mercoledì 29 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)SEDICI ANNI , DISABILE TOTALE , HA LASCIATO UN SEGNO FORTE - La piccola grande storia di Andrea: «Benedetta la mia nascita...» - Avvenire, 29 luglio 2009
2)Il Movimento per la Vita chiede all’AIFA di bloccare la Ru486 - Lettera di Carlo Casini all’Agenzia del farmaco - di Antonio Gaspari
3)“Caritas in veritate” nell’attuale dibattito filosofico-sociale - Intervista al filosofo Rodrigo Guerra López - di Jaime Septién
4)Dietro una citazione del cardinale Bertone - Il capitalismo di Gordon Gekko - di Emilio Ranzato – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009
5)Nel nord del Paese riprendono gli attacchi di matrice fondamentalista islamica - Una chiesa data alle fiamme nei nuovi scontri in Nigeria – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009
6)Dopo la serie di atti vandalici ai danni di alcune chiese a Barcellona - Dal cardinale Martínez Sistach un appello alla libertà religiosa – L'Osservatore Romano, 29 Luglio 2009
7)Obama e l'America in bianco e nero - Lorenzo Albacete mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)SOCIETA’/ Dagli Usa la SuperMamma che mette in scacco i laicisti benpensanti - Carlo Bellieni mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
9)LETTERATURA/ Cercare la bellezza e trovare la verità, il ritratto di Oscar Wilde - INT. Paolo Gulisano mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
10)GATES, SCHMIDT E IL TEMPO RISUCCHIATO IN RETE - Quando l’accesso diventa eccesso - GIUSEPPE O LONGO – Avvenire, 29 luglio 2009
11)«Così Giussani ci guidava alla scoperta del Mistero Quelle vacanze erano un anticipo di paradiso» - Guido Castelli (Università Cattolica): la montagna aiuta a scoprire la bellezza come qualcosa di gratuito «Quel panorama sul Diavolezza che mi lasciò senza parole» - Avvenire, 29 luglio 2009
12)Scienza atea, una illusione - INTERVISTA. Roberto Timossi ha condotto una vasta decostruzione delle teorie scientifiche che negano Dio, da Dawkins a Odifreddi - DI ANDREA GALLI – Avvenire, 29 luglio 2009


SEDICI ANNI , DISABILE TOTALE , HA LASCIATO UN SEGNO FORTE - La piccola grande storia di Andrea: «Benedetta la mia nascita...» - Avvenire, 29 luglio 2009
Caro Direttore, Andrea Gentili era uno splendido sedicenne di Forlì, nato con una disabilità del 100%. Una disabilità tanto vasta da impedirgli anche i movimenti più semplici, il vedere e il parlare. Andrea era una roccia. Fragilissimo il suo corpo, inscalfibile il suo animo. Sedici anni vissuti intensamente insieme alla sua meravigliosa famiglia, con i suoi affezionatissimi tre fratelli. Andrea si è spento lo scorso 13 luglio.
Grazie alla comunicazione facilitata con un computer, l’unico sistema tramite il quale Andrea poteva esprimersi, scriveva: «Io penso: chiunque mi sta a chiedere come mi sento, io, difettoso nel corpo ma non nella mente e nel cuore, io rispondo: chi può dirlo fra noi chi è più felice?».
In quante circostanze ci si arrovella a discettare sul concetto di 'qualità della vita' e di efficienza, e materialisticamente obliamo come queste categorie non sono altro che gabbie mentali, che vincolano e stritolano le vere esigenze del cuore di ciascuno che trascendono qualsiasi male fisico o handicap insanabile: la gioia di amare ed essere amato, incondizionatamente, anche e soprattutto se diabile, deforme nell’aspetto, impedito a ogni movimento. La disabilità, per 'violenta' che possa essere, non è mai la 'risposta' che nega senso alla vita di un uomo.
Scriveva Andrea: «Decisamente benedetta la mia nascita. Non un giorno solo ho pensato che sarebbe stato meglio non essere nato...
Preferisco dire che la benedetta mia nascita ha portato tanta sofferenza in me e anche per i miei, anche se io ho chiesto a Dio di essere sempre un tocco di speciale dono per chi ama. Grato sono alla vita e voglio che si sappia.
Lotta, sì, ma con mèta il cielo e la nostra grande anima da coltivare». E che Andrea sia stato un dono non è in discussione. Sedici anni «mai sentiti come un peso», come dice mamma Gabriella. «Mi sono sentita uno strumento per lui, attraverso il quale è passato Dio senza che ne avessi la piena consapevolezza».
La storia di Andrea Gentili non è passata e non passerà forse mai sotto le luci della ribalta mediatica, come accaduto con studiato clamore in altri casi, ma sono questi gli esempi di amore cristiano, di caritas allo stato più puro e di misericordia che riempiono il cuore. La mentalità eutanasica, che minaccia nel nostro tempo l’indisponibilità e la sacralità della vita, deve arrendersi dinanzi al traboccare potente di questo amore. Niente può sminuirlo e avvilirlo, proprio come nulla ha mai svilito la vita «da protagonista, senza alcuna pretesa», come ricorda un amico, di Andrea.
Roccia e vero testimone di Cristo, in mezzo a noi.
Matteo Saccone, Forlì


Il Movimento per la Vita chiede all’AIFA di bloccare la Ru486 - Lettera di Carlo Casini all’Agenzia del farmaco - di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 28 luglio 2009 (ZENIT.org).- Questo martedì, il Presidente del Movimento per la Vita (MpV), Carlo Casini, ha scritto e inviato una lettera all’Agenzia del Farmaco (AIFA) per chiedere il ritiro in “via cautelativa” della pillola abortiva Ru486.

Nella lettera il Presidente del MpV sottolinea che sarebbero 29 “le donne decedute a seguito dell’assunzione della Ru486”, una cifra che “suscita un allarme ancor più intenso” rispetto al dato finora accertato di 16 donne decedute.

Inoltre Carlo Casini riporta i pareri dei presidenti di sei federazioni regionali del Movimento per la Vita (Piemonte, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Puglia) insieme a quelli forniti dalle Amministrazioni regionali, secondo cui le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) effettuate mediante la Ru486 a titolo sperimentale “hanno determinato la necessità frequente di un intervento chirurgico di svuotamento uterino”.

Il Presidente del MpV riporta di testimonianze di donne che, “sottoposte a Ivg chimica, hanno avuto problemi di sofferenza psicologica per effetto di un aborto realizzatosi con una certa durata temporale e con la possibilità per la madre di vedere il prodotto del concepimento”.

“Pertanto – sottolinea Carlo Casini – chiediamo all’AIFA di volerci fornire urgentemente chiarimenti del caso”.

E’ noto infatti che più volte l’Agenzia Italiana del Farmaco ha disposto il ritiro in via cautelativa dal commercio di prodotti sanitari a seguito di riscontrate complicazioni, talvolta modeste, rare o, addirittura, soltanto temute.

“Ricordo, in particolare - ha rilevato Casini - tra i casi più recenti a me noti, quelli del vaccino anti-morbillo-parotide-rosolia MORUPAR e quello del medicinale indicato come sedativo della tosse SILOMAT”.


“Caritas in veritate” nell’attuale dibattito filosofico-sociale - Intervista al filosofo Rodrigo Guerra López - di Jaime Septién
QUERÉTARO, mercoledì, 22 luglio 2009 (ZENIT.org).- L’enciclica sociale di Benedetto XVI “Caritas in veritate” supera gli ambiti del sapere quali la politica, l’economia o le teorie sulla globalizzazione, per entrare pienamente nel dibattito filosofico-sociale contemporaneo, spiega un filosofo.

Per approfondire queste intuizioni contenute nel nuovo documento pontificio, ZENIT ha intervistato Rodrigo Guerra López, laureato in filosofia presso l’Accademia Internazionale del Principato del Liechtenstein, membro della Pontificia Accademia per la vita, e direttore del Centro de Investigación Social Avanzada (www.cisav.org).

Tra i suoi libri figurano “Volver a la persona” (Madrid 2002); “Católicos y políticos: una identidad en tensión” (Bogotá 2005) e “Como un gran movimiento” (México 2006). Recentemente è stato pubblicato il libro “Vida humana y aborto” (México 2009) di cui è coautore.

Come si colloca l’enciclica “Cartas in veritate” nel dibattito filosofico-sociale contemporaneo?

Rodrigo Guerra: La nuova enciclica del Papa non si propone di competere al pari delle analisi sociologiche sullo sviluppo nel contesto del mondo globalizzato. “Caritas in veritate” si inserisce invece nella discussione, sulla base della Dottrina sociale della Chiesa. Questo significa che la sapienza pratica nata dall’incontro con Cristo permette di formulare un giudizio sulle condizioni che rendono possibile lo sviluppo e sulle disfunzioni che l’attuale globalizzazione presenta.

Ampliando un poco i concetti, potremmo dire che Papa Benedetto XVI offre una “teoria critica della società”, ovvero una revisione di alcuni dei più importanti presupposti che sottendono l’attuale configurazione del mondo globale. A differenza delle altre “teorie critiche”, Benedetto XVI non colloca il nucleo della questione nella capacità dell’essere umano di auto-redimersi e di auto-emanciparsi.

Al contrario, la dimensione costitutiva del criterio di giudizio utilizzato dal Papa è dato da una precisa antropologia in cui ogni sostanza del “io” si riconosce come dono, come regalo, e pertanto come apertura relazionale verso il Fondamento, verso Dio che sostiene e che libera. In questo modo, Benedetto XVI insiste sul fatto che “l’uomo non si sviluppa con le sole proprie forze” (n. 11), ma ha bisogno di un orizzonte più ampio di quello a cui può accedere da solo. Un orizzonte in cui c’è Cristo, ovvero l’Avvenimento che ci precede.

Che rapporto c’è tra l’enciclica “Caritas in veritate” e il resto del Magistero di Benedetto XVI?

Rodrigo Guerra: “Caritas in veritate” poggia proprio sul riconoscimento del Cristianesimo come “Avvenimento” e per questo possiede un legame strutturale con “Deus caritas est”, con “Spe salvi” e in generale con la già millenaria tradizione ecclesiale che riconosce l’assoluta novità dell’irruzione e permanenza di Cristo nella storia. In questo modo, la nuova enciclica fa continuamente riferimento all’importanza del “dilatare l’orizzonte della ragione”, perché senza riduzionismi possiamo aprirci alla verità in generale e quindi anche alla Verità incarnata.

In questo senso, “Caritas in veritate” non è un documento secondario nell’insegnamento del Papa, ma è il completamento di un cammino avviato con il discorso di Ratisbona e che è proseguito nei suoi molteplici interventi sulla necessità di stabilire un nuovo rapporto tra fede e ragione. Questo cammino è lungi dall’essere di natura meramente teorica, ma è portatore proprio di una grande novità e pertinenza esistenziale e sociale, dovuto al fatto che si fonda sul carattere “performativo” che il Cristianesimo possiede: il Cristianesimo è un fatto che incide nella vita e che promuove realmente lo sviluppo nella dignità. Per questo il Papa coraggiosamente segnala al numero quattro dell’enciclica che “l’annuncio di Cristo è indispensabile per un vero sviluppo umano”.

L’enciclica "Caritas in veritate" scommette sul riorientamento della globalizzazione perché serva concretamente allo sviluppo delle persone e dei popoli: questo è effettivamente possibile?

Rodrigo Guerra: La storia recente ha dimostrato che non è possibile pensare di costruire l’ordine nazionale e internazionale sulla base di premesse puramente strumentali relative allo Stato e al mercato. La globalizzazione, così come è oggi definita, divora i propri creatori.

Per questo è razionale e ragionevole pensare che la via per correggere il cammino della globalizzazione consista nell’introduzione di una logica diversa da quella fondata sulle leggi della domanda e dell’offerta. Questa nuova razionalità ha come elemento essenziale la gratuità, la responsabilità sociale, l’equa redistribuzione della ricchezza, la capacità di creare nuove forme di impresa.

Oggi esistono esperienze importanti in materia di commercio equo, microfinanza, economica solidale e di comunione, che dimostrano che questo cammino non solo è possibile ma è necessario. La globalizzazione non modificherà il suo profilo se non attraverso persone concrete che siano capaci di rimodellarla. Per questo è necessario un nuovo pensiero economico e una nuova capacità di incidere a livello locale, nazionale e globale.

L’autonomia dell’economia non è rimessa in discussione alla luce del pensiero di Benedetto XVI?

Rodrigo Guerra: Giustamente, le economie che oggi stanno fallendo, hanno difficoltà ad ammettere al loro interno orientamenti di natura morale. Questo è un errore epistemologico importante: l’economia ha la libertà come dimensione costitutiva della propria natura. Per questo, un’economica autenticamente umana e autenticamente autonoma non può che essere essenzialmente etica. È assurdo che una teoria del valore nell’economia prescinda dall’esistenza di valori morali!

I diversi tipi di valore sussistono nell’esperienza e possono essere riconosciuti dalla ragione pratica, che è il tipo di ragione prevalente nell’attività economica. Per questo Benedetto XVI recupera una potente intuizione di Giovanni Paolo II: ogni decisione di investimento, di produzione o di consumo possiede una ineludibile dimensione morale. Subordinare o cancellare questa dimensione, da un lato attenta alla dignità della persona – che è la principale ricchezza di un’impresa e di una nazione – e dall’altro attenta contro la stessa economia in quanto tale.

Che importanza ha lo Stato e l’azione politica alla luce della nuova enciclica?

Rodrigo Guerra: Il Papa esplicitamente si dice preoccupato degli elementi che caratterizzano lo Stato come uno “Stato sociale”. In questo senso avverte che una riduzione irresponsabile delle competenze dello Stato può condurre a una violazione dei diritti dei lavoratori. Questo tipo di considerazioni ci mostrano che la comprensione cattolica della politica non si identifica univocamente con lo Stato liberale né con la mera presenza di certe élites cristiane nei luoghi di potere.

L’azione politica deve recuperare un senso sociale che mai avrebbe dovuto perdere. “Senso sociale” non significa solo “politiche sociali” più profonde e solidali, ma significa portare nel cuore una decisa opzione preferenziale per i poveri e gli emarginati. Per questo, una vera collaborazione nell’organizzazione e gestione del bene comune si misura più in termini di sviluppo che di successo elettorale, più in termini di servizio ai più deboli che di attivismo.

Quali sono le cause profonde del sottoviluppo, secondo Benedetto XVI?

Rodrigo Guerra: Il Papa, al numero 19 di “Caritas in veritate”, dice che le cause del sottosviluppo sono essenzialmente due: la mancanza di fraternità e la mancanza di pensiero. D’altra parte “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”. Finché non si comprende che la carità, il perdono e la riconciliazione sono metodi dell’azione politica ed economica, non si riuscirà a progredire come persone e come società. In questo senso, il Papa constata l’assenza di autentici pensatori capaci di generare un nuovo umanesimo sociale e politico. Senza un pensiero rigoroso, capace di concentrarsi sulle cose, l’azione politica ed economica rimane senza senso, senza direzione, come puro attivismo che non trascende gli interessi meschini della ricerca del potere per il potere.

Il Papa insiste sulla necessità di una nuova autorità mondiale. Non è un qualcosa di molto pericoloso? Non si rischia di cadere in un nuovo totalitarismo su scala planetaria?

Rodrigo Guerra: La Chiesa è pienamente consapevole dei rischi insiti in un nuovo ordine politico, economico e giuridico per il mondo globalizzato. Tuttavia, non è possibile assicurare governabilità alla globalizzazione se non si iniziano a costruire le basi per una nuova civilizzazione, per una nuova Res publica mondiale, che non deve essere un super-Stato totalitario, ma un nuovo modo di costruire relazioni internazionali, sulla base di una “grammatica dell’azione” – come diceva Wojtyla – ovvero sulla base di un nuovo “diritto delle genti” di natura giuspersonalistica.

Chi è chiamato a mettere in pratica l’insegnamento dell’enciclica “Caritas in veritate”?

Rodrigo Guerra: La “Caritas in veritate” è destinata a tutti i cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà. D’altra parte, come ogni insegnamento corre un rischio: quello della riduzione del suo contenuto ad indicazioni meramente formali o astratte. È facile eludere la responsabilità personale e istituzionale, e pensare che l’insegnamento del Papa è “mera ispirazione” o che sia destinato “agli altri”, ma non a “noi”.

Per questo mi permetto di segnalare qualcosa che non finisce di stupirmi: i vescovi latinoamericani, nel documento di “Aparecida” hanno affrontato praticamente tutti i temi essenziali dell’enciclica, in un modo provvidenzialmente anticipatorio. Seguendo l’insegnamento del Papa, hanno inoltre riconosciuto con grande forza che il Cristianesimo è Avvenimento, scuola di discepolato e esperienza di comunione.

In altre parole, perché l’enciclica possa essere messa in atto, prima ancora di un “piano strategico” abbiamo bisogno di recuperare le fondamenta del metodo cristiano. Solo così potremo mostrare che la fede genera movimento, creatività e impegno solidale. Solo così torneremo a far vedere che il “soggetto” della Dottrina sociale della Chiesa esiste e, in quanto esiste, agisce.


Dietro una citazione del cardinale Bertone - Il capitalismo di Gordon Gekko - di Emilio Ranzato – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009

Greed is good, greed works: "l'avidità è buona, l'avidità funziona". Sono parole di Gordon Gekko, il personaggio intepretato da Michael Douglas - e che fruttò all'attore anche un premio Oscar - nel film Wall Street (1987). Come già avvenuto per Platoon, il regista Oliver Stone mette in scena una storia che in qualche modo lo riguarda, essendo stato suo padre un broker finanziario di un certo successo. E come nel suo film sul Vietnam la denuncia per la perdita di giovani vite lascia spesso il posto a barlumi di eroismo e patriottismo, anche qui l'accusa al capitalismo non è generalizzata, ma indirizzata a situazioni e personaggi ben circoscritti.
La distinzione tra bad e good capitalism, del resto, attraversa tutta la storia del cinema americano (non è un caso che Douglas nella sua frase più celebre citi involontariamente uno dei primi capolavori di Hollywood, Greed di Erich von Stroheim): al senso di meraviglia e di paura nei confronti delle metropoli, tipica della sensibilità anni Venti - perfettamente sintetizzata da film come La folla di King Vidor - fa seguito il cinema del dopo crack finanziario, permeato dagli stati d'animo contrastanti dell'aspra critica nei contronti di un sistema economico che ha perso di vista le sue finalità umanistiche, e della voglia di rinascita ispirata ai valori di solidarietà roosveltiana.
Un dissidio che sul grande schermo vede in Frank Capra il suo cantore per eccellenza: da La follia della metropoli a È arrivata la felicità, a L'eterna illusione, il regista d'origini italiane e il suo fedele sceneggiatore Robert Riskin cercano di dimostrare, in forma drammaturgica, come sia possibile conciliare libero mercato e attenzione per i più deboli.
Nel solco di questa tradizione, il film di Stone non organizza un attacco frontale all'iniziativa individualista - allo spietato squalo agente di borsa, in fondo, contrappone un pesce piccolo che poi tanto piccolo non è, essendo a capo di una compagnia aerea - ma se nei primi anni Trenta criticare il sistema economico dei grandi banchieri era come sparare sulla Croce Rossa, nel 1987 la cosa non era altrettanto scontata.
Al di là di meriti strettamente cinematografici non eccelsi, è proprio questa capacità di cogliere l'attimo - che tra l'altro gli permise di anticipare di pochi mesi un altro crollo della Borsa di New York - a fare di Wall Street una sorta di instant-movie, la cui importanza non può che risultare scemata nel passaggio oltreoceano, ma che rivisto oggi dice ancora qualcosa di vero e di preoccupante sul mondo finanziario internazionale del passato prossimo.

(©L'Osservatore Romano - 29 luglio 2009)


Nel nord del Paese riprendono gli attacchi di matrice fondamentalista islamica - Una chiesa data alle fiamme nei nuovi scontri in Nigeria – L'Osservatore Romano, 29 luglio 2009

Bauchi, 28. Anche una chiesa è stata data alle fiamme nei disordini di matrice fondamentalista islamica riesplosa nelle ultime ore nel nord della Nigeria. A meno di otto mesi dalle violenze che provocarono centinaia di morti a Jos, sono almeno altre centocinquanta le vittime registrate tra sabato e ieri negli Stati settentrionali nigeriani di Yono, Kano, Bauchi e Borno. In quest'ultimo è stata appunto incendiata una chiesa a Gamboru-Ngala.
Le tensioni non hanno abbandonato dunque il nord della Nigeria. Riportiamo di seguito un elenco in ordine cronologico dei principali episodi di violenza religiosa ed etnica in Nigeria, Paese costituito da almeno duecento gruppi etnici e diviso circa a metà tra musulmani e cristiani.
Nel 2000 migliaia di persone sono state uccise nel nord della Nigeria quando non musulmani, contrari all'introduzione della legge della sharia islamica, combattevano contro i musulmani che ne chiedono l'applicazione nello Stato settentrionale di Kaduna.
Nel settembre 2001, la violenza divampò dopo le preghiere dei musulmani a Jos. Vennero incendiate chiese e moschee. Secondo la relazione presentata nel 2002 da una commissione istituita dal Governo dello Stato di Plateau, negli scontri rimasero uccise almeno 915 persone.
Nel novembre 2002 almeno 215 persone morirono nei disordini scoppiati nella città settentrionale di Kaduna in seguito a un articolo che scherniva il profeta Maometto.
Nel maggio 2004 centinaia di persone, per la maggior parte Fulani musulmani, furono uccisi dalla milizia Tarok nella città di Yelwa, nella Nigeria centrale. I sopravvissuti raccontarono di aver seppellito 630 cadaveri. La polizia parlò di "centinaia di persone" uccise.
Più tardi, in questo stesso mese, alcuni militanti musulmani e cristiani si confrontarono in maniera cruenta nelle strade della città settentrionale di Kano. I leader della comunità cristiana affermarono che vennero uccise circa seicento persone, per la maggior parte cristiani, nei due giorni di sommosse da parte dei musulmani.
Nel febbraio 2006 ci furono 157 morti in una settimana di sommosse. Le violenze iniziarono nella città nord-orientale di Maiduguri, quando la protesta musulmana contro alcune vignette satiriche sul profeta Maometto sfuggì di mano. Seguirono al sud diversi attacchi per vendetta.
Nel novembre 2008 scontri tra bande scatenate da una contestata elezione alla presidenza del Governo locale, provocarono la morte di almeno 400 persone nella città centrale di Jos. In quella circostanza alcune chiese e moschee vennero date alla fiamme.
Il 22 febbraio 2009, un giorno dopo gli scontri nei quali rimasero uccise 11 persone, il governatore dello Stato di Bauchi impose il coprifuoco notturno alla città. Negli scontri almeno 28 persone rimasero gravemente ferite e molte abitazioni , chiese e moschee vennero date alle fiamme.
Nel luglio 2009 Boko haram, che significa "educazione illegale", dopo l'arresto di alcuni suoi membri, perpetrò degli attacchi nella città nord-orientale di Bauchi. Vennero uccise oltre cinquanta persone e compiuti più di 100 arresti, il che spinse il governatore dello Stato di Bauchi a imporre il coprifuoco notturno nella capitale della regione. Boko haram, che si oppone all'educazione occidentale ed esige che venga adottata la sharia in tutta la Nigeria, minacciò di compiere ulteriori attacchi contro le forze di sicurezza.
Nel febbraio di quest'anno Benedetto XVI aveva ricevuto i presuli della Conferenza episcopale della Nigeria in visita ad limina.
"L'immagine meravigliosa - sono parole del Papa - della Gerusalemme Celeste, la riunione di innumerevoli uomini e donne di ogni tribù, lingua, popolo e nazione redenti dal Sangue di Cristo, vi incoraggi ad affrontare la sfida del conflitto etnico laddove è presente, anche in seno alla Chiesa! Esprimo il mio apprezzamento per quanti di voi hanno accettato una missione pastorale al di fuori dei confini del proprio gruppo linguistico o regionale e ringrazio i sacerdoti e le persone che vi hanno accolto e sostenuto. La vostra disponibilità ad adattarvi agli altri è un segno eloquente del fatto che, quale nuova famiglia di tutti coloro che credono in Cristo nella Chiesa non c'è posto per alcun tipo di divisione".
Benedetto XVI sottolineò l'importante servizio reso alla Nazione dai presuli nigeriani: "Avete mostrato - disse - impegno nel dialogo fra le religioni, in particolare con l'islam. Con pazienza e perseveranza si instaurano forti rapporti di rispetto, amicizia e cooperazione concreta con i membri di altre religioni. Grazie ai vostri sforzi di promotori di buona volontà intelligenti e instancabili, la Chiesa diverrà un segno e uno strumento più chiari di comunione con Dio e dell' unità con l'intera razza umana".
Il Papa rivolse altresì parole di apprezzamento per l'impegno dei vescovi nigeriani a trarre dai principi cattolici analisi illuminanti e anche prassi per tentare di risolvere gli attuali, difficili problemi nazionali.
"La legge naturale - sottolineò - inscritta dal Creatore nel cuore di ogni essere umano e il Vangelo, correttamente compreso e applicato alle realtà politiche e civili, non riducono in alcun modo la gamma di valide opzioni politiche. Al contrario, costituiscono una garanzia per tutti i cittadini di una vita di libertà, con rispetto per la loro dignità di persone e tutela dalla manipolazione ideologica e dall'abuso basati sulla legge del più forte".
"Con fiducia nel Signore, continuate - sono queste le parole conclusive del discorso del Papa ai vescovi nigeriani - a esercitare la vostra autorità episcopale nella lotta contro la corruzione e le pratiche ingiuste e contro tutte le cause e le forme di discriminazione e di criminalità, in particolare il trattamento degradante delle donne e il deplorevole fenomeno dei rapimenti. Promuovendo la dottrina sociale cattolica offrite un contributo leale al vostro Paese e promuovete il consolidamento di un ordine nazionale basato sulla solidarietà e su una cultura dei diritti umani".
Intanto il presidente della Conferenza episcopale tedesca (Dbk), monsignor Robert Zollitsch, arcivescovo di Freiburg im Breisgau, sarà in Nigeria dal 26 agosto al 5 settembre per "rafforzare l'impegno nell'ambito della Chiesa universale e per sostenere la Chiesa locale".
Nel comunicato diffuso dai vescovi tedeschi sono stati annunciati i colloqui con rappresentanti della Chiesa nigeriana, politici e rappresentanti di altre religioni, in cui verranno discusse le sfide che la Chiesa deve affrontare a causa del crescente fondamentalismo religioso, per superare l'ingiustizia sociale e valutare l'impegno della Chiesa per la pace. I vescovi tedeschi vogliono cogliere l'occasione per approfondire le buone relazioni con la Chiesa nigeriana e sostenere l'impegno ecclesiale per la costruzione di una società senza violenza. L'ultimo presidente della Conferenza episcopale tedesca a visitare l'Africa, nel 1995, fu il cardinale Karl Lehmann.

(©L'Osservatore Romano - 29 luglio 2009)


Dopo la serie di atti vandalici ai danni di alcune chiese a Barcellona - Dal cardinale Martínez Sistach un appello alla libertà religiosa – L'Osservatore Romano, 29 Luglio 2009

Barcellona, 28. Una ventina di chiese barcellonesi si sono ritrovate domenica scorsa con pitture offensive sulle facciate; in alcuni casi catene e lucchetti ostacolavano l'apertura delle loro porte. Il fine del gruppo autodenominato "La Gallinaire", di tendenza anarchica, era di evitare la celebrazione del culto domenicale. "Ma non è stata impedita la celebrazione di alcuna messa", ha confermato a "L'Osservatore Romano" il cardinale Lluís Martínez Sistach, arcivescovo di Barcellona. Deplorando profondamente l'accaduto, l'arcidiocesi catalana ha emesso un comunicato sottolineando che "quello alla libertà religiosa e di culto dei cittadini è un diritto fondamentale riconosciuto nella Costituzione spagnola e che il rispetto e la difesa dell'esercizio di tale diritto sono un elemento integrante di una società autenticamente democratica".
Questo tipo di attacchi, comunque isolati, non è esclusivo di Barcellona. "Purtroppo questi fatti accadono un po' ovunque. E di recente si sono verificati anche in qualche altra diocesi spagnola", ha spiegato il porporato. Ha poi affermato che "non conviene dare risalto a simili fatti". Sono invece necessari una maggiore tutela del diritto alla libertà religiosa e anche un rafforzamento dell'educazione a questo valore fondamentale.
L'auspicio del cardinale Martínez Sistach è che "tutti cresciamo nei comportamenti di rispetto reciproco e di tolleranza" e che "non si ripetano i fatti drammatici del passato. Deve crescere nella nostra società un atteggiamento di rispetto di tutti i diritti umani". La violenza di domenica scorsa è stata in effetti motivata dal primo centenario della "Settimana tragica" di Barcellona, espressione che rimanda alle giornate del 1909 in cui furono incendiate numerose chiese cattoliche della città. "Voglia Dio - ha aggiunto il porporato - che tutti sappiamo imparare dal passato per agire nel presente in modo coerente con la nostra fede". (marta lago)

(©L'Osservatore Romano - 29 luglio 2009)


Obama e l'America in bianco e nero - Lorenzo Albacete mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net
È cominciato tutto con un arresto. Il sergente James Crowley della polizia di Cambridge, Massachusetts, ha arrestato Henry Louis Gates Jr. di fronte alla sua casa per “disturbo della quiete pubblica”. Gates è un noto professore afro-americano alla Harvard University ed è convinto che, se fosse stato un bianco, non sarebbe stato arrestato sulla porta di casa.

La polizia era arrivata perché chiamati da una vicina (che lavora nella rivista degli ex alunni di Harvard) che aveva visto due individui che tentavano di entrare nella casa di Gates. La vicina non aveva fatto riferimento ad alcun elemento razziale, ma il rapporto della polizia parla di due neri. In effetti, vi erano due neri che cercavano di entrare nella casa: uno era lo stesso Gates che aveva perso le chiavi dell'abitazione, e l'altro il suo autista.

Il sergente Crowley, che ha un ottimo curriculum per quanto riguarda i rapporti con le minoranze, è stato colpito da quello che definisce un atteggiamento aggressivo di Gates, che era arrabbiato perché attribuiva al suo essere nero il comportamento della polizia.



Così è come e dove la storia è incominciata. Nel giro di pochi giorni continuerà in un'altra casa, la Casa Bianca a Washington, dove Gates e Crowley berranno qualche birra insieme al presidente degli Stati Uniti, il primo afro-americano ad occupare la carica più importante della nazione. Il presidente Barack Hussein (figlio di un musulmano del Kenya) non vuole che la storia finisca, vuole che diventi un “momento di apprendimento” nell'attuale fase delle relazioni razziali in America. Il presidente è rimasto coinvolto nella storia durante una conferenza stampa sulla riforma sanitaria da lui proposta al Congresso (dove ha incontrato opposizione anche all'interno del suo partito, per non parlare dei Repubblicani, che hanno visto nelle preoccupazioni degli americani sui costi del suo programma un'opportunità per tagliare le ali al presidente).

Alla fine della conferenza (che non sembra peraltro aver fugato le preoccupazioni sulla riforma), a Obama è stato chiesto dell'arresto di Gates. Pur ammettendo di non conoscere i dettagli dell'incidente, Obama ha definito «stupido» il comportamento della polizia. I giornalisti hanno subito visto le possibilità offerte da questa risposta e si sono mossi come squali impazziti all'odore del sangue. (Un commentatore che ha seguito la conferenza in TV ha osservato: «O mio Dio! Così finisce la discussione sulla sanità e d'ora in poi la questione sarà la razza!» Aveva ragione).



Tanto più che il presidente è stato costretto ad interrompere l'incontro quotidiano con la stampa alla Casa Bianca per rilasciare personalmente una dichiarazione in cui si diceva dispiaciuto per la scelta delle parole, che si era già scusato telefonicamente con il sergente Crowley e che aveva anche parlato con Gates, apparentemente disposto ad abbassare i toni della polemica.

Entrambi hanno poi accettato l'invito alla Casa Bianca. Diventerà davvero questa storia un “momento di apprendimento”? Se sì, cosa ci insegnerà? Porterà un reale progresso nella tormentata storia delle relazioni tra bianchi e neri negli Stati Uniti o semplicemente apporterà un altro mattone ai discorsi e ai comportamenti politically correct?



Per il presidente Obama questa è un'occasione per mostrare di nuovo i vantaggi del suo metodo “relativismo con certezza”. Sarà interessante vedere cosa succederà.


SOCIETA’/ Dagli Usa la SuperMamma che mette in scacco i laicisti benpensanti - Carlo Bellieni mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Novità sulla supermamma di otto gemelli e di 6 precedenti bambini: sembra che entrerà in un reality. Già l’idea di farsi impiantare figli in alto numero non ci sembrava consigliabile, visti i rischi per la salute sia della donna che dei bambini. Ora, la notizia che la vita quotidiana della famiglia forse diventerà un reality show genera ulteriore apprensione. Questi i fatti: ma attenti ai moralisti! Già, perché certo moralismo laico avrebbe voluto un comportamento politically correct: a) fare al massimo un solo figlio;

b) farlo e buttare via gli embrioni (figli) di troppo;

c) impiantarli tutti (come è successo), ma poi abortirne qualcuno (succede anche questo e non è rarissimo).




Perché avere una famiglia di 14 figli… è “assolutamente riprovevole”, e non disfarsi di quelli “non strettamente voluti” lo è ancora di più!



La plurimamma in vitro fa entrare in crisi i benpensanti laicisti, perché mostra un fatto inaspettato che non si può limitare alle rampogne verso un certo far figli dissennatamente. Il fatto nuovo è questo: oggi l’atto di ribellione più comune e chiaro, nella società della “crescita zero”, del figlio unico (altro che la Cina!), del “figlio quando lo dico io”, e del “figlio perfetto”… è proprio fare figli. Si può arrivare a “usare questo strumento di ribellione” in maniera scomposta, come la signora in questione, ma talvolta la ribellione assume tratti romantici e da guerra partigiana contro la mentalità del potere. Alcune donne, per esempio, resistono alle pressioni di abortire bambini affetti da disabilità, nonostante questo non sia “politically correct”: la ricercatrice e attivista Melinda Tankard Reist ha raccolto una serie di storie su questo tipo di donne nel suo libro intitolato “Defiant Birth: Women Who Resist Medical Eugenics” (ed. Spinifex Press). Talvolta la ribellione diventa irrazionale, come nel caso delle diciassette adolescenti americane che nel 2008 hanno voluto restare tutte insieme incinte, senza rivelare i nomi dei padri del loro bambino, per poter crescere i figli autonomamente e insieme. E’ meno clamorosa la rivolta, ma più diffusa, nel caso del boom di gravidanze adolescenziali in GB: quasi 6 milioni di sterline statali inutili (tra cui quelli per i condom gratis, è notizia di questi giorni): nessun apprezzabile risultato nel ridurre il numero di gravidanze delle teenagers, perché il problema non è "meccanico", ma culturale.



Il punto è che hanno tolto la possibilità di creare una famiglia a chi è giovane, obbligando culturalmente ed economicamente ad aspettare almeno i 30-35 anni; hanno anche insegnato in tanti che la famiglia non è un "bene"; d'altra parte ad ogni angolo di strada, in ogni pagina di giornale, in ogni programma TV chi non fa sesso da piccolo viene trattato come un imbecille.



Cosa volete che succeda? Già: cosa può succedere quando un ragazzo sente dentro la spinta ad una vita fisiologicamente sana per costruire qualcosa di duraturo, ma la parola d'ordine di chi tiene il potere è "sesso sì, figli no!". Pensano che i ragazzi non si ribellino? O che accettino le prediche e i preservativi, nuovo simbolo della sterilità imposta dalla società stanca e opulenta degli adulti che sanno fare prediche ma non sanno dare ragioni?



Insomma, la storia della signora plurimamma ci inquieta ma non ci stupisce: oggi si trasgredisce così.



C’interessa poi il risvolto mediatico della questione: primo, perché nessun media si è reso conto di questo rivoluzionario sistema di contestazione. Se negli anni’60 si contestava con lo spinello, oggi che lo spinello è quasi diventato un diritto bisogna trovare comportamenti alternativi per contestare. Sui media si continua a parlare di trasgressione per i nudi in TV (ma ditemi se c’è una serata TV senza nudi) o per la marijuana (e trovate a stento chi sui media osi parlare contro la tanto decantata liberalizzazione), ma i ragazzi si rendono conto che droga e aborto libero sono gli slogan dei loro “vecchi”, le parole d’ordine di una generazione che loro contestano. Ben altra allora sarà la via per contestare davvero. Forse riprendere a fare figli, e a provare a farli magari qualche anno prima della menopausa.



L’altro risvolto mediatico riguarda i reality. Se ci preoccupa l’ingresso della TV nella privacy di una famiglia, bambini in primis, rilassatevi: c’è di più. Abbiamo assistito a reality in situazioni improbabili, che pretendono di osservare improbabili convivenze, senza ricordare che basta osservare per alterare un ambiente (non parliamo di osservare persone in un ambiente artificiale); ma assistiamo ora anche a Reality in cui dei neonati vengono assegnati a differenti coppie che li alleveranno con modalità educative diverse (la coppia rigida, la coppia permissiva…), oppure altri che vengono affidati a coppie inesperte che li terranno per qualche giorno al posto dei loro genitori (comunque sempre nei paraggi). E ci deve preoccupare una donna con 14 figli? Certo, evitiamo che diventi (lei e i bambini) un fenomeno da baraccone e evitiamo di prenderlo come esempio: molto ci sarebbe da discutere e criticare… e non temiamo di essere contenti che in Italia la legge 40 impedisce cose di questo tipo! Ma in fondo, vedere una mamma che allatta, che ha tanti bambini, e che non “perde la salute!” per via dei figli- come insegna a temere la mentalità comune -, non sarà davvero una paradossale e forse non voluta inversione di tendenza nel mondo dei reality?


LETTERATURA/ Cercare la bellezza e trovare la verità, il ritratto di Oscar Wilde - INT. Paolo Gulisano mercoledì 29 luglio 2009 – ilsussidiario.net

L’arte per l’arte, la vita dissoluta e l’esistenza decadente, il fine eloquio, il dandismo e l’amoralità, l’omosessualità e l’Inghilterra vittoriana; o ancora le commedie, le poesie, gli aforismi e i paradossi, il genio e il talento, i viaggi e la prigionia. Uno pensa ad Oscar Wilde e crede che l’accozzaglia di reminescenze liceali sia sufficiente a rendergli giustizia. Che basti ricordare il titolo di qualche sua opera, alcune note biografiche, e del personaggio si sappia a sufficienza. In fondo, al di là del folklore suscitato dalla sua eccentricità, pare ci sia ben poco da dire. Tutto ciò che si sa di lui, in effetti, è vero. Ma si tratta di particolari. Innumerevoli e (più o meno) esatti. Che pur sempre particolari rimangono. E per questo non ne afferrano l’intima immagine. Quella di un spirito dotato di straordinaria sensibilità e di uno sguardo sulla cose realista, pungente e profondo. Wilde si interpellava sulle questioni ultime, spesso con irriverenza e fare beffardo. E anche nelle opere più leggere, in quelle che - all’apparenza - scrisse solo per divertire, questi interrogativi emergono. «Per tutta la vita cercò la Bellezza e ?nì per incontrare la Verità», sintetizza Paolo Gulisano, autore de Il Ritratto di Oscar Wilde, riferendosi all’«abisso dove incontrò definitivamente Dio». Del «mistero non ancora pienamente svelato» dell’artista, Gulisano ne parla con il Sussidiario.



Lei ha scritto una biografia su Oscar Wilde. Non ce n’erano abbastanza?



Per la verità il panorama italiano è piuttosto sprovvisto di testi su di lui. E quel poco che c’è offre una visione parziale. Per farmi un’idea precisa mi sono avvalso di testi inglesi, in particolare di una biografia monumentale scritta da Richard Elman (Oscar Wilde) e di un’altra, di Joseph Pearce (The Unmasking of Oscar Wilde). Ho voluto fornire un quadro completo, a partire da quell’accento religioso e da quella tensione ideale che ho riscontrato in quasi tutte le sue opere e nella sua esistenza. Wilde inseguì Dio per tutta la vita, ma nessuno lo dice. Mi sono sentito in dovere farlo, semplicemente raccontando i fatti.



Il titolo del suo libro ammicca ad Il Ritratto di Dorian Gray. Anche questo romanzo c’è una tensione ideale?



Il protagonista stipula una sorta di patto faustiano. Lui rimane giovane e bello, mentre ad ogni azione malvagia che compie il suo ritratto imbruttisce. Ma alla fine, non riuscendo a reggere il peso delle sue malefatte, pugnala il quadro, in un eccesso di follia. Dorian sarà trovato a terra, morto, brutto, vecchio e avvizzito. È una sorta di parabola etica: Dorian aveva tentato di nascondere il proprio male, tacitare la voce della coscienza e censurare il peccato. Ma alla fine tutto è venuto a galla. L’idea del romanzo venne in mente a Wilde un anno prima della pubblicazione quando, nel 1888, Londra era stata sconvolta dagli omicidi di Jack lo squartatore. Si pensava che questi fossero opera di un personaggio altolocato, il che indusse l’artista a riflettere sul problema del male. Non a caso il romanzo, all’epoca, suscitò parecchio scalpore: sconcertava che un lord - Dorian - potesse essere capace di azioni ignominiose. Wilde volle sottolineare che non esiste bellezza senza verità.



E nel fantasma di Canterville, di cui lei parla nel libro? Anche qui c’è una tensione ideale?



Basta leggerlo. Parla di Sir Simon de Canterville, relegato nella condizione di fantasma per aver peccato di uxoricidio. Triste e avvilito perché non riesce più a spaventare nessuno, chiede a Virginia, la figlioletta degli americani trasferitisi nella sua dimora inglese, di fare qualcosa per lui. Sa che non si può salvare da solo. La bambina si rivolge a Dio, pregandolo di perdonare il fantasma. Sir Simon trova così finalmente pace, morendo definitivamente. Non credo sia necessario fare particolari forzature per trovare nel racconto tracce della dottrina cattolica classica, che chiede di pregare per salvare le anime del purgatorio. Basta non fermarsi alla superficialità della vulgata e in ogni sua opera si notano questi cenni di verità, questa tensione religiosa che culminò con la conversione al Cattolicesimo, a Parigi, sul letto di morte



Dopo che L’Osservatore Romano ha recensito positivamente il suo libro, la stampa inglese – in particolare il Times, il Daily Telegraph, il Daily Mail e l’Indipendent – ha accusato lei e il Vaticano di voler fare di Oscar Wilde una sorta di cattolico a posteriori. È così?



Non ho voluto piantare alcuna bandiera ma esporre la verità sul personaggio. E a costoro rispondo: informatevi sulla sua vita! Per dirne qualcuna, Oscar Wilde - oltre ad essere il re dei salotti londinesi - era solito trascorre ore a conversare con i padri gesuiti. Quando era universitario, poi, fu sul punto di battezzarsi. Il padre, noto oftalmologo dell’epoca, nonché massone ed anti-cattolico, glielo proibì, minacciando di tagliargli i viveri. Nel 1877, inoltre, incontrò in segreto Pio IX , che ammirava fortemente e per il quale nutriva profondo rispetto – e all’epoca non era certo di moda stimare Pio IX -, tanto che, a quanti gli chiedevano della sua fede, rispondeva: «Non sono cattolico, sono papista». Molti dei suoi più fedeli amici si erano convertiti. Alcuni erano diventati preti o monaci. In carcere, infine, le sue letture furono Dante, Sant’Agostino e Newman. Ultimo, piccolo particolare: la Chiesa non ha mai condannato Oscar Wilde né mai lo ha ostracizzato. Fu l’Inghilterra, che ora glielo rinfaccia, a farlo.



Un’immagine piuttosto lontana dal dandy frivolo e vanitoso, che non si cura di nulla, salvo che dell’esteriore apparire



Che Wilde avesse un ideale estetico è vero. Ma definirlo unicamente in questi termini è riduttivo. Lui si rifaceva ai modelli ellenisti. Viveva nella Londra post-rivoluzione industriale, un’epoca di brutture, nella quale predicava il ritorno al bello. In tutte le sue opere riecheggia questo desiderio, talvolta in maniera barocca. Bisogna ammettere che il suo estetismo lo portò ad accettare l’amore omofilo. Che lui intendeva, tuttavia, secondo canoni tipicamente riconducibili alla Grecia antica.



Appunto. Oggi Oscar Wilde viene considerato un’icona gay…



Non si può dire che fosse omosessuale tout-court. Ebbe diverse fidanzate. La prima delle quali gli fu “vampirizzata” dal suo caro amico Bram Stoker. Si sposò, in seguito, con Constance Lioyd, dalla quale ebbe due bambine. A loro regalò due fiabe, tra le più belle mai scritte. La sua era un’omosessualità circostanziale. Era circondato da adulatori. Il fatto è che era affettivamente moralmente disordinato, debole, “goloso”, incontinente. Voleva provare tutto, senza negarsi nulla. Ma in carcere ammise che se il padre non gli avesse impedito di convertirsi, avrebbe avuto gli strumenti per vincere la tentazione. C’è un altro aspetto della sua vita, in genere omesso.



A quale si riferisce?



Con la moglie mantenne sempre un rapporto di tenerissimo amore. Nonostante gli amici continuassero a suggerirglielo, non volle mai divorziare. Lei fu tra le poche persone che andarono a trovarlo in carcere. Durante la prigionia del marito, Costance dovette trasferirsi. L’Inghilterra ipocrita e bigotta di allora non le avrebbe reso la vita facile. Andò a vivere a Bogliasco. E quando Oscar uscì, per prima cosa corse da lei. Ma mentre Wilde era in viaggio, Constance dovette sottoporsi ad un’operazione chirurgica alla schiena, al San Martino di Genova. Non fece in tempo a raggiungerla che, a Santa Margherita Ligure, gli comunicarono la sua morte.



Perché finì in carcere?



Sir Alfred Douglas, il discepolo-amante, odiava profondamente il padre, John Sholto Douglas, che a sua volta disprezzava Wilde. Quando Oscar ricevette da John un bigliettino che lo definiva ruffiano e sodomita, fu convinto dal giovane Douglas a denunciarlo per diffamazione. Si sentiva forte. Ma il caso volle che l’avvocato di Douglas fosse Edward Carson. Si tratta di quel Carson, ferocemente anti-cattolico e anti-irlandese, che architettò la divisione dell’Irlanda in sei contee separate, tra i primi a diventare primo ministro dell’Irlanda del Nord. La fama di filo-cattolico di Wilde ai tempi era già diffusa ovunque. Carson ribaltò il processo, portando in tribunale dei giovani che praticavano la prostituzione. Non riuscì a strappare una condanna per omosessualità, ma grazie alla loro testimonianza, tutt’altro che attendibile, ottenne per Wilde due anni di carcere, per atti osceni.



Dove scrisse il De Profundis…



Una lunga lettera indirizzata a Douglas, nella quale rilegge la sua intera esistenza. E benché sia caduto in disgrazia, non maledice nulla di quanto gli sta accadendo. Medita sul dolore. E intuisce che questo non avrebbe alcun senso, se non fosse la via per la salvezza. Salvezza che lui identifica – lo afferma esplicitamente - in Cristo. Eppure lo aveva incontrato tante volte. Ma tutta la sua vita fu caratterizzata da quell’assenza. Non si può dire che Oscar Wilde fosse un uomo tormentato. Risolveva tutto con una battuta. In pubblico portava una maschera, del resto era molto bravo a mentire. Ma, come tutti i clown , era molto triste. Avvertiva la mancanza di qualcosa. La nostalgia di quello che aveva sempre rifiutato.
(Intervista raccolta da Paolo Nessi)


GATES, SCHMIDT E IL TEMPO RISUCCHIATO IN RETE - Quando l’accesso diventa eccesso - GIUSEPPE O LONGO – Avvenire, 29 luglio 2009
I l troppo è troppo, anche per il mago dei computer: assillato dalle richieste di sconosciuti che volevano diventare suoi amici, Bill Gates si è ritirato da 'Facebook', la rete sociale più popolare, che pochi giorni fa ha superato i 250 milioni di iscritti. Ormai sono molte le persone che si sentono 'iper-irretiti', cioè ostaggi di Internet, in particolare dei social network. A questo punto conviene fare alcune considerazioni.
In primo luogo la tecnologia della comunicazione penetra in profondità nelle nostre abitudini e nel modo stesso in cui vediamo il mondo. Ma la cosa più importante è che l’uso degli strumenti informatici comporta un investimento di tempo e poiché il tempo è una risorsa limitata e irrecuperabile dobbiamo decidere se vivere una vita reale, intessuta di rapporti umani, con tutti i problemi e le gioie che ciò comporta, oppure se rifugiarci nella virtualità facile e accattivante della Rete, che, moltiplicando le nostre identità possibili, ci dà l’illusione di essere uno e centomila. Poi la facilitazione dei rapporti comunicativi offerta dalla Rete comporta una sorta di assuefazione e una spinta compulsiva alla sfrenatezza cui è difficile sottrarsi. Basta pensare alle piccole crisi di astinenza che sperimentiamo quando per qualche ora non possiamo controllare la posta elettronica...
Non voglio certo negare gli enormi vantaggi della comunicazione elettronica: immediatezza dello scambio, costo praticamente nullo, allargamento senza limiti del numero dei corrispondenti, per non parlare dell’accesso istantaneo al Web, la più vasta enciclopedia concepibile. Ma proprio questi benefici possono trasformarsi in svantaggi: la perdita dei filtri tradizionali, dovuti essenzialmente al costo, fa sì che chiunque possa esprimere qualunque cosa, dai pensieri più raffinati ai borborigmi mentali più inconsistenti: in rete il rumore di fondo è elevatissimo. In terzo luogo, le innovazioni si susseguono incalzanti e l’offerta supera di gran lunga la domanda, inducendo bisogni artificiali che subito diventano essenziali per poi, spesso, rivelarsi illusori e delusori, ma lasciando comunque una traccia e magari una nostalgia nelle abitudini quotidiane di vaste moltitudini. Ma gli entusiasmi che le innovazioni accendono sono sempre più marginali e, con l’uso prolungato, si trasformano in fiacche spinte gregarie e imitative.
Vige infatti una sorta di legge di Weber e Fechner psicologica: per produrre lo stesso effetto lo stimolo deve crescere e quindi per appassionare i dispositivi devono essere sempre più mirabolanti, mentre le grandi invenzioni sono rare anche perché si susseguono piccoli miglioramenti incrementali e modeste variazioni sul tema che impediscono i grandi salti.
Insomma se è vero che le reti sociali rappresentano un’importante conquista democratica e liberatoria, è anche vero che quando l’accesso si trasforma in eccesso esse diventano rapidamente tossiche.
Anche Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, esorta a spegnere computer e cellulari rinunciando alla comunicazione virtuale e dis­locata per riscoprire le persone che ci stanno accanto. Non bisogna tuttavia dimenticare che prima di convertirsi Bill Gates ed Eric Schmidt si sono immersi nella Rete fino al midollo. Secondo lo psicologo di Harvard George Vaillant, ciò che conta nella vita sono i rapporti con gli altri; ma spesso tali rapporti sono velenosi se non assenti: allora forse è meglio crearsi un’identità appagante e presentarsi (su Facebook) a una marea di 'amici' sconosciuti. Fino a capire, e ha ricambiare orizzonte.


«Così Giussani ci guidava alla scoperta del Mistero Quelle vacanze erano un anticipo di paradiso» - Guido Castelli (Università Cattolica): la montagna aiuta a scoprire la bellezza come qualcosa di gratuito «Quel panorama sul Diavolezza che mi lasciò senza parole» - Avvenire, 29 luglio 2009

«L a montagna insegna a vive­re. Basta guardarla, ma ci vuole qualcuno che ti inse­gni a guardarla. Guardare è l’inizio di tutto. Guardi la montagna, la natura, e capisci che le cose non dipendono da te, che la vita è più grande della tua ca­pacità di comprensione». Guido Ca­stelli, responsabile dei Servizi interna­zionali e ricerca dell’Università Catto­lica di Milano, è un cinquantenne di Va­rese che conosce a memoria decine di sentieri e itinerari in quota. Li ha per­corsi in compagnia di centinaia di per­sone, da ragazzino partecipando alle vacanze estive di Gioventù studente­sca, poi a quelle degli universitari di Co­munione e liberazione, molte guidate da don Giussani che per decenni ha fat­to della montagna una grande occasio­ne educativa per migliaia di giovani. E­rano – e continuano a essere – un’e­sperienza umana straordinaria, che la­scia un segno indelebile in chi parteci­pa. Lo stesso Giussani ne parla in uno dei suoi libri, «L’avvenimento cristia­no »: «Il reale è la prima provocazione attraverso cui viene destato in noi il sen­so religioso. Le vacanze in montagna si sono proposte all’esperienza delle per- sone come una profezia, sia pur fuga­ce, della promessa cristiana di compi­mento. Come un piccolo anticipo di pa­radiso, e ogni particolare doveva veico­lare quella promessa e realizzare quel­l’anticipo ». Castelli ha potuto gustare molte volte quell’'anticipo di paradiso', e ne è di­ventato testimone e a sua volta mae­stro per tanti giovani che ha portato con sé sulle cime. «Camminare insieme, a volte anche in comitive formate da cen­tinaia di persone, aiuta a capire che l’uo­mo è essenzialmente rapporto con gli altri. Soprattutto quando ci si muove in gruppo, bisogna seguire tutti lo stesso passo, e il passo viene deciso da chi gui­da, il quale a sua volta deve tenere con­to di tutti coloro che porta con sé. Si vi­ve così un’esperienza di reciproca di­pendenza, che diventa educativa an­che rispetto alla vita ordinaria.
La montagna aiuta a scoprire la bellez­za come qualcosa di gratuito, svelato e regalato all’uomo. Qualcosa di grande e spesso inatteso. «Ricordo una gita sul Diavolezza. Salivamo da Saint Moritz, all’inizio non si vedeva granché ma quando abbiamo scavallato, una volta raggiunta la cresta, è apparso un pano­rama inimmaginabile, con una visuale amplissima e affascinante. È la cosa più bella che ho visto in quarant’anni di a­scensioni. Qualcosa di imprevisto e im­prevedibile, che mi lasciò senza paro­le ». A volte invece le parole servono per rac­contare la bellezza. Come nei canti di montagna, un’altra delle esperienze che Castelli ha imparato a praticare e di cui è poi divenuto protagonista nelle va­canze estive con gli amici di Cl. «Gius­sani ci invitava a cantare spesso perché, come mi disse una volta, ’il canto ren­de più leggero il sacrificio e più intensa l’amicizia, e perché il significato delle cose si rende presente attraverso la bel­lezza di ciò che cantiamo’. E poi canta­re è qualcosa di contagioso. Ricordo u­na gita alle Torri del Vajolet, uno dei po­sti più belli delle Dolomiti. Eravamo in 400, visto che il tempo minacciava piog­gia decidemmo di fermarci al rifugio Carlo Alberto. Dopo avere mangiato ab­biamo cantato per due ore di seguito. A un certo punto mi sono voltato e alle mie spalle ho visto decine di persone che si erano radunate per ascoltare. E molti si erano uniti a noi nel canto, pre­si da una specie di nostalgia per quelle parole. La nostalgia dell’infinito».
Giorgio Paolucci


Scienza atea, una illusione - INTERVISTA. Roberto Timossi ha condotto una vasta decostruzione delle teorie scientifiche che negano Dio, da Dawkins a Odifreddi - DI ANDREA GALLI – Avvenire, 29 luglio 2009
L a definizione sicuramente non gli piace, ma quello che si può considerare l’ « anti­Odifreddi » – genovese, sei anni in meno del logico cuneese – ha appena portato in libreria la sua risposta all’ultima ondata pamphlettistica di scientisti con­tro Dio. Da Daniel Dennett a Ri­chard Dawkins, da Telmo Pievani a Odifreddi e Danilo Mainardi: Roberto Timossi, teologo e filo­sofo della scienza, ha passato tre anni a raccogliere e vagliare la recente pubblicistica antiteistica uscendone con il tomo L’illusio­ne dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio ( San Paolo, pagine 574, euro 24), che porta una pre­sentazione del cardinale Angelo Bagnasco.
Timossi, qual è l’aporia più dif­fusa nell’argomentare dei Dawkins e Odifreddi vari?
« Direi il riconoscere in base al­l’epistemologia contemporanea che la scienza è fallibile e limita­ta, e allo stesso tempo arrivare a conclusioni apodittiche su que­stioni su cui la scienza empirica per definizione non può espri­mersi, come quelle metafisiche o spirituali » .
La scienza è conoscenza solida, seppur sempre perfezionabile, e impermeabile alla fede. Come risponderebbe?
« Che la scienza stessa ha biso­gno, spingendosi in ipotesi non verificabili direttamente, di ' atti di fede'. Le faccio un esempio recente. Il principio cosmologico è quello secondo cui l’universo sarebbe in ogni situazione iso­tropo e omogeneo, ovvero ugua­le e soggetto alle stesse leggi in tutte le sue zone. Se non c’è la possibilità della ripetibilità, sen­za il presupposto che l’universo abbia ovunque le stesse leggi, di­venta difficile fare delle afferma­zioni che abbiano valore, appun­to, universale. Recentemente al­cuni importanti ricercatori ame­ricani che studiano la cosiddetta energia oscura, per spiegare del­le anomalie nelle osservazioni sono giunti a mettere in discus­sione il principio cosmologico.
Ne ha dato conto la rivista Scien­tific American sul numero di a­prile. Anche questo è un ' atto di fede'. Come lo sono tutte quelle ipotesi da cui grandi scienziati partono e in cui credono senza avere ancora osservazioni, docu­mentazioni, dati empirici certi per poter dire che è così » .
Dopo la sua disamina enciclo­pedica, quale differenze trova tra la produzione ateistica di lingua ingle­se e quella italiana?
« La produzione italiana risente spesso di un ta­glio provinciale, quindi scade nella polemica an­ti- cattolica e anti- eccle­siale, finendo per allon­tanarsi da quello che do­vrebbe essere su questi temi un dialogo, o anche un scontro, alto. Mi viene in mente l’ultimo nu­mero di Micro Mega, che contie­ne un intervento di Telmo Pieva­ni e Orlando Franceschelli – stu­diosi che per altre cose apprezzo – contro il cosiddetto ' darwini­smo ecclesiastico'. Una polemi­ca su un intervento di monsi­gnor Fiorenzo Facchini e sulla sua prefazione a un recente libro di Francisco Ayala. Una polemi­ca quasi politica, che alla fine ha poco o nulla che fare con il vero dibattito sul rapporto tra scienza e fede. O penso ancora a un in­tervento di Pievani contro mon­signor Ravasi e altri, prima di a­ver sentito quello che avrebbero detto in occasione del convegno su Darwin organizzato dal Ponti­ficio consiglio della cultura, lo scorso marzo » .
Il tempo passa, Darwin resta u­no degli appigli preferiti per lo scientismo ateo.
« Sì, anche se penso che lo stesso naturalista inglese – che nelle sue lettere prese le distanze dalle repentine strumentalizzazioni delle sue teorie – sarebbe il pri­mo a schermirsi » .
In due parole, come definirebbe il rapporto corretto tra scienza e fede?
« Userei la famosa diade del ma­tematico e filosofo Gottlob Fre­ge: senso e significato. La scien­za ci mostra come non sia il caos a prevalere, come esistano delle leggi, un’intelaiatura del reale.
Questo è quello che potremmo chiamare il ' senso'. Il problema su cui devono lavorare invece fi­losofia e teologia, partendo da quanto è mostrato dalla scienza, è quello del ' significato' » .
Nel suo libro lei passa in rasse­gna un numero sbalorditivo di scienziati la cui attività è andata di pari passo con un’apertura alla fede o alla dimensione reli­giosa. Chi, in questa carrellata, è per lei più significativo?
« Gli esempi sono tanti, si potreb­be parlare di Galileo, Lemaître o Mendel. Dovendo sceglierne u­no, direi forse il fisico tedesco Max Planck. Planck aveva una proprensione filosofica sponta­nea, nutrita poi con delle letture specifiche. Aveva una grande a­pertura al mistero sottostante al reale: la scoperta che l’ha reso famoso, quella dei quanti, è av­venuta in fondo contro quello che lui stesso si riproponeva. A­veva una coscienza chiara del fatto che la scienza non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava, e che il credere in Dio agevolava il lavoro dello scienziato: la sua capacità di me­ravigliarsi, la sua voglia di fare e scoprire » .
«Un gigante come Max Planck aveva una coscienza chiara del fatto che la fisica non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava E che la fede era un 'aiuto'»