martedì 21 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)TEOLOGIA/ García: Martin Hengel, l’“anti-Bultmann” che la cultura “ufficiale” ha dimenticato - José Miguel García lunedì 20 luglio 2009 – ilsussidiario.net
2)Si facevano espiantare ovociti a pagamento: stop traffico in Romania - Maxioperazione internazionale per bloccare un traffico di ovuli tra Israele e i molti Paesi europei: nella clinica "Sabyc" di Bucarest gli ovuli venivano espiantati da romene e israeliane. Trenta arresti - Il Giornale lunedì 20 luglio 2009
3)Insieme a centinaia di milioni di persone nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969 Paolo VI seguì il primo sbarco umano sul suolo del satellite terrestre - «Gloria a Dio e onore a voi uomini artefici della grande impresa» - La prima riflessione approfondita di Paolo VI dopo lo storico allunaggio si ebbe nel discorso pronunciato durante l'udienza di mercoledì 23 luglio. Ne ripubblichiamo il testo. - L'Osservatore Romano, 21 luglio 2009
4)Il papa tradotto in cinese. Con troppi errori - La lettera scritta nel 2007 da Benedetto XVI ai cattolici della Cina è stata gravemente fraintesa, afferma il cardinale Zen. A tutto vantaggio delle autorità comuniste e del loro disegno di asservire la Chiesa. Per rimediare, da Roma arriva un nuovo testo guida - di Sandro Magister
5)Servono le leggi per un popolo di assenti? - Autore: Turroni, Paola Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 20 luglio 2009
6)ENCICLICA/ Quadrio Curzio: l’impresa per Benedetto XVI? Creatività e profitto. Ma a vantaggio di tutti - Alberto Quadrio Curzio martedì 21 luglio 2009 – ilsussidiario.net
7)GIORNALISMO/ Il “Testori della Sera”, gli articoli che raccontarono la maestà della vita - Redazione martedì 21 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)I diritti dell’uomo nella tradizione ebraico-cristiana - di Cornelio Fabro - In questo studio, letto alla tavola rotonda sui diritti dell’uomo indetta a Oxford dall’Unesco (11-19 novembre 1965), l’autore dimostra come soltanto la fondazione in Dio della libertà conferisce ai diritti dell’uomo un valore proprio e inalienabile, preservando dalle aberrazioni che la riflessione culturale teologicamente sradicata ha drammaticamente prodotto nella storia. - [Da «Studi Cattolici», n. 66, settembre 1966, pp. 4-12]
9)«Le staminali dagli embrioni? Sono un bluff» - di Andrea Tornielli – IlGiornale, 21 luglio 2009
10) NOSTRI RAGAZZI E LO «SBALLO» - ALL’EDUCAZIONE SERVONO DIGHE SIMBOLICHE - CLAUDIO R ISÉ – Avvenire, 21 luglio 2009
11)ETICA E POLITICA - Fine vita, «irrinunciabili nutrizione e idratazione» - DA UDINE FRANCESCO D AL MAS – Avvenire, 21 luglio 2009


TEOLOGIA/ García: Martin Hengel, l’“anti-Bultmann” che la cultura “ufficiale” ha dimenticato - José Miguel García lunedì 20 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Il 2 luglio scorso è morto Martin Hengel (1926-2009), teologo luterano, professore emerito di Nuovo Testamento ed Ebraismo antico nella rinomata università di Tubinga. Senza dubbio è stato uno degli esegeti più influenti del XX secolo e degli inizi del XXI. Per molti anni è stato un instancabile ricercatore delle origini storiche del cristianesimo.

Attraverso un uso intelligente delle fonti, ha mostrato la debolezza delle basi su cui poggia una certa esegesi critica. Per esempio, ha messo in evidenza la falsità storica introdotta da R. Bultmann, che voleva un’opposizione tra il mondo ellenistico e quello palestinese, poiché all’epoca di Gesù la lingua e la cultura greca erano ampiamente penetrate tra gli ebrei di Palestina. Come prova di ciò, Hengel segnalava che il 40% delle iscrizioni funerarie trovate nella Gerusalemme del periodo neotestamentario erano greche.

Allo stesso modo ha respinto l’idea romantica secondo la quale i Vangeli sarebbero il prodotto creativo della comunità, uno dei principi su cui si basano molte conclusioni della Scuola della storia delle forme. Ha ben difeso, mantenendo una posizione controcorrente, il valore storico della prima parte degli Atti degli Apostoli. All’interno del suo interesse per la conoscenza delle origini del cristianesimo, ha dedicato parte della sua ricerca ad approfondire la figura di San Paolo, uno dei grandi protagonisti della diffusione del cristianesimo, prestando particolare attenzione alle sue radici ebraiche, alla sua formazione rabbinica e ai primi anni della sua adesione alla fede cristiana.

L’uso intelligente delle fonti storiche lo ha portato alla conclusione che le posizioni sostenute dalla Chiesa (che frequentemente gli ambiti cossiddetti progressisti e la stampa sminuiscono ritenendole tradizionaliste) hanno un fondamento storico e non nascono da principi dogmatici. In più, ha fatto vedere come la predicazione cristiana non si basa su enunciati teologici, ma su fatti ed eventi successi in un luogo e in un tempo definiti. La fede non crea l’avvenimento, ma al contrario l’avvenimento genera la fede.

Un esempio di quanto detto è il suo studio intitolato Il Figlio di Dio, dove mostra la mancanza di fondamenti della teoria che identificava la divinità di Gesù come ispirata dai miti pagani. La natura divina di Gesù, presente dalle origini della Chiesa, proviene dalla stessa coscienza di quel giudeo che ha predicato ed è morto crocifisso sotto Ponzio Pilato. Per questo ha respinto come falsa l’opposizione introdotta da tanta esegesi attuale tra il Cristo della fede e il Gesù storico.

Ha difeso con energia il valore storico dei Vangeli e l’antichità della tradizione raccolta in questi libri, poichè essa ha la sua origine in testimoni oculari degli avvenimenti narrati. Certamente non si tratta di racconti asettici o di cronache moderne; la storia è intessuta di teologia, o detto in altri termini, gli eventi sono letti alla luce delle promesse al popolo di Israele realizzate da Dio. Inoltre, i Vangeli sono stati scritti per comunicare la fede in Gesù di Nazareth; pertanto annunciano la verità rivelata sull’identità di quest’uomo e la sua missione salvifica. Una verità cristologica che si è sviluppata nel tempo ed è stata esplicitata dagli stessi evangelisti.

Molti lavori di Hengel sono di ricerca, altri di alta divulgazione, ma in tutti la conoscenza non è mai fredda, riflette sempre lo stupore e la gratitudine dell’autore davanti ad avvenimenti così gratuitamente sorprendenti, così ricchi di bene per la vita dell’uomo. In realtà, l’uomo privo di pregiudizi non può non stupirsi del fatto che un crocefisso sia stato annunciato fin dall’inizio del cristianesimo come Figlio di Dio e salvatore degli uomini.

Forse per questa unità tra studio e fede commossa, in certi ambienti Hengel è stato considerato uno studioso conservatore. Spesso questo aggettivo è stato usato per squalificare le sue ricerche. Certe posizioni ideologiche si difendono dai dati e dalle prove con il ricorso a espressioni e aggettivi negativi, con i quali si cerca di evitare il duro sforzo della critica scientifica, o di nascondere la mancanza di fondamento dell’ipotesi esegetica che si propone come certa. Con il suo studio Hengel ha collaborato a mostrare la razionalità della fede, il suo solido fondamento storico.

Al termine della sua vita avrà ricevuto il premio del buon servo promesso nel Vangelo. Ora conosce quello che con tanto sforzo e fatica ha cercato di penetrare con la sua intelligenza e che ha annunciato agli uomini con il suo magistero orale e scritto. Ora gode dell’abbraccio di Colui che ha riconosciuto e amato come suo Salvatore.


Si facevano espiantare ovociti a pagamento: stop traffico in Romania - Maxioperazione internazionale per bloccare un traffico di ovuli tra Israele e i molti Paesi europei: nella clinica "Sabyc" di Bucarest gli ovuli venivano espiantati da romene e israeliane. Trenta arresti - Il Giornale lunedì 20 luglio 2009
Bucarest - Una maxioperazione internazionale per bloccare un traffico di ovuli tra Israele e i molti Paesi europei è stata conclusa stanotte dalla procura romena. Nel corso dell’operazione sono state arrestate più di 30 persone tra cui molte donne israeliane che si trovavano nella clinica "Sabyc" di Bucarest, specializzata in chirurgia estetica e fecondazione artificiale, e due medici della struttura.
Il traffico di ovuli.
La procura sospetta che la clinica funzionasse come base per il traffico illegali di ovuli per la fecondazione in vitro, che veniva richiesta anche da molte coppie straniere che arrivavano in Romania per sottoporsi al trattamento, pagando tra i 10mila e i 15mila euro, scrive Agerpres. Secondo le indagini gli ovuli venivano espiantati da giovani donne romene e israeliane, tra i 18 e i 30 anni. Nel corso dell’operazione sono state sequestrate cartelle cliniche, computer, documenti e denaro per circa 130 mila euro. La procura ha disposto il fermo in carcere per tre delle 30 persone arrestate, per le altre c’è stato il rilascio dopo il pagamento di una cauzione, ma con il divieto di lasciare la Romania per 30 giorni.
La triangolazione con Israele.
Le donne israeliane che si trovavano nella clinica "Sabyc" erano registrate ufficialmente per cure mediche. Negli ultimi anni il traffico di ovuli provenienti da Israele è stato osservato e studiato dalle autorità. La modalità di vendita prevede che le donne si rechino in strutture mediche specializzate all’estero, in Romania, Ucraina, Cipro, Spagna in particolare, per vendere i propri ovociti, una procedura che la legge israeliana vieta sia gratuitamente che dietro compenso.
Il Giornale lunedì 20 luglio 2009


Insieme a centinaia di milioni di persone nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969 Paolo VI seguì il primo sbarco umano sul suolo del satellite terrestre - «Gloria a Dio e onore a voi uomini artefici della grande impresa» - La prima riflessione approfondita di Paolo VI dopo lo storico allunaggio si ebbe nel discorso pronunciato durante l'udienza di mercoledì 23 luglio. Ne ripubblichiamo il testo. - L'Osservatore Romano, 21 luglio 2009

Si è tanto parlato in questi giorni, e in tutto il mondo, e con tutte le voci possibili, dell'impresa lunare; Noi stessi vi abbiamo dedicato qualche esclamazione ammiratrice, così che sembrerebbe ora cosa migliore per Noi tacerne che parlarne. Ma, oltre il fatto che proprio domani la straordinaria escursione planetaria deve concludersi con il ritorno, che auguriamo felicissimo, degli astronauti sulla terra, questo avvenimento penetra talmente nella psicologia della pubblica opinione da costituire una sorgente di pensieri, di questioni, di spiritualità, che commetteremmo un peccato di omissione, se non Ci fermassimo, anche in questo familiare incontro, a meditarlo un po'. È purtroppo vero che la superficialità è una abitudine di moda. Anche le più forti impressioni, che a noi vengono dall'esperienza della vita moderna, si cancellano subito; o subito sono soverchiate da altre successive, così che spesso manca il tempo, manca la voglia di approfondirle, e di coglierne il significato, la verità, la realtà. Ma in questo caso il trauma della novità e della meraviglia è così forte, che sarebbe stoltezza non riflettere su questa, possiamo dire, sovrumana e storica avventura, alla quale tutti abbiamo, come spettatori esterrefatti, in qualche modo - anche questo meraviglioso - assistito.
Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi! L'importanza degli studi scientifici può essere di per sé oggetto di interminabili considerazioni. Ad esempio, quella circa lo sviluppo e il progresso, che questi studi hanno avuto nel tempo nostro, fino a modificare la mentalità umanistica tradizionale della nostra cultura e della nostra scuola; il che vuol poi dire della nostra vita. Il bilancio di questi studi positivi e scientifici è così attivo, che una grande attrattiva vi polarizza molta parte delle nuove generazioni, e un ottimismo sognatore sulle loro future conquiste ne fa quasi un'iniziazione profetica. E sia pure. Il campo scientifico merita ogni interesse.
Ma intanto potremmo, di passaggio, osservare come sia fuori luogo, almeno a questo riguardo, il disfattismo oggi di moda contro la società e la sua compagine, e in genere contro la vita moderna. Questo disfattismo seduce oggi perfino qualche parte della gioventù, e altri uomini di pensiero e d'azione; li gratifica di audace progressismo, e sembra loro conferire una personalità superiore, quando li riempie di istinti ribelli e di spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo. La vita invece è seria; e ce lo insegna la somma immensa di studi, di spese, di fatiche, di ordinamenti, di tentativi, di rischi, di sacrifici, che una impresa colossale, come quella spaziale, ha reclamati. Criticare, contestare è facile; non così costruire, in questa iniziativa si comprende; ma parimente in altre moltissime da cui risulta la nostra presente civiltà. Perciò Ci sembra che un dovere di ripensamento e di apprezzamento dei valori della vita moderna ci sia intimato dall'avvenimento che stiamo celebrando. Noi non neghiamo alla critica i suoi diritti, né rimproveriamo al genio dei giovani il suo istinto di emancipazione e di novità. Ma riteniamo non degno di giovani il decadentismo iconoclasta e privo di amore dei contestatori di mestiere. I giovani devono sentire l'impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale. Ed allora ecco un'altra considerazione. Questo nostro aperto suffragio per la progressiva conquista del mondo naturale, per via di studi scientifici, di sviluppi tecnici e industriali, non è in contrasto con la nostra fede e con la concezione della vita e dell'universo, ch'essa comporta. Basta ricordare quanto insegna a questo riguardo il recente Concilio (Gaudium et spes, nn. 37, 58, 59, ecc.).
Qui tocchiamo uno dei punti più delicati della mentalità moderna rispetto alla nostra religione cattolica, una religione cioè positiva, con sue dottrine ben determinate, e ordinate a sistema unitario, incentrato in Gesù Cristo, nel suo Vangelo, nella sua Chiesa. Ora è facile riscontrare nella mentalità dell'uomo odierno, specialmente di quello dedicato agli studi scientifici, una duplice serie di difficoltà: una di ordine essenziale, l'altra di ordine storico. Come può, dice oggi lo studioso, entrare nello schema dogmatico e rituale della vita cattolica l'immenso patrimonio delle scoperte scientifiche, con l'impiego libero e totale della ragione, e con la concezione che ne risulta sul mondo e sull'umana esistenza? E come può, insiste lo studioso osservando i mutamenti continui, rapidi e macroscopici, che avvengono col volgere del tempo nel pensiero e nel costume dell'uomo moderno, rimanere intatta la religione tradizionale, racchiusa in una mentalità statica e d'altri tempi?
Occorrerebbero libri interi, sia per formulare queste obiezioni capitali, sia per rispondervi. Non è certo qui, né in questo momento che lo faremo. Ma ora Ci basti rassicurarvi. La fede cattolica, non solo non teme questo poderoso confronto della sua umile dottrina con le meravigliose ricchezze del pensiero scientifico moderno, ma lo desidera.
Lo desidera, perché la verità, anche se si diversifica in ordini differenti e se si appoggia a titoli diversi, è concorde con se stessa, è unica; e perché è reciproco il vantaggio che da tale confronto può risultare alla fede (cfr. Gaudium et Spes, n. 44) e alla ricerca e allo studio d'ogni campo conoscibile.
È stata questa una delle affermazioni caratteristiche e più documentate del pensiero cattolico apologetico del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo, con risultati magnifici, dei quali le nostre Università sono documenti gloriosi.
Adesso si profilano altre tendenze, che suppongono, non smentiscono la precedente: quella, che si rifà alla famosa parola di sant'Agostino, e che possiamo dire psicologica: "Tu, (o Signore), ci hai fatti per Te ed è inquieto il nostro cuore, finché non si riposi in Te" (Confess. i, 1). Il bisogno di Dio è insito nella natura umana, e quanto più essa progredisce tanto più essa avverte, fino al tormento, fino a certa drammatica esperienza, il bisogno di Dio. Ovvero quella che, tanto per intenderci, potremmo dire la tendenza cosmica: chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio, antica verità, che il Libro sacro sempre ci ripete: "Dove andrò io lungi dal Tuo spirito (o Signore), e dove fuggirò io dalla Tua faccia?" (Ps 138, 7). Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale: "In Lui (cioè in Dio, dice san Paolo) noi viviamo, ci muoviamo, ed esistiamo" (Act 17, 28). Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un'infinita palpitante Presenza.
Ora qui è l'attimo sublime, l'attimo della rivelazione, l'attimo in cui Cristo apre il velo e appare nella storica e semplice scena del Vangelo. Chi è Cristo? Ecco la questione decisiva. Risponde san Giovanni, al primo capitolo del suo Vangelo: è il Verbo, è Dio, è Colui per virtù del Quale tutte le cose furono fatte. E san Paolo confermerà: è Colui che "è avanti a tutte le cose; e tutte le cose sussistono per lui" (Col 1, 17); ed è Colui che un giorno, il giorno finale "della restaurazione di tutte le cose" (della "apocatastasi": Atti degli apostoli, 3, 21) nel quale Egli con la sua potenza "assoggetterà a sé tutte le cose" (Phil 3, 21). Cioè Cristo è l'alfa e l'omega, il principio e il fine (cfr. Apoc 1, 8; 21, 6; 22, 13), non solo per i destini dell'uomo, ma per il cosmo intero, che in Lui ha il suo punto focale, donde ogni senso, ogni luce, ogni ordine, ogni pienezza.
Non temiamo, Figli carissimi, che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l'uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta. Se saremo con Cristo saremo nella via, saremo nella verità, saremo nella vita.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 luglio 2009)


Il papa tradotto in cinese. Con troppi errori - La lettera scritta nel 2007 da Benedetto XVI ai cattolici della Cina è stata gravemente fraintesa, afferma il cardinale Zen. A tutto vantaggio delle autorità comuniste e del loro disegno di asservire la Chiesa. Per rimediare, da Roma arriva un nuovo testo guida - di Sandro Magister

ROMA, 21 luglio 2009 – A due anni dalla lettera indirizzata da Benedetto XVI ai cattolici cinesi, il cardinale Giuseppe Zen Zekiun, vescovo emerito di Hong Kong, ne ha tracciato un bilancio e l'ha pubblicato a metà luglio in cinese e in inglese nel sito web della sua diocesi.

Il bilancio è fortemente contrastato. Accanto a elementi positivi, il cardinale ne elenca di negativi. Il principale di questi lo indica nella "falsa interpretazione" data ad alcuni passaggi chiave della lettera del papa del 2007. Una falsa interpretazione che a suo giudizio "ha avuto conseguenze disastrose per l'intera Chiesa in Cina".

In Cina la Chiesa cattolica è divisa in due tronconi. E questa divisione è originata dalla politica delle autorità comuniste.

La divisione vede da un lato le comunità definite dagli stessi cattolici cinesi come "dishang", letteralmente "sopra la terra", o "gongkai", aperte, cioè quelle con riconoscimento e registrazione ufficiali da parte delle autorità comuniste, e dall'altro lato le comunità "dixia", letteralmente "sotterranee", cioè clandestine e illegali, quelle che non hanno mai accettato di registrarsi e di sottomettersi al controllo dei due organismi creati ad hoc dal governo: l'Associazione patriottica dei cattolici cinesi e l'Amministrazione statale degli affari religiosi.

Anche i vescovi, in tutto quasi un centinaio, ricalcano questa divisione. Vi sono quelli "sopra la terra" e quelli "sotterranei".

I primi si dividono a loro volta in tre categorie. Vi sono vescovi riconosciuti dal governo ma non dalla Santa Sede, che quindi sono stati consacrati ed esercitano il loro ministero in forma illecita: attualmente pochissimi. Vi sono vescovi designati dal governo e consacrati illecitamente, che però in seguito – per vie riservate – sono stati approvati anche da Roma: attualmente la gran parte. E infine vi sono vescovi, giovani e di recente nomina, che sono stati designati dal governo, ma prima dell'ordinazione hanno chiesto e ottenuto l'approvazione di Roma.

Quanto ai vescovi "sotterranei", ordinati clandestinamente con l'approvazione di Roma ma mai riconosciuti dalle autorità cinesi, sono i più angariati. Operano nell'illegalità sotto costante minaccia, spesso sono imprigionati, molti sono agli arresti domiciliari. E così il loro clero.

Ma anche i vescovi con riconoscimento ufficiale non se la passano bene. Negli ultimi mesi i controlli e le pressioni governative su di loro si sono rifatti asfissianti. Le autorità cinesi fanno di tutto per ostacolare un riavvicinamento tra le comunità cattoliche "sopra la terra" e quelle "sotterranee": quel riavvicinamento che è proprio l'obiettivo prioritario della lettera scritta nel 2007 da Benedetto XVI ai cattolici della Cina.

Una prova è ciò che è accaduto pochi mesi fa quando il vescovo ufficiale di Shijiazhuang, monsignor Jang Taoran, si è offerto generosamente di fare da ausiliare del vescovo clandestino della sua stessa diocesi, monsignor Giulio Jia Zhiguo, al fine di unificare la cura dei fedeli. Le autorità comuniste hanno impedito ai due vescovi di avere contatti tra loro e il 30 marzo hanno arrestato il secondo, che è tuttora in prigione.

***

La "falsa interpretazione" della lettera del papa ai cattolici della Cina, denunciata dal cardinale Zen, è stata agevolata anche dal boicottaggio messo in opera contro la stessa lettera, da parte delle autorità cinesi.

L'Associazione patriottica ne ha proibito la diffusione. Vari sacerdoti che la distribuivano sono stati arrestati. I siti web cinesi che la riportavano hanno dovuto cancellarla. La sua versione integrale riportata in lingua mandarina nel sito del Vaticano è tuttora inaccessibile in Cina.

È stato faticoso e tortuoso anche l'arrivo ai destinatari di una successiva lettera del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di stato vaticano, recapitata personalmente a ciascun vescovo della Cina. In alcuni casi ci sono voluti mesi. Né questa lettera – incerta nei contenuti, a giudizio del cardinale Zen – ha aiutato a portare chiarezza.

Il più grave fraintendimento delle indicazioni date da Benedetto XVI ha riguardato – sempre a giudizio del cardinale Zen – la questione del riconoscimento ufficiale da parte delle autorità comuniste. Molti hanno interpretato la lettera del papa come un ordine tassativo dato alle comunità e ai vescovi "sotterranei" di uscire dalla clandestinità e di chiedere il riconoscimento del governo.

Zen ritiene invece che "questa interpretazione non solo non rappresenta il pensiero del Santo Padre, ma va anche contro la crudele realtà dei fatti".

E prosegue:

"La realtà fondamentale è che il governo ha tenuto la sua politica sostanzialmente immutata, una politica che mira a rendere schiava l'intera Chiesa. Per questo ci tocca essere testimoni di uno spettacolo doloroso: vescovi e sacerdoti che, pensando di obbedire al Santo Padre, fanno sforzi enormi per giungere a un accordo con il governo; molti di questi, di fronte a condizioni inaccettabili imposte dal governo, si tirano poi indietro, ma per questa vicenda il clero non è più unito come prima; altri, pensando che tirarsi indietro è come disubbidire al Santo Padre, hanno cercato di rimanere in una situazione di compromesso, lottando con forza per mantenere la pace interiore, ma in una situazione così contraddittoria che fa soffrire in modo profondo non solo i vescovi coinvolti in via diretta, ma anche i loro sacerdoti che non riescono più a capire il loro vescovo. Il governo, da parte sua, si è presentato come un entusiasta sostenitore della volontà del papa, dichiarandosi esso stesso il promotore dell'unità [della Chiesa], ovviamente un'unità sotto il controllo assoluto del governo dentro la gabbia della cosiddetta Chiesa indipendente".

Al fine di ovviare a questo sbandamento, il cardinale Zen si è strenuamente battuto nei mesi scorsi perché fosse diffuso da Roma un "Compendio" di chiarificazione della lettera di Benedetto XVI. E c'è riuscito. Il nuovo testo guida è stato pubblicato il 23 maggio e messo in rete nel sito web del Vaticano in tre versioni: in cinese antico, in cinese moderno e in inglese. È formulato a domanda e risposta, con alcune note e due appendici.

Nel suo commento, il cardinale Zen valuta il "Compendio" positivamente. E invita i cattolici cinesi a leggere con attenzione soprattutto la risposta n. 7 e le note 2 e 5.

La risposta n. 7 mostra che il papa non ha abbandonato i cattolici delle comunità "sotterranee". Anzi, li "incoraggia a perseverare nella loro fedeltà senza compromessi".

La nota 2 distingue tra "riconciliazione spirituale" e "fusione strutturale". Il papa "incoraggia la prima che deve essere perseguita con il massimo impegno e sollecitudine, mentre il realizzarsi della seconda può essere al di fuori della sola buona volontà".

La nota 5 chiarisce che Benedetto XVI "né esclude la possibilità di accettare o di cercare il riconoscimento del governo, né incoraggia a farlo". È giusto desiderare di operare in libertà e allo scoperto, "ma purtroppo – scrive Zen ricalcando le parole del papa – 'quasi sempre' è impossibile fare così perché le condizioni che ci sono imposte non sono compatibili con la nostra coscienza cattolica".

__________


I testi integrali delle note 2 e 5 del "Compendio" della lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi:


Nota 2
Possiamo vedere che il Santo Padre parla di una riconciliazione spirituale, che può e deve realizzarsi oggi, anche prima che si realizzi una fusione strutturale tra le comunità cattoliche ufficiali e non ufficiali. Di fatto il Santo Padre sembra fare una distinzione tra "una riconciliazione spirituale" e "una fusione strutturale". Egli riconosce che la riconciliazione è come un viaggio che "non può essere compiuto da un giorno all'altro" (6.6): comunque egli sottolinea che i passi da fare lungo la strada sono necessari e urgenti, e non possono essere rimandati poiché – o col pretesto che – sono difficili, dal momento che richiedono il superamento di posizioni o vedute personali. I tempi e le vie possono variare secondo le situazioni locali, ma l'impegno alla riconciliazione non può essere abbandonato. Questo percorso di riconciliazione, inoltre, non può essere limitato solo all'ambito spirituale della preghiera ma deve anche essere espresso da passi concreti di effettiva comunione ecclesiale (scambi di esperienze, scambi di progetti pastorali, iniziative comuni, ecc.). Da ultimo, non deve essere dimenticato che tutti senza eccezioni sono invitati a impegnarsi in questo cammino: vescovi, preti, religiosi e fedeli laici. È per mezzo di passi concreti che la riconciliazione spirituale, che include una riconciliazione visibile, avverrà gradualmente e culminerà un giorno nella completa unità strutturale di ogni comunità diocesana attorno al suo unico vescovo e di ogni comunità diocesana con ogni altra e con la Chiesa universale. In questo contesto, è lecito e opportuno incoraggiare clero e fedeli laici a compiere gesti di perdono e riconciliazione in questa direzione.


Nota 5
Riguardo al riconoscimento da parte delle autorità civili – necessario al fine di operare pubblicamente – il Santo Padre riafferma alcuni principi fondamentali: "La condizione clandestina non è una condizione normale della vita della Chiesa e la storia mostra che i pastori e i fedeli fanno ricorso ad essa solo tra sofferenze, nel desiderio di mantenere l'integrità della loro fede e di resistere alle interferenze di corpi dello Stato in materie strettamente attinenti la vita della Chiesa" (8.10); il riconoscimento civile può essere accettato "a condizione che questo non comporti la negazione di principi irrinunciabili della fede e della comunione ecclesiale" (7.8): "quasi sempre", tuttavia, le persone coinvolte sono obbligate "ad adottare attitudini, a compiere gesti e a sottostare a impegni che sono contrari ai dettami delle loro coscienze come cattolici" (7.8); la Santa Sede lascia la decisione al singolo vescovo il quale, consultato il suo presbiterio, è meglio capace di conoscere la situazione locale e di pesare le conseguenze. Quindi, il papa né esclude la possibilità di accettare o di cercare il riconoscimento del governo, né incoraggia a farlo: l'ideale sarebbe di abbandonare la condizione clandestina ma tutto dipende dalle costrizione imposte. Dovrebbe essere usata prudenza e il giudizio finale spetta al vescovo locale, che deve consultare il suo presbiterio (7.8). Naturalmente, il vescovo può sempre consultare la Santa Sede, al fine di chiedere assistenza nel difficile compito di valutare la situazione locale e discernere la migliore linea di azione, ma, alla fine, la decisione è lasciata a lui. È anche opportuno richiamare che le situazioni differiscono grandemente da un'area all'altra, da una diocesi all'altra (per esempio, riguardo al grado di libertà dell'attività della Chiesa) e che anche quando le condizioni "oggettive" ci sono (ad esempio, la legittimità del vescovo), la maturazione e la coscienza dei singoli cattolici deve essere sempre rispettata.


Servono le leggi per un popolo di assenti? - Autore: Turroni, Paola Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 20 luglio 2009


Servono le leggi per un popolo di assenti? Serve stabilire vincoli e paletti, intimare condanne e multe, per chi dimostra di essere lontano anni luce dalla comprensione del problema? Perché è indubbio che per estirpare un problema è necessario comprenderlo, avere per lo meno la disponibilità, o l’intelligenza, o la necessità, di chiedersi perché.
Comprendo ciò che spinge il Comune di Milano a intervenire sul gravissimo, doloroso, problema dell’alcolismo tra i minorenni. Capisco anche che sia costretto a farlo con gli strumenti a disposizione, cercando malamente di sostituirsi al vuoto che regna intorno al problema. Capisco anche che tutti gli interventi alternativi alla punizione, come la sensibilizzazione sociale, l’intervento nelle scuole e nei centri educativi, l’informazione adeguata all’età dei referenti, eccetera, sono a rischio di spreco e di vacuità. A rischio che finiscano nel calderone delle politiche giovanili che non fanno cultura ma solo pubblicità, perché spesso assomigliano troppo alla televisione e al suo modo di comunicare, quindi chi li riceve crede facciano parte della stessa messa in scena. E purtroppo spesso è così.
E non dico questo perché i giovani sono a priori dei cretini rincretiniti dalla televisione, o perché non siano capaci di capire contenuti e contesti, o perché siano imbarboniti a tal punto che non resta che il rastrellamento. Almeno finché sono minorenni, non sono colpevoli, mai. Sono le loro famiglie ad esserlo, perché non ci sono, perché sono loro a essere incretinite, sono loro a non fare terreno, a fare vincolo, paletto. Sono le famiglie che danno o non danno senso ai contenuti e ai contesti. Così, quando danno la notizia al telegiornale e intervistano alcuni genitori per sondare le loro reazioni, e io sento quello che ho sentito, allora so già che tutta la buona semplicistica volontà messa nella proposta della multa, non servirà assolutamente a niente.
Non cambierà di una virgola il problema sociale, e anzi sposterà ancora più lontano la possibilità di comprenderlo. È prioritario sapere perché così tanti ragazzini, sempre di più, sempre più piccoli, senza distinzione sociale (perché cambiano solo le modalità e i vestiti e i luoghi, ma la quantità resta abbondante ovunque), bevano tanto. È prioritario l’ascolto serio delle origini del male, diciamolo in questo modo tremendo, inascoltabile. Bevono perché stanno male, anche se ci vuole molto tempo prima che riescano a dirlo, e quindi bisogna avere pazienza, bisogna avere tempo. E poi, quando si comincia a togliere quel velo spudorato di disinibizione che si mettono addosso, e si scoprono le ferite, persino i pudori, i vuoti disperati, l’assenza della consapevolezza di una storia, a quel punto bisogna rimboccarsi le maniche, e avere ancora più pazienza, ancora più tempo.
Una mamma ai microfoni ha detto “quando arriva la multa lo metto in punizione così lo vedo di più”. Un papà ha detto “quando arriva la multa vado a chiedere i danni a chi ha venduto alcol a mio figlio”. Servono le leggi per un popolo di assenti?


ENCICLICA/ Quadrio Curzio: l’impresa per Benedetto XVI? Creatività e profitto. Ma a vantaggio di tutti - Alberto Quadrio Curzio martedì 21 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Caritas in veritate, l’enciclica sociale di Benedetto XVI, è un documento complesso che richiederà molta riflessione anche per valutare la sua collocazione nella continuità della dottrina sociale cattolica alla quale Giovanni Paolo II ha dato, soprattutto con la Centesimus annus (1991), un notevole slancio, così come l’aveva dato Paolo VI con la Populorum progressio (1967). Due veri e propri snodi della dottrina sociale dalla Rerum Novarum (1891).

L’economista deve essere consapevole che il fondamento e la prospettiva dell’enciclica è teologico-antropologica e che un riflessione su di essa soltanto di tipo istituzionale-sociale-economico è parziale. Ma non perciò inutile, in quanto la dottrina sociale cattolica offre un orientamento ideale, a-temporale e a-spaziale, a tutti coloro che nelle diverse responsabilità devono affrontare e risolvere problemi socio-economici in un momento storico e geografico specifico. La dottrina sociale non propone invece modelli economici e politici (Centesimus annus, 43; Caritas in veritate, 9)

L’intonazione della Caritas in veritate è che la crisi e le difficoltà di cui al presente soffrono gli stati, la società e l’economia sono dovute innanzitutto alla mancanza o alla carenza di un’adeguata ispirazione solidaristica orientata al bene comune, che significa “…prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città” (7).

Ciò pone il problema del significato dello sviluppo e di come perseguirlo. Una risposta unificata e unificante al problema dello sviluppo orientato al bene comune e alla promozione della persona si può trovare nella Caritas in veritate, in linea con la Centesimus annus, nella combinazione di sussidiarietà e solidarietà, due principi costanti della dottrina sociale cattolica. “Il principio di sussidiarietà - afferma infatti l’ultima enciclica di Benedetto XVI -va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno” (52). Affermazione che viene completata dalla seguente: “Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz'altro il principio di sussidiarietà espressione dell'inalienabile libertà umana” (57).

La Caritas in veritate enfatizza questi grandi ideali, che sono anche criteri operativi, affiancandoli con quelli della complementarietà tra giustizia commutativa, che presiede ai contratti, giustizia distributiva e giustizia sociale, che si fondano e generano equità e fiducia. Così l’enciclica afferma che “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave” (35).

Rielaborando e sintetizzando la Caritas in veritate, anche in base alla Centesimus annus, chiarisce che tutto ciò passa attraverso le istituzioni (che fissano le regole e le fanno rispettare), la società (che opera su un principio di coesione e di convinzione), il mercato (che opera secondo criteri economici di convenienza e non contro il bene comune fissato dalle regole di concorrenza e di correttezza). L’equilibrio tra queste forze dovrebbe essere ispirato da un convinto (e non costretto) solidarismo operante così da combinare libertà e responsabilità.

I principi generali prima enunciati trovano molte applicazioni nella Caritas in veritate, che come intonazione preferisce quella che ricrea o rafforza gli ideali a quella di una logica economica che, fuori dalla storia e dagli ideali, diventa meccanicismo. Ponendoci tra ideali e logica dovremmo valutare le proposizioni dell’enciclica sulle istituzioni, sulla società, sul mercato, sull’economia, sul profitto, sul terzo settore, su sviluppo e sottosviluppo, sulla globalizzazione, sulla crisi. In definitiva tutti i grandi temi del XXI secolo, ma anche eredità del XX. Impossibile trattarli tutti. Concentriamoci allora, in questa occasione, sul modo di intendere l’impresa (come risulta in Caritas in veritate, 40). Si afferma che l’impresa non deve tenere conto solo degli interessi dei proprietari, pur legittimi e meritevoli di tutela, ma anche di tutti gli altri soggetti coinvolti nella sua attività: lavoratori, clienti, fornitori, comunità e territori di riferimento. Sappiamo che questo convincimento, snaturato dalle dottrine libertarie che con il loro assoluto del “creare valore a qualunque costo per gli azionisti” ritengono che a tal fine basti il liberismo, risponde spesso alle esigenze degli imprenditori migliori; i quali nella loro attività esplicano una creatività personale e comunitaria che trova nel profitto un complemento irrinunciabile, ma non sufficiente, per far sì che l’impresa stessa prosperi.

La Caritas in veritate, in linea con la Centesimus annus, esprime l’apprezzamento per le opere di questi imprenditori, così incoraggiando gli altri a seguire il loro esempio. Ed ecco come nel caso specifico dell’impresa economica gli ideali si traducono in fatti, vivendo nella libertà responsabile di intrapresa.


GIORNALISMO/ Il “Testori della Sera”, gli articoli che raccontarono la maestà della vita - Redazione martedì 21 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Il 10 settembre 1975 approda al Corriere una firma atipica, quella di Giovanni Testori, già poeta, critico, pittore, scrittore e drammaturgo. Si apre così una stagione che lo vedrà (soprattutto grazie al rapporto col direttore Di Bella) assiduamente presente in prima e in terza pagina e che lo porterà, negli anni, alla cifra di ben 841 articoli al quotidiano di via Solferino. Nel 1982 il «Testori della Sera» (come apostrofato da L’Espresso) ne aveva curata un’antologia, La maestà della vita, in cui compaiono anche numerosi scritti per il neonato settimanale Il Sabato, a cui stava collaborando con entusiasmo.

Naturalmente portato ad una scrittura votata all’accumulo e all’eccesso, Testori si scontra con le ragioni dell’economia e dell’essenzialità tipiche della scrittura giornalistica, con cui scende a patti con una soluzione tutta personale: nella sua penna riescono infatti a convivere la scrittura giornalistica, quella saggistica del critico e quella creativa del letterato, secondo un’alchimia che gli permette di plasmarsi secondo le esigenze del caso. Perché proprio questo era il fulcro dell’interesse che aveva portato Testori al giornalismo: la possibilità di partecipare al dramma altrui e di abbracciarlo facendosi cassa di risonanza della «sperdutezza» che coglie di fronte al mistero della vita e della morte.

Da qui la necessità di «pagare in prima persona», senza sconti, perché, scriveva, «o si riconosce questo dolore che sta sotto la plastica dell’apparenza, ci si partecipa e si fa così giornalismo, a stampa o in tivù, oppure non si fa altro che amplificare il Potere. E si ha sì il Potere: ma quello di partecipare alla morte, all’annientamento».

A-moralista e radicalmente anti-intellettuale (memorabile il suo scontro con Giorgio Napolitano, allora quadro del P.C.I.), Testori si compromette senza sconti, convinto com’è che la sua penna non possa che «cercare d’indicare il volto di Cristo, dunque dell’uomo, là dove si trova e più terribilmente appare». Per il novatese, così segnato dall’ossessione per la contraddizione nascita-morte, questa, più che una missione di vita, è quasi una maledizione: «Anche quando l’ho bestemmiato e ho cercato di levarmelo di dosso, Cristo non mi ha mai abbandonato. E di questo non sono responsabile io, ma Lui con la sua carità. C’è una frase di Rimbaud che esprime benissimo ciò che provo: “Io sono schiavo del mio battesimo...”. E io mi sento schiavo di un battesimo addirittura anteriore al sacramento: la mia stessa nascita».

Affrontare questa contraddizione lacerante dona a Testori un’operosità febbrile che lo porterà, a partire dalle colonne dei suoi articoli, all’incontro con gli amatissimi giovani, all’attenzione agli emarginati, alla sacralità della vita e della morte, a ricercare chi è ignorato dai «quartieri alti della cosiddetta “cultura”».

Gli articoli toccano i temi più svariati, dal terremoto in Irpinia all’attentato a Giovanni Paolo II, dalle violenze del terrorismo al referendum sulla legge 194. Una sintesi, qualora possibile, risulterebbe svilente, ma non si possono non ricordare alcune prese di posizione, come quando si era schierato contro gli applausi in occasione di una sentenza di ergastolo inflitta a due giovani “sanbabilini” improvvisatisi assassini. Convinto che «la legge è vincita, non rivincita; e come tale ha da essere, sempre, rispettata ed amata», Testori scrive: «Vorremmo che essi non precipitassero nel buio della disperazione. […] Vorremmo dir loro che quel giorno è finita la parte negativa della loro vita, quella consegnata alla violenza, al sangue, all’assassinio, al male e alla morte; ma che la parte vera, quella che ha diritto ha chiamarsi vita, ove pur dovesse svolgersi tutta e intera tra le mura di un carcere, comincerà (e noi ci auguriamo sia in effetti già cominciata) dal giorno in cui, misurando l’orrore in cui sono caduti e il dolore che così facendo hanno causato, sapranno accettare la separatezza, la cecità e il silenzio di quelle mura come un passaggio necessario per poter rientrare nell’equilibrio primo della vita, anche se la vita, fuori da quelle mura, forse non potranno mai più sapere cosa sia».

Già da questi brevi estratti si può intuire come questi articoli testimonino un giornalismo di alta levatura, capace di una ferma tenerezza che non ha interesse nel mettere alla gogna i colpevoli perché sa che una lettura seria dei fatti richiede di mettersi in discussione in prima persona. Un esempio maestoso, una traiettoria di vita che reclama uomini all’altezza di una tale eredità.

(Marco Pedersini)


I diritti dell’uomo nella tradizione ebraico-cristiana - di Cornelio Fabro - In questo studio, letto alla tavola rotonda sui diritti dell’uomo indetta a Oxford dall’Unesco (11-19 novembre 1965), l’autore dimostra come soltanto la fondazione in Dio della libertà conferisce ai diritti dell’uomo un valore proprio e inalienabile, preservando dalle aberrazioni che la riflessione culturale teologicamente sradicata ha drammaticamente prodotto nella storia. - [Da «Studi Cattolici», n. 66, settembre 1966, pp. 4-12]

La ricerca dei diritti dell’uomo è la scoperta che l’uomo fa di se stesso nel destino sempre aperto del suo «essere-nel-mondo». La caratteristica di questa ricerca su se stesso, a differenza di quella che l’uomo intraprende sul mondo e su Dio, e (o sembra) che qui l’interrogante o l’interrogato, il soggetto o l’oggetto od anche — in senso ancor più forte — il contenente e il contenuto coincidono in quanto alla fine è l’uomo che parla e giudica dell’uomo, ossia di se stesso. Eppure non si tratta affatto di un circolo vuoto o di una vana tautologia: lo sarebbe forse se l’uomo fosse una semplice «cosa», come gli esseri che si trovano nel mondo e che sono totalmente oggettivi come elementi della natura, e lo sarebbe anche se l’uomo fosse Dio ovvero l’Assoluto come spirito ch’è totalmente soggettivo ossia possesso pieno e perfetto della propria libertà.
L’uomo si presenta a se stesso e nello sviluppo della cultura come posto «in mezzo» fra la natura e Dio, come convergenza e tensione di oggettività e soggettività e quindi come ambiguità del rapporto ch’egli ha da istituire con la natura e (eventualmente) con Dio. L’uomo ha perciò da conoscere se stesso nella tensione di questa libertà che sta a fondamento dei suoi diritti come singolo e come nucleo esigenziale della socialità in cui e chiamato a vivere e ad esplicare le proprie possibilità (1).
È comunemente accettato che il mondo classico greco-romano ha considerato l’uomo in rapporto al mondo e come immerso nella natura, secondo quella che si potrebbe dire ad un tempo la prospettiva cosmica ed estetica del suo essere, prendendo questi termini nel più largo margine intenzionale quando si pensa soprattutto all’opera dei massimi filosofi greci di cui non ha cessato e non cessa ancora di alimentarsi la nostra civiltà. Non a torto Hegel, dal punto di vista che intendiamo appena suggerire, ha classificato per naturale e naturalistica la religione orientale e greca nella quale la divinità altro non è che la proiezione o rappresentazione delle molteplici e sconcertanti forze della natura the si dirigono verso e contro l’uomo (2). Non si vuol dire con questo che il mondo greco, che costituisce la prima forma organica (Gestalt) del regno della ragione, ignori la richiesta della libertà e dei diritti dell’uomo — basti ricordare sia l’etica aristotelica e soprattutto quella stoica che prelude al cristianesimo e si rivolge all’uomo essenziale senza distinzione di classi, sia il passo decisivo fatto in questo senso dal diritto nomano — ma s’intende solo di precisare che la tipica concezione di quel mondo non aveva né lo spazio vitale né i mezzi per realizzare tale libertà perché tanto l’uomo come gli dèi erano bloccati nella loro volontà dalla necessità (αναγχη, μοιρα - fatum) invadente del cosmo. La vanità di ogni aspirazione era sigillata dalla chiusura della storia secondo la legge cosmica dello «eterno ritorno» grazie alla quale ogni civiltà — qualunque fosse stato il suo splendore — non poteva evitare il proprio tramonto per lasciare il posto ad una nuova la quale avrebbe ripetuto il medesimo ciclo.
Così la libertà umana, di cui si sentiva con crescente passione l’urgenza indispensabile, finiva per essere travolta anch’essa dalla «ruota» del divenire cosmico: «fortuna» e «caso», cioè l’assenza di ogni consistenza sia nel positivo come nel negativo dell’esistenza, si dividono nel mondo classico le vicende della storia e nessuno alla fine ha più diritto di lamentarsi e di dolersi, poiché gli stessi dèi dovevano piegarsi davanti alla ineluttabilità del fato: ad Enea, dopo la caduta di Troia, non resta che portare con sé in Italia i «vinti penati» (3). In questo senso, con la terminologia kantiana, si potrebbe dire che il mondo classico ha conosciuto ha libertà fenomenica, ma non quella noumenica: esso ha ben intravisto i diritti dell’uomo come un bene universale per tutti e per ciascuno, che scaturisce dall’istinto della sua natura razionale, ma sembra non sia riuscito a superare l’orizzonte del tempo perché questo era chiuso nella necessità cosmica, come si è detto. Si deve tuttavia riconoscere la generosità di questo sforzo per attingere la libertà da parte del pensiero classico: la sua opera non è stata ne vana ne inutile poiché esprimeva, sia pure con molta fatica e non senza difetti e lacune, la comune aspirazione dell’umanità che voleva riscattarsi dal mondo fisico della violenza: per questo non a caso, l’etica e il diritto che sorgeranno nelle vane scuole cristiane nel mondo greco e latino faranno largo posto, ancor prima della Scolastica latina, ai principi della concezione classica dell’uomo.

Preludio ebraico alla libertà cristiana

Quest’osservazione preliminare, e quasi semplicemente interlocutoria, potrebbe avere un doppio significato per mettere a fuoco l’argomento del nostro studio. Anzitutto, non solo la concezione cristiana, che muovendo dall’Oriente aveva aperto davanti a sé il destino dei popoli dell’Occidente, non respingeva ma si avvaleva delle aspirazioni e dei contributi del mondo classico: ma si può ammettere che anche la concezione ebraica quale si esprime nei libri sacri del vecchio Testamento, non ignora le aspirazioni e i risultati che si erano manifestati nel complesso e grandioso ciclo dei popoli semitici sia di quello sviluppatosi nel medio Oriente dal quale precisamente si era mosso Abramo per venire nella terra promessa, come di quello egiziano sviluppatosi nella terra del Nilo dalla quale si muoverà il massimo legislatore Mosè per fare ritorno alla terra dei padri. Poi — e questo significato non è in fondo che un approfondimento del primo — questo convergere di mondi apparentemente opposti alla concezione ebraico-cristiana dell’uomo come quello orientale estrabiblico e quello classico estracristiano tolgono all’opposizione stessa il carattere di una rigorosa separazione e suggeriscono un’affinità che si potrebbe chiamare in divenire ovvero in continuo progresso sul piano esistenziale della libertà.
È sempre l’irresistibile aspirazione alla libertà che lega insieme le invocazioni bibliche rivolte a tutte le nazioni per il ritorno a Dio, quali si leggono p. es. specialmente nei salmi e nei profeti, e le dichiarazioni della Pacem in terris di Giovanni XXIII sulla fratellanza di tutti gli uomini e sulla eguaglianza di tutti i popoli. Ciò suggerisce, ci sembra, un’interrogazione ed una risposta od un’osservazione più propriamente introduttoria al nostro preciso argomento: il carattere chiuso ed esclusivo, ch’è ritenuto proprio della concezione ebraica, come poteva provocare e continuarsi nella concezione universalistica ch’è propria del cristianesimo? Come mai una «chiusura» così qualificata qual è data dalla scelta ben precisa di un popolo segregato da tutti gli altri, poteva trasformarsi in un’apertura universale ch’è un invito a tutti i popoli senza distinzione di razza e di origine? L’osservazione che l’interrogazione suggerisce è semplice e fondamentale, cioè quella che la distinzione o segregazione presente, invocata nella concezione ebraica, ha carattere storico e strumentale il cui fine è di preparare l’avvento di quella libertà di tutti e di ognuno ch’è il dono e il diritto di ogni uomo per riconoscersi uguale nella comunità universale.
Il complesso problema dei diritti dell’uomo è diversamente sentito, com’è ovvio, nelle varie civiltà e nei diversi periodi della stessa civiltà e questo vale anche per la costellazione etico-religiosa a cui si limita il nostro scritto: il progresso innegabile che segna indubbiamente la dichiarazione dell’ONU è venuto al termine di un lungo processo di maturazione nella concezione della persona umana, superando la violenza delle esagerazioni sia del collettivismo come dell’individualismo. Avremmo potuto seguire o l’ordine indicato nel testo della dichiarazione dell’ONU approvato il 10 dic. 1948 la quale proclama (in continuità con la dichiarazione dei «diritti dell’uomo» della Rivoluzione francese) che tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e nei diritti. Oppure si potevano prendere in esame e discutere le situazioni esistenziali di diritto che hanno suscitato maggiori conflitti nella storia: quali i problemi interessanti l’esercizio della libertà, della schiavitù, la posizione della donna, la libertà di religione, il principio della tolleranza, ecc. Ci è sembrato che questa seconda via fosse la più indicata per la sua maggior aderenza alla vita vissuta: ma, data ha straripante ampiezza e complessità dei temi concreti, ci siamo limitati a rilevare il senso che ha avuto e deve avere nella tradizione ebraico-cristiana il diritto fondamentale alla libertà, che ha avuto la sua formula negativa nel problema della «schiavitù», ossia della situazione che investe in proporzioni variabili e nelle forme più insidiose ogni epoca ed ogni forma di civiltà dai secoli più remoti fino ai nostri giorni.
Nulla meglio dell’epopea biblica della creazione ci dà l’idea, più di qualsiasi tipo di mitologia, dell’unità del genere umano e quindi di quell’universalità radicale dei diritti dell’uomo per i quali oggi la coscienza di tutti i popoli e su tutti i continenti e impegnata come mai nella storia dell’umanità (4). Senza dover fare opera strettamente teologica, noi possiamo dal racconto biblico della creazione e dei primordi dell’umanità rilevare i seguenti caratteri che costituiscono quella che si può chiamare la struttura ontico-esistenziale dell’uomo: A) la creazione universale secondo tutte le dimensioni dell’esistenza (di tempo e spazio); B) la caduta universale secondo le dimensioni totali della storia di oggi e sempre; C) la libertà universale secondo l’esigenza universale senza distinzioni (5).
A) Nulla meglio del nucleo biblico della creazione può presentare sia l‘inconfondibile dignità dell’uomo che fa capo alla sua spiritualità e libertà, sia i limiti ch’egli con l’abuso di questa libertà ha causato a se stesso mediante la caduta e la perdita della grazia e di alcuni fra i privilegi originari che Dio gli aveva concessi fin dal primo momento della creazione stessa.
Come molti altri racconti di popoli semitici, ma con maggior sobrietà e dignità, la Bibbia attribuisce a Dio l’origine dell’uomo. Il tratto principale del racconto biblico della creazione ha due o tre momenti:
a) l’uomo è creato soltanto da Dio, senza intermediari: il corpo è formato con le mani di Dio dalla terra e l’anima gli è infusa direttamente da Dio ed ha quindi una natura strettamente spirituale;
b) la creazione e un atto assolutamente nuovo e libero: non è quindi un processo di emanazione necessaria da parte di Dio, né in senso classico (emanatismo neoplatonico), né in senso moderno (dottrina degli attributi di Spinoza, armonia prestabilita di Leibniz, creazione eterna per identità dialettica di finito e Infinito secondo l’idealismo metafisico trascendentale di Fichte-Schelling-Hegel...);
c) la creazione dell’uomo ha carattere assolutamente universale, poiché Adamo è il primo uomo padre di tutti gli uomini dal cui corpo Dio trae il corpo di Eva che sarà la madre di tutti gli uomini: e da questa prima coppia, secondo il racconto biblico, l’origine di tutto il genere umano e i figli di questa coppia andranno via via occupando tutti i continenti (6) (Cfr. Gen. 3, 20 e la genealogia di Gen. 4, 1, 17-24; Sap. 10-1; Act. 17, 26; Rom. 5, 12). Secondo gli esegeti, il termine hâ-âdam ch’è usato nel racconto della creazione ha significato collettivo ed abbraccia tutto il genere umano ed è insieme un singolo nella linea del quale nascerà poi Noè (Gen. 5, 1-28,32); abbraccia quindi non so1o uomini e donne, ma anche tutte le razze che poi saranno disperse ai quattro punti dell’orizzonte. â Nulla quindi nel racconto biblico dell’androgino ipotizzato di Platone e da alcuni rabbini: la donna è creata da Dio per essere l’aiuto di Adamo come «ossi dei suoi ossi, carne della sua carne» (Gen. 2, 21,23) cioè come il complemento indispensabile e la compagna della sua vita. Allora, uguali nella natura, tutti gli uomini sono uguali nei diritti e la donna — anch’essa corpo e spirito come Adamo — ha gli stessi diritti fondamentali dell’uomo, benché sia destinata nella costituzione della famiglia a essere soggetta a lui. La fonte pertanto dell’uguaglianza degli uomini è la loro comune natura e la comune origine nella comune destinazione di occupare la terra e di godere liberamente dei suoi frutti. I progenitori inoltre, secondo il racconto del Genesi, godevano anche di una particolare amicizia di Dio il quale aveva creato per loro uno speciale giardino di delizie perché l’uomo «lo lavorasse e custodisse» (Gen. 2, 15) e nel quale non disdegnava di scendere anche lui e di trattenersi con la prima coppia come un padre con i figli (Gen. 3, 8).
B) La caratteristica della condizione dell’uomo nella narrazione biblica, che sta a fondamento della concezione ebraico-cristiana è precisamente il suo carattere ontico-esistenziale che sta a fondamento dei suoi attributi metafisici. L’uomo è certamente un essere spirituale, ma non si è fatto da sé, non si e fatto dal nulla; questi concetti propri del mito sono completamente assenti dal testo biblico. L’uomo invece è creato direttamente da Dio, mediante un atto libero di Dio il quale delibera prima di creare e crea per pura generosità: per questo il filosofo mussulmano Avicenna ha potuto affermare che Dio è l’agente perfettamente liberale; che a Dio solo compete di donare per pura generosità.
Il racconto biblico ha perciò un carattere strettamente personale: non solo nel senso che Dio opera nella creazione come persona, ma che Egli si comporta anche in seguito come persona, lasciando l’uomo nel possesso e nel libero uso delle perfezioni e dei diritti che gli aveva concessi. Ciò si vede alla evidenza del racconto della caduta la quale fa il «pendant» da parte dell’uomo alla creazione da parte di Dio. Cerchiamo di mettere a fuoco le implicazioni esistenziali del racconto biblico, che si stacca nettamente sia dalle mitologie del mondo semitico e classico sulle origini, come anche dalla concezione del pensiero moderno. Carattere comune infatti alle concezioni mitiche è sia il dualismo metafisico sia l’antropomorfismo: Dio non è padrone dell’essere come tale, ma esprime solo l’aspetto positivo della luce che lotta contro le tenebre e il male che è il suo eterno antagonista. Dio opera perciò a guisa d’uomo nell’arco e nelle dimensioni del tempo e non in arce aeternitatis; nella sua azione poi Dio è nel mito soggetto a una catena, più o meno lunga, d’intermediari. Di qui la libertà, sia in Dio come nell’uomo, è gravemente handicappata e limitata per il fondo oscuro e insuperabile al quale essa resta legata e condizionata. Di conseguenza anche la caduta dell’uomo che si può presentare in quelle narrazioni mitiche, ha carattere di necessità cosmica ineluttabile e inevitabile ed è perciò privata del carattere suo più deciso di valore e responsabilità morale.
Parimenti, nella concezione del pensiero moderno, la possibilità e la realtà della caduta viene concepita non come atteggiamento della persona, ma come la finitezza dell’essere umano ed e identificata senz’altro con essa: una concezione analoga, nell’età moderna, è il radikales Bösen neben dem Guten di Kant (7) che rinnova nella sfera razionale il dualismo costitutivo della concezione mitica e identifica la libertà con la razionalità.
Invece il racconto biblico dell’origine del peccato e del male è tutto situato nella sfera della trascendenza e della libertà. Il peccato è commesso davanti a Dio e contro Dio, è commesso con reale consapevolezza da parte dell’uomo. Il peccato è commesso in tensione di libertà: nella triplice tensione dell’uomo con Dio, con se stesso e col mondo. È commesso come crisi e caduta della libertà in duplice direzione verso la natura esterna, ch’è rappresentata dal frutto dell’albero proibito, e verso la natura spirituale, ch’è rappresentata dal tentatore cioè dallo spirito decaduto e nemico di Dio (sotto l’apparenza del serpente). Mai dramma, concepito da mente umana, si avvicinò per la profondità veramente trascendentale delle sue dimensioni al doloroso realismo ed insieme alla grandezza spirituale del racconto biblico dove l’uomo può ben contendere con Dio e ribellarsi a lui, ma non può salvarsi senza il suo misericordioso intervento. Con la caduta di Adamo ed Eva è caduto tutto il genere umano, cosi che ogni uomo contrae dalla nascita nel suo spirito una debolezza congenita a fare il bene e un’inclinazione umiliante al male nelle passioni dell’orgoglio e della concupiscenza. Tutto il Genesi si diffonde, spesso con crudo realismo, nel racconto delle prevaricazioni dell’uomo nelle sue prime età. Contro l’esplicito senso del racconto biblico, lo gnosticismo moderno afferma invece con Kant che la natura umana non ha subito lesione alcuna e che nulla è cambiato da allora fino ad oggi. Infatti Kant dichiara nella piena maturità del suo pensiero e per analogia con l’esperienza: si deve «presupporre» (voraussetzen) che la natura (umana) al suo primo inizio non era né migliore né peggiore di quel che la troviamo oggi». (8) Siamo perciò agli antipodi della concezione biblicoteologica.
C) Di qui — cioè dalla qualità sia della creazione come della caduta dell’uomo — si possono afferrare tanto il senso come le dimensioni della libertà dell’uomo, la quale dà il fondamento e il senso dei suoi diritti dai quali deriva la possibilità della sua vita e la realtà stessa della storia. E si tratta senza dubbio di una «libertà universale» sia per intensità come per estensione, non però nel senso kantiano e moderno che identifica libertà con spontaneità (Autonomie, Ich denke überhaupt, du sollst...) e perciò finisce per coincidere con la necessità. L’universalità della libertà nel racconto biblico è infatti attestata dal fatto che Dio mette l’uomo ad una «prova» di obbedienza (Gen. 2, 16): l’affermazione della dipendenza nella libertà dal fatto che Adamo ed Eva fanno la scelta ciascuno per proprio conto (Gen. 3, 2 ss., 6): l’affermazione della libertà nella responsabilità dal fatto che Dio rimprovera del tutto Adamo ed Eva separatamente (Gen. 3, 9 ss., 13); affermazione della caduta dal fatto che Dio castiga Adamo ed Eva come responsabili del loro peccato (Gen. 3, 16 ss., 23 s.); affermazione della sanzione dal fatto che la libertà nell’alternativa di bene e di male riappare subito nei primi due figli dei progenitori, Caino ed Abele, ed il senso della libertà è confermato dalla condanna e dal castigo inflitto al fratricida Caino. Inoltre è in una forma che si potrebbe dire «a raggio universale» che Dio col castigo del diluvio ha inteso mostrare ancora la sua disapprovazione per l’abuso della libertà da parte dell’uomo ed iniziare un nuovo patto con un gruppo umano, quello di Noè, che fosse a Lui più fedele. Il patto verrà rinnovato, con un piano storico più preciso, con la vocazione di Abramo col quale si dà inizio al «popolo messianico».

Fondazione in Dio dei diritti dell’uomo

Due sono i poli della libertà umana e sono gli stessi due protagonisti della «storia sacra» a cui ci siamo riferiti: si potrebbe dire che questa storia, nell’avanzare drammatico e sconvolgente dei primi nove capitoli del Genesi (la «Historia primaeva»), procede per fatti essenziali i quali suggeriscono dei doveri e diritti essenziali per l’uomo. Li accenniamo in forma schematica, per mettere in maggior risalto la loro evidenza in forma quasi assiomatica e dialettica: per il fatto che Dio ha creato l’uomo dal nulla, Dio nella concezione biblica ha e mantiene il diritto assoluto (di governo e di giudizio) sull’uomo come primo Principio e ultimo Fine: l’uomo non può essere l’ultimo Fine di se stesso, benché debba operare (tutto) allo sviluppo e al perfezionamento di se stesso (Gen. 2; 15; per il fatto che Dio ha infuso nell’uomo lo «spirito della vita» (Gen. 2, 7) ed ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen. 1, 26), l’uomo è dotato di un’attività spirituale e libera ed ha quindi il diritto fondamentale, ed a suo modo assoluto, delle libere scelte in tutta la sfera del reale, anche di rifiutare Dio e di scegliere contro Dio: di fronte alla natura, di fronte agli altri uomini e di fronte a Dio stesso. E l’uomo, come si è visto, non ha mancato di valersi subito di tale diritto, ma purtroppo a suo danno; infine per il fatto che Dio ha creato l’uomo libero e per il fatto che l’uomo ha subito abusato della sua libertà e per l’evidenza della storia questi e portato più all’abuso che non al buon uso della libertà. Tali contesti mostrano che l’uomo non si può salvare da sé, ossia che l’uomo non può salvare l’uomo. C’è quindi nella concezione biblica una concezione della libertà dell’uomo estremamente dialettica la quale ha, come e chiaro, la sua corrispondenza nella concezione dei diritti dell’uomo: da una parte la libertà dell’uomo è essenzialmente indirizzata a Dio, come prima Causa, col quale nessun altro principio può competere, e come ultimo Fine col quale nessun altro bene può paragonarsi. Ma, d’altra parte, è appunto questo assoluto rapporto all’Assoluto che libera la libertà dell’uomo nel pieno possesso di se stessa (9). Ed è precisamente siffatta fondazione in Dio, ed essa unicamente, che conferisce ai diritti fondamentali dell’uomo un Valore proprio e inalienabile.
Però, si deve subito aggiungere, in virtù del principio della creazione la concezione ebraico-cristiana dei diritti dell’uomo introduce una distinzione fondamentale, quella fra diritto oggettivo e diritto soggettivo. Il diritto oggettivo è quello di conformità al dovere che risulta dall’ordine metafisico costituito dalla creazione stessa ed è espresso mediante una precisa legge naturale che l’uomo poi esplicita ed applica mediante l’uso retto della ragione. Il diritto soggettivo, invece, è l’inalienabilità della libertà propria dell’uomo in quanto tale: esso permette all’uomo non solo di fare il bene, ma anche di scegliere il male, di ribellarsi a Dio ecc., e sta a fondamento della sua responsabilità e consapevolezza.
L’ambito del diritto oggettivo (naturale) è quello appunto della legge naturale secondo la quale tutti gli uomini, per la loro comune origine ed in virtù della comune natura spirituale, sono sullo stesso piano. Su questo piano, pan sono riconosciuti nella Bibbia i diritti fondamentali fra i due sessi, fra i popoli di varie stirpi e fra individui della stessa società: quali il diritto alla vita, alla famiglia, alla proprietà richiesta per vivere, all’esercizio delle proprie libertà. È condannata quindi in radice la schiavitù, la guerra di pura conquista, la discriminazione morale dei sessi…
Se non che — e questo è molto importante da notare — in virtù del carattere teocentrico della religione biblica e della caduta dell’uomo, questi può subire una diminuzione di siffatte libertà a titolo di castigo. Così di Canaan, che aveva deriso il padre Noè, è detto: «Maledictus Canaan, servus servorum erit» (Gen. 9, 25). La stessa soggezione della donna all’uomo ha il carattere di castigo (Gen. 3, 16). Com’è noto, presso il popolo ebraico, come presso gli altri popoli semiti, era consentita la schiavitù soprattutto dei popoli conquistati, ma la legislazione mosaica domandava la mitezza e la clemenza del padrone, in ricordo di quanto i padri avevano sofferto nella schiavitù di Egitto (Dt. 5, 15). Quanto poi ai servi ebrei, essi nell’anno sabbatico dovevano essere lasciati in libertà e accompagnati con abbondanti doni: «Gli farai parte delle benedizioni che l’Eterno, il tuo Dio, ti avrà elargite. E ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che l’Eterno, il tuo Dio, ti ha redento» (Dt. 15, 12-15). Nell’antica legislazione, il servo fa parte della famiglia e, se circonciso, può mangiare l’agnello pasquale (Ex. 12, 44). Nel codice che regola più particolarmente questa materia, non solo il padrone non ha sui servi diritto di vita e di morte, ma se ne sarà la causa, è reo di delitto; se il avrà feriti, dovrà rimandarli liberi (Ex. 21, 2-27). La letteratura talmudica sviluppa la casuistica di questa legislazione, specialmente fra gli schiavi che non erano di origine ebraica: pagani e cristiani. Infatti nel Medio Evo, specialmente in Spagna, molti giudei si arricchirono col mercato di schiavi cristiani (sec. X-XV) specialmente dell’Andalusia, ai quali imponevano la circoncisione (10).

Cristianesimo e libertà civile

L’insegnamento fondamentale del nuovo Testamento e che la vera schiavitù è quella del male e del peccato che rende l’uomo servo del mondo e della concupiscenza e l’allontana da Dio ed è solo la grazia di Criisto che fa l’uomo veramente libero (Rom. 6, 17-18): S. Paolo, tutto proteso alla liberazione dello spirito dal peccato, sembra non dare eccessiva importanza alla libertà civile, pur raccomandandola: «Ognuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei tu stato chiamato essendo schiavo? Non curartene, ma se puoi divenir libero è meglio valerti dell’opportunità. Poiché colui che e stato chiamato dal Signore, essendo schiavo, è un affrancato dal Signore; parimenti colui ch’è stato chiamato essendo libero, è schiavo di Cristo. Voi siete stati riscattati a prezzo: non diventate schiavi degli uomini. Fratelli, ognuno rimanga dinanzi a Dio nella condizione nella quale si trovava quando fu chiamato» (I Cor. 7, 2 1-24).
Nel nuovo Testamento, perciò, benché non si possa trovare una condanna esplicita della schiavitù, brilla chiara come mai in nessuna etica o religione l’affermazione della fratellanza e dell’amore in Dio per Gesù Cristo di tutto il genere umano, di tutti i popoli e di tutti gli uomini: essa supera qualsiasi precetto ed impone non solo di trattare il servo come fratello, ma di amare perfino i nemici e di fare loro del bene (Mt. 5, 21 ss.). S. Paolo proclama che tutti gli uomini battezzati formano un solo corpo di cui Cristo è il Capo, siano essi servi o liberi (ειτε δουλοι ειτε ελευθεροι I Cor. 12, 13. Cf. Eph. 6, 5-9; Gal. 3, 28; Col. 3, 22-24).
Lo stesso S. Paolo, nella commovente lettera a Filemone, prende le difese dello schiavo fuggitivo Onesimo e nel rimandarlo convertito a Filemone gli raccomanda di perdonarlo e di riceverlo «non più come schiavo, ma come fratello diletto» (v. 16).
La mancanza di una condanna esplicita della schiavitù come tale può avere serie ragioni: 1) il Signore ha lasciato alla Chiesa lo sviluppo dei suoi insegnamenti secondo le opportunità e possibilità dei tempi; 2) l’abolizione immediata della schiavitù nell’impero romano, qualora fosse stata possibile, avrebbe portato alla disgregazione della società nelle sue istituzioni fondamentali; 3) la Chiesa nei primi secoli (di persecuzione) era tutta penetrata della speranza della prossima venuta di Cristo e dell’avvento del suo Regno. Così l’assestamento della società terrena poteva avere scarsa importanza.
È chiaro poi che la Chiesa non disponeva dei mezzi esteriori per fare quella immediata trasformazione; essa raccomandava ai padroni di trattare gli schiavi come fratelli e ai servi di vedere nei padroni, come in generale nell’autorità, l’autorità di Dio e Cristo stesso. Non deve sorprendere se la storia della liberazione dalla schiavitù nel mondo cristiano orientale ed occidentale, fino alla sua abolizione nel secolo XIX, sia molto complicata nelle sue leggi e incerta nei suoi passi. Va rilevato che la Chiesa nella sua interna costituzione abolì, fin dai primi tempi, ogni discriminazione in conformità del detto di S. Paolo (Gal. 3, 28). Nella Chiesa primitiva gli schiavi godevano di tutti i diritti, privilegi, facoltà degli altri fedeli liberi; partecipavano senza discriminazione alcuna alle assemblee liturgiche, ed una volta liberati potevano diventare chierici e anche vescovi.
È noto che papa Callisto I portava le stimmate di schiavo fuggitivo; molti schiavi e schiave convertirono alla fede i loro padroni e contribuirono alla propagazione del Vangelo; molti incontrarono il martirio (per esempio le sante Felicita e Blandina, Potamiena..., i santi Teodulo, Agricola e Vitale, Proto e Giacinto).
Ma la Chiesa cercò anche di risolvere sul piano civile e politico il problema della schiavitù. Così si adoperò in tutti i tempi per emancipare coloro che per diritto di guerra o per altri motivi eran divenuti schiavi, alienando e vendendo per tale scopo anche i vasi e le suppellettili sacre, adoperandosi come poteva perché i padroni lo facessero spontaneamente. Non meno efficace fu l’influsso della morale e della spiritualità cristiane sulle cause prossime della schiavitù condannando la cupidigia dei piaceri e delle ricchezze, nobilitando gli affetti familiari per impedire l’esposizione dei bambini e soprattutto nobilitando il lavoro con l’esempio di Gesù Cristo e degli apostoli.
L’influsso della concezione cristiana sul riconoscimento di diritti fondamentali dell’uomo ebbe la sua espressione giuridica sia negli Atti dei Concili, Sia nella legislazione degli imperatori cristiani: già nel Codex Theodosianus, e poi con Giustiniano, sono emanate ben precise disposizioni che facilitano in ogni modo la liberazione degli schiavi e che mitigano con privilegi, concessioni, diritti di asilo e protezione le condizioni degli schiavi. Il movimento di liberazione continuò in tutto il Medio Evo e si estese alle genti barbariche del Nord che accettavano l’influsso della Chiesa e del diritto romano fino a far scomparire in pratica la schiavitù antica e a concepire nuove forme di dipendenza più consone alla crescente consapevolezza della dignità dell’uomo.

Precarietà del diritto avulso da Dio

La perdita totale dei valori di libertà faticosamente conquistati dal mondo moderno nella scia della fratellanza universale, secondo la concezione biblica e gli sforzi della predicazione della giustizia e carità cristiana, furono radicalmente negati e travolti sia dalla «lotta di classe» (Klassenkampf) fonndata sulla violenza fisica e morale da parte del comunismo ateo, sia dalla dottrina della razza del nazionalsocialismo germanico che portò agli errori della seconda guerra mondiale. Ma il disumano errore non poteva vincere e così al prezzo di fiumi di sangue e di lacrime, di montagne di macerie e di distruzioni, l’uomo ha riconquistato una libertà più profonda ed una consapevolezza phi matura della propria dignità che egli oggi deve difendere contro la minaccia dei nuovi e vecchi totalitarismi. L’immensità stessa delle sofferenze della guerra ha contribuito ad avvicinare le diverse classi sociali e a ridurre le loro opposizioni. La sua estensione ha coinvolto, più o meno direttamente i popoli di tutti i continenti, ha mostrato agli uomini la necessità di una unità supernazionale che fosse in grado di superare ogni barriera di razza, di religione e di cultura per ritrovarsi insieme nello sforzo di costruire un mondo pin giusto ed umano. Di qui l’orizzonte si è finalmente schiarito nel fatto più saliente del nostro tempo: cioè la proclamazione della Carta dei diritti dell’uomo da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (1948).
Ci si può domandare però se l’affermazione di tali fondamentali diritti sia riportata ad un adeguato fondamento ontologico che garantisca il loro valore universale secondo un senso assoluto che non vada soggetto ad alcun arbitrio. Essi sono bensì presentati come appartenenti alla natura umana. Però la stessa natura umana, quando sia lasciata a se stessa senza essere riferita ad un’origine trascendente in Dio come Spirito puro ch’è creatore del mondo e padre di tutti gli uomini, può ammettere una pluralità di interpretazioni vane ed opposte le quali mettono in pericolo od almeno in continua contestazione l’esistenza ed il senso di quei «diritti», con le rispettive applicazioni in campo sia etico come sociologico-politico. Senza un riferimento al primo Principio trascendente, anche il «concetto dell’uomo» si dissolve nella costellazione storica (è zeitbedingt): allora ogni principio dell’azione umana si risolve in un patto o convenzione storica contingente la cui consistenza resta sempre precaria e non va pin in là di una vaga aspirazione. In siffatta mancanza di orizzonte, la stessa affermazione basilare della libertà si dissolve in una vaga aspirazione ch’è incapace di determinare nella pratica dei rapporti individuali, sociali e politici, le proprie istanze: per esempio il diritto di proprietà, indispensabile allo sviluppo della persona come centro originario di libertà, non può prescindere dalle esigenze sociali; la libertà religiosa non può fondarsi sul presupposto dell’eguaglianza di valore (che porterebbe necessariamente al giudizio d’indifferenza) di ogni religione, ecc.
Il razzismo nazista vedeva nell’uomo concepito come «creatura di Dio» dalla concezione ebraico-cristiana il principale nemico da abbattere. Esso celebrava, con più o meno ragione, come suoi ispiratori i formatori della coscienza tedesca nella rivolta contro l’ortodossia religiosa cristiano-cattolica, cioè gli esaltatori della «coscienza germanica»: Eckhart, Böhme, Lutero, Leibniz, Herder, Hegel, Nietzsche, Ranke, Spengler, Bismarck, H. Chamberlain… Al posto dell’universale dignità e fratellanza di tutti gli uomini, esso ha sostituito la separazione in virtù del «mito del sangue» (Blutmythus) che doveva consacrare la razza germanica al dominio del mondo sul fondamento del faustiano: «Io voglio e basta!» (Allein, ich «will») (11).
Anche se non siamo ancora in grado di valutare tutta la portata reale che ebbero nela realtà queste pazze parole e le insensate idee ch’esse esprimevano, possiamo perô in qualche modo affermare che senza lo sfondo culturale dei filosofi della linea germanica, ora indicato, difficilmente esse avrebbero avuto tanta presa sul popolo germanico e potuto esaltarlo nella grande maggioranza oltre i limiti dei sentimenti più elementari dell’umanità. Quando si pensa alla glorificazione della «azione pura» di Goethe (Am Anfang war die Tat); quando si ricorda la celebrazione hegeliana dello «Spirito germanico» (germanischer Geist) come lo spirito del nuovo mondo il cui scopo è la realizzazione della Verità assoluta come l’autodeterminazione assoluta della verità, che ha per contenuto la sua stessa forma assoluta (12) che doveva sostituirsi alla concezione cristiana; quando si ricorda la proclamazione frenetica della «vo1ontà di volere» (Wille zum Wille) come «volontà di potenza» (Wille zur Macht) di Nietzsche..., non si può non ricercare le responsabilità più sostanziali che implicano — almeno sotto qualche aspetto — un’intera tradizione culturale. Si tratta di rendersi conto che il pensiero moderno, a cominciare proprio col cogito cartesiano, rimette nelle mani della volontà e dell’azione le sorti della verità dell’essere e del senso dell’uomo (13). Allora, se l’essenza della cultura moderna è il volontarismo, non tocca meravigliarsi se poi la verità è identificata con l’azione e il diritto con la forza, come — dopo il crollo del nazismo — continua ora a fare il comunismo mondiale ateo, erede di Hegel e Feurbach. Non a caso pertanto un po’ dovunque le esigenze più profonde dell’umanità reagiscono al fondo filosofico di questa cultura che ha portato il mondo sull’orlo dell’abisso.
La crisi del mondo è una crisi di diritti in quanto e insieme una crisi di doveri ed è una crisi di doveri in quanto prima è una crisi delle fondazioni cioè dei princìpi, che le filosofie del «puro umano» chiuso, nell’orizzonte umano e terrestre, hanno fatto vacillare. Un’esigenza radicale ed elementare di salvezza sospinge oggi il fondo della coscienza di tutti gli uomini — con la fine del colonialismo e con èsso di tutti i residui della schiavitù — ad invocare una giustizia più umana per attuare la pace. Perciò la coscienza dell’umanità in questo periodo postbellico, si apre all’esigenza del dialogo e del colloquio nel senso e consenso di una fraternità universale qual è stata promossa da John F. Kennedy e da Giovanni XXIII, il papa dell’enciclica Pacem in terris.
Ma il compito è ben lungi dall’essere finito: anche oggi il mondo trepida per la pace ed ognuno di noi deve assumere la propria responsabilità.

Note

(1) Cfr. C. Fabro, Dall’essere all’esistente, II ed., Brescia 1965. / (2) Hegel, Phänomenologie des Geistes VII, A e B; Hoffmeister 481 ss. - Cfr. anche: Philosophie der Religion, Jubiläumsausgabe Bd. XV, p. 279 ss.; ed. Lasson Bd. XIII, 2, spec. p. 77 ss. / (3) cfr. S. Agostino, De Civ. Dei, lib. I, c. 3 ove si cita Virgilio: «Gens inimica mihi Tyrrhenum navigat aequor - Ilium in Italiam portans victosque penates» (Aen. I, 71-72). / (4) Cfr. P. Van Inschoot, Théologie de l’Ancien Testament, Bibi. de Théol., Series III, vol. 4; Paris-Tournai 1956, spec. ch: 1. - Cfr. anche: G. Pidoux, L’homme dans l’Ancien Testament, Cahiers théologiques 32, Neuchâtei-Paris 1953. / (5) Alcuni elementi fondamentali del problema si trovano indicati da Fr. Delitsch, System der biblischen Psychologie, Leipzig 1855, p. 123 ss. (§ 3, Die Freiheit); G. Kittel, Theol. Wörterb. z. Neuen Testament, s.v. ανθροπος Bd. I, p. 365 ss. (Joach Jeremias); spec. δουλος Bd. II, p. 264-283. (Rengstorf - art. ampio ma puramente espositivo); ελευθεροι ibid. pp. 484-500 (Schlier: art. accurato per l’aspetto teologico). / (6) La concezione del Genesi rimane inalterata nella tradizione ebraico-cristiana: essa è ripresa espressamente in Eccl. (17, 3.4) che ribadisce il potere dell’uomo su tutta la natura, mentre in Sap. (2, 23-24) la somiglianza con Dio è messa in rapporto con l’immortalità felice che egli ha perduto per l’invidia del diavolo. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità e l’ha fatto immagine della propria eternità (ελευθερος di Epiph., Athan. mantenuta da Ralphs, mentre Sweete segue i Codici Sin., A, B e Clem. Alex. Cfr. P. Van Inschoot, Op. cit., p. 11, n. 2. / (7) Cfr. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, I Stück, Reclam e Vorländer 17 ss. / (8) Kant, Mutmasslicher Anfang der Menschengeschichte (1786): «Congettura» (Mutmassung), osserva Kant, è tutt’altro che pura finzione romanzata: congettura è opera di ragione che intende portarsi aldilà della stona, al punto dove finiscono i documenti della storia (alla Urkunde, Urgeschichte). / (9) Che la divina Onnipotenza creatrice, lungi dall’essere una limitazione, come ha preteso il deismo e poi soprattutto Kant, lo ha dimostrato Kierkegaard in un mirabile testo del Diario (Papirer 1846, VII A 181; tr. it., II ed., Brescia 1963, t. I, p. 512 ss.). / (10) J. Abelson, Slavery, in «Hasting’s Encyclopedia of Religion and Ethics», t. XI, p. 620 b-621 a. Per la recente messa a punto del problema, v. la Enciclopedia Cattolica, t. IV, coll. 1698-1702 («Diritti dell’uomo»: A. Messineo); t. XI, coll. 48-49 («La schiavitù nel mondo antico»: N. Turchi); coll. 49-50 («La s. nella Bibbia»: A. Penna); coll. 50-55 («Il Cristianesimo e la s.»: F. Crosara). / (11) A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, Eine Wertung der seelisch-geistigen Gestaltenkämpfe unserer Zeit, München 1941, p. 699. - Sull’ateismo di fondo della cultura, e in particolare della filosofia moderna, come processo inevitabile del principio d’immanenza, v. ora il nostro: Introduzione all’ateismo moderno, Roma 1964. / (12) Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, Lasson 763. Hegel, com’è noto, identifica il fatto col diritto, la verità col «risultato» della storia, e quindi l’accusato col giudice secondo il principio preso da Schiller che lo «Spinto del mondo» (Geist der Welt) attua il proprio diritto nella «storia del mondo come giudizio del mondo» (Weltgeschichte als Weltgericht. - Cfr. Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 340; Hoffmeister 288. II principio è sviluppato come conclusione della Philosophie der Weltgeschichte, Lasson 937 s.). / (13) Cfr. al riguardo il saggio magistrale di M. Buber, Das Problem des Menschen, in «Dialogisches Leben», Zürich 1947, p. 319 ss.

© Edizioni Ares – Milano


«Le staminali dagli embrioni? Sono un bluff» - di Andrea Tornielli – IlGiornale, 21 luglio 2009
Segnala su OKNOtizie «La Chiesa non è affatto contro la scienza. La Chiesa ascolta, studia, riflette. È la stessa scienza, nel caso della ricerca sulle cellule staminali, a dimostrare che la cosiddetta “clonazione terapeutica” che usa gli embrioni è un metodo obsoleto, che non da risultati...». Monsignor Francesco Follo, originario di Pandino (Cremona), 62 anni, da sette è l’osservatore permanente della Santa Sede all’Unesco. Ha partecipato alla sesta sessione del Comitato intergovernativo di bioetica che si è svolto a Parigi nei giorni scorsi.
Il prefetto dell’Archivio vaticano ha detto di recente che la Chiesa verso la ricerca sulle staminali rischia di usare gli stessi preconcetti della condanna di Galileo. È vero?
«Non mi sembra proprio. La Chiesa è contraria alla creazione e alla manipolazione degli embrioni e dunque alla clonazione di embrioni umani geneticamente uguali alle cellule del paziente. Ma da circa due anni sono state ottenute le staminali Ips (Induced pluripotent stem cells) usando le cellule della pelle. In questo modo non si pone il problema del rigetto, che invece si presenterebbe con l’uso di cellule embrionali. Questo nuovo metodo rende obsoleta la clonazione. E risolve il grave problema morale che esisteva con il metodo precedente».
Sta parlando in termini scientifici o di fede?
«La conclusione a cui alludevo, e della quale si è discusso nei giorni scorsi all’Unesco, è stata tratta da scienziati come Ian Wilmunt, il ricercatore che ha prodotto la pecora Dolly, il primo mammifero clonato nel 1997, e James A. Thomson, lo scienziato che per primo, nel 1998, annunciò di aver ottenuto cellule staminali “pluripotenti” dagli embrioni umani. Sono loro stessi a dire che la nuova tecnica è migliore. Anche se va detto che l’utilizzo terapeutico delle staminali presenta molti problemi, negli ultimi mesi sono stati annunciati i primi successi nell’ottenimento di Ips grazie alle cellule della pelle senza il pericolo della formazione di tumori, come avveniva in precedenza».
Perché se le staminali embrionali sono un metodo vecchio e inefficace il presidente Barack Obama ha rifinanziato la ricerca?
«La ricerca ha fatto molti passi in avanti, non sempre i politici sono informati, come dimostra anche un certo dibattito in Italia. Ci possono essere poi resistenze dovute alla volontà di usare embrioni già congelati, di portare a termine ricerche già in corso, o anche per una pregiudiziale ideologica. Devo dire però che all’Unesco ci si sta aprendo a queste positive novità scientifiche».
Un gruppo di ricercatori britannici ha annunciato di aver clonato degli spermatozoi. Come commenta?
«La clonazione per noi non è accettabile sia per motivi morali, sia scientifici. Mi chiedo quale sia lo scopo. La libertà di ricerca non vuol dire poter fare tutto quello che il ricercatore ritiene fattibile. Se non si riflette sul senso di quello che si fa, allora quello che si fa diventa il senso della vita. Un’altra osservazione è che non tutto ciò che è legale diventa morale. Un tempo erano i teologi che dettavano le norme morali. Poi è stata la volta dei filosofi, si è quindi passati agli scienziati. Adesso non sono più neanche gli scienziati, ma i tecnici e la tecnologia. Così si banalizza la dimensione etica, perché c’è un corto circuito pratico e concettuale. Nella recente enciclica sociale Caritas in veritate Benedetto XVI mette in guardia dalla “pretesa prometeica” secondo la quale l'umanità ritiene di potersi ricreare avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. La tecnica non può avere una libertà assoluta. Mi sembra di notare, nel dibattito a cui ho assistito a Parigi, che ci si stia anche rendendo conto di come i problemi etici non possano essere lasciati in balia delle maggioranze o delle minoranze».
Non c’è il rischio, con questi divieti, di creare uno «Stato etico»?
«Io in questi casi preferisco non parlare di bioetica ma di bio-diritto. Gli Stati e Organizzazioni multilaterali quali l'Unesco, secondo me, dovrebbero elaborare un bio-diritto, che non è un'etica».


NOSTRI RAGAZZI E LO «SBALLO» - ALL’EDUCAZIONE SERVONO DIGHE SIMBOLICHE - CLAUDIO R ISÉ – Avvenire, 21 luglio 2009
L’ ordinanza del sindaco di Milano che vieta la vendita di alcolici ai minori di 16 anni è una misura giusta. Malgrado il di­lagare dell’alcolismo tra i più giovani, in I­talia non era ancora stata adottata (al di fuori della provincia autonoma di Bolzano, e, più recentemente, di Monza); è dunque anche coraggiosa e contagiosa, come con­fermano, per un verso, certe trasversali ir­ritazioni politiche e, per l’altro, l’avvio di a­naloghe e altrettanto trasversali iniziative. A uno sguardo più ampio appare però un’assunzione di responsabilità perfino ov­via: nessuna istituzione pubblica può ac­cettare che i giovani si autodistruggano, senza far nulla.
Misure simili sono infatti già state varate direttamente dallo Stato perfino in Fran­cia, Paese dove la lobby dei produttori di alcolici è tradizionalmente fortissima. In Usa sono attive fin dall’inizio del millen­nio, con risultati eccellenti sia sulla dimi­nuzione dei consu­mi, che delle patolo­gie correlate; otte­nuti anche per le grandi campagne di informazione sui danni della sostan­za- base dello 'sbal­lo', anche alcolico: la cannabis e i suoi derivati, hashish e marijuana. La salute psicologica e fisica dei giovani occiden­tali è oggi infatti messa a rischio da diversi mix di sostanze (cannabis sempre presente, alcol, anfetamine, cocaina), as­sunte per fuggire dalla realtà e dalle loro re­sponsabilità nel mondo: la poliassunzione di diverse droghe è la regola.
Di fronte alla crescente popolarità tra i ra­gazzi di uno 'sballo' che distrugge le loro capacità cognitive e affettive, la presa di po­sizione da parte del mondo degli adulti è dunque un atto dovuto, e indispensabile perché i giovani possano impegnarsi per la loro salute, e non per la propria distruzio­ne. Letizia Moratti lo sa bene, anche per il suo pluridecennale impegno personale nella fondazione e sviluppo di San Patri­gnano, fra le maggiori comunità di recupe­ro del mondo. I sindaci, i governanti, i ca­pi delle strutture educative, devono perciò assumersi la responsabilità di dire: noi non vogliamo che vi distruggiate e faremo quan­to possiamo perché ciò non avvenga. Chi detiene poteri decisionali pubblici, per es­sere credibile, non può però limitarsi a di­chiarazioni di intenzioni, ma deve accom­pagnarle con delibere, ordinanze, leggi.
È stato detto (don Gino Rigoldi) che si trat­ta di un «gesto simbolico», dove simbolico sembra sinonimo di «inutile». Ma ogni nor­ma ha innanzitutto un valore simbolico: essa indica la posizione presa sulla que­stione dalla comunità, attraverso le delibe­re dei suoi rappresentanti. Senza questa prima assunzione di responsabilità, e o­rientamento, non si dà nessun sviluppo e­ducativo (è qui che nasce l’«emergenza e­ducativa »). Poi le norme vanno applicate, fatte rispettare, e non è mai una passeg­giata. Ogni genitore, ogni educatore cono­sce il delicatissimo processo di ascolto, at­tenzione, contrattazione che la norma met­te in moto, prima di arrivare alla sanzione. Per poter ottenere qualcosa però, almeno deve esserci la norma, accompagnata da una sanzione. Questa, come dimostra il do­cumentatissimo fallimento di ogni educa­zione permissiva, non è un atto di sadismo, o di arroganza: è invece un atto d’amore. C’è più amore in un 'no', anche dolente, sem­pre faticoso, ma franco e aperto alla spe­ranza, che un 'ni' ambiguo, che non chia­risce affatto da che parte tu, adulto, real­mente stia. A quel 'no', certo a forte vocazione sim­bolica, come sempre il 'no' del padre (che non è un carceriere ma, per necessità, un legislatore), il ragazzo potrà aggrapparsi quando potrà e vorrà, come ad una ma­no pronta a tirarlo fuori dalla palude del­lo sballo (apparentemente euforica ma profondamente depressiva), per resti­tuirlo al rispetto di sé e all’avventura del­la propria vita.


ETICA E POLITICA - Fine vita, «irrinunciabili nutrizione e idratazione» - DA UDINE FRANCESCO D AL MAS – Avvenire, 21 luglio 2009
La proposta di legge sul biotestamento, che proprio domani sarà al centro del dibattito parlamentare? Non ha dubbi il ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali Maurizio Sacconi: « Può essere modificata nelle parti relative all’accanimento terapeutico, non può esserlo, invece, per la parte che riguarda l’idratazione e l’alimentazione » . Ecco il punto.
Ritorna alla memoria la vicenda di Eluana Englaro, che ha visto il suo tragico epilogo proprio qui a Udine. Il ministro arriva nella capitale del Friuli, la terra degli Englaro, per la prima volta dopo quell’esperienza che, come ammetterà, ha segnato anche la sua esistenza. Tra coloro che si battevano per la vita della giovane c’era pure lui.
Anzi, lui più di altri, fino a contrastare i suoi stessi amici della maggioranza, quelli della Regione, che si erano schierati ( non tutti per la verità) sul fronte opposto, solidarizzando con Englaro. Ieri, dopo un appuntamento tanto desiderato con l’arcivescovo monsignor Pietro Brollo ( sulla crisi e la sua ricaduta sulle famiglie, oltre che su questi temi), Sacconi ha fatto visita alla Regione, in particolare alla giunta, da una parte il presidente Tondo, vicino alla famiglia Englaro, dall’altra gli assessori Kosic e Molinaro, all’epoca decisamente schierati per la vita di Eluana. Sacconi, ancor prima di questo faccia a faccia, ha voluto riflettere a voce alta sul biotestamento, ricordando tra l’altro che « sull’idratazione e l’alimentazione il Consiglio dei ministri si è pronunciato all’unanimità » . « È ovvio quindi – ha aggiunto – che il governo inviti la sua maggioranza, ma più in generale il Parlamento, a confermare quella posizione. Una decisione – ha proseguito – che è stata oggetto di un’intensa discussione interna. Poi – ha concluso – il Parlamento è sovrano » . Di più il ministro non ha voluto aggiungere, precisando comunque che di questo problema ne aveva parlato anche con l’arcivescovo Brollo. Sacconi ammette, ovviamente, le « differenze d’opinione » con gli amministratori friulani, irritati a suo tempo ( non tutti, evidentemente) per l’atto di indirizzo con cui aveva bloccato nel dicembre 2008 l’arrivo di Eluana da Lecco alla clinica « Città di Udine » . Atto, però, che non riuscì a fermare l’accoglienza, poco più di un mese più tardi, nell’altra struttura assistenziale, alla « Quiete » . « Il caso ha sollevato, probabilmente per volontà dello stesso Beppino Englaro, un problema politico in generale – ha ricordato ieri il ministro –. Come noto, sulla regolazione del “fine vita” c’è una legge all’esame del Parlamento e noi auspichiamo una rapida approvazione di quel testo » . A chi poi gli chiede un commento sulla scelta del Pd da parte di Beppino Englaro, peraltro molto vicino ai forzisti friulani Saro, Tondo e Renzulli, Sacconi risponde: « L’ingresso di Beppino Englaro nel Pd è la logica conclusione del percorso intrapreso dal padre della giovane » . E aggiunge: « L’adesione al Pd e il sostegno a Ignazio Marino sono la logica conclusione di quel percorso » .