domenica 5 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 05/07/2009 12.33.08 – Radio Vaticana - Il Papa all'Angelus: nel mondo non scorra più sangue a causa di violenze e ingiustizie
2) Il Papa bacchetta i cattolici alla Prodi - Martedì 30 Giugno 2009 (Andrea Tornielli) - Il clamoroso annuncio dell’identificazione dei resti dell’Apostolo delle genti nel sarcofago sotto l’altare della basilica di San Paolo fuori le Mura ha fatto passare in secondo piano, domenica sera, un altro importante passaggio dell’omelia di Benedetto XVI.
3) 3 luglio 2009 :: Il Giornale - "Oltre alla misericordia serve realismo" - di Andrea Tornielli e Vittorio Messori – Il Vaticano prende le distanze
4) Mons. Pagano di nome e di fatto...? - Una sortita, a dir poco "tarzaniana", sulle staminali da parte del vescovo mons. Sergio Pagano, genovese e dal 1997 Prefetto dell'Archivio segreto vaticano... - "Staminali, la Chiesa questa volta non sbagli"
5) Lettera del Papa a Silvio Berlusconi per il G8 de L’Aquila - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 5 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera che Benedetto XVI ha inviato al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, in occasione del G8, che si riunisce a L’Aquila, dall’8 al 10 luglio.
6) L'arte di William Congdon in un romanzo epistolare - L'avventura dello sguardo - di Alfredo Tradigo - (©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)
7) Il senso religioso del padre della teoria della relatività - Einstein domanda a colazione Bohr risponde a cena - di Marco Testi (©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)
8) PROCREAZIONE/ La triste tattica dei "casi pietosi" per giustificare il "far west" riproduttivo - Marco Olivetti - venerdì 3 luglio 2009 – 03/07/2009 - La vera legge 40 viene rivelata (rocchi giacomo) - 03/07/2009 - Proprio tutti i diritti? (Ceroni Giovanni) ilsussidiario.net
9) PASSERELLE PER FAVORE NO - LA CITTÀ FERITA ISPIRI I GRANDI DEL MONDO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 5 luglio 2009


05/07/2009 12.33.08 – Radio Vaticana - Il Papa all'Angelus: nel mondo non scorra più sangue a causa di violenze e ingiustizie

“Il sangue di Cristo è il pegno dell’amore fedele di Dio per l’umanità”. E' quanto ha affermato il Papa all'Angelus aggiungendo che "al grido per il sangue versato, che si eleva da tante parti della terra, Dio risponde con il sangue del suo Figlio". L'ultimo grido di dolore arriva dalle Filippine dove un attentato compiuto davanti alla cattedrale di Cotabato ha provocato diverse vittime. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

All’Angelus il Papa esprime “profonda deplorazione” per l’attentato compiuto stamani a Cotabato nelle Filippine, dove l’esplosione di una bomba davanti alla Cattedrale, durante la celebrazione della Messa domenicale, ha causato alcuni morti e numerosi feriti, tra cui donne e bambini.

“Mentre prego Dio per le vittime dell’ignobile gesto, elevo la mia voce per condannare ancora una volta il ricorso alla violenza, che non costituisce mai una via degna alla soluzione dei problemi esistenti”.

L’episodio avvenuto nelle Filippine è una nuova drammatica pagina che ripropone storie di sofferenza. Proprio al senso del dolore Benedetto XVI dedica l’Angelus ricordando i significati del sangue nella Sacra Scrittura. L’aspersione con il sangue degli animali – fa notare il Santo Padre - rappresentava e stabiliva nell’Antico Testamento l’alleanza tra Dio e il popolo, come si legge nel libro dell’Esodo. Nella Genesi – aggiunge il Papa - il sangue di Abele, ucciso dal fratello Caino, grida a Dio dalla terra:


“E purtroppo, oggi come ieri, questo grido non cessa, perché continua a scorrere sangue umano a causa della violenza, dell’ingiustizia e dell’odio. Quando impareranno gli uomini che la vita è sacra e appartiene a Dio solo? Quando comprenderanno che siamo tutti fratelli?”


Queste domande – aggiunge il Papa – trovano risposte nell’amore di Dio:


“Al grido per il sangue versato, che si eleva da tante parti della terra, Dio risponde con il sangue del suo Figlio, che ha donato la vita per noi. Cristo non ha risposto al male con il male, ma con il bene, con il suo amore infinito. Il sangue di Cristo è il pegno dell’amore fedele di Dio per l’umanità”.


A partire dalla flagellazione fino alla morte in Croce – ricorda il Santo Padre – Cristo ha versato tutto il suo sangue, quale “vero Agnello immolato per la redenzione universale”. In quel sangue ogni uomo può trovare forza e speranza:


“Fissando le piaghe del Crocifisso, ogni uomo, anche in condizioni di estrema miseria morale, può dire: Dio non mi ha abbandonato, mi ama, ha dato la vita per me; e così ritrovare speranza”.


Il Papa, ricordando infine la tragedia di Viareggio, si unisce al dolore di quanti hanno perduto persone care, sono rimasti feriti o hanno subìto danni materiali anche gravi:


“Mentre elevo la mia accorata preghiera a Dio per tutte le persone coinvolte nella tragedia, auspico che simili incidenti non abbiano a ripetersi e sia garantita a tutti la sicurezza sul lavoro e nello svolgimento della vita quotidiana”.


Il Papa bacchetta i cattolici alla Prodi - Martedì 30 Giugno 2009 (Andrea Tornielli) - Il clamoroso annuncio dell’identificazione dei resti dell’Apostolo delle genti nel sarcofago sotto l’altare della basilica di San Paolo fuori le Mura ha fatto passare in secondo piano, domenica sera, un altro importante passaggio dell’omelia di Benedetto XVI.
Parole nelle quali si può leggere un messaggio diretto in particolare a quei politici cattolici che per rivendicare l’autonomia delle loro scelte in materie eticamente sensibili, anche quando sono in gioco i cosiddetti valori «non negoziabili», si appellano alla loro «fede adulta». Un’espressione simile, come si ricorderà, fu utilizzata nel 2005 da Romano Prodi, il quale, per motivare la sua decisione di votare al referendum sulla fecondazione artificiale in dissenso con l’invito all’astensione lanciato dai vescovi italiani, disse di farlo da «cattolico adulto».
Il Papa ha ricordato come Paolo, nella lettera agli Efesini, abbia spiegato che «non possiamo più rimanere fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». L’apostolo «desidera che i cristiani abbiano una fede responsabile, una fede adulta». Ma, ha aggiunto Benedetto XVI, «la parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede fai da te, quindi. E lo si presenta – ha detto ancora Ratzinger – come “coraggio” di esprimersi contro il magistero della Chiesa». In realtà, ha spiegato il Papa, «non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo schema del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una fede adulta. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo».
Questa la conclusione del Pontefice: «Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda». I riferimenti alla difesa della vita (contro le legislazioni abortiste) e del matrimonio tra uomo e donna (contro l’equiparazione delle nozze gay) suonano come un richiamo preciso per quei politici cattolici del Pd i quali, proprio su queste materie, si sono dichiarati possibilisti se non attivi sostenitori di progetti di legge, come nel caso dei «Dico».
Tutti hanno notato e fatto notare il sostanziale «silenzio» del Vaticano in queste settimane di polemiche che hanno coinvolto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per le sue frequentazioni. Ha parlato, con equilibrio, il quotidiano cattolico Avvenire; ha parlato, con molto più clamore, Famiglia Cristiana; sono intervenuti alcuni vescovi chiedendo al premier di chiarire la sua posizione. Ma le vicende legate prima al caso Noemi e poi all’inchiesta barese non hanno avuto alcuno spazio sui media direttamente collegati con la Santa Sede. E quando il Papa ha parlato, analizzando la teologia di San Paolo, ha voluto, invece, criticare proprio l’autonomia invocata in nome della «fede adulta» da parte di alcuni politici cattolici del centrosinistra in materia di «valori non negoziabili». Quei valori la cui difesa, secondo la Chiesa, appare sempre più il fattore decisivo in base al quale valutare l’operato di un politico, al di là dei suoi comportamenti privati, per quanto imbarazzanti. Questo il messaggio che si ricava dai silenzi vaticani e dalle parole, inequivocabili, del Pontefice.


3 luglio 2009 :: Il Giornale - "Oltre alla misericordia serve realismo" - di Andrea Tornielli e Vittorio Messori – Il Vaticano prende le distanze
"Ricordiamoci della più importante delle virtù, il realismo, E ricordiamoci che se la Chiesa fa bene a invitare alla misericordia e all'accoglienza verso tutti, gli Sati devono pensare innanzitutto ai loro cittadini e devono cercare di governare questo fenomeno globale dell'immigrazione...".
Vittorio Messori, giornalista e scrittore, intervistatore dei Papi e autore di best seller, ascolta con attenzione il giudizio preoccupato espresso dal Segretario del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti, l'arcivescovo Agostino Marchetto, che ieri ha accolto la notizia della definitiva approvazione del pacchetto sicurezza dicendosi "triste e dispiaciuto" perchè la legge a suo avviso "porterà molti dolori e difficoltà per persone che, già per il fatto di essere irregolari, si trovano in una situazione di precarietà".
Messori, il Vaticano prende le distanze....
"Innanzitutto vorrei dire che dovremmo smetterla di affermare che la Chiesa o il Vaticano dichiarano questo o quello, quando a parlare è un singolo prelato, come in questo caso".
E' vero che qualche mese fa, per un caso simile, la Segreteria di Stato precisò che certi giudizi non potevano essere attribuiti al Vaticano. Ma è pur vero che l'arcivescovo lavora nel dicastero della Santa Sede per i migranti.
D'accordo, ma nemmeno il Papa invoca il carisma dell'infallibilità se non in rarissimi casi. Figuriamoci i suoi collaboratori. Con questo non voglio sminuire la portata delle affermazioni di monsignor Marchetto ma solo precisare che ci vuole attenzione a non trasformare ogni giudizio personale in pronunciamento della Santa Sede.
Entriamo nel merito. Cosa pensa di quanto detto da Marchetto?
La legge segreta del cristianesimo, non mi stancherò mai di ripeterlo, è quella dell'et-et, dell'unione degli opposti. Ciascuno di noi sarà giudicato in base a questi due elementi: la giustizia e la misericordia. Anche la Chiesa deve contemperare la carità, l'accoglienza, l'attenzione ai poveri, con la prudenza, che è definita da San Tommaso "auriga virtutorum", cioè cocchiera delle virtù. La prudenza le contiene e le traina tutte. Ebbene, oggi potremmo tradurre con realismo la virtù della prudenza. Dunque l'attenzione ai poveri non può dimenticare che oggi ci troviamo di fronte non all'immigrazione -cioè con un fenomeno come quello che portò gli italiani in America- ma ci troviamo di fronte ad una grande migrazione, alo spostamento di interi popoli. Qualcosa che accade una o due volte in un millennio.
Il realismo cosa le suggerisce in questo caso?
Che non è possibile spalancare la porte a tutti, accogliere tutti. e' necessario, invece, cercare di governare il fenomeno, tenendosi lontani dalla demagogia. Purtroppo negli ultimi decenni è accaduto più volte che la doverosa ed evangelica attenzione ai bisognosi sia scivolata in quella demagogia tipica dell'ideologia post-sessantottina, che produce frasi ad effetto e attestazioni di bontà, ma rischia in qualche caso di diventare disastrosa per le stesse persone che si vorrebbero aiutare. La Chiesa è amica della verità ed è contraria all'ipocrisia. Bisogna riconoscere che spesso coloro che arrivano nel nostro Paese non sono affatto o non sono soltanto i più bisognosi, ma coloro che hanno potuto pagarsi il viaggio. Rappresentano le élite. Così come bisognerà riconoscere che non tutti coloro che si presentano come perseguitati lo sono davvero.
Qual'è, invece, il compito dello Stato?
Credo valga per lo Stato ciò che vale innanzitutto per se stessi. La prima carità è verso se stessi. Non è possibile amare gli altri se non amiamo noi stessi. Ora, gli Stati, prima di pensare agli altri, devono pensare ai propri cittadini, alla loro vita, al loro lavoro, alla loro sicurezza. E' un dovere che incombe. Un certo "estremismo" delle virtù appartiene ad alcuni grandi santi. Ma i reggitori dei popoli hanno il dovere di occuparsi innanzitutto dei loro cittadini. Questo, attenzione, senza fanatismo ed esasperazioni. L'altro, l'immigrato, non è un nemico. La Chiesa ci insegna l'accoglienza. Dobbiamo accogliere e aiutare senza dimanticare la grande virtù del realismo.
© Il Giornale


Mons. Pagano di nome e di fatto...? - Una sortita, a dir poco "tarzaniana", sulle staminali da parte del vescovo mons. Sergio Pagano, genovese e dal 1997 Prefetto dell'Archivio segreto vaticano... - "Staminali, la Chiesa questa volta non sbagli"
Pagano, l’archivista vaticano, apre alla scienza: "I preconcetti non condannino la ricerca". Il barnabita: "Dobbiamo studiare di più ed essere più prudenti"
di Andrea Tornielli
Roma - Il Vaticano deve stare attento a non ripetere altri casi come quello di Galileo e dunque non dovrebbe condannare «con gli stessi preconcetti che valevano allora per la teoria copernicana» gli attuali sviluppi della ricerca sulle cellule staminali o sulla genetica. Un’affermazione non nuova sulle labbra di molti scienziati critici verso la Chiesa, ma che suona dirompente se a pronunciarla è un vescovo della Curia romana e per di più nella Sala Stampa della Santa Sede di fronte a decine di giornalisti.
Autore della clamorosa sortita è il barnabita Sergio Pagano, Prefetto dell’Archivio Segreto vaticano, esperto di liturgia e specializzato in archivistica. Il prelato ha incontrato ieri mattina la stampa internazionale per presentare una nuova edizione dei documenti del processo contro Galileo Galilei, lo scienziato pisano condannato dall’autorità ecclesiastica per il suo «Dialogo sui massimi sistemi», con il quale, ha spiegato Pagano, «sembrò insegnare ai teologi come interpretare la Bibbia, e al Papa come fare il Papa».
Il Prefetto dell’Archivio Segreto non si è però limitato al passato. Ha tratto, dal caso Galileo, un insegnamento per il presente, applicandolo proprio ai pronunciamenti della Chiesa sulle cellule staminali e più in generale sulla genetica. Temi etici sensibilissimi: basti pensare che proprio la recente decisione del nuovo presidente Usa di rimuovere i limiti al finanziamento pubblico per la ricerca sulle cellule staminali embrionali, rappresenta uno dei temi di maggior attrito tra Stati Uniti e Santa Sede. E Barack Obama vedrà Benedetto XVI tra pochi giorni.
Queste le esatte parole dette dal vescovo Pagano: «Può insegnare qualcosa a noi oggi (il caso Galileo, ndr)? Certo, per esempio – ma questo lo dico da sacerdote, da persona privata – a stare molto attenti quando ci si confronta con la sola Scrittura alla mano in questioni scientifiche, a non fare noi gli errori che furono fatti allora». «Penso – ha aggiunto l’archivista – alle cellule staminali, penso ai problemi dell’eugenetica, penso ai problemi della ricerca scientifica in questi ambiti, che qualche volta ho l’impressione siano condannati con gli stessi preconcetti che valevano allora per la teoria copernicana. Bisognerebbe studiare di più, essere molto più prudenti». Espressioni inequivocabili: il prelato teme che in materia di cellule staminali e di «eugenetica» (forse intendeva di «genetica»), la Chiesa oggi pronunci condanne in base a «preconcetti», come fece con Galileo.
Resosi conto dell’effetto dirompente delle sue affermazioni, il vescovo ha fatto poi distribuire una dichiarazione per inquadrare meglio il suo pensiero. «Il caso Galileo – si legge nella nota – insegna alla scienza a non presumere di far da maestra in materia di fede e di Sacra Scrittura e insegna contemporaneamente alla Chiesa ad accostarsi ai problemi scientifici, fossero anche quelli legati alla più moderna ricerca sulle staminali, per esempio, con molta umiltà e circospezione». Come si vede, nessuna smentita, peraltro impossibile, dopo che i registratori dei giornalisti avevano catturato le sue precedenti parole.
Ora, il Prefetto dell’Archivio Segreto non è un teologo né un esperto di bioetica. Ha espresso il suo pensiero dimenticando, per un momento, il ruolo ricoperto e il luogo in cui si trovava. Le sue battute sono state accolte con sorpresa nei sacri palazzi: sulle questioni citate da Pagano, infatti, gli organismi della Santa Sede non intervengono sulla base delle Scritture (che non sono un trattato scientifico) ma degli sviluppi della ricerca. Come conferma al Giornale il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella: «Tutti devono essere umili di fronte alla scienza, ma sulle staminali la Chiesa non si è espressa con pregiudizi, ma in base a giudizi scientifici non condizionati dalla propaganda e dalle pressioni del mercato. La ricerca basata sulle staminali umane embrionali, l’unica che ha sollevato dubbi etici, è datata e superata e si è dimostrata una grande truffa».
Il Giornale n. 160 del 2009-07-04 pagina 20


Lettera del Papa a Silvio Berlusconi per il G8 de L’Aquila - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 5 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera che Benedetto XVI ha inviato al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, in occasione del G8, che si riunisce a L’Aquila, dall’8 al 10 luglio.
* * *
Onorevole Signor Presidente,
in vista del prossimo G8 dei Capi di Stato e di Governo del Gruppo dei Paesi più Industrializzati, che si svolgerà a L’Aquila nei giorni 8-10 luglio p.v. sotto la Presidenza italiana, mi è gradito inviare un cordiale saluto a Lei e a tutti i partecipanti. Colgo poi volentieri l’occasione per offrire un contributo alla riflessione sulle tematiche dell’incontro, come in passato ho già avuto modo di fare. Sono stato informato dai miei collaboratori circa l’impegno con cui il Governo, che Ella ha l’onore di presiedere, si sta preparando a quest’importante appuntamento, e so quale attenzione abbia riservato alle riflessioni, che, sulle tematiche dell’imminente Vertice, hanno formulato la Santa Sede, la Chiesa Cattolica in Italia e il mondo cattolico in generale, nonché Rappresentanti di altre religioni.
La partecipazione di Capi di Stato o di Governo, non solo del G8 ma di molte altre Nazioni, farà sì che le decisioni da adottare, per trovare vie di soluzione condivise sui principali problemi che incidono su economia, pace e sicurezza internazionale, possano rispecchiare più fedelmente i punti di vista e le attese delle popolazioni di tutti i Continenti. Questa partecipazione allargata alle discussioni del prossimo Vertice appare pertanto quanto mai opportuna, tenendo conto delle molteplici problematiche dell’attuale mondo altamente interconnesso e interdipendente. Mi riferisco, in particolare, alle sfide della crisi economico-finanziaria in corso, così come ai dati preoccupanti del fenomeno dei cambiamenti climatici, che non possono non spingere a un saggio discernimento e a nuove progettualità per «"convertire" il modello di sviluppo globale» (cfr. Benedetto XVI, Angelus 12 novembre 2006), rendendolo capace di promuovere, in maniera efficace, uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori della solidarietà umana e della carità nella verità. Alcune di queste tematiche vengono affrontate anche nella mia terza Enciclica Caritas in veritate, che proprio nei prossimi giorni verrà presentata alla stampa.
In preparazione al Grande Giubileo del 2000, su impulso di Giovanni Paolo II, la Santa Sede ebbe a prestare grande attenzione ai lavori del G8. Il mio venerato Predecessore era infatti persuaso che la liberazione dei Paesi più poveri dal fardello del debito e, più in generale, lo sradicamento delle cause della povertà estrema nel mondo dipendevano dalla piena assunzione delle responsabilità solidali nei confronti di tutta l’umanità, che hanno i Governi e gli Stati economicamente più avanzati. Responsabilità che non sono venute meno, anzi sono diventate oggi ancora più pressanti. Nel passato recente, in parte grazie alla spinta che il Grande Giubileo del 2000 ha dato alla ricerca di soluzioni adeguate alle problematiche relative al debito e alla vulnerabilità economica dell’Africa e di altri Paesi poveri, in parte grazie ai notevoli cambiamenti nello scenario economico e politico mondiale, la maggioranza dei Paesi meno sviluppati ha potuto godere di un periodo di straordinaria crescita, che ha consentito a molti di essi di sperare nel conseguimento dell’obiettivo fissato dalla Comunità internazionale alla soglia del terzo millennio, quello cioè di sconfiggere la povertà estrema entro il 2015. Purtroppo, la crisi finanziaria ed economica, che investe l’intero Pianeta dall’inizio del 2008, ha mutato il panorama, cosicché è reale il rischio non solo che si spengano le speranze di uscire dalla povertà estrema, ma che anzi cadano nella miseria pure popolazioni finora beneficiarie di un minimo benessere materiale.
Inoltre, l’attuale crisi economica mondiale comporta la minaccia della cancellazione o della drastica riduzione dei piani di aiuto internazionale, specialmente in favore dell’Africa e degli altri Paesi economicamente meno sviluppati. E pertanto, con la stessa forza con cui Giovanni Paolo II chiese il condono del debito estero, vorrei anch’io fare appello ai Paesi membri del G8, agli altri Stati rappresentati e ai Governi del mondo intero, affinché l’aiuto allo sviluppo, soprattutto quello rivolto a "valorizzare" la "risorsa umana", sia mantenuto e potenziato, non solo nonostante la crisi, ma proprio perché di essa è una delle principali vie di soluzione. Non è infatti investendo sull’uomo – su tutti gli uomini e le donne della Terra – che si potrà riuscire ad allontanare in modo efficace le preoccupanti prospettive di recessione mondiale? Non è in verità questa la strada per ottenere, per quanto possibile, un andamento dell’economia mondiale a beneficio degli abitanti di ogni Paese, ricco e povero, grande e piccolo?
Il tema dell’accesso all’educazione è intimamente connesso all’efficacia della cooperazione internazionale. Se allora è vero che occorre "investire" sugli uomini, l’obiettivo dell’educazione basica per tutti, senza esclusioni, entro il 2015, non solo va mantenuto, bensì rafforzato generosamente. L’educazione è condizione indispensabile per il funzionamento della democrazia, per la lotta contro la corruzione, per l’esercizio dei diritti politici, economici e sociali e per la ripresa effettiva di tutti gli Stati, poveri e ricchi. Ed applicando rettamente il principio della sussidiarietà, il sostegno allo sviluppo non può non tener conto della capillare azione educatrice che svolgono la Chiesa cattolica e altre Confessioni religiose nelle regioni più povere e abbandonate del Globo.
Agli illustri partecipanti all’incontro del G8, mi preme altresì ricordare che la misura dell’efficacia tecnica dei provvedimenti da adottare per uscire dalla crisi coincide con la misura della sua valenza etica. Occorre cioè tener presenti le concrete esigenze umane e familiari: mi riferisco, ad esempio, all’effettiva creazione di posti di lavoro per tutti, che consentano ai lavoratori e alle lavoratrici di provvedere in maniera degna ai bisogni della famiglia, e di assolvere alla primaria responsabilità che hanno nell’educare i figli e nell’essere protagonisti nelle comunità di cui sono parte. «Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, - ebbe a scrivere Giovanni Paolo II - in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale» (Centesimus annus, 43; cfr. Id., Laborem excercens, 18). E proprio a tale scopo, si impone l’urgenza di un equo sistema commerciale internazionale, dando attuazione – e se necessario persino andando oltre – alle decisioni prese a Doha nel 2001, in favore dello sviluppo. Auspico che ogni energia creativa venga impiegata per assolvere agli impegni assunti al Vertice ONU del Millennio circa l’eliminazione della povertà estrema entro il 2015. E’ doveroso riformare l’architettura finanziaria internazionale per assicurare il coordinamento efficace delle politiche nazionali, evitando la speculazione creditizia e garantendo un’ampia disponibilità internazionale di credito pubblico e privato al servizio della produzione e del lavoro, specialmente nei Paesi e nelle regioni più disagiati.
La legittimazione etica degli impegni politici del G8 esigerà naturalmente che essi siano confrontati con il pensiero e le necessità di tutta la Comunità Internazionale. A tal fine, appare importante rafforzare il multilateralismo, non solo per le questioni economiche, ma per l’intero spettro delle tematiche riguardanti la pace, la sicurezza mondiale, il disarmo, la salute, la salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali per le generazioni presenti e future. L’allargamento del G8 ad altre regioni costituisce senz’altro un importante e significativo progresso; tuttavia nel momento dei negoziati e delle decisioni concrete ed operative, bisogna tenere in attenta considerazione tutte le istanze, non solo quelle dei Paesi più importanti o con un più marcato successo economico. Solo questo può infatti rendere tali decisioni realmente applicabili e sostenibili nel tempo. Si ascolti pertanto la voce dell’Africa e dei Paesi meno sviluppati economicamente! Si ricerchino modi efficaci per collegare le decisioni dei vari raggruppamenti dei Paesi, compreso il G8, all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove ogni Nazione, quale che sia il suo peso politico ed economico, può legittimamente esprimersi in una situazione di uguaglianza con le altre.
Vorrei infine aggiungere che è quanto mai significativa la scelta del Governo Italiano di ospitare il G8 nella città de L’Aquila, scelta approvata e condivisa dagli altri Stati membri ed invitati. Siamo stati tutti testimoni della generosa solidarietà del Popolo italiano e di altre Nazioni, di Organismi nazionali ed internazionali verso le popolazioni abruzzesi colpite dal sisma. Questa mobilitazione solidale potrebbe costituire un invito per i membri del G8 e per i Governi e i Popoli del mondo ad affrontare uniti le attuali sfide che pongono improrogabilmente l’umanità di fronte a scelte decisive per il destino stesso dell’uomo, intimamente connesso con quello del creato.
Onorevole Signor Presidente, mentre imploro l’assistenza di Dio su tutti i presenti al prossimo G8 de L’Aquila e sulle iniziative multilaterali intese a risolvere la crisi economico-finanziaria e a garantire un futuro di pace e di prosperità per tutti gli uomini e le donne senza nessuna esclusione, colgo volentieri l’occasione per esprimerLe nuovamente la mia stima e, assicurando la mia preghiera, Le porgo un deferente e cordiale saluto.
Dal Vaticano, 1° luglio 2009
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


L'arte di William Congdon in un romanzo epistolare - L'avventura dello sguardo - di Alfredo Tradigo - (©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)
William Congdon, il pittore dei crocifissi (ne ha realizzati oltre centottanta) e delle lune su Assisi. Il grande artista americano (1912-1988) convertito al cattolicesimo si confessa. In un romanzo epistolare appena pubblicato, a ventuno anni dalla sua morte, racconta in prima persona l'itinerario artistico e spirituale della sua vita. Una vita on the road, sempre in viaggio da una città all'altra del mondo, da un simbolo religioso all'altro, alla ricerca di un luogo, di una Patria, di un'immagine che diano senso e unità a ciò che vede: alla realtà che per un artista è essenzialmente ciò che gli sta dinanzi. Come il sant'Agostino de Le confessioni, o come il Thomas Merton de La montagna dalle sette balze, Congdon rivela se stesso in trentadue lettere scritte nel 1995 all'amico Pigi Bolognesi che gli chiede spiegazione dei suoi quadri. William Congdon. L 'avventura dello sguardo (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 218, euro 16) verrà presentato a Rimini il 23 agosto nei padiglioni della trentesima edizione del Meeting per l'amicizia tra i popoli che avrà come titolo "La conoscenza è sempre un avvenimento". Ed è proprio l'avventura della conoscenza che emerge dalla lettura di Congdon. "Nel gesto di far nascere l'immagine di un quadro io sperimento l'accadere di qualcosa di vero e duraturo, di salvato radicalmente diverso dal caos che dominava il resto della mia vita e della vita che vedevo intorno a me", scrive. L'arte, dunque, strumento di conoscenza e di azione. Anche di salvezza, potremmo azzardare. Superando estetismo ed edonismo, i mali del secolo XX. Congdon inizia a raccontare per tappe e ogni sua lettera corrisponde a un periodo e a un'opera. Alla fine degli anni Quaranta espone con successo alla galleria Betty Parsons assieme con i maestri dell'action painting, movimento artistico newyorkese a cui rimase fedele sempre. Per lui New York è la città che esplode, la Babele rappresentata in Explosion del 1948. Lasciandosi alle spalle una carriera estremamente redditizia. Congdon, occidentale e protestante, punta verso Oriente, verso i grandi simboli redentivi del passato: Venezia, la Grecia e il Partenone; Roma e il Colosseo. La sua arte interpreta il luogo, lo trasforma, lo rende parte di se stesso e del suo viaggio interiore. "Se c'è un artista in cui le città del mondo si rivelano nel significato più profondo quell'artista è William Congdon", spiega Giovanni Testori che lo ha conosciuto. E lui, "folgorato dall'Acropoli", riparte inquieto e assetato verso Ceylon e l'India: "L'Oriente indiano mi si presentava come una possibilità di salvezza dall'ego borghese". Attratto dal "suo silenzio e la sua verità" dipinge nel 1954 il bianchissimo tempio di Taj Mahal, mausoleo eretto nel XVIi secolo da un sovrano indù per la moglie morta. Tutto ciò però non gli basta: "L'Oriente indiano mi aveva affascinato ma non soddisfatto". Il suo animo è inquieto e viaggia da un albergo all'altro, da una meta all'altra, solitario e senza posa. Dipinge e riparte verso sempre nuovi simboli religiosi - o della natura - in cui specchiarsi. Nuove visioni lo acquietano: "Il destino di ogni viaggio non è perdersi ma, infine, ritornare da dove si è partiti più ricchi". Tornare a se stessi. "Senza ritorno non c'è viaggio". Nel 1955 è in Algeria, nelle oasi di Ghardaia, Ouargala e Touggourt dove imprime il proprio piede nel colore a olio denso e pastoso di Sahara 12 annota: "Quando cammini in una città non lasci impronte. Nel deserto non è così: il peso del tuo corpo lascia sulla sabbia un'orma indelebile". In Africa legge sant'Agostino, san Giovanni della Croce, santa Teresa d'Avila. E scopre la ferita del peccato che è in ogni uomo. La ferita dell'io. Ancora si muove freneticamente, inseguito dal senso della morte e dai suoi simboli. Dopo aver cercato invano se stesso nelle città del mondo, approda a Venezia e dipinge la piazza San Marco un centinaio di volte in varie riprese per scoprirvi - misteriosamente - il segno della croce. Siamo nel 1960, un anno dopo la sua conversione. Da quel momento il Crocifisso non lo abbandonerà più. Venezia è la città della morte. Scrive: "La mia arte è sempre scattata di fronte al mistero della morte". La stessa morte dei suoi primi schizzi giovanili: volti trasfigurati dall'orrore della guerra nel campo di concentramento di Bergen Belsen dove morì Anna Frank, e dove Congdon prestava servizio nel 1945 come volontario nella Croce Rossa. La stessa morte nel vulcano spento dell'isola greca di Santorini (1955), nel cratere del Colosseo, nel condor abbattuto in Guatemala (1957); nelle macchine nere e nelle larve umane che scorrono nelle strade di Bombay (1973). In un piccione ucciso con un colpo di fucile (1968) vede la fine di Bob Kennedy. All'impasto dei colori dei suoi quadri aggiunge lo smog di Milano raccolto su un davanzale. Dopo la conversione ricomincia a viaggiare ma in nessun luogo Congdon trova quella risposta definitiva che invece incontra nelle persone. All'eremo di San Lorenzo, Congdon apre un atelier e incontra gli amici del Gruppo adulto in cui entrerà in seguito. Jacques Maritain e Thomas Merton scrivono per lui l'introduzione al suo libro Nel mio disco d'oro. Incontra Olivier Clément nel 1981 in occasione della sua prima mostra al Meeting di Rimini. Vent'anni passati ad Assisi (1959-1979) e poi gli ultimi vent'anni in "quello strano convento di laici che vivono nel mondo" che è la casa dei Memores Domini (1979-1998). Isolato, sepolto nella nebbia, lavora nel piccolo atelier affacciato sulla corte del monastero benedettino della Cascinazza e sui campi della bassa milanese. Qui Congdon obbedisce all'ora et labora benedettino, prega e dipinge "cocciutamente". Davanti alla nebbia e ai campi trova pace e compimento il suo sguardo d'artista, l'avventura della conoscenza, la matura sintesi della sua arte e fede. Nebbia che vela, svela, rivela l'immagine. Terra e croce che si identificano come luogo del corpo del Cristo: "poiché per la fede ogni forma è riconducibile alla croce di Cristo, mi domando se non si possa dire che la croce di Cristo è la chiave di lettura dell'immagine di qualsiasi cosa". Così trova compimento in Congdon il tema del crocifisso. Il crocifisso scompare e diventa terra e cielo. Diventa lui stesso uomo e artista. Impasto di terra e cielo. E cita ancora Testori: "Direi che Congdon questa terra l'abbia come mangiata, l'abbia palpata, l'abbia accarezzata con una vastità e nello stesso tempo con una comprensione e adesione che altri pittori non sono riusciti a raggiungere". E ancora Olivier Clément, nel 1981, scrive su "L'Osservatore Romano": "Le ultime pitture di Congdon, quelle della bassa milanese, sono a un tempo straordinariamente forti e straordinariamente pacificate (e pacificanti): tutta l'ampiezza, tutta la gioia della terra offerta al cielo".
(©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)


Il senso religioso del padre della teoria della relatività - Einstein domanda a colazione Bohr risponde a cena - di Marco Testi (©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)
Subtle is the Lord recitava il titolo dell'edizione originale, 1982, del volume di Abraham Pais sulla scienza e la vita di Albert Einstein, come spiegato nel sottotitolo, la cui citazione non appaia gratuita: nell'edizione italiana - la terza dopo quelle del 1986 e del 1991 - La scienza e la vita di Albert Einstein (Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pagine 561, euro 22) diviene il titolo vero e proprio. Sparisce quindi quel riferimento alla "sottigliezza" del Signore, contenuta in una celebre battuta del grande fisico: "Il Signore è sottile, ma non malizioso" riportata in questo stesso volume nella traduzione di Gianfranco Belloni e Tullio Cannello, che ne è anche il curatore. Una battuta, quella di Einstein, polemica contro la nuova teoria dei quanti e soprattutto contro il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, che poteva essere interpretato come l'impossibilità di descrivere in modo completamente oggettivo un esperimento, in quanto chi osserva modifica l'esperimento stesso: il che voleva significare l'ammissione della impossibilità di dare un ordine al mondo, e soprattutto di pensare a una realtà come esterna a noi: chi guarda è parte dell'universo osservato, e non ha quindi alcuna patente di oggettività. Da questo libro emerge tutta la paradossalità di una situazione nella quale l'uomo cui veniva imputata la caduta dei punti di riferimento oggettivi e perfino etici su cui si reggeva il vecchio mondo, a sua volta attaccava le nuove teorie dei quanti perché negatrici di qualsiasi possibilità di spiegare oggettivamente la realtà. Ed è stupenda l'immagine che ci ha lasciato un altro testimone dell'epoca, Otto Stern, allorché ci ricorda il congresso Solvay del 1927, che praticamente si svolgeva, invece che nell'aula dei congressi, nella sala da pranzo dell'albergo in cui erano ospitati gli scienziati: Einstein esponeva a colazione le sue obiezioni alla teoria quantistica, Bohr prendeva appunti e a cena traeva le sue controindicazioni che sottoponeva a Einstein. È l'immagine di un mondo di uomini non comuni che durante i pasti conversavano come vecchi amici, solo che invece di parlare di calcio o di donne discutevano di orbite di elettroni e di particelle sub-atomiche, il che sfata alcuni luoghi comuni sulla tetraggine dell'uomo di scienza in generale e conferma quanti, tra i quali lo stesso Pais, notavano ammirati l'esuberanza e la vitalità di Einstein. Lo scienziato di Ulm dunque viene ricordato in questo libro come uno studioso ossessionato dall'idea di non poter controbattere in modo definitivo alla teoria dei quanti, soprattutto al principio di indeterminazione. Ironia del destino, Einstein appare come uomo d'ordine rispetto ad un manipolo di giovani scavezzacollo che non accettavano più quest'ordine. Il teorico della relatività non ne fece mai una questione personale, ma per lui l'incertezza conoscitiva coinvolgeva elementi più profondi della psiche umana, soprattutto il bisogno di credere in una realtà oggettiva frutto di una creazione, ed ecco il perché della frase prima citata. "Il Signore è sottile, ma non malizioso": voleva dire che, se si vuole, si possono trovare le tracce della creazione e delle sue leggi nell'universo. La teoria dell'indeterminazione metteva in crisi questa convinzione. Non è un caso che nel 1950, passeggiando proprio con Pais, Einstein se ne uscisse con un'altra delle sue celebri frasi: "È veramente convinto che la Luna esista solo se la si guarda?". Il suo interlocutore e biografo infatti aveva compiuto i suoi studi sotto la guida di maestri che si rifacevano alla fisica quantistica, e il premio Nobel voleva stuzzicarlo, lasciando trapelare però come i quanti fossero una ferita sempre aperta in lui. I quanti, quindi, mettevano in dubbio la realtà e il progetto che si celava in essa. Dio divenne quindi un elemento in grado di rafforzare l'attacco di Einstein all'iper-relativismo di Bohr, Heisenberg e compagni. Ma nessuno ha mai chiarito quale Dio avesse in mente Einstein, neanche il libro di cui stiamo parlando, scritto da un testimone diretto con cui lo scienziato aveva dimestichezza. Pais è convinto che questo Dio non fosse un Dio-persona come nelle grandi religioni monoteistiche: "Se aveva un Dio, era il Dio di Spinoza". Tutto chiaro, allora? Apparentemente. Perché poi emergono, anche da questo lavoro, elementi che fanno pensare ad una questione più complessa e mai risolta integralmente neanche nella mente dello stesso Einstein. Intanto vi è un'ammissione dello stesso biografo, che spiegando l'atteggiamento dello scienziato nei confronti delle sue teorie chiarisce che egli le interpretava "come transizioni ordinate in cui egli si sentiva chiamato a svolgere il ruolo di strumento del Signore". In poche parole, la forza cui pensava il premio Nobel sarà stato pure il Dio di Baruch Spinoza, però nelle stesse parole di Pais - e in quelle di Einstein - si intravede qualcosa di diverso dal Dio-causalità necessaria, e quindi non libero creatore teorizzato dal filosofo olandese. L'elemento personale della divinità viene messo in dubbio dal biografo sulla scorta di una affermazione del grande scienziato: "Ora comprendo che il paradiso religioso della giovinezza, così presto perduto, fu un primo tentativo di liberarmi dalle catene del "puramente personale"". La frase riguarda la reazione di Einstein al periodo in cui visse, attorno agli undici anni, una fase intensamente religiosa, che terminò abbastanza presto. Il termine del fervore non vuol dire però l'abbandono di tutta la religiosità, e quella stessa frase che abbiamo citata, può essere interpretata come rinuncia a una interpretazione eccessivamente individualistica del mondo. Pais insiste: la "fedeltà alle proprie radici non comportava connotazioni religiose". Ma più avanti deve citare Einstein: "Una persona religiosa è devota nel senso che non ha dubbi circa il significato e la grandezza di quegli obiettivi e di quei fini che trascendono la singola persona e che non necessitano né sono suscettibili di un fondamento razionale (...). Non è possibile alcun contrasto (tra scienza e religione), la scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca".
(©L'Osservatore Romano - 5 luglio 2009)


PROCREAZIONE/ La triste tattica dei "casi pietosi" per giustificare il "far west" riproduttivo - Marco Olivetti - venerdì 3 luglio 2009 – 03/07/2009 - La vera legge 40 viene rivelata (rocchi giacomo) - 03/07/2009 - Proprio tutti i diritti? (Ceroni Giovanni) ilsussidiario.net
L’ordinanza del 1° luglio 2008 del Tribunale di Bologna, che ha consentito la diagnosi preimpianto sugli embrioni prodotti da una coppia che dalla decisione parrebbe non sterile, prefigurando la possibilità di selezionare successivamente gli embrioni stessi, prosegue l’opera di demolizione giurisprudenziale della legge sulla fecondazione assistita e delle disposizioni di attuazione di essa (le c.d. linee guida).
Nel caso specifico, il Tribunale del capoluogo emiliano ha eluso la legge in due punti: laddove essa prevede che la sterilità o l’infertilità della coppia sia condizione di accesso alla fecondazione assistita (art. 4, 1° comma) e laddove essa implicitamente esclude la diagnosi preimpianto, il cui divieto è ben chiaro dal sistema della legge 40 e dai lavori preparatori della stessa. Il Tribunale di Bologna ha deciso in via di urgenza un caso nel quale la donna che richiedeva la fecondazione assistita è affetta da una grave patologia, geneticamente trasmissibile: la diagnosi preimpianto ed il successivo impianto dei soli embrioni privi di tale patologia sono finalizzati ad escludere tale trasmissione.
Nel ragionare sulla decisione bolognese occorre evitare di essere avvolti nella spirale dei casi drammatici, usati sistematicamente come apripista per la demolizione delle leggi e, in questo caso, per giustificare il “far west procreatico” e l’inutile creazione e selezione di migliaia di embrioni cui la legge n. 40 ha inteso porre fine nel 2004. La regolazione legislativa della fecondazione artificiale si ispira infatti all’idea che tali forme di fecondazione siano consentite come rimedio alla sterilità, ma vadano rigorosamente circoscritte a ben precise condizioni e procedimenti, la cui finalità consiste nella tutela “di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Con il diritto di quest’ultimo devono essere contemperati i diritti degli aspiranti genitori, e fra essi dell’aspirante madre, anche per quanto concerne il suo diritto alla salute.
Tutte le decisioni giurisdizionali finora susseguitesi (dapprima il Tribunale di Cagliari, poi quello di Firenze, quindi il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, ed infine la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 151/2009) hanno tentato di rispondere a pur comprensibili esigenze di coppie desiderose di accedere alla fecondazione assistita al di fuori dei casi in cui essa è legislativamente consentita, mediante l’attenuazione, se non proprio la elusione, del principio di tutela del concepito, pur affermata – sia pure non in maniera incondizionata – da meno recenti decisioni della stessa Corte costituzionale (si v. in vario modo le sent. 27/1975 e 35/1997). Ma nessuna delle decisioni relative alla legge 40 si è misurata con le istanze poste da questo principio: esse insistono piuttosto sulla tutela delle aspirazioni e dei bisogni degli aspiranti genitori, vedendo solo un lato della medaglia. E, negando o non comprendendo tale principio fondante della legge 40 (del resto già previsto – sia pure solo come omaggio del vizio alla virtù – dall’art. 1 della legge n. 194/1998, secondo il quale “Lo Stato… tutela la vita umana sin dal suo inizio”), finiscono per ritenere irragionevoli le limitazioni che la legge n. 40 prevede proprio per garantire tutela all’embrione.
Sicché, questa ultima vicenda, se non sorprende affatto (data la tendenza di non pochi giudici a prendere partito nella “lotta di classe” ingaggiata contro gli embrioni da un consistente e potente filone culturale nel nostro Paese e in buona parte dell’Occidente), pone in realtà una sola essenziale questione di fondo: quella dell’attuale statuto costituzionale dell’embrione. Del resto, la stessa sentenza n. 151 del 2009 della Corte costituzionale, pur limitando con attenzione l’ambito delle sue dichiarazioni di incostituzionalità e riaffermando la vigenza dei principi di fondo della legge n. 40 (ad es. laddove afferma che rimane salvo “il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario” e laddove sembra concepire l’attenuazione del divieto di creare più di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione assistita come non incompatibile con la tutela generale fornita al concepito dalla stessa legge 40), tralascia proprio questa opera essenziale: quella di definire forme e limiti della tutela dell’embrione, anche alla luce della precedente giurisprudenza sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Ne risulta un clima di incertezza del diritto, con la tendenza ad accogliere le più varie istanze, pur spesso provenienti da situazioni dolorose. Ma ciò non deve far dimenticare il dato di fondo: il soggetto più debole, l’embrione, si vede negata dai giudici la tutela riconosciutagli dalla legge, che consiste nel diritto a essere trattato come parte della specie umana e non come un animale o una cosa.

03/07/2009 - La vera legge 40 viene rivelata (rocchi giacomo)
Davvero Olivetti crede che i giudici stiano cambiando la legge 40? Non nota, ad esempio, che il divieto di accesso per le coppie sterili previsto dalla legge è sfornito di qualsiasi sanzione? E che - nonostante la diagnosi gnetica preimpianto fosse tecnica ampiamente praticata nel 2004 - il legislatore si è ben guardato dal vietarla espressamente? I limiti - spesso apparenti - previsti dalla legge vengono ritenuti irragionevoli - perfino dalla Corte Costituzionale! - per una ragione di fondo: una legge che rende lecita (e finanziata dallo Stato!) una tecnica che rende l'embrione una cosa e che produce la morte di nove embrioni creati su dieci in realtà non può che permettere tutto: l'embrione è prodotto, non è uomo, e a decidere non possono che essere gli adulti con i loro desideri - soprattutto se pagano! In questa ottica - che è l'ottica della fecondazione in vitro, cioè l'ottica della legge che la permette - le limitazioni per i soggetti malati, affetti da patologie genetiche o da malattie trasmissibili, non possono che essere ritenute, non solo irragionevoli, ma crudeli e ingiuste. Olivetti faccia un atto di onestà intellettuale: nessuna legge che permette la fecondazione in vitro (come nessuna legge che permette l'uccisione di un bambino nel grembo materno) è buona, salvo una cattiva applicazione. L'unica legge buona è quella che vieta una pratica contro la dignità umana e contro la vita di innumerevoli embrioni.
03/07/2009 - Proprio tutti i diritti? (Ceroni Giovanni)
Secondo il redattore Marco Olivetti --e la linea comunque ormai nota la legge 40 sarebbe giusta e da difendere ad ogni costo, anche a costo della verità -- la parola d'ordine è stata ed è ancora il limitare il "far west" riproduttivo.... Il risultato? Devastante. In Italia la fecondazione extracorporea lecita provoca oltre 70.000 bimbi embrioni morti a causa della tecnica stessa. Sono decine di migliaia le madri che sono illuse e umiliate di fronte ad una tecnica che nulla ha di umano. Sono migliaia le famiglie che vengono distrutte da un progetto che promette la vita e semina morte nei propri figli. Sono tanti coloro che hanno trasformato un illecito business in una miniera d'oro, sulle spalle dei contribuenti e delle tante famiglie ingannate. Quanto durerà ancora l'inganno dei cattolici che pur di ottenere qualcosa(cosa?) tradiscono la verità? Quanto tempo ancora potrà persistere l'inganno che un male minore (che male è) sia più importante della verità intera? Credo che produrre l'uomo e giustificare tale produzione sia il più ingannevole tra i mali contro la vita esistenti oggi. Giustificare l'aborto è almeno un atto apertamente immorale, dove si vorrebbe giustificare il sangue dei bimbi in nome della libertà della donna (madre dell'ucciso) In questo caso, con la legge 40, si giustifica la morte di 20-30 propri figli per poter averne uno in braccio, non è come avere 20-30 aborti? 20-30 propri figli uccisi a causa di un lecito desiderio, a causa di un illecito mezzo.


PASSERELLE PER FAVORE NO - LA CITTÀ FERITA ISPIRI I GRANDI DEL MONDO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 5 luglio 2009
I potenti del mondo vengono in I­talia. Si troveranno in un luogo colpito dalla catastrofe. Dalla morte. Il Papa nella sua lettera inviata ieri al premier Berlusconi per l’occasione li invita ad assumersi «responsabi­lità che non sono venute meno, an­zi sono diventate ancora più pres­santi ». Con realismo ricorda gli im­pegni per sconfiggere la povertà en­tro il 2015, divenuti più ardui per la crisi. E invita a provvedimenti che correggano le distorte «architetture finanziarie», valorizzando la «risor­sa umana».
I potenti che vengono vedranno, del Paese più bello del mondo, il viso fe­rito. L’Italia sarà la bellissima ragaz­za di sempre, ma avrà una cicatrice sul volto, uno sguardo velato. Un’oc­casione unica. Il potere verrà a con­tatto con la bellezza ferita. Il più grande potere del mondo nella più bella nazione ferita. C’è un subbuglio che in noi preme.
Vorremmo che un’occasione così fosse vissuta in pieno. Che non si censurasse nulla, perché i potenti – ricordiamolo – sono potenti per ser­vire le necessità dei popoli. Se no, so­no potenti ridicoli. E odiosi. E vor­remmo che l’Aquila rappresentasse in pieno la dignità di una nazione che ha dato e dà al mondo esempi di gusto della vita e di speranza. Che fosse un incontro serio tra il potere, la bellezza e le necessità. Su questo incontro il Papa, rinnovando la sti­ma a chi vi partecipa, chiede, anzi, supplica «l’assistenza di Dio».
In questo strano teatro che è l’Italia ancora una volta, infatti, si incon­trano le grandi possibilità dell’uo­mo, la sua sete di bellezza e la sua fragilità. Che il G8 non sia solo oc­casione di passerelle o di polemiche (due volti dello stesso vizio di poca serietà) dipenderà da chi l’ha volu­to e da chi ha accettato l’invito. Per l’Italia è un’occasione unica di pro­porsi come un posto dove potere, bellezza e necessità non si sentono avversari. Dove, secondo gli inse­gnamenti dei padri e per serietà di fronte ai nostri figli, il potere è servi­zio per la speranza di tutti.
Trovarsi qui in Italia non è come tro­varsi ovunque. Ogni luogo ha una caratteristica. La nostra è quella di 'amare la bella vita' come dicono in ogni parte del mondo. La bella vita. Perché la vita è bella ed è fatta per la bellezza. E nessun terremoto, nes­suna morte, e nessuna nostra colpa riescono a negare questa dramma­tica verità. La prova e il dolore sono un segno anch’essi: negando vita e bellezza ci fanno stare male, ce ne riaffermano la necessità. Siamo fat­ti per la bellezza. Che non è certo so­lo una cosa che riguarda il vestire o il mangiar bene. Il cantare o il giocar bene. La bellezza della vita è legata alla coscienza che essa abbia un sen­so, un destino buono. Un Padre no­stro che sei nei cieli... e qui tra chi soffre.
I capi delle nazioni avranno un or­dine del giorno impegnativo. Bene­detto XVI lo ha umilmente, ferma­mente ricordato. Il mondo guarda a questi appuntamenti. Che uno di es­si avvenga in una terra da poco col­pita dal dolore centuplica la respon­sabilità dei partecipanti. L’Italia e l’A­quila si trovano a rappresentare i mil­le e mille luoghi da dove sale il grido di dolore del mondo. L’Aquila in que­sti giorni volerà per tutti i cieli dei racconti, da bocca a bocca, e da me­dia a media. Rappresenterà la bel­lezza e il dolore. La gioia e la re­sponsabilità di essere italiani. La gioia e la responsabilità di essere cit­tadini del mondo. I soliti corvi e cor­nacchie ci risparmino inutili strèpi­ti. Il G8 in questo posto divenuto ca­ro a tutti è un’occasione di grandez­za. D’animo e di decisioni. Si guardi l’Aquila, ammirando, tremando.