i pagani, senza quindi osservare la legge mosaica sui cibi; ma all'arrivo di altri cristiani, che erano invece osservanti, al fine di non scandalizzarli evitava i contatti a tavola con i pagani, attirando anche altri cristiani nello stesso atteggiamento. Paolo descrive in maniera assai viva come egli si oppose a Pietro "a viso aperto", "in presenza di tutti", rimproverando a Pietro la sua incoerenza. È un episodio questo sovente richiamato da quanti si oppongono, su una questione o sull'altra, al successore di Pietro per testimoniare come Paolo - essi dicono - avesse una più genuina fedeltà al Vangelo con libertà cristiana. Benedetto XVI, trattando del grande tema della libertà cristiana, oggetto di contesa al Concilio di Gerusalemme come nell'"incidente di Antiochia", rileva la diversa preoccupazione alla base delle differenti valutazioni, di Pietro e di Paolo, ma osserva anche: "Strano a dirsi, ma scrivendo ai cristiani di Roma, alcuni anni dopo (intorno agli anni cinquanta), Paolo stesso si troverà di fronte a una situazione analoga e chiederà ai forti di non mangiare cibo impuro per non perdere o per non scandalizzare i deboli: "Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale tuo fratello possa scandalizzarsi (Romani, 14, 21)" (p. 60). La irruente coerenza di Paolo ebbe anch'essa la sua maturazione. Benedetto XVI ne trae una lezione sulla libertà dello spirito, "che trova il suo orientamento nella fede in Cristo e si concretizza nel servizio ai fratelli" (p. 61). Significativamente il Papa ha dedicato tutto un capitolo alle due lettere ai Colossesi ed agli Efesini, le quali hanno molto in comune tra di loro nel linguaggio, nella concezione di Cristo come capo della Chiesa e vertice del cosmo, nel presentare un codice domestico, cioè norme sul comportamento virtuoso da parte dei componenti la famiglia, e in altro ancora. Lasciatemi citare alcune linee che riflettono qualcosa - mi pare - dell'animo musicale del Papa: "Mentre in Colossesi si legge letteralmente l'invito a "esortarvi con salmi, inni canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori" (3, 16), in Efesini si raccomanda ugualmente di "parlare tra di voi con salmi, inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore" (5, 19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare - dice Benedetto XVI - e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento" (p.157). Benedetto XVI è attaccato a una esegesi dei testi scritturistici sempre storicamente fondata. È una esegesi scientifica, ma anche tutta immersa nella grande Tradizione viva della medesima dottrina, quale ci viene dagli apostoli stessi e, senza soluzione di continuità, dai Padri della Chiesa, ed essa è utile, anzi necessaria "per introdurci nella comprensione delle Scritture e cogliervi la voce di Cristo" (p. 169).
(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)


«La vita è uguale per tutti» di Paola Binetti - Le ragioni laiche per opporsi all'eutanasia - Viene presentato il primo luglio presso l'Istituto Luigi Sturzo a Roma il volume di Paola Binetti La vita è uguale per tutti. La legge italiana e la dignità della persona (Mondadori, Milano, 2009, pagine 132, euro 14). Tra gli interventi è previsto quello dell'arcivescovo Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. - di Laura Palazzani – L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009
Sono molti i fatti di cronaca che hanno sollecitato l'opinione pubblica, oltre agli esperti del settore, a porsi interrogativi sulle questioni etiche e giuridiche relative al fine vita. I casi di Terri Schiavo, Piergiorgio Welby e Eluana Englaro hanno interpellato le nostre coscienze e messo concretamente in evidenza davanti ai nostri occhi la problematicità della questione bioetica del rifiuto delle terapie. È lecito staccare il respiratore artificiale a un malato di sclerosi laterale amiotrofica, completamente paralizzato, ma capace di manifestare la propria volontà e di dare il consenso informato? È lecito sospendere alimentazione e idratazione a un paziente in stato vegetativo persistente? Il volume di Paola Binetti, a partire da una rigorosa ricostruzione di tali casi emblematici, accompagna il lettore alla ricerca di risposte a queste domande ineludibili, complesse, laceranti. Nel testo sono esposte, con chiarezza e profondità, ma anche delicata sensibilità, le ragioni di chi ritiene legittimo, anzi doveroso, il rifiuto delle terapie in nome dell'autodeterminazione individuale, appellandosi al "diritto di morire" quando la vita è ritenuta "non degna di essere vissuta". L'autrice discute criticamente ogni argomentazione delle teorie libertarie e utilitariste che, esaltando autonomia e qualità di vita, legittimano l'eutanasia: a livello psicologico, mostrando che il desiderio di morire nasconde spesso la richiesta di aiuto a lenire le sofferenze e a essere accompagnati nel morire; sul piano etico, giustificando il dovere di vivere (per sé e per gli altri), essendo la vita un dono (in quanto data da altri) e un compito, proiettato verso la società e verso il futuro; sul piano giuridico, evidenziando le contraddizioni della esaltazione di un diritto che, negando la vita, nega la stessa libertà individuale. Intorno al dibattito sul fine vita si gioca oggi lo scontro tra l'individualismo autoreferenziale e l'utilitarismo pragmatico da un lato e la solidarietà sociale dall'altro. Binetti intende mettere in evidenza, in questo libro, quali sono le ragioni laiche che sostengono la fede di chi crede, orientate al riconoscimento della dignità intrinseca della vita umana sino all'ultimo istante e alla giustificazione dell'aiuto a vivere e non invece a morire. Ragioni filosofiche, nella direzione del recupero del senso della vita oltre le spinte volontaristiche e il calcolo utilitaristico; ragioni etiche, che riscoprono nell'uomo la natura relazionale, la propensione alla relazione di cura nei confronti di chi è fragile, vulnerabile e bisognoso; ragioni giuridiche, che richiamano il significato originario del diritto, a difesa della vita e non della morte. In questa cornice teoretica, si possono cogliere - a parere dell'autrice - le chiavi interpretative dei casi di cronaca, che non possono essere vissuti solo emotivamente, ma devono anche indurre a riflessioni critiche razionali. Sospendere idratazione e alimentazione per individui (come Englaro) in stato vegetativo persistente - stato di cui non è dimostrabile scientificamente con certezza la irreversibilità, ma semmai solo la scarsa probabilità di recupero della coscienza - è considerata una "eutanasia omissiva": idratare e alimentare non costituiscono accanimento terapeutico, ossia cure sproporzionate (futili e gravose), ma una assistenza ordinaria dovuta a tutti i soggetti che si trovano in condizioni analoghe. Sospendere la respirazione artificiale a pazienti affetti da malattie neurodegenerative progressive a esito infausto (come Welby) è un'altra forma eutanasica, che mette in evidenza la priorità del volere del paziente rispetto alla responsabilità terapeutica del medico. L'autrice sottolinea, attraverso i casi e l'analisi filosofica, come il "lasciar morire" rimandi a una responsabilità morale, sia per chi desidera morire anticipatamente rifiutando le cure, sia per chi omette di intervenire per salvare la vita, e cioè il medico. Questa linea di pensiero emerge in modo argomentato, critico, dialettico e dialogico nel costante confronto con il pluralismo che investe sia l'ambito scientifico, sia quello etico e giuridico, oltre che politico. Ma l'originalità del volume, oltre all'intreccio tra astrazione filosofica e concretezza casistica, consiste nel metodo di approccio bioetico scelto: un metodo induttivo e narrativo. Con un approccio che non vuole partire dall'enunciazione delle teorie astratte e dalla deduzione logica di principi, ma intende muoversi dalla storia e dall'esperienza delle persone, "mettendosi nei panni degli altri"; che si propone di mettere a fuoco non solo la razionalità dei principi, ma anche la disponibilità d'animo virtuosa, l'impegno personale e attivo ad agire nella concretezza della realtà. Non basta enunciare la solidarietà in senso prescrittivo a priori, fondandola su un solido sistema filosofico che si oppone all'individualismo e all'utilitarismo, ma bisogna praticarla, viverla, sperimentarla in prima persona, a posteriori. Binetti stimola il lettore a comprendere che solo prendendosi concretamente cura degli altri - anche e soprattutto coloro che sono in condizioni di malattia e sofferenza, di dipendenza e debolezza - è possibile superare quella "frettolosa indifferenza" e quella "soffocante solitudine" che caratterizza la società in cui viviamo e che ci allontana dai valori autenticamente umani. Questa è la via che può portare a prevenire l'eutanasia, la richiesta di morire e di essere aiutati a morire: e la politica può dare un contributo nella direzione dell'incremento delle cure palliative - che anche se non guariscono, alleviano il dolore - nella moltiplicazione di luoghi e strutture di assistenza per pazienti in stato vegetativo o in condizioni di malattie inguaribili e per le loro famiglie, nella formazione del personale sanitario e della società al significato della solidarietà, della dedizione all'altro, della cura e del prendersi cura.
(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)


Il paradosso di Michael Jackson - Lorenzo Albacete - mercoledì 1 luglio 2009 – ilsussidiario.net
La scorsa settimana ho iniziato il mio editoriale su Twitter confessando di non saper quasi nulla su come funziona. Ne ho dovuto scrivere perché ha completamente riempito i media americani per giorni e giorni. Questa settimana mi succede la stessa cosa, anche se non ha niente a che vedere con Twitter: questa volta l’argomento che ha dominato in modo assoluto i media negli Stati Uniti è Michael Jackson. Sfortunatamente ne so di Michael Jackson quanto ne so di Twitter (mi chiedo se forse i due soggetti non siano alla fine collegati, entrambi tesi a sfuggire i limiti della biologia, entrambi tentativi di fuggire da una realtà sentita come ostile alla coscienza di se stessi).
Ad ogni modo, per più di metà della settimana scorsa, non è parso esistere per i nostri media niente di più importante che le reazioni alla morte di Michael Jackson. Per quelli che, come me, vedevano in lui nient’altro che un artista musicalmente dotato, anche se un po’ strano, guardando la scorsa settimana la televisione è stato come scoprire un altro pianeta. L’altro giorno, con le notizie sul colpo di Stato in Honduras, è sembrato che forse i media avrebbero smesso di scrutare nella vita pubblica e privata di Jackson per occuparsi di quanto altro stava succedendo in giro per il mondo, ma con le notizie sui funerali la jacksonmania ha ripreso rapidamente il sopravvento.
Michael Jackson era una superstar globale e lo dimostrano le reazioni in tutto il mondo alla sua morte. Tuttavia, penso che le reazioni qui in America siano state diverse da quelle negli altri paesi. Secondo Newsweek Magazine, «Jackson ha scelto- anche con calcolo - di rifare se stesso come un sogno americano di innocenza e desiderio di essere amati». In realtà, Jackson «era essenzialmente uno di quei “puri prodotti americani” che, come scriveva nel 1923 William Carlos Williams “finiscono per diventare matti”».
La gioventù “postmoderna” americana ha vita difficile nel cercare di affermare la sua postmodernità. Perché il problema è trasformare la realtà, invece di semplicemente rifuggirne con un cinico relativismo assolutista. Basti pensare in quanti modi la realtà impatta sulla vita americana: le realtà della razza, del fideismo protestante, del genere, del forte senso di appartenenza alla famiglia, così come la opposta esaltazione dell’individualismo e l’attrazione per il successo economico. Il sogno americano è di mantenere tutto questo e contemporaneamente prescinderne. Il solo modo per farlo è creando un “io” che è tutte queste cose nello stesso tempo. Michael Jackson ne era un’icona: contemporaneamente vittima e carnefice, bianco e nero, profondamente religioso e laicista, maschio e femmina, padre e egoisticamente libero da ogni relazione impegnativa, povero e ultraricco, tutto nello stesso tempo.
Chi era il vero Michael Jackson? É rimasto qualcosa di lui dentro questo strano essere umano che ha, al contempo, costruito e sofferto la sua trasformazione in una postmoderna icona americana? Per chi di noi crede in Cristo, il vero Michael Jackson non potrà mai essere distrutto e lo affidiamo alla misericordia di Dio. E, di fronte a Jackson, icona di un dio postmoderno americano, noi preghiamo per coloro che stanno ancora cercando il vero Uno.


IRAN/ Aslan: in atto un colpo di stato, Ahmadinejad ha perso la sua legittimità - INT. Reza Aslan - mercoledì 1 luglio 2009 – ilsussidiario.net
La protesta in Iran grazie ai mezzi di comunicazione dei social network è diventata un fenomeno globale, anche se il regime di Ahmadinejad è riuscito ad impedire che i media tradizionali documentassero quanto accade a Teheran. IlSussidiario.net ha raggiunto intellettuali e dissidenti in varie parti del mondo. Intervista il dott. Reza Aslan, professore e membro del Council on Foreign Relations negli Usa.
Dottor Reza Aslan stiamo assistendo alla caduta della teocrazia iraniana? Ossia, non tanto che il regime stia per collassare, ma che l’ideologia fondante il governo iraniano, il Velayat-e Faqih (governo dei giuristi), stia per fallire perdendo la sua legittimità.
Prima di tutto penso che sia incorretto riferirsi all’Iran come a una teocrazia. In realtà la Repubblica Islamica è un sofisticato regime costituzionale che, almeno a livello di base, possiede tutte le caratteristiche di una democrazia. L’Arabia Saudita è invece un esempio di teocrazia. Ad ogni modo è assolutamente vero che gli avvenimenti recenti hanno sconvolto in profondità e definitivamente l’ideologia fondante il governo iraniano, creando un problema di legittimità e mettendo in crisi le leggi clericali. Quando la nuova Costituzione è stata emanata nel 1979 sono stati creati due governi paralleli. Un governo principale con forti poteri, eletto secondo la volontà popolare, e un governo non eletto per rappresentare la volontà religiosa. A partire dalla guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) grazie a un emendamento alla Costituzione, si è venuta a creare una situazione per cui il potere del governo religioso ha sovrastato completamente quello popolare. Quello che adesso il popolo e i manifestanti iraniani stanno rivendicando è che si ritorni alle origini della Costituzione della Repubblica Islamica, quando le decisioni del governo eletto incidevano davvero nella vita del Paese.
Dall’attuale sollevazione popolare contro i brogli elettorali, qualunque ne siano i risultati concreti, la repubblica islamica uscirà comunque svuotata della sua legittimità?
Dapprima, Ahmadinejad uscirà rafforzato da questi scontri, nel senso che in Iran stiamo assistendo a uno spostamento dal potere religioso verso quello militare. Ma il nodo della questione è che esiste una differenza tra potere e legittimità. Non c’è dubbio che sia Ahmadinejad che Khamenei hanno perso la loro legittimità di fronte al popolo e alla comunità internazionale. Ne è la prova, il dibattito in corso a Qom (città sacra dell’Iran, ndr) tra i religiosi che stanno cercando di deporre Khamenei.
Fareed Zakaria, affermato conduttore della Cnn, ha recentemente citato una sua dichiarazione sull’ultimo numero di Newsweek: “L’Iran si trasformerà nell’Egitto”. Cosa intende con questo paragone?
Quello che sta spingendo la grande maggioranza della popolazione e alcune alte figure della Repubblica, come Rafsanjani, Khatami e Larijani, a sostenere Moussavi contro Ahmadinejad è la netta comprensione che ciò che è avvenuto in Iran non è nient’altro che un Colpo di Stato. Tutti sono preoccupati che il collante del Governo diventi ora il potere militare e quello politico resti solo di facciata, proprio come in Egitto. Le Guardie rivoluzionarie stanno prendendo a mano a mano tutto il potere. Anche i Mullah sono terrorizzati da questo processo di militarizzazione.
Il Presidente Obama ha recentemente dichiarato che per l’Occidente, tra Moussavi o Ahmadinejad, non ci sarebbe una sostanziale differenza, in quanto entrambi concordano con la prosecuzione del programma nucleare a scopi militari e il finanziamento di Hamas ed Hezbollah in Libano e Palestina. Lei come risponde?
Credo che con questo commento Obama abbia commesso un errore, anche se pochi giorni dopo si è implicitamente corretto con alcune dichiarazioni. Sostenere che per noi non cambierebbe molto se Moussavi fosse Presidente al posto di Ahmadinejad è come dire che non c’è molta differenza tra Obama e McCain nel modo in cui supportano Israele. Entrambi vedono in Israele un alleato irrinunciabili, ma vi è una profonda differenza nel modo in cui portano avanti queste relazioni. Moussavi rappresenterebbe davvero una grande opportunità, con un Presidente come Obama, per aprire l’economa iraniana verso gli Stati Uniti e potenzialmente risollevarla. Sulla bomba atomica i rapporti della C.I.A evidenziano chiaramente che dal 2003 il programma nucleare iraniano per scopi militari si è fermato e non è più ricominciato. Bisogna inoltre ricordare che il Presidente dell’Iran non ha voce in capitolo su questo argomento e la Guida Suprema impone la sua decisione. È altrettanto vero che, oggi come oggi, nessuno può più impedire all’Iran di procedere con il programma di arricchimento dell’uranio. Anche Obama ha riconosciuto questa realtà. Quello che possiamo fare è fermare la ripresa dell’utilizzo militare di questo processo. Secondo tutti gli esperti e i servizi segreti, tranne quelli israeliani, ci vogliono ancora dai tre ai sette anni prima che l’Iran arrivi a possedere un ordigno nucleare. Sfortunatamente, avendo interrotto i dialoghi con l’Iran per tutto l’arco di tempo delle due passate amministrazioni, gli Stati Uniti hanno regalato all’Iran ben otto anni per continuare tale arricchimento. Abbiamo ancora molto tempo per dialogare con l’Iran, ma ora che Ahmadienjad ha perso completamente la sua legittimità sarà molto più difficile per Obama intavolare un dialogo proficuo.
Comunque andrà a finire questa fase della protesta iraniana, si avranno ripercussioni sugli equilibri in Medioriente?
L’Iran è indubbiamente una nuova superpotenza in Medioriente. Possiede un’enorme influenza in Iraq, in Afghanistan, sul Libano e la Palestina. Gli obiettivi degli Stati Uniti nel Medioriente, il ritiro delle truppe dall’Iraq e la pace tra Israele e Palestina, non sono raggiungibili senza il consenso del governo di Teheran. Solo un accordo con l’Iran può preservare la sicurezza di noi tutti. Ora sarà alquanto difficile realizzare il complicato piano di stabilizzazione americana per il Medioriente. L’Iran continuerà a sponsorizzare Hamas e Hezbollah fino a quando si sentirà minacciata da un attacco israeliano. Con una vittoria di Moussavi sarebbe stato molto più facile convincere Israele che non ci sarebbe stato da temere un attacco da parte iraniana.
Pensa che la protesta studentesca possa riprendere con più vigore in autunno?
La sollevazione sta continuando, ma in autunno si rafforzerà. Probabilmente con l’occupazione di alcune facoltà universitarie e con l’organizzazione di scioperi. Siamo molto lontani dalla fine della protesta. La rivoluzione iraniana del 1979 era iniziata nel Gennaio del ‘78 con molti alti e bassi. Ci è voluto un anno prima che riuscisse a vincere.
La variegata composizione etnica della popolazione iraniana potrebbe influire sulla situazione attuale?
I curdi al Nord e i sunniti al Sud negli ultimi dieci anni hanno indubbiamente contrastato le autorità e creato seri disturbi al governo iraniano. Stranamente, durante queste proteste le minoranze etniche non hanno agito. Se inizieranno a unirsi alle proteste, e ci sono molti dati che indicano che questo potrebbe accadere, sarebbe davvero un problema per il governo che si troverebbe impegnato su due fronti.
(Mattia Sorbi)


SENZA CONFORMISMI - FEDE ADULTA IL CONTROPIEDE DI BENEDETTO - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 1 luglio 2009
Siamo tutti d’accordo: ci vuole un bel coraggio per essere anticonformisti, ma attenzione alle apparenze. Que­st’affermazione oggi vive infatti un sin­golare rovesciamento concettuale, del quale è bene prendere coscienza. Il conformismo che si va stendendo co­me una glassa dolciastra sulla cultura diffusa non è certamente costituito da verità inossidabili – semmai dipinte co­me zavorra di un passato 'ideologico' – ma sembra piuttosto una miscela di opinioni impalpabili e fluttuanti fatte passare ormai come unica moneta spendibile nel confronto pubblico.
Il pulviscolo delle idee tutte equivalen­ti, nessuna delle quali può permettersi una qualsiasi pretesa di verità, oscura la vista come una nebbia e consiglia sot­tilmente di attestarsi attorno a un pen­siero minimo, magari banale e ovvio ma difficilmente soggetto a smentite pla­teali, su cui si può star certi che non si avranno noie. Tutti d’accordo su una ra­gionevolezza apparente, e guai a chi sto­na. Eccola, allora, la vera impresa per intelletti coraggiosi: risalire la torren­ziale cascata dei luoghi comuni, che e­rode ogni punto fermo ed esalta l’u­niformità del pensiero medio. Sfidare la caduta libera dell’intelligenza, per mettere in sicurezza l’umano.
Al noioso conformismo dei nostri tem­pi, più paralizzante delle sabbie mobi­li, deve aver pensato Benedetto XVI quando domenica sera, nell’omelia con la quale ha chiuso l’Anno Paolino, ha tratteggiato con parole memorabili la figura del cristiano animato da una «fe­de adulta»: definizione logora e stanca, che il Papa ha bonificato una volta per tutte del suo retrogusto contestativo re­stituendola alla lettura vigorosamente evangelica impressa da san Paolo in persona quando – scrivendo agli Efesi­ni – mise in guardia dal restare come «fanciulli in balia delle onde, trasporta­ti di qua e di là da qualsiasi vento di dot­trina ». Niente di più attuale. Lo «slogan diffuso» – sono parole del Papa – dipin­ge oggi come «matura» la fede del cat­tolico che «non dà più ascolto alla Chie­sa e ai suoi pastori ma sceglie autono­mamente ciò che vuol credere e non credere», e che ha il «'coraggio' di e­sprimersi contro il magistero della Chie­sa ». Bel coraggio davvero, questa «fede 'fai da te'»: uno zapping religioso e mo­rale che odora di consumismo adole­scenziale più che di 'maturità' co­sciente di sé. Con sottile ironia, Bene­detto annota che a contestare la Chie­sa «in realtà non ci vuole del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso». Battuta impagabi­­le, che da sola fa giustizia delle sfibran­ti ovvietà di chi alla vigilia dell’encicli­ca sociale dà per rottamata la 'questio­ne antropologica': come se un pro­nunciamento pensionasse tutti gli al­tri. Il Papa rimette al suo posto ciò che fa 'grande' un credente enumerando che «fa parte della fede adulta, ad e­sempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo mo­mento » e «riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vi­ta come ordinamento del Creatore». Lo spieghiamo anche ai nostri figli: adulto è – o diventa tale – chi sa dire qualche no che gli costa, chi «non si lascia tra­sportare qua e là da qualsiasi corrente», chi «s’oppone ai venti della moda». Questi tratti inconfondibili di una per­sonalità formata – e nessun pedagogi­sta oserebbe smentirlo – sono gli stessi che nelle parole papali svelano una fe­de matura, consapevole che «questi venti – come ci ricorda ancora Bene­detto – non sono il soffio dello Spirito Santo» ma altre brezze che spingono su una rotta diversa da quella di Cristo. Che occorra ardimento nel percorrerla tra gli applausi generali è davvero comico sostenerlo, eppure – fateci caso – è quel­lo che ogni giorno ci viene ripetuto.
Per fortuna, di anticonformisti veri al­meno uno siamo sicuri di averlo in­contrato. Ed è là, al timone che fu di Pietro.


Roccella: no all’educazione sessuale a scuola - Il sottosegretario replica alla proposta della Sigo: per i ragazzi fondamentale il ruolo delle famiglie – Avvenire, 1 luglio 2009
ROMA. Considerare l’educazione sessuale come quella fisica e quindi da trattare come una qualsiasi materia scolastica da insegnare ai ragazzi per restare in salute. È questa la sconcertante posizione della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), che sull’argomento si è detta favorevole alla distribuzione dei contraccettivi nelle scuole superiori, così come proposto da una mozione della Provincia di Roma, ma a patto che questa misura venga accompagnata anche da corsi di educazione sessuale. E la proposta verrebbe avvalorata, secondo la Sigo, dal fatto che in Italia crescono le under 14 che chiedono il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza mentre le malattie sessualmente trasmissibili sarebbero in forte crescita. L’idea di introdurre a scuola corsi di educazione sessuale è stata bocciata senza mezzi termini dal sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella. «L’educazione sessuale non può avere un’ora come fosse una semplice materia, altrimenti si ricade nella convinzione che esiste il sesso come una cosa a sé stante – ha spiegato Roccella a margine del convegno “Educazione sessuale, nuovi attori per nuovi bisogni” – io penso dunque che l’educazione sessuale debba essere familiare fermo restando che non la chiamerei così perché stiamo parlando di una cosa complessa che fa parte dell’educazione alla responsabilità e all’affettività». Il problema casomai, ha aggiunto, «è che bisogna aiutare i genitori ad educare, fornendogli strumenti.
Perché sono loro ad essere responsabili di questo».
A questo proposito, ha detto, «credo che si possa fare attività di counseling sul territorio rivolte ai genitori, perché il nostro obiettivo deve essere quello di potenziare le capacità della famiglia». Riguardo invece al fatto che l’educazione sessuale sia obbligatoria a scuola in gran parte dei Paesi europei.
Roccella spiega che «l’Europa non sta meglio di noi, anzi guardando i dati sta peggio come gravidanze giovanili, sul numero di aborti di minorenni e sull’uso indiscriminato della pillola del giorno dopo». Per il sottosegretario in conclusione, «più si fanno politiche in questa direzione più i dati negativi aumenteranno».