Nella rassegna stampa di oggi:
1) 19/07/2009 12:35 – VATICANO - Papa: la crisi non scoraggi e non faccia dimenticare chi sta peggio - All’Angelus, recitato in Piemonte, Benedetto XVI esorta ad aiutare i giovani a trovare le vie del Vangelo e della vera libertà, malgrado la cultura e i modelli che vengono loro proposti. Il Papa ha il polso ingessato per un piccolo incidente occorsogli durante il periodo di riposo che sta trascorrendo in Valle d’Aosta.
2) SOCIETA’/ 1. Socci: lo stupore, vero antidoto al “male di vivere” di tanti giovani - INT. Antonio Socci - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
3) Che fai tu, luna, in ciel? - Pigi Colognesi - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
4) La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate” - di Paolo Asolan*
5) Sperma da staminali: i soliti scoop-esperimenti a caccia di fondi - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 luglio 2009
6) Il discorso del patriarca di Venezia per la festa del Santissimo Redentore - Il dolore umano e il silenzio dell'abbandono – L’Osservatore Romano, 19 Luglio 2009
7) I NOSTRI ATTI CI SEGUONO - IL TORMENTO BURBERO SERVITORE DELLA VERITÀ - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 19 luglio 2009
19/07/2009 12:35 – VATICANO - Papa: la crisi non scoraggi e non faccia dimenticare chi sta peggio - All’Angelus, recitato in Piemonte, Benedetto XVI esorta ad aiutare i giovani a trovare le vie del Vangelo e della vera libertà, malgrado la cultura e i modelli che vengono loro proposti. Il Papa ha il polso ingessato per un piccolo incidente occorsogli durante il periodo di riposo che sta trascorrendo in Valle d’Aosta.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà provocate dalla crisi economica, ricordando anche in tali situazioni di chi sta peggio e aiutare i giovani a districarsi nella cultura e nei modelli che oggi vengono loro proposti, per poter seguire le vie del Vangelo e della liertà autentica. E’ il messaggio che Benedetto XVI ha rivolto ai fedeli di Romano Canavese, paese in provincia di Torino dove è nato il segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Quella di oggi è la prima uscita di Benedetto XVI da quando è a Les Combes di Introd, tra le montagne della Valle d’Aosta per un periodo di riposo e la prima dopo l’incidente che giovedì sera gli ha causato la frattura del polso destro, bloccato dopo un piccolo intervento, e che ora è ingessato. “Sono un po’ limitato”, ha commentato sorridendo lo stesso Papa, che ha ringraziato i medici di Aosta che “mi hanno trattato con abilità e cortesia”.
Benedetto XVI è arrivato a Romano Canavese in elicottero: ad accoglierlo più del triplo dei tremila abitanti del piccolo centro, al cui ingresso su un grande striscione si leggeva: “Benvenuto Santo Padre. Tutta la diocesi è in festa”. Bandiere bianco-gialle del Vaticano sono esposte alle finestre delle case e i colori papali ornano il piccolo palco sul sagrato della chiesa dei Santi Pietro e Solutore – che il Papa ha “confessato” di non conoscere, aggiungendo di essere sempre lieto quando conosce i nomi dei santi - , da dove ha recitato l'Angelus. La giornata del Papa proseguirà con il pranzo alla casa natale del cardinale Bertone, insieme ai suoi familiari. Nel pomeriggio il rientro a Les Combes.
“Cari amici, non scoraggiatevi! La Provvidenza aiuta sempre chi opera il bene e si impegna per la giustizia; aiuta quanti non pensano solo a sé, ma anche a chi sta peggio di loro”. In una zona del nord d’Italia che, già florida per la presenza di industrie tecnologiche, sta conoscendo le difficoltà che la crisi economca sta provocando in tutto il mondo, Benedetto XVI ha voluto così portare il propri incoraggiamento esortando al tempo stesso a non dimenticare chi è in situazioni più difficili. Il Papa ha così ricordato sia che il problema della mancanza di occupazioni lavorative è uno dei temi della sua enciclica Caritas in veritate – spero, ha commentato, che “possa mobilitare le forse positive” - sia che in questa terra “i vostri nonni furono costretti ad emigrare per carenza di lavoro, ma poi lo sviluppo economico ha portato benessere e altri sono immigrati qui dall’Italia e dall’estero”.
“I valori fondamentali della famiglia e del rispetto della vita umana, la sensibilità per la giustizia sociale, la capacità di affrontare la fatica e il sacrificio, il forte legame con la fede cristiana attraverso la vita parrocchiale e specialmente la partecipazione alla santa Messa, sono stati lungo i secoli – ha proseguito - la vostra vera forza. Saranno questi stessi valori a permettere alle generazioni di oggi di costruire con speranza il proprio futuro, dando vita a una società veramente solidale e fraterna, dove tutti i vari ambiti, le istituzioni e l’economia siano permeati di spirito evangelico”.
“In modo speciale – ha detto ancora - mi rivolgo ai giovani, ai quali occorre pensare in prospettiva educativa. Qui, come dappertutto, bisogna domandarsi quale tipo di cultura viene loro proposta; quali esempi e modelli vengano ad essi proposti, e valutare se siano tali da incoraggiarli a seguire le vie del Vangelo e della libertà autentica. La gioventù è piena di risorse, ma va aiutata a vincere la tentazione di vie facili e illusorie, per trovare la strada della Vita vera e piena. Cari fratelli e sorelle! In questa vostra terra, ricca di tradizioni cristiane e di valori umani, sono fiorite numerose vocazioni maschili e femminili, in particolare per la Famiglia Salesiana; come quella del Cardinale Bertone, che è nato proprio in questa vostra parrocchia, è stato battezzato in questa chiesa, ed cresciuto in una famiglia dove ha assimilato una fede genuina. La vostra diocesi deve molto ai figli e alle figlie di Don Bosco, per la loro presenza diffusa e feconda in tutta la zona fin dagli anni in cui era ancora in vita il Santo Fondatore. Sia questo un ulteriore incoraggiamento per la vostra comunità diocesana ad impegnarsi sempre più nel campo dell’educazione e dell’accompagnamento vocazionale”.
Il polso destro ingessato ha costretto Benedetto XVI a salutare i presenti con la sinistra, ma l ha benedetti con la destra. In proposito, il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha commentato che “naturalmente il Papa sta ‘imparando’ a vivere con il polso destro ‘ingessato’ e con gli inconvenienti che ne conseguono. Per lui il più doloroso è dover rinunciare a scrivere a mano, cosa che intendeva fare frequentemente in questi giorni”, oltre a dover rinunciare a suonare il pianoforte.
Il programma di Benedetto XVI proseguirà immutato: i giorni di riposo saranno interrotti venerdì per la recita dei Vespri nella cattedrale di Aosta e domenica per l’Angelus a Les Combes.
SOCIETA’/ 1. Socci: lo stupore, vero antidoto al “male di vivere” di tanti giovani - INT. Antonio Socci - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
In Spagna l’hanno chiamata “generación ni-ni”, una ricerca pubblicata di recente su El País dice che vi fanno parte il 54 per cento dei giovani spagnoli tra i 18 e i 35 anni. E il nostro paese, ma la cosa dopo tutto non può stupire, non ne è immune. I dati, resi noti dal Corriere, del Rapporto giovani 2008 confermano che il male è anche nostro: un milione e 900mila giovani tra i 25 e i 35 anni non studia e non lavora. Non lo ritengono necessario, semplicemente. Basta loro vivere nel limbo tra studio e occupazione, senza impegnarsi seriamente con alcuna ipotesi di vita. Ma è sufficiente la sociologia a dirci perché? Ilsussidiario.net lo ha chiesto ad Antonio Socci.
Quali sono le origini storiche che hanno portato al deludente risultato di una generazione “né né”?
In primo luogo ci tengo a precisare che personalmente sono un po’ diffidente verso le “scoperte del giorno”. La stampa vive spesso di queste invenzioni. I fenomeni sociali veri, profondi e importanti di questo genere non nascono come funghi dall’oggi al domani. Questo tipo di situazione descritta dal El País mi sembra un fenomeno noto e stranoto, conosciuto da anni e che riguarda la condizione giovanile tout court, anche se nei diversi decenni magari si è tradotta e declinata in differenti maniere. Sono convinto che dagli anni ’70 in poi si abbia sempre più avuto a che fare da una parte con la questione della disoccupazione o dell’impatto con il mondo del lavoro, e, dall’altra, con il fatto che le famiglie italiane sono un ammortizzatore sociale molto importante che permette una permanenza abbastanza (forse troppo) prolungata in un luogo stabile.
Però i numeri di questo fenomeno ci sono e parlano chiaro.
Io non credo che il fenomeno sia delle dimensioni denunciate. Con quale criterio si può verificare lo stato delle singole motivazioni? Però certamente la tendenza denunciata c’è. Non è una tendenza che riguarda soltanto i giovani, ma è una posizione dilagante. È quel modo di concepire l’esistenza che Teilhard de Chardin definiva «il venire meno del gusto del vivere», una posizione che ha connotati diversi ma non è che sia meno presente o meno drammatica nei ceti sociali cosiddetti “rampanti”, così desiderosi di mordere la vita che tirano di cocaina in continuazione per lavorare ancora di più. Sono due facce della stessa medaglia che hanno alla loro radice la fine della paternità, la delegittimazione di tutti coloro che propongono un senso della vita e un motivo per vivere.
Sintomi di questo modo di concepire l’impegno con la vita erano presenti anche nelle generazioni passate o quest’ultime erano affette da altre “malattie sociali”?
Trovo che tutta la generazione degli anni ’70, divenuta oggi classe dirigente, fosse minata da un tarlo, da un veleno pericoloso che ha prodotto devastazioni: il veleno dell’ideologia. Un’intossicazione che ha in qualche modo continuato a mietere vittime anche fra le fila delle generazioni successive, come ha scritto benissimo in un libro molto bello Stefano Borselli, Addio a Lotta Continua. Borselli fa un bilancio drammatico in cui usa parole che la generazione sessantottina non ama sentire e che ha addirittura “cancellato” dalla cultura. Parla di pentimento, di perdono e di quella generazione che ha prodotto tutto e il contrario di tutto.
I giornali legano il fenomeno anche alla crisi economica in atto, secondo lei questa sta davvero esercitando un ruolo rilevante nello scoraggiare le ultime generazioni?
Su questa analisi non sono assolutamente d’accordo, e anche qui mi sorge il sospetto che sia funzionale a coprire il vuoto lasciato da un’assenza di spiegazioni profonde. Il primo a tirar fuori il problema di questa generazione è stato, con un’uscita alquanto infelice, il ministro Padoa Schioppa quando apostrofò i giovani in difficoltà economiche con il termine “bamboccioni”. Tra l’altro era un momento in cui da un punto di vista statistico la disoccupazione italiana era ai minimi storici. Già allora si ricorse, da parte di chi difese l’attuale generazione, a motivi economici per giustificare il fenomeno. Giusto ma non esauriente. Perché perfino un marziano riuscirebbe ad accorgersi che i sintomi di questo atteggiamento sfiduciato nei confronti della realtà affondano nella storia sociale. Dai presupposti ideologici di cui ho parlato non si poteva che sfociare in simili reazioni.
I giornali parlano anche di una carenza di motivazioni. Secondo lei è questione più di accidia o di ignavia?
Quando si va a toccare la sfera personale, delle delusioni, delle solitudini o anche solo delle domande, è sempre molto difficile generalizzare. Ognuno fa storia a sé. Certo anche se il non fare nulla fosse una via di fuga, occorre ricordare che la delusione e la sconfitta fanno parte anche della vita di chi non ha problemi sul lavoro, rientrano nella dimensione esistenziale di tutti. L’unica vera emergenza è l’enorme difficoltà che queste generazioni hanno ad incontrare persone che comunichino un senso per la vita e un gusto per la vita. È come se la cultura contemporanea e dominante fosse strutturata in qualche modo proprio per impedire che queste presenze siano incontrabili o per delegittimarle, renderle, se si vuole, invisibili.
Qual è stato l’errore educativo, se c’è stato, che ha causato questa reazione sociale?
C’è al giorno d’oggi un prolungamento della vita in famiglia senza che questo implichi una qualche adesione a una serie di regole, a un codice. Ormai è da tempo che le famiglie sono molto deboli dal punto di vista educativo. In tutta questa vicenda ci sono anche fenomeni positivi, come la tenuta sociale della famiglia, che di fatto è il fattore fondamentale del welfare state gestito sul privato, una specie di sussidiarietà non riconosciuta.
All’esterno, oltre ai retaggi ideologici che ho sopra descritto, c’è una carenza di proposte. Tutti parlano di emergenza educativa, ma la differenza fra chi ne parla e quello che ha insegnato Luigi Giussani consiste nel fatto che a fianco della preoccupazione educativa di questi stava una proposta che affascina e non un una teoria pedagogica o un piano pastorale.
Una studentessa intervistata dal Corriere ha ammesso di essere una nullafacente aggiungendo la frase “io sto bene così”. Le sembra possibile essere soddisfatti di una simile posizione umana?
Se non sbaglio quella ragazza ha un figlio. Secondo me molto spesso la coscienza che una persona ha di sé non rende giustizia a quello che concretamente è. Quella ragazza vive l’esperienza di un amore e questo non significa essere una nullafacente. La vita inevitabilmente richiama all’urgenza di sé, alla propria umanità e alle proprie domande.
Direi che questa categoria di nullafacenti denunciata dai media rientra a pieno titolo sotto l’accezione di una parola che oggi comprende tutta l’umanità: siamo “anestetizzati”. Per fortuna la vita per com’è continua a risvegliarci in diverse maniere, a volte drammatiche, a volte belle, ma sempre cariche di stupore. Partire dallo stupore, ossia dal domandarsi perché si è al mondo, è il primo passo per uscire dall’anestesia.
Che fai tu, luna, in ciel? - Pigi Colognesi - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Si avvicina l’anniversario dello sbarco del primo uomo sulla luna. Lunedì prossimo avremo senz’altro modo rivedere Neil Armstrong che scende - era il 20 luglio 1969 - l’ultimo gradino del Lem dell’Apollo 11 per lasciare la sua impronta sulla polvere lunare. E avremo anche modo di essere informati sulle numerose manifestazioni programmate per festeggiare l’evento; è stato persino approntato un applicativo che consente di fare tour virtuali sulla superficie del nostro satellite. Non mancheranno neppure di tornare alla ribalta le tesi di chi sostiene che si sia trattato di una colossale bufala.
Comunque sia, quel giorno di quarant’anni fa ha profondamente cambiato la percezione che noi abbiamo della mutevole compagna delle nostre notti. Nel 1969 ero un bambino e la sensazione che mi è stata trasmessa è stata soprattutto quella della onnipotenza della tecnica umana: nessuna barriera si opponeva più alle possibilità della scienza. L’Ulisse tecnologico aveva oltrepassato le colonne d’Ercole del nostro piccolo pianeta e si era lanciato nell’infinito spazio della navigazione cosmica. Poi, in realtà, si è scoperto che la luna non è così interessante o almeno per ora non si è capito a cosa ci possa servire esserci andati.
Resta l’immagine dell’impronta di Armstrong sulla polvere del nostro satellite; impronta incancellabile perché sulla luna non c’è niente, neanche il vento o la pioggia che, qui da noi, cancellano i segni dei nostri passi. In fondo, la luna è solo un sasso. Ecco, questa è la nuova percezione che quel viaggio di quarant’anni fa ci ha lasciato.
Per fortuna la poesia parla un altro linguaggio. Il linguaggio di uno stupore, di fronte al silente astro notturno, che nessuna constatazione «scientifica» riesce, almeno per ora e almeno in certi momenti di semplicità, a eliminare del tutto.
Uno straordinario frammento di Saffo inizia così: «e tra le stelle la bella luna», ma questo limpido verso basta a ricordarci che quella palla luminosa nel cielo, sarà sì, pure un’arida pietra che ci ruota intorno per la legge della gravitazione universale, ma è «bella»; e questo è sorprendente. Tanto bella che Dante la usa come immagine per raffigurare la prima visione che ha di Cristo attorniato da tutti i beati del paradiso. Essi sono ancora solo delle luci che appaiono al poeta come stelle («ninfe etterne») che fanno da corona a Cristo-luna («Trivia») che «ride» in una pienezza serena e dolcissima: «Quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le nife etterne / che dipingono lo ciel per tutti i seni».
E, anche se l’ho già fatto nell’editoriale della settimana scorsa, non posso non ricordare Leopardi. Il grande poeta di Recanati ha intessuto con quello che a noi può sembrare solo un sasso un dialogo ininterrotto e affettuoso (gli aggettivi con cui la qualifica sono: aurea, graziosa, diletta, cara). Dai primi versi, non a caso, de L’ultimo canto di Saffo: «Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna» al Tramonto della luna, per finire al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Proprio qui, fin dalle parole iniziali, il linguaggio della poesia ci libera dall’appiattimento dello sguardo tecno-scientifico. Con una domanda: «Che fai tu, luna, in ciel?».
La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate” - di Paolo Asolan*
ROMA, sabato, 18 luglio 2009 (ZENIT.org).- Vari i timori che hanno accompagnato la gestazione dell’enciclica: su tutti, la persuasione diffusa e condivisa che i temi sociali non appartenessero alle corde profonde della teologia e della pastorale di Joseph Ratzinger. Un papa “teologo”: appassionato a questioni di fede e all’affermazione della verità soprattutto ad intra Ecclesiae, solo occasionalmente dedito a questioni ad extra Ecclesiae e soltanto quando si tratti di difendere la possibilità della religione di chiesa nel mondo e nella cultura post-moderni.
1.Carità nella verità: reciproca inclusione di teoria e prassi
Invece il primo dato, emergente fin dal titolo, è l’affermazione dell’unità profonda di verità e di carità, di fede creduta e di vita vissuta, di fides quae e di fides qua. Chi si occupa di teologia pastorale avrà tirato un sospiro di sollievo, ritrovando nella riflessioni introduttive (i nn. 1-7) il filo che trattiene inestricabilmente teoria e prassi, teologia speculativa e teologia pratica. Su tale filo si regge la teologicità non solo della teologia pastorale ma anche della Dottrina sociale della chiesa, nonchè la loro legittimità, tanto ad intra che ad extra. Il tema della reciproca inclusione di teoria e di prassi nonchè della loro specificità è giustificato dall’enciclica a partire da un’unità originaria del conoscere, che possiamo qui riassumere come unità di intelligenza e di amore. Già in Deus caritas est, 10 il papa dimostrava come questo fosse un dato che sporge non solo dall’esperienza umana elementare, ma pure dalla rivelazione cristiana. Si comprende così perchè la teologia si interessi di tutte le questioni pratiche umane, e dunque anche di quelle sociali. Che l’azione sia inscritta nella comprensione, è tanto dato originario dell’uomo quanto nota peculiare della Rivelazione cristiana, la cui attestazione non è mai solo informativa, ma sempre performativa: cioè conversione interiore e cambio della vita. Anche sociale.
2. La Dottrina sociale ha il suo “luogo” nella Tradizione della fede apostolica
“Appartiene da sempre alla verità della fede [...] che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità” (n.11). Tale dato originario è richiamato dal papa attraverso il rapporto che egli stabilisce tra l’enciclica, il Concilio, il magistero sociale precedente e soprattutto la Populorum progressio di Paolo VI (nn. 8-11 e l’intero primo capitolo), omaggiata di un impegnativo riconoscimento: “esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come ‘la Rerum novarum’ dell’epoca contemporanea” (n. 8). Questa unità tra pronunciamenti sociali diversi ma tutti con le medesime radici è spiegata dal papa come sviluppo della Tradizione della fede apostolica (n. 10). Si tratta di un tema “classico” e in fondo prevedibile in un pontefice che interpreta il Concilio entro l’ermeneutica della continuità.
Ciò che appare se non nuova almeno ribadita con fermezza, è l’uso di una tale ermeneutica per il corpus della Dottrina sociale. Il che può significare non tanto (come certamente si affanneranno a interpretare – e scrivere – altri, non noi) che al potenziale di emancipazione sociale iscritto nel cristianesimo si vuol mettere la museruola di una riduzione conservatrice, ma che nella chiesa non si è ancora sufficientemente compreso e agito intendendo la Dottrina sociale come “parte integrante della nuova evangelizzazione”. Dunque come un ambito che non può essere trascurato dalla ordinaria predicazione e dalla pastorale ordinaria delle comunità cristiane. La Dottrina sociale – nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire non solo precetti, ma anche una visione complessiva dell’uomo e della società, coestensiva alla visione cristiana della vita, è un capitolo strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna occidentale, ricollocando l’uomo nella sua costitutiva relazionalità sociale.
3. Una questione sociale complessa, non solo per via della globalizzazione
Tale “crisi antropologica” è in fondo alla base delle molte cose che non vanno anche in economia, politica e sistemi sociali vari (cfr. n. 34), cosicchè si potrebbe sostenere che la questione sociale oggi viene a coincidere con la “questione antropologica” di ruiniana memoria (cfr. n. 51). La carità nella verità vede urgente ricomporre un intero che sia di nuovo l’uomo-non-scisso: in cui, ad esempio, fede e ragione si sostengono e si “allargano” a vicenda, i regni di Dio tornano ad essere uno (e non uno nella mano destra e un altro nella sinistra, come sosteneva Lutero), l’anima e il corpo non si ignorano tra loro, l’individuo sia parte di una società, e più in generale l’uomo non tratti Dio da nemico.
Tali scissioni - per certi versi senz’altro all’origine della modernità, nonchè di quell’esito che è la differenziazione luhmanniana - necessitano di essere risignificate anche nella sfera sociale della vita a partire da un centro. Questo centro non può essere costitutito da un sottosistema-quale-che-sia (n.34).
La religione cattolica ritiene che dall’incarnazione del Figlio di Dio in poi, un tale centro sia offerto a tutti: in forza dell’unione ipostatica Dio e l’uomo non sono scissi o separati tra loro, così che il papa può sorprendentemente ri-affermare che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n. 8; PP n. 16). Questo sviluppo ‘integrale’ si dà entro un’intelaiatura chel’enciclica tesse tra la questione della vita umana, quella del diritto al vangelo e quella sociale. Proprio ricalcando il magistero montiniano, Benedetto XVI lega Humanae vitae (HV), Evangelii nuntiandi (EN) e Populorum progressio (PP). La questione della vita umana (HV), del progresso sociale ed economico (PP) e del diritto al vangelo (EN) si saldano tra loro fondando la dignità inviolabile e l’effettiva possibilità dello sviluppo dei popoli e dei singoli a un livello che non rimanga puramente quello del potere e dell’economia (o del potere dell’economia). Per quanto affermato fin dall’inizio a proposito del legame tra tra teoria e prassi, risulta chiaro che una certa visione della procreazione umana porta implicito un certo legame o non-legame con il Dio rivelato dal vangelo e dunque un certo modello di rapporti sociali ed economici. E così via. Sarà a carico di chi rigetterà l’enciclica esplicitare il proprio apparato teorico a riguardo dell’antropologia e dell’evangelizzazione, implicito in quel rifiuto pratico; e sostenere la congruenza tra la sua posizione e quella espressa da Gesù, così come ci è stata trasmessa finora. Possibilmente, senza creare nuove scissioni.
4. Gv 21, 25 a
Cioè: “Vi sono ancora molte altre cose...” nell’enciclica che meriterebbero di essere riprese. Una osservazione si può ancora fare: quanto è bella la chiesa quando non parla solo di se stessa! Quando il sale o il lievito di cui essa dispone vengono immessi dentro la pasta che è la vita del mondo. Isolare le prese di posizione della Chiesa e trattarle come distillati da laboratorio, senza farli regire con situazioni e contesti concreti, non porta che a un’estenuazione del dato di fede. A dibattiti che, avvitandosi su se stessi, rendono incomprensibile se non inutile la fede, perchè privata del suo essenziale supposto che è non l'uomo astratto, ma quello reale (cfr. RH n. 14).
Che pena se la recezione dell’enciclica in Italia si limitasse al dibattito “meglio per la Chiesa lasciar perdere la bioetica e concentrarsi sulle questioni sociali”- come se non esistesse tra loro la connessione di cui sopra!
Sarà interessante raccogliere le reazioni e i dibattiti di quanti sono impegnati nella pastorale sociale e nella Caritas, più o meno internationalis: ci aiuteranno a coniugare la carità nella verità? O si perpetueranno – anche qui – le “moderne” scissioni: carità/giustizia, evangelizzazione/promozione umana, impegno sociale/vita spirituale, cittadino/cristiano?
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*Don Paolo Asolan insegna Teologia Pastorale all’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.
Sperma da staminali: i soliti scoop-esperimenti a caccia di fondi - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 luglio 2009
E' paradossale uccidere un embrione per ottenere sperma da utilizzare per creare un nuovo embrione.
Ecco una nuova notizia "scientifica" dei soliti noti, visto che sono gli stessi della pecora Dolly e dell'embrione chimera. Ricerche pubblicizzate sulla stampa prima che esperti e scienziati possano valutarne i risultati non ancora pubblicati, ricerche che si spingono sempre oltre il limite etico in quanto utilizzano embrioni, che muoiono, per la sperimentazione; in questo caso è paradossale uccidere un embrione per ottenere sperma da utilizzare per creare un nuovo embrione.
Inoltre si dice che lo scopo è combattere la sterilità, ma non è così. Non sono ricerche e studi che ne combattono le cause. Questi esperimenti non etici non garantiscono alcun risultato, anzi gli stessi scienziati ammettono che le cavie, ottenute con quello sperma ricreato in laboratorio, sono morte quasi subito, questo ci ricorda anche la famosa pecora Dolly che era morta per invecchiamento precoce. Come non ricordare lo scandalo in Corea del Sud delle ricerche sulla clonazione, presentate come grandi scoperte scientifiche e poi risoltesi come una grande bugia col solo scopo di reperire fondi per la ricerca? Perché non ricordare come proprio dalla Gran Bretagna continuino ad arrivare "notizie" su ricerche su embrioni e embrioni-chimera, mentre le più recenti scoperte mostrano i grandi vantaggi e i successi ottenuti dalla ricerca sulle cellule staminali adulte piuttosto che su quelle embrionali? Perché continue campagne d'informazione su pillole varie, senza parlare dei loro rischi e delle conseguenze sulla fertilità sia femminile che maschile (recenti studi mostrano che i principi attivi delle pillole si ritrovano in diverse falde acquifere). Perché non parlare di una corretta prevenzione dei fattori di rischio che possono portare all'infertilità? Perché non investire sulle tecniche che realmente aiutano a superare i problemi di sterilità?
Ci sembra che lo scopo di questi scoop-esperimenti serva solo per avere pubblicità e quindi nuovi fondi, più che cercare di risolvere le malattie o i problemi in maniera seria ed efficace. Tendono sempre a seguire quella logica che separa l'atto sessuale dall'atto procreativo, una sessualità separata dall'apertura alla vita, che tende ad essere usata e proposta solo come atto sessuale, come detto da Benedetto XVI nella “Deus Caritas Est”: "L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza."(n.5) “L'eros degradato a puro «sesso» diventa merce, una semplice «cosa» che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce”. Come affermava Paolo VI nell'”Humane Vitae”: "l’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile" (n.10), l’atto coniugale ha due significati, unitivo e procreativo e "mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità" (n.12). Quindi per sua natura l'uomo è chiamato a compartecipare all'opera creatrice e a dare un proseguimento alla storia nella generazione di nuove vita umane, eliminare questo suo ruolo ne limita anche l'umanità. Tutte queste ricerche temiamo siano orientate e vadano nella direzione di idee della sessualità dove si negano addirittura la natura di donna e uomo e la loro specificità confondendola con l'idea di gender, sostenendo cioè ricerche ad hoc per chi vive una sessualità intrinsecamente chiusa alla vita.
Il discorso del patriarca di Venezia per la festa del Santissimo Redentore - Il dolore umano e il silenzio dell'abbandono – L’Osservatore Romano, 19 Luglio 2009
Da oltre quattro secoli in occasione della festa del Redentore, celebrata la terza domenica di luglio, migliaia di veneziani e non solo attraversano in pellegrinaggio il canale della Giudecca sul ponte votivo di barche - realizzato apposta ogni estate - per sciogliere l'antico voto: ringraziare Dio per la liberazione dalla terribile peste che colpì Venezia nel 1576 e affidargli nuovamente la città. Ogni anno in questa occasione il patriarca di Venezia propone il suo "Discorso del Redentore", una riflessione articolata su un tema che, suscitato dall'origine religiosa della festa veneziana, si incarna nella vita quotidiana e tocca le domande profonde dell'uomo. Quest'anno il discorso - che pubblichiamo quasi integralmente - ha per tema "L'umana sofferenza e l'opera del Redentore". Il testo integrale è disponibile in rete (www.angeloscola.it).
di Angelo Scola
Far memoria, dopo più di quattro secoli, dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la nostra città verso la fine dell'estate del 1576, è più che mai ragionevole. Ha lo spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest'anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza. La loro presa feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l'urto della realtà: dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio. Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica, del tremendo carico di sofferenze e di morte causato da guerre, terrorismo e repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità spesso connesse col degrado ecologico...Ma nessuno di questi mali morde la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor più di noi stessi.
Personalmente sono stato provocato a mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle parole, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari.
(...)Vogliamo qui limitarci a riflettere un poco sull'immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l'umanità nel suo insieme, ma sempre nella carne dei singoli, deve sopportare. Se - come diceva Agostino - ogni uomo in quanto tale è "una grande domanda" ("magna quaestio"), al cuore della domanda-uomo sta l'interrogativo sulla sofferenza e sul dolore.
"Gli scaffali della farmacia umana"
Con questa colorita espressione Balthasar descrive i principali tentativi umani di affrontare l'angoscioso interrogativo del dolore e della sofferenza. Nella sua analisi prende anzitutto in esame due categorie apparentemente opposte, ma in realtà accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario: il "disfattismo" e la "ribellione". Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo subito che intendo limitarmi a coglierne la radice antropologica senza esprimere giudizi sulle singole persone.
Il "disfattismo" è obiettivamente alla base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o "assistito", come si dice a proposito di talune pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria "resa davanti ad un eccesso di sofferenza, pensando così di liberarsene" (Balthasar). Il cuore dell'uomo percepisce immediatamente l'estrema fragilità di tale posizione. Anche nel caso, talora richiamato, del suicidio di certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, "il peccato per eccellenza". Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e con premeditazione, non si offre la vita. La si sottrae a se stessi. Inoltre una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo che non mette in conto la sofferenza arrecata ad altri.
La seconda posizione, la "ribellione", è autocontraddittoria. Per finire non identifica nessuna persona contro cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può chiamare in causa Dio, l'umanità o il male radicale, in realtà si riduce ad una rivolta per la rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore, nell'illusione di farlo tacere.
Altra è la posizione di chi non si ferma sul soggetto che soffre, ma si impegna per una riduzione progressiva del dolore nell'orizzonte di un più generale progetto di miglioramento del mondo: un nuovo umanesimo in grado di riconciliare l'uomo con la natura (Marx), il passaggio dal nulla all'essere (Bloch), dalla bestialità alla vera umanità (Teilhard de Chardin). Un caso particolare è quello di Nietzsche per il quale il dolore esalta la "natura bellicosa dell'uomo" preparando il superuomo. Ma la battaglia contro il male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede?
Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l'uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti.
In questa prospettiva tragedie come quelle dell'Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scandalo), perché svelano il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura e angoscia. (...)
La sofferenza radicale di Gesù
(...)La Sacra Scrittura illumina aspetti importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro della Genesi) senza però preoccuparsi di fornire una teoria risolutiva al riguardo. Si limita per lo più a descrivere in vario modo l'esperienza che il credente vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio per la purificazione della propria fede. "Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano suo zio materno". Così il Libro di Giuditta (8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale, sostiene che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro che gli stanno vicini. Così nella Prima Lettera di Pietro (1, 7), in quella agli Ebrei (12, 6) e nell'Apocalisse (13, 19).
Ma all'uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male da parte di Dio può bastare?
Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l'esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato "l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto" (Lettera agli Ebrei 5, 8-9) ha attuato un'opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo "la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza" (Cicely Saunders).
Nell'opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di croce ha fatto un'esperienza irrepetibile di dolore morale: l'abbandono da parte del Padre.
Il grido del Salmo 22 - "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15, 34) - è quello del Figlio, cui il Padre era ben noto. Legato al Padre nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò tuttavia di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente definitiva, dal Suo Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole estreme: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (Seconda lettera ai Corinzi 5, 21). Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece l'esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell'Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione.
Si intravvede l'abisso del misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo Spirito Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo "allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi" dei Due (Balthasar). Ora "nel silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza". Di ogni umana sofferenza.
Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente - sponte, dice sant'Anselmo -. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l'umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più contrario all'innocenza di Gesù quanto l'espiare (purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il "Puro" in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte e il peccato in nostro favore.
Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza: per l'uomo è impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l'uomo che compie ingiustizia viene restaurato nella sua dignità tramite l'espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore.
La fecondità dell'umana sofferenza
(...)"Perché mi hai abbandonato?": una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una domanda senza risposta, perché anche il silenzio è una risposta. Non è forse l'esperienza preponderante che ciascuno di noi fa di fronte alla sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa dire.
(...)Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore attraverso una teoria più brillante delle altre, ma ha compiuto un'opera di totale immedesimazione nella sofferenza, illuminandone il significato profondo: la collaborazione alla Sua redenzione del mondo. Per quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa infastidire la nostra sensibilità post-moderna, non possiamo negare questa realtà. Don Gnocchi, che sarà fra poco proclamato Beato, condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore innocente - quello che più ci tenta di ribellione contro Dio, in un celebre scritto, racconta come i suoi mutilatini, una volta resi partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte risurrezione.
La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente l'accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione con la sua, espiare in modo vicario. San Paolo osa scrivere ai cristiani di Colossi: "Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Lettera ai Colossesi 1, 24).
Qualche settimana fa un padre, parlando del figlio dodicenne appena morto in un incidente stradale, poteva dire: "Non è vero che Dio dà e toglie; Dio dona sempre". Qui siamo scesi in profondità, ben oltre la tesi della pura permissione del male.
Questa consapevolezza non rinuncia all'indefesso impegno teso a combattere la sofferenza umana, ma - come mostrano le plurisecolari opere di carità cristiana - sprigiona una creatività non utopica.
Per una cura integrale
Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica dell'incarnazione propria della fede cristiana a considerare il nostro comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso, davanti a queste situazioni-limite, ci smarriamo e sembriamo incapaci di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una fragilità personale nel portarle, quanto piuttosto a una mancanza di chiarezza nel valutarle.
Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli terminali. Sollevano questioni scottanti che sono, tra l'altro, proprio in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al disegno di legge sul fine-vita e a quello sulle cure palliative.
Vista nel quadro delle considerazioni svolte, l'esperienza dell'uomo provato dalla malattia e dalla disabilità, con l'inevitabile carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull'azione terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l'intervento lenitivo della sofferenza è proposto all'interno di una visione integrale dell'uomo.
Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia ("L'uomo nella prosperità non comprende, è come un animale che perisce" ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non sono separabili, come si è visto, da una domanda di significato.
La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte, senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell'economia della vita umana.
Non pare falsificabile la convinzione, maturata da molti esperti, che quello che comunemente si chiama "stato vegetativo" non sia una malattia, ma la più grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai sempre più sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare terapia medica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere: l'acqua, il cibo, la mobilizzazione, l'igiene, la relazione e un ambiente disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo, quindi, non ha bisogno di straordinarie apparecchiature di supporto delle funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è in grado di assolvere da solo: igiene, movimenti, deglutizione (quindi alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle situazioni, di grande difficoltà diagnostica, e interroga molto profondamente sulla dignità della persona umana e sul mistero del suo essere.
Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta. Inoltre gli esperti che hanno coniato il termine "stato vegetativo" a proposito della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria "non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico".
La cura della persona in questo stato è, allora, una presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se a elevato impegno umano e assistenziale. Pur consapevole delle forti improbabilità di ripresa, sa accompagnare sempre il paziente, senza mai cadere negli opposti eccessi di un accanimento o di un abbandono.
La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni casi, consente di ottenere risultati sorprendenti e assolutamente inattesi come il recupero stabile della coscienza e la capacità di alimentarsi per via orale fino al rientro al domicilio.
Secondo gli esperti un "caso" assai diverso è quello dei cosiddetti "malati terminali", ad esempio quelli affetti da sclerosi laterale amiotrofica (Sla). È proprio questo l'ambito in cui si aprono gli interrogativi sui presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia.
Visitando taluni di questi ammalati, mi è sorta una domanda: non siamo piuttosto noi sani a chiedere la "morte degna", mentre i malati chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita degna fino all'ultimo istante, fatta di quello che caratterizza l'uomo: la capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non abbandono, di qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte le sue fasi e in tutti i suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente terminale come quando ho visto tre figli - di 8, 10 e 11 anni - accudire un padre quarantottenne malato di Sla in grado di comunicare solo con le palpebre.
Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative. La moderna definizione di tali cure, data dalla "European Association for Palliative Care", recita: "Le cure palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria...Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine". "Inguaribile", infatti, non è sinonimo di "incurabile".
Questa definizione appare improntata al più grande realismo. Di essa devono tener particolare conto i curanti, dal momento che non pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo dall'atteggiamento degli operatori sanitari e dei familiari nei confronti della vita, della malattia e soprattutto dell'ammalato.
Leggi giuste
Tra i fattori che influenzano in modo sostanziale le scelte della persona - sia perché impongono divieti e riconoscono diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità - va annoverato il contesto normativo di un Paese. Per questo il legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente giuste.
A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat), sento la responsabilità di invitare il legislatore a garantire quei principi irrinunciabili più volte richiamati dalla Conferenza episcopale italiana. Nello stesso tempo il pronunciamento legislativo sulle cure palliative deve essere al più presto attuato e dotato di tutti i mezzi finanziari perché siano capillarmente praticabili nel nostro Paese. Risorse economiche adeguate vanno investite anche nella normale terapia del dolore.
"Nel dolore lieti"
Dolore e sofferenza, nel loro carattere misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato al cuore dell'amore trinitario che si è coinvolto con questa condizione-limite dell'uomo. In Cristo Gesù siamo resi capaci della paradossale ma umanissima esperienza vissuta da san Paolo: "Nel dolore lieti" (cfr Seconda lettera ai Corinzi 6, 10) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini. Per questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell'accompagnamento, ma - soprattutto - educazione al gratuito, all'amore come dono totale di sé. Questa è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone sono vicine ai malati, ai moribondi, agli angosciati che hanno perso tutto, ai troppi provati dalla miseria e dalla fame. L'oceano di carità che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di quell'eloquente silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile risposta al nostro grido di desolazione.
Ma, soprattutto, sono l'offerta di sé e la preghiera semplice (Santo Rosario) di quanti sono vittime del dolore di qualunque genere ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata e non trattenuta. (...)In quest'ottica l'accettazione dei mali fisici e il pentimento per il male compiuto sono alla nostra portata. Perfino la nostra stessa morte può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo della prosperità e del benessere la si guarda come autentico dono di sé. Lo sapevano bene i nostri vecchi, usi a recitare la preghiera dell'"Apparecchio alla buona morte".
Il mistero del dolore e della sofferenza sta inesorabile davanti a ciascuno di noi, ma il suo valore è già fin d'ora custodito nel nucleo incandescente dell'amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata, quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di noi li assuma quotidianamente nell'orizzonte dell'autentico amore di Dio, degli altri e di se stesso.
(©L'Osservatore Romano - 19 luglio 2009)
I NOSTRI ATTI CI SEGUONO - IL TORMENTO BURBERO SERVITORE DELLA VERITÀ - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 19 luglio 2009
In diciassette anni non si riesce a dimenticare? 'I nostri atti ci seguono'. Un grande romanzo francese si intitola così. Lo ha scritto Paul Bourget. Racconta di una persona segnata da un fatto grave commesso, che non riesce a 'sfuggire' al segno d’ombra che quell’atto ha lasciato nella sua vita. Il protagonista non riesce a vivere senza il peso irredento di quel che ha compiuto. Ora quel romanzo sembra diventato realtà dalle parti di Modena. I nostri atti ci seguono a lungo. Anche diciassette anni. Tanto era passato dall’omicidio ormai dimenticato da quasi tutti, sepolto tra i fatti archiviati pure dalla polizia, e buttati alle spalle dalla cronaca e dalla vita di tanta gente.
Ma lui no. Lui, l’omicida. Insospettabile. Si era fatto una vita normale. Dopo il 17 ottobre del 1992. Dopo aver posato, visto da nessuno, lo svitabulloni con cui aveva fracassato la testa di Ivan, che gestiva un pornoshop. Era entrato lì per fare una rapina. Ma pochi erano i soldi in cassa, e nella colluttazione Ivan aveva reagito ed era successo il fatto. Il fatto che lo ha inseguito fino ai suoi cinquant’anni. Fino a ieri. Fino alla soglia della caserma dei carabinieri del Modenese. Inseguito per tutto il corso della vita rifatta e irreprensibile. Una persona per bene. Ma da diciassette anni lavorata dentro da quel che sembra non esistere più: il tormento della coscienza. O chiamatela: ferita nell’anima. Ormai il termine 'tormento' si applica (nella versione anche aggiornata di 'tormentone') a certi caldi africani o a certe musichette o battute che ci assillano. Un tormento superficiale. Come una specie di grande fastidio. Il cinquantenne di Modena ha conosciuto invece il tormento profondo. Quello che non lascia niente com’è. Che ti ammala tutto tra le mani e davanti agli occhi. Probabilmente, prima di varcare la soglia di un posto di polizia, prima di confessare un delitto di cui alla squadra omicidi han sentito poco, nella sua coscienza si sono combattute molte possibilità. Lo studio di molte vie d’uscita. Forse ha tentato dei modi per placarlo, il tormento. Per distrarlo. Prima di capire, prima di decidere che il modo migliore, anzi l’unico modo possibile, era dire la verità a chi va detta. La verità intera. Quella che si porta attaccata tutto il magone e tutta la forza. Tutta la vergogna e tutta la libertà.
Perché il tormento per questo genere di cose è una specie di servo della verità. Non è, per così dire, fine a se stesso. E infatti la vita di nessuno è fatta per esser tormentata. Per questo il tormento è insopportabile. Dopo un po’. Un’ora o diciassette anni. Un minuto, per poi correre nelle braccia di chi hai offeso. O una vita intera, per bisbigliare 'scusa' al cielo. Ma, lui, il tormento, è come il maggiordomo burbero della verità. È uno che sbatte le tovaglie, sposta con virulenza i mobili, scuote le tende alle finestre. Non lascia in pace la nostra casa interiore. Quel maggiordomo, quel servitore non lo fermi mai. Sbuca dalle stanze che pensi nascoste, sigillate. Da quelle dove pensi che regnino silenzio e quiete. Invece lui lavora. Trascina, smobilita. Sembra preparare la casa, le stanze per una ospite cara. Per la verità. Che una volta arrivata darà a lui le ferie. Lo congederà, antipatico e utilissimo servitore.
E allora sulla porta, vedendolo andarsene, non lo si guarderà più con antipatia. Forse per l’uomo di Modena sarà così, speriamo che sia così. In questa estate che avvampa e piange, ora che ha fatto quel che sapeva di dover fare, dopo anni di tormento vissuto in solitudine noi vorremmo non lasciarlo solo.
1) 19/07/2009 12:35 – VATICANO - Papa: la crisi non scoraggi e non faccia dimenticare chi sta peggio - All’Angelus, recitato in Piemonte, Benedetto XVI esorta ad aiutare i giovani a trovare le vie del Vangelo e della vera libertà, malgrado la cultura e i modelli che vengono loro proposti. Il Papa ha il polso ingessato per un piccolo incidente occorsogli durante il periodo di riposo che sta trascorrendo in Valle d’Aosta.
2) SOCIETA’/ 1. Socci: lo stupore, vero antidoto al “male di vivere” di tanti giovani - INT. Antonio Socci - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
3) Che fai tu, luna, in ciel? - Pigi Colognesi - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
4) La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate” - di Paolo Asolan*
5) Sperma da staminali: i soliti scoop-esperimenti a caccia di fondi - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 luglio 2009
6) Il discorso del patriarca di Venezia per la festa del Santissimo Redentore - Il dolore umano e il silenzio dell'abbandono – L’Osservatore Romano, 19 Luglio 2009
7) I NOSTRI ATTI CI SEGUONO - IL TORMENTO BURBERO SERVITORE DELLA VERITÀ - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 19 luglio 2009
19/07/2009 12:35 – VATICANO - Papa: la crisi non scoraggi e non faccia dimenticare chi sta peggio - All’Angelus, recitato in Piemonte, Benedetto XVI esorta ad aiutare i giovani a trovare le vie del Vangelo e della vera libertà, malgrado la cultura e i modelli che vengono loro proposti. Il Papa ha il polso ingessato per un piccolo incidente occorsogli durante il periodo di riposo che sta trascorrendo in Valle d’Aosta.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà provocate dalla crisi economica, ricordando anche in tali situazioni di chi sta peggio e aiutare i giovani a districarsi nella cultura e nei modelli che oggi vengono loro proposti, per poter seguire le vie del Vangelo e della liertà autentica. E’ il messaggio che Benedetto XVI ha rivolto ai fedeli di Romano Canavese, paese in provincia di Torino dove è nato il segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Quella di oggi è la prima uscita di Benedetto XVI da quando è a Les Combes di Introd, tra le montagne della Valle d’Aosta per un periodo di riposo e la prima dopo l’incidente che giovedì sera gli ha causato la frattura del polso destro, bloccato dopo un piccolo intervento, e che ora è ingessato. “Sono un po’ limitato”, ha commentato sorridendo lo stesso Papa, che ha ringraziato i medici di Aosta che “mi hanno trattato con abilità e cortesia”.
Benedetto XVI è arrivato a Romano Canavese in elicottero: ad accoglierlo più del triplo dei tremila abitanti del piccolo centro, al cui ingresso su un grande striscione si leggeva: “Benvenuto Santo Padre. Tutta la diocesi è in festa”. Bandiere bianco-gialle del Vaticano sono esposte alle finestre delle case e i colori papali ornano il piccolo palco sul sagrato della chiesa dei Santi Pietro e Solutore – che il Papa ha “confessato” di non conoscere, aggiungendo di essere sempre lieto quando conosce i nomi dei santi - , da dove ha recitato l'Angelus. La giornata del Papa proseguirà con il pranzo alla casa natale del cardinale Bertone, insieme ai suoi familiari. Nel pomeriggio il rientro a Les Combes.
“Cari amici, non scoraggiatevi! La Provvidenza aiuta sempre chi opera il bene e si impegna per la giustizia; aiuta quanti non pensano solo a sé, ma anche a chi sta peggio di loro”. In una zona del nord d’Italia che, già florida per la presenza di industrie tecnologiche, sta conoscendo le difficoltà che la crisi economca sta provocando in tutto il mondo, Benedetto XVI ha voluto così portare il propri incoraggiamento esortando al tempo stesso a non dimenticare chi è in situazioni più difficili. Il Papa ha così ricordato sia che il problema della mancanza di occupazioni lavorative è uno dei temi della sua enciclica Caritas in veritate – spero, ha commentato, che “possa mobilitare le forse positive” - sia che in questa terra “i vostri nonni furono costretti ad emigrare per carenza di lavoro, ma poi lo sviluppo economico ha portato benessere e altri sono immigrati qui dall’Italia e dall’estero”.
“I valori fondamentali della famiglia e del rispetto della vita umana, la sensibilità per la giustizia sociale, la capacità di affrontare la fatica e il sacrificio, il forte legame con la fede cristiana attraverso la vita parrocchiale e specialmente la partecipazione alla santa Messa, sono stati lungo i secoli – ha proseguito - la vostra vera forza. Saranno questi stessi valori a permettere alle generazioni di oggi di costruire con speranza il proprio futuro, dando vita a una società veramente solidale e fraterna, dove tutti i vari ambiti, le istituzioni e l’economia siano permeati di spirito evangelico”.
“In modo speciale – ha detto ancora - mi rivolgo ai giovani, ai quali occorre pensare in prospettiva educativa. Qui, come dappertutto, bisogna domandarsi quale tipo di cultura viene loro proposta; quali esempi e modelli vengano ad essi proposti, e valutare se siano tali da incoraggiarli a seguire le vie del Vangelo e della libertà autentica. La gioventù è piena di risorse, ma va aiutata a vincere la tentazione di vie facili e illusorie, per trovare la strada della Vita vera e piena. Cari fratelli e sorelle! In questa vostra terra, ricca di tradizioni cristiane e di valori umani, sono fiorite numerose vocazioni maschili e femminili, in particolare per la Famiglia Salesiana; come quella del Cardinale Bertone, che è nato proprio in questa vostra parrocchia, è stato battezzato in questa chiesa, ed cresciuto in una famiglia dove ha assimilato una fede genuina. La vostra diocesi deve molto ai figli e alle figlie di Don Bosco, per la loro presenza diffusa e feconda in tutta la zona fin dagli anni in cui era ancora in vita il Santo Fondatore. Sia questo un ulteriore incoraggiamento per la vostra comunità diocesana ad impegnarsi sempre più nel campo dell’educazione e dell’accompagnamento vocazionale”.
Il polso destro ingessato ha costretto Benedetto XVI a salutare i presenti con la sinistra, ma l ha benedetti con la destra. In proposito, il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha commentato che “naturalmente il Papa sta ‘imparando’ a vivere con il polso destro ‘ingessato’ e con gli inconvenienti che ne conseguono. Per lui il più doloroso è dover rinunciare a scrivere a mano, cosa che intendeva fare frequentemente in questi giorni”, oltre a dover rinunciare a suonare il pianoforte.
Il programma di Benedetto XVI proseguirà immutato: i giorni di riposo saranno interrotti venerdì per la recita dei Vespri nella cattedrale di Aosta e domenica per l’Angelus a Les Combes.
SOCIETA’/ 1. Socci: lo stupore, vero antidoto al “male di vivere” di tanti giovani - INT. Antonio Socci - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
In Spagna l’hanno chiamata “generación ni-ni”, una ricerca pubblicata di recente su El País dice che vi fanno parte il 54 per cento dei giovani spagnoli tra i 18 e i 35 anni. E il nostro paese, ma la cosa dopo tutto non può stupire, non ne è immune. I dati, resi noti dal Corriere, del Rapporto giovani 2008 confermano che il male è anche nostro: un milione e 900mila giovani tra i 25 e i 35 anni non studia e non lavora. Non lo ritengono necessario, semplicemente. Basta loro vivere nel limbo tra studio e occupazione, senza impegnarsi seriamente con alcuna ipotesi di vita. Ma è sufficiente la sociologia a dirci perché? Ilsussidiario.net lo ha chiesto ad Antonio Socci.
Quali sono le origini storiche che hanno portato al deludente risultato di una generazione “né né”?
In primo luogo ci tengo a precisare che personalmente sono un po’ diffidente verso le “scoperte del giorno”. La stampa vive spesso di queste invenzioni. I fenomeni sociali veri, profondi e importanti di questo genere non nascono come funghi dall’oggi al domani. Questo tipo di situazione descritta dal El País mi sembra un fenomeno noto e stranoto, conosciuto da anni e che riguarda la condizione giovanile tout court, anche se nei diversi decenni magari si è tradotta e declinata in differenti maniere. Sono convinto che dagli anni ’70 in poi si abbia sempre più avuto a che fare da una parte con la questione della disoccupazione o dell’impatto con il mondo del lavoro, e, dall’altra, con il fatto che le famiglie italiane sono un ammortizzatore sociale molto importante che permette una permanenza abbastanza (forse troppo) prolungata in un luogo stabile.
Però i numeri di questo fenomeno ci sono e parlano chiaro.
Io non credo che il fenomeno sia delle dimensioni denunciate. Con quale criterio si può verificare lo stato delle singole motivazioni? Però certamente la tendenza denunciata c’è. Non è una tendenza che riguarda soltanto i giovani, ma è una posizione dilagante. È quel modo di concepire l’esistenza che Teilhard de Chardin definiva «il venire meno del gusto del vivere», una posizione che ha connotati diversi ma non è che sia meno presente o meno drammatica nei ceti sociali cosiddetti “rampanti”, così desiderosi di mordere la vita che tirano di cocaina in continuazione per lavorare ancora di più. Sono due facce della stessa medaglia che hanno alla loro radice la fine della paternità, la delegittimazione di tutti coloro che propongono un senso della vita e un motivo per vivere.
Sintomi di questo modo di concepire l’impegno con la vita erano presenti anche nelle generazioni passate o quest’ultime erano affette da altre “malattie sociali”?
Trovo che tutta la generazione degli anni ’70, divenuta oggi classe dirigente, fosse minata da un tarlo, da un veleno pericoloso che ha prodotto devastazioni: il veleno dell’ideologia. Un’intossicazione che ha in qualche modo continuato a mietere vittime anche fra le fila delle generazioni successive, come ha scritto benissimo in un libro molto bello Stefano Borselli, Addio a Lotta Continua. Borselli fa un bilancio drammatico in cui usa parole che la generazione sessantottina non ama sentire e che ha addirittura “cancellato” dalla cultura. Parla di pentimento, di perdono e di quella generazione che ha prodotto tutto e il contrario di tutto.
I giornali legano il fenomeno anche alla crisi economica in atto, secondo lei questa sta davvero esercitando un ruolo rilevante nello scoraggiare le ultime generazioni?
Su questa analisi non sono assolutamente d’accordo, e anche qui mi sorge il sospetto che sia funzionale a coprire il vuoto lasciato da un’assenza di spiegazioni profonde. Il primo a tirar fuori il problema di questa generazione è stato, con un’uscita alquanto infelice, il ministro Padoa Schioppa quando apostrofò i giovani in difficoltà economiche con il termine “bamboccioni”. Tra l’altro era un momento in cui da un punto di vista statistico la disoccupazione italiana era ai minimi storici. Già allora si ricorse, da parte di chi difese l’attuale generazione, a motivi economici per giustificare il fenomeno. Giusto ma non esauriente. Perché perfino un marziano riuscirebbe ad accorgersi che i sintomi di questo atteggiamento sfiduciato nei confronti della realtà affondano nella storia sociale. Dai presupposti ideologici di cui ho parlato non si poteva che sfociare in simili reazioni.
I giornali parlano anche di una carenza di motivazioni. Secondo lei è questione più di accidia o di ignavia?
Quando si va a toccare la sfera personale, delle delusioni, delle solitudini o anche solo delle domande, è sempre molto difficile generalizzare. Ognuno fa storia a sé. Certo anche se il non fare nulla fosse una via di fuga, occorre ricordare che la delusione e la sconfitta fanno parte anche della vita di chi non ha problemi sul lavoro, rientrano nella dimensione esistenziale di tutti. L’unica vera emergenza è l’enorme difficoltà che queste generazioni hanno ad incontrare persone che comunichino un senso per la vita e un gusto per la vita. È come se la cultura contemporanea e dominante fosse strutturata in qualche modo proprio per impedire che queste presenze siano incontrabili o per delegittimarle, renderle, se si vuole, invisibili.
Qual è stato l’errore educativo, se c’è stato, che ha causato questa reazione sociale?
C’è al giorno d’oggi un prolungamento della vita in famiglia senza che questo implichi una qualche adesione a una serie di regole, a un codice. Ormai è da tempo che le famiglie sono molto deboli dal punto di vista educativo. In tutta questa vicenda ci sono anche fenomeni positivi, come la tenuta sociale della famiglia, che di fatto è il fattore fondamentale del welfare state gestito sul privato, una specie di sussidiarietà non riconosciuta.
All’esterno, oltre ai retaggi ideologici che ho sopra descritto, c’è una carenza di proposte. Tutti parlano di emergenza educativa, ma la differenza fra chi ne parla e quello che ha insegnato Luigi Giussani consiste nel fatto che a fianco della preoccupazione educativa di questi stava una proposta che affascina e non un una teoria pedagogica o un piano pastorale.
Una studentessa intervistata dal Corriere ha ammesso di essere una nullafacente aggiungendo la frase “io sto bene così”. Le sembra possibile essere soddisfatti di una simile posizione umana?
Se non sbaglio quella ragazza ha un figlio. Secondo me molto spesso la coscienza che una persona ha di sé non rende giustizia a quello che concretamente è. Quella ragazza vive l’esperienza di un amore e questo non significa essere una nullafacente. La vita inevitabilmente richiama all’urgenza di sé, alla propria umanità e alle proprie domande.
Direi che questa categoria di nullafacenti denunciata dai media rientra a pieno titolo sotto l’accezione di una parola che oggi comprende tutta l’umanità: siamo “anestetizzati”. Per fortuna la vita per com’è continua a risvegliarci in diverse maniere, a volte drammatiche, a volte belle, ma sempre cariche di stupore. Partire dallo stupore, ossia dal domandarsi perché si è al mondo, è il primo passo per uscire dall’anestesia.
Che fai tu, luna, in ciel? - Pigi Colognesi - venerdì 17 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Si avvicina l’anniversario dello sbarco del primo uomo sulla luna. Lunedì prossimo avremo senz’altro modo rivedere Neil Armstrong che scende - era il 20 luglio 1969 - l’ultimo gradino del Lem dell’Apollo 11 per lasciare la sua impronta sulla polvere lunare. E avremo anche modo di essere informati sulle numerose manifestazioni programmate per festeggiare l’evento; è stato persino approntato un applicativo che consente di fare tour virtuali sulla superficie del nostro satellite. Non mancheranno neppure di tornare alla ribalta le tesi di chi sostiene che si sia trattato di una colossale bufala.
Comunque sia, quel giorno di quarant’anni fa ha profondamente cambiato la percezione che noi abbiamo della mutevole compagna delle nostre notti. Nel 1969 ero un bambino e la sensazione che mi è stata trasmessa è stata soprattutto quella della onnipotenza della tecnica umana: nessuna barriera si opponeva più alle possibilità della scienza. L’Ulisse tecnologico aveva oltrepassato le colonne d’Ercole del nostro piccolo pianeta e si era lanciato nell’infinito spazio della navigazione cosmica. Poi, in realtà, si è scoperto che la luna non è così interessante o almeno per ora non si è capito a cosa ci possa servire esserci andati.
Resta l’immagine dell’impronta di Armstrong sulla polvere del nostro satellite; impronta incancellabile perché sulla luna non c’è niente, neanche il vento o la pioggia che, qui da noi, cancellano i segni dei nostri passi. In fondo, la luna è solo un sasso. Ecco, questa è la nuova percezione che quel viaggio di quarant’anni fa ci ha lasciato.
Per fortuna la poesia parla un altro linguaggio. Il linguaggio di uno stupore, di fronte al silente astro notturno, che nessuna constatazione «scientifica» riesce, almeno per ora e almeno in certi momenti di semplicità, a eliminare del tutto.
Uno straordinario frammento di Saffo inizia così: «e tra le stelle la bella luna», ma questo limpido verso basta a ricordarci che quella palla luminosa nel cielo, sarà sì, pure un’arida pietra che ci ruota intorno per la legge della gravitazione universale, ma è «bella»; e questo è sorprendente. Tanto bella che Dante la usa come immagine per raffigurare la prima visione che ha di Cristo attorniato da tutti i beati del paradiso. Essi sono ancora solo delle luci che appaiono al poeta come stelle («ninfe etterne») che fanno da corona a Cristo-luna («Trivia») che «ride» in una pienezza serena e dolcissima: «Quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le nife etterne / che dipingono lo ciel per tutti i seni».
E, anche se l’ho già fatto nell’editoriale della settimana scorsa, non posso non ricordare Leopardi. Il grande poeta di Recanati ha intessuto con quello che a noi può sembrare solo un sasso un dialogo ininterrotto e affettuoso (gli aggettivi con cui la qualifica sono: aurea, graziosa, diletta, cara). Dai primi versi, non a caso, de L’ultimo canto di Saffo: «Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna» al Tramonto della luna, per finire al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Proprio qui, fin dalle parole iniziali, il linguaggio della poesia ci libera dall’appiattimento dello sguardo tecno-scientifico. Con una domanda: «Che fai tu, luna, in ciel?».
La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate” - di Paolo Asolan*
ROMA, sabato, 18 luglio 2009 (ZENIT.org).- Vari i timori che hanno accompagnato la gestazione dell’enciclica: su tutti, la persuasione diffusa e condivisa che i temi sociali non appartenessero alle corde profonde della teologia e della pastorale di Joseph Ratzinger. Un papa “teologo”: appassionato a questioni di fede e all’affermazione della verità soprattutto ad intra Ecclesiae, solo occasionalmente dedito a questioni ad extra Ecclesiae e soltanto quando si tratti di difendere la possibilità della religione di chiesa nel mondo e nella cultura post-moderni.
1.Carità nella verità: reciproca inclusione di teoria e prassi
Invece il primo dato, emergente fin dal titolo, è l’affermazione dell’unità profonda di verità e di carità, di fede creduta e di vita vissuta, di fides quae e di fides qua. Chi si occupa di teologia pastorale avrà tirato un sospiro di sollievo, ritrovando nella riflessioni introduttive (i nn. 1-7) il filo che trattiene inestricabilmente teoria e prassi, teologia speculativa e teologia pratica. Su tale filo si regge la teologicità non solo della teologia pastorale ma anche della Dottrina sociale della chiesa, nonchè la loro legittimità, tanto ad intra che ad extra. Il tema della reciproca inclusione di teoria e di prassi nonchè della loro specificità è giustificato dall’enciclica a partire da un’unità originaria del conoscere, che possiamo qui riassumere come unità di intelligenza e di amore. Già in Deus caritas est, 10 il papa dimostrava come questo fosse un dato che sporge non solo dall’esperienza umana elementare, ma pure dalla rivelazione cristiana. Si comprende così perchè la teologia si interessi di tutte le questioni pratiche umane, e dunque anche di quelle sociali. Che l’azione sia inscritta nella comprensione, è tanto dato originario dell’uomo quanto nota peculiare della Rivelazione cristiana, la cui attestazione non è mai solo informativa, ma sempre performativa: cioè conversione interiore e cambio della vita. Anche sociale.
2. La Dottrina sociale ha il suo “luogo” nella Tradizione della fede apostolica
“Appartiene da sempre alla verità della fede [...] che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità” (n.11). Tale dato originario è richiamato dal papa attraverso il rapporto che egli stabilisce tra l’enciclica, il Concilio, il magistero sociale precedente e soprattutto la Populorum progressio di Paolo VI (nn. 8-11 e l’intero primo capitolo), omaggiata di un impegnativo riconoscimento: “esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come ‘la Rerum novarum’ dell’epoca contemporanea” (n. 8). Questa unità tra pronunciamenti sociali diversi ma tutti con le medesime radici è spiegata dal papa come sviluppo della Tradizione della fede apostolica (n. 10). Si tratta di un tema “classico” e in fondo prevedibile in un pontefice che interpreta il Concilio entro l’ermeneutica della continuità.
Ciò che appare se non nuova almeno ribadita con fermezza, è l’uso di una tale ermeneutica per il corpus della Dottrina sociale. Il che può significare non tanto (come certamente si affanneranno a interpretare – e scrivere – altri, non noi) che al potenziale di emancipazione sociale iscritto nel cristianesimo si vuol mettere la museruola di una riduzione conservatrice, ma che nella chiesa non si è ancora sufficientemente compreso e agito intendendo la Dottrina sociale come “parte integrante della nuova evangelizzazione”. Dunque come un ambito che non può essere trascurato dalla ordinaria predicazione e dalla pastorale ordinaria delle comunità cristiane. La Dottrina sociale – nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire non solo precetti, ma anche una visione complessiva dell’uomo e della società, coestensiva alla visione cristiana della vita, è un capitolo strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna occidentale, ricollocando l’uomo nella sua costitutiva relazionalità sociale.
3. Una questione sociale complessa, non solo per via della globalizzazione
Tale “crisi antropologica” è in fondo alla base delle molte cose che non vanno anche in economia, politica e sistemi sociali vari (cfr. n. 34), cosicchè si potrebbe sostenere che la questione sociale oggi viene a coincidere con la “questione antropologica” di ruiniana memoria (cfr. n. 51). La carità nella verità vede urgente ricomporre un intero che sia di nuovo l’uomo-non-scisso: in cui, ad esempio, fede e ragione si sostengono e si “allargano” a vicenda, i regni di Dio tornano ad essere uno (e non uno nella mano destra e un altro nella sinistra, come sosteneva Lutero), l’anima e il corpo non si ignorano tra loro, l’individuo sia parte di una società, e più in generale l’uomo non tratti Dio da nemico.
Tali scissioni - per certi versi senz’altro all’origine della modernità, nonchè di quell’esito che è la differenziazione luhmanniana - necessitano di essere risignificate anche nella sfera sociale della vita a partire da un centro. Questo centro non può essere costitutito da un sottosistema-quale-che-sia (n.34).
La religione cattolica ritiene che dall’incarnazione del Figlio di Dio in poi, un tale centro sia offerto a tutti: in forza dell’unione ipostatica Dio e l’uomo non sono scissi o separati tra loro, così che il papa può sorprendentemente ri-affermare che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n. 8; PP n. 16). Questo sviluppo ‘integrale’ si dà entro un’intelaiatura chel’enciclica tesse tra la questione della vita umana, quella del diritto al vangelo e quella sociale. Proprio ricalcando il magistero montiniano, Benedetto XVI lega Humanae vitae (HV), Evangelii nuntiandi (EN) e Populorum progressio (PP). La questione della vita umana (HV), del progresso sociale ed economico (PP) e del diritto al vangelo (EN) si saldano tra loro fondando la dignità inviolabile e l’effettiva possibilità dello sviluppo dei popoli e dei singoli a un livello che non rimanga puramente quello del potere e dell’economia (o del potere dell’economia). Per quanto affermato fin dall’inizio a proposito del legame tra tra teoria e prassi, risulta chiaro che una certa visione della procreazione umana porta implicito un certo legame o non-legame con il Dio rivelato dal vangelo e dunque un certo modello di rapporti sociali ed economici. E così via. Sarà a carico di chi rigetterà l’enciclica esplicitare il proprio apparato teorico a riguardo dell’antropologia e dell’evangelizzazione, implicito in quel rifiuto pratico; e sostenere la congruenza tra la sua posizione e quella espressa da Gesù, così come ci è stata trasmessa finora. Possibilmente, senza creare nuove scissioni.
4. Gv 21, 25 a
Cioè: “Vi sono ancora molte altre cose...” nell’enciclica che meriterebbero di essere riprese. Una osservazione si può ancora fare: quanto è bella la chiesa quando non parla solo di se stessa! Quando il sale o il lievito di cui essa dispone vengono immessi dentro la pasta che è la vita del mondo. Isolare le prese di posizione della Chiesa e trattarle come distillati da laboratorio, senza farli regire con situazioni e contesti concreti, non porta che a un’estenuazione del dato di fede. A dibattiti che, avvitandosi su se stessi, rendono incomprensibile se non inutile la fede, perchè privata del suo essenziale supposto che è non l'uomo astratto, ma quello reale (cfr. RH n. 14).
Che pena se la recezione dell’enciclica in Italia si limitasse al dibattito “meglio per la Chiesa lasciar perdere la bioetica e concentrarsi sulle questioni sociali”- come se non esistesse tra loro la connessione di cui sopra!
Sarà interessante raccogliere le reazioni e i dibattiti di quanti sono impegnati nella pastorale sociale e nella Caritas, più o meno internationalis: ci aiuteranno a coniugare la carità nella verità? O si perpetueranno – anche qui – le “moderne” scissioni: carità/giustizia, evangelizzazione/promozione umana, impegno sociale/vita spirituale, cittadino/cristiano?
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*Don Paolo Asolan insegna Teologia Pastorale all’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.
Sperma da staminali: i soliti scoop-esperimenti a caccia di fondi - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 luglio 2009
E' paradossale uccidere un embrione per ottenere sperma da utilizzare per creare un nuovo embrione.
Ecco una nuova notizia "scientifica" dei soliti noti, visto che sono gli stessi della pecora Dolly e dell'embrione chimera. Ricerche pubblicizzate sulla stampa prima che esperti e scienziati possano valutarne i risultati non ancora pubblicati, ricerche che si spingono sempre oltre il limite etico in quanto utilizzano embrioni, che muoiono, per la sperimentazione; in questo caso è paradossale uccidere un embrione per ottenere sperma da utilizzare per creare un nuovo embrione.
Inoltre si dice che lo scopo è combattere la sterilità, ma non è così. Non sono ricerche e studi che ne combattono le cause. Questi esperimenti non etici non garantiscono alcun risultato, anzi gli stessi scienziati ammettono che le cavie, ottenute con quello sperma ricreato in laboratorio, sono morte quasi subito, questo ci ricorda anche la famosa pecora Dolly che era morta per invecchiamento precoce. Come non ricordare lo scandalo in Corea del Sud delle ricerche sulla clonazione, presentate come grandi scoperte scientifiche e poi risoltesi come una grande bugia col solo scopo di reperire fondi per la ricerca? Perché non ricordare come proprio dalla Gran Bretagna continuino ad arrivare "notizie" su ricerche su embrioni e embrioni-chimera, mentre le più recenti scoperte mostrano i grandi vantaggi e i successi ottenuti dalla ricerca sulle cellule staminali adulte piuttosto che su quelle embrionali? Perché continue campagne d'informazione su pillole varie, senza parlare dei loro rischi e delle conseguenze sulla fertilità sia femminile che maschile (recenti studi mostrano che i principi attivi delle pillole si ritrovano in diverse falde acquifere). Perché non parlare di una corretta prevenzione dei fattori di rischio che possono portare all'infertilità? Perché non investire sulle tecniche che realmente aiutano a superare i problemi di sterilità?
Ci sembra che lo scopo di questi scoop-esperimenti serva solo per avere pubblicità e quindi nuovi fondi, più che cercare di risolvere le malattie o i problemi in maniera seria ed efficace. Tendono sempre a seguire quella logica che separa l'atto sessuale dall'atto procreativo, una sessualità separata dall'apertura alla vita, che tende ad essere usata e proposta solo come atto sessuale, come detto da Benedetto XVI nella “Deus Caritas Est”: "L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza."(n.5) “L'eros degradato a puro «sesso» diventa merce, una semplice «cosa» che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce”. Come affermava Paolo VI nell'”Humane Vitae”: "l’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile" (n.10), l’atto coniugale ha due significati, unitivo e procreativo e "mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità" (n.12). Quindi per sua natura l'uomo è chiamato a compartecipare all'opera creatrice e a dare un proseguimento alla storia nella generazione di nuove vita umane, eliminare questo suo ruolo ne limita anche l'umanità. Tutte queste ricerche temiamo siano orientate e vadano nella direzione di idee della sessualità dove si negano addirittura la natura di donna e uomo e la loro specificità confondendola con l'idea di gender, sostenendo cioè ricerche ad hoc per chi vive una sessualità intrinsecamente chiusa alla vita.
Il discorso del patriarca di Venezia per la festa del Santissimo Redentore - Il dolore umano e il silenzio dell'abbandono – L’Osservatore Romano, 19 Luglio 2009
Da oltre quattro secoli in occasione della festa del Redentore, celebrata la terza domenica di luglio, migliaia di veneziani e non solo attraversano in pellegrinaggio il canale della Giudecca sul ponte votivo di barche - realizzato apposta ogni estate - per sciogliere l'antico voto: ringraziare Dio per la liberazione dalla terribile peste che colpì Venezia nel 1576 e affidargli nuovamente la città. Ogni anno in questa occasione il patriarca di Venezia propone il suo "Discorso del Redentore", una riflessione articolata su un tema che, suscitato dall'origine religiosa della festa veneziana, si incarna nella vita quotidiana e tocca le domande profonde dell'uomo. Quest'anno il discorso - che pubblichiamo quasi integralmente - ha per tema "L'umana sofferenza e l'opera del Redentore". Il testo integrale è disponibile in rete (www.angeloscola.it).
di Angelo Scola
Far memoria, dopo più di quattro secoli, dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la nostra città verso la fine dell'estate del 1576, è più che mai ragionevole. Ha lo spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest'anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza. La loro presa feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l'urto della realtà: dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio. Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica, del tremendo carico di sofferenze e di morte causato da guerre, terrorismo e repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità spesso connesse col degrado ecologico...Ma nessuno di questi mali morde la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor più di noi stessi.
Personalmente sono stato provocato a mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle parole, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari.
(...)Vogliamo qui limitarci a riflettere un poco sull'immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l'umanità nel suo insieme, ma sempre nella carne dei singoli, deve sopportare. Se - come diceva Agostino - ogni uomo in quanto tale è "una grande domanda" ("magna quaestio"), al cuore della domanda-uomo sta l'interrogativo sulla sofferenza e sul dolore.
"Gli scaffali della farmacia umana"
Con questa colorita espressione Balthasar descrive i principali tentativi umani di affrontare l'angoscioso interrogativo del dolore e della sofferenza. Nella sua analisi prende anzitutto in esame due categorie apparentemente opposte, ma in realtà accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario: il "disfattismo" e la "ribellione". Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo subito che intendo limitarmi a coglierne la radice antropologica senza esprimere giudizi sulle singole persone.
Il "disfattismo" è obiettivamente alla base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o "assistito", come si dice a proposito di talune pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria "resa davanti ad un eccesso di sofferenza, pensando così di liberarsene" (Balthasar). Il cuore dell'uomo percepisce immediatamente l'estrema fragilità di tale posizione. Anche nel caso, talora richiamato, del suicidio di certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, "il peccato per eccellenza". Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e con premeditazione, non si offre la vita. La si sottrae a se stessi. Inoltre una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo che non mette in conto la sofferenza arrecata ad altri.
La seconda posizione, la "ribellione", è autocontraddittoria. Per finire non identifica nessuna persona contro cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può chiamare in causa Dio, l'umanità o il male radicale, in realtà si riduce ad una rivolta per la rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore, nell'illusione di farlo tacere.
Altra è la posizione di chi non si ferma sul soggetto che soffre, ma si impegna per una riduzione progressiva del dolore nell'orizzonte di un più generale progetto di miglioramento del mondo: un nuovo umanesimo in grado di riconciliare l'uomo con la natura (Marx), il passaggio dal nulla all'essere (Bloch), dalla bestialità alla vera umanità (Teilhard de Chardin). Un caso particolare è quello di Nietzsche per il quale il dolore esalta la "natura bellicosa dell'uomo" preparando il superuomo. Ma la battaglia contro il male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede?
Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l'uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti.
In questa prospettiva tragedie come quelle dell'Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scandalo), perché svelano il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura e angoscia. (...)
La sofferenza radicale di Gesù
(...)La Sacra Scrittura illumina aspetti importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro della Genesi) senza però preoccuparsi di fornire una teoria risolutiva al riguardo. Si limita per lo più a descrivere in vario modo l'esperienza che il credente vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio per la purificazione della propria fede. "Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano suo zio materno". Così il Libro di Giuditta (8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale, sostiene che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro che gli stanno vicini. Così nella Prima Lettera di Pietro (1, 7), in quella agli Ebrei (12, 6) e nell'Apocalisse (13, 19).
Ma all'uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male da parte di Dio può bastare?
Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l'esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato "l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto" (Lettera agli Ebrei 5, 8-9) ha attuato un'opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo "la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza" (Cicely Saunders).
Nell'opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di croce ha fatto un'esperienza irrepetibile di dolore morale: l'abbandono da parte del Padre.
Il grido del Salmo 22 - "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15, 34) - è quello del Figlio, cui il Padre era ben noto. Legato al Padre nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò tuttavia di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente definitiva, dal Suo Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole estreme: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (Seconda lettera ai Corinzi 5, 21). Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece l'esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell'Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione.
Si intravvede l'abisso del misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo Spirito Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo "allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi" dei Due (Balthasar). Ora "nel silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza". Di ogni umana sofferenza.
Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente - sponte, dice sant'Anselmo -. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l'umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più contrario all'innocenza di Gesù quanto l'espiare (purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il "Puro" in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte e il peccato in nostro favore.
Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza: per l'uomo è impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l'uomo che compie ingiustizia viene restaurato nella sua dignità tramite l'espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore.
La fecondità dell'umana sofferenza
(...)"Perché mi hai abbandonato?": una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una domanda senza risposta, perché anche il silenzio è una risposta. Non è forse l'esperienza preponderante che ciascuno di noi fa di fronte alla sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa dire.
(...)Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore attraverso una teoria più brillante delle altre, ma ha compiuto un'opera di totale immedesimazione nella sofferenza, illuminandone il significato profondo: la collaborazione alla Sua redenzione del mondo. Per quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa infastidire la nostra sensibilità post-moderna, non possiamo negare questa realtà. Don Gnocchi, che sarà fra poco proclamato Beato, condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore innocente - quello che più ci tenta di ribellione contro Dio, in un celebre scritto, racconta come i suoi mutilatini, una volta resi partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte risurrezione.
La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente l'accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione con la sua, espiare in modo vicario. San Paolo osa scrivere ai cristiani di Colossi: "Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Lettera ai Colossesi 1, 24).
Qualche settimana fa un padre, parlando del figlio dodicenne appena morto in un incidente stradale, poteva dire: "Non è vero che Dio dà e toglie; Dio dona sempre". Qui siamo scesi in profondità, ben oltre la tesi della pura permissione del male.
Questa consapevolezza non rinuncia all'indefesso impegno teso a combattere la sofferenza umana, ma - come mostrano le plurisecolari opere di carità cristiana - sprigiona una creatività non utopica.
Per una cura integrale
Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica dell'incarnazione propria della fede cristiana a considerare il nostro comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso, davanti a queste situazioni-limite, ci smarriamo e sembriamo incapaci di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una fragilità personale nel portarle, quanto piuttosto a una mancanza di chiarezza nel valutarle.
Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli terminali. Sollevano questioni scottanti che sono, tra l'altro, proprio in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al disegno di legge sul fine-vita e a quello sulle cure palliative.
Vista nel quadro delle considerazioni svolte, l'esperienza dell'uomo provato dalla malattia e dalla disabilità, con l'inevitabile carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull'azione terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l'intervento lenitivo della sofferenza è proposto all'interno di una visione integrale dell'uomo.
Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia ("L'uomo nella prosperità non comprende, è come un animale che perisce" ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non sono separabili, come si è visto, da una domanda di significato.
La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte, senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell'economia della vita umana.
Non pare falsificabile la convinzione, maturata da molti esperti, che quello che comunemente si chiama "stato vegetativo" non sia una malattia, ma la più grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai sempre più sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare terapia medica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere: l'acqua, il cibo, la mobilizzazione, l'igiene, la relazione e un ambiente disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo, quindi, non ha bisogno di straordinarie apparecchiature di supporto delle funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è in grado di assolvere da solo: igiene, movimenti, deglutizione (quindi alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle situazioni, di grande difficoltà diagnostica, e interroga molto profondamente sulla dignità della persona umana e sul mistero del suo essere.
Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta. Inoltre gli esperti che hanno coniato il termine "stato vegetativo" a proposito della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria "non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico".
La cura della persona in questo stato è, allora, una presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se a elevato impegno umano e assistenziale. Pur consapevole delle forti improbabilità di ripresa, sa accompagnare sempre il paziente, senza mai cadere negli opposti eccessi di un accanimento o di un abbandono.
La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni casi, consente di ottenere risultati sorprendenti e assolutamente inattesi come il recupero stabile della coscienza e la capacità di alimentarsi per via orale fino al rientro al domicilio.
Secondo gli esperti un "caso" assai diverso è quello dei cosiddetti "malati terminali", ad esempio quelli affetti da sclerosi laterale amiotrofica (Sla). È proprio questo l'ambito in cui si aprono gli interrogativi sui presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia.
Visitando taluni di questi ammalati, mi è sorta una domanda: non siamo piuttosto noi sani a chiedere la "morte degna", mentre i malati chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita degna fino all'ultimo istante, fatta di quello che caratterizza l'uomo: la capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non abbandono, di qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte le sue fasi e in tutti i suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente terminale come quando ho visto tre figli - di 8, 10 e 11 anni - accudire un padre quarantottenne malato di Sla in grado di comunicare solo con le palpebre.
Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative. La moderna definizione di tali cure, data dalla "European Association for Palliative Care", recita: "Le cure palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria...Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine". "Inguaribile", infatti, non è sinonimo di "incurabile".
Questa definizione appare improntata al più grande realismo. Di essa devono tener particolare conto i curanti, dal momento che non pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo dall'atteggiamento degli operatori sanitari e dei familiari nei confronti della vita, della malattia e soprattutto dell'ammalato.
Leggi giuste
Tra i fattori che influenzano in modo sostanziale le scelte della persona - sia perché impongono divieti e riconoscono diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità - va annoverato il contesto normativo di un Paese. Per questo il legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente giuste.
A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat), sento la responsabilità di invitare il legislatore a garantire quei principi irrinunciabili più volte richiamati dalla Conferenza episcopale italiana. Nello stesso tempo il pronunciamento legislativo sulle cure palliative deve essere al più presto attuato e dotato di tutti i mezzi finanziari perché siano capillarmente praticabili nel nostro Paese. Risorse economiche adeguate vanno investite anche nella normale terapia del dolore.
"Nel dolore lieti"
Dolore e sofferenza, nel loro carattere misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato al cuore dell'amore trinitario che si è coinvolto con questa condizione-limite dell'uomo. In Cristo Gesù siamo resi capaci della paradossale ma umanissima esperienza vissuta da san Paolo: "Nel dolore lieti" (cfr Seconda lettera ai Corinzi 6, 10) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini. Per questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell'accompagnamento, ma - soprattutto - educazione al gratuito, all'amore come dono totale di sé. Questa è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone sono vicine ai malati, ai moribondi, agli angosciati che hanno perso tutto, ai troppi provati dalla miseria e dalla fame. L'oceano di carità che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di quell'eloquente silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile risposta al nostro grido di desolazione.
Ma, soprattutto, sono l'offerta di sé e la preghiera semplice (Santo Rosario) di quanti sono vittime del dolore di qualunque genere ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata e non trattenuta. (...)In quest'ottica l'accettazione dei mali fisici e il pentimento per il male compiuto sono alla nostra portata. Perfino la nostra stessa morte può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo della prosperità e del benessere la si guarda come autentico dono di sé. Lo sapevano bene i nostri vecchi, usi a recitare la preghiera dell'"Apparecchio alla buona morte".
Il mistero del dolore e della sofferenza sta inesorabile davanti a ciascuno di noi, ma il suo valore è già fin d'ora custodito nel nucleo incandescente dell'amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata, quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di noi li assuma quotidianamente nell'orizzonte dell'autentico amore di Dio, degli altri e di se stesso.
(©L'Osservatore Romano - 19 luglio 2009)
I NOSTRI ATTI CI SEGUONO - IL TORMENTO BURBERO SERVITORE DELLA VERITÀ - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 19 luglio 2009
In diciassette anni non si riesce a dimenticare? 'I nostri atti ci seguono'. Un grande romanzo francese si intitola così. Lo ha scritto Paul Bourget. Racconta di una persona segnata da un fatto grave commesso, che non riesce a 'sfuggire' al segno d’ombra che quell’atto ha lasciato nella sua vita. Il protagonista non riesce a vivere senza il peso irredento di quel che ha compiuto. Ora quel romanzo sembra diventato realtà dalle parti di Modena. I nostri atti ci seguono a lungo. Anche diciassette anni. Tanto era passato dall’omicidio ormai dimenticato da quasi tutti, sepolto tra i fatti archiviati pure dalla polizia, e buttati alle spalle dalla cronaca e dalla vita di tanta gente.
Ma lui no. Lui, l’omicida. Insospettabile. Si era fatto una vita normale. Dopo il 17 ottobre del 1992. Dopo aver posato, visto da nessuno, lo svitabulloni con cui aveva fracassato la testa di Ivan, che gestiva un pornoshop. Era entrato lì per fare una rapina. Ma pochi erano i soldi in cassa, e nella colluttazione Ivan aveva reagito ed era successo il fatto. Il fatto che lo ha inseguito fino ai suoi cinquant’anni. Fino a ieri. Fino alla soglia della caserma dei carabinieri del Modenese. Inseguito per tutto il corso della vita rifatta e irreprensibile. Una persona per bene. Ma da diciassette anni lavorata dentro da quel che sembra non esistere più: il tormento della coscienza. O chiamatela: ferita nell’anima. Ormai il termine 'tormento' si applica (nella versione anche aggiornata di 'tormentone') a certi caldi africani o a certe musichette o battute che ci assillano. Un tormento superficiale. Come una specie di grande fastidio. Il cinquantenne di Modena ha conosciuto invece il tormento profondo. Quello che non lascia niente com’è. Che ti ammala tutto tra le mani e davanti agli occhi. Probabilmente, prima di varcare la soglia di un posto di polizia, prima di confessare un delitto di cui alla squadra omicidi han sentito poco, nella sua coscienza si sono combattute molte possibilità. Lo studio di molte vie d’uscita. Forse ha tentato dei modi per placarlo, il tormento. Per distrarlo. Prima di capire, prima di decidere che il modo migliore, anzi l’unico modo possibile, era dire la verità a chi va detta. La verità intera. Quella che si porta attaccata tutto il magone e tutta la forza. Tutta la vergogna e tutta la libertà.
Perché il tormento per questo genere di cose è una specie di servo della verità. Non è, per così dire, fine a se stesso. E infatti la vita di nessuno è fatta per esser tormentata. Per questo il tormento è insopportabile. Dopo un po’. Un’ora o diciassette anni. Un minuto, per poi correre nelle braccia di chi hai offeso. O una vita intera, per bisbigliare 'scusa' al cielo. Ma, lui, il tormento, è come il maggiordomo burbero della verità. È uno che sbatte le tovaglie, sposta con virulenza i mobili, scuote le tende alle finestre. Non lascia in pace la nostra casa interiore. Quel maggiordomo, quel servitore non lo fermi mai. Sbuca dalle stanze che pensi nascoste, sigillate. Da quelle dove pensi che regnino silenzio e quiete. Invece lui lavora. Trascina, smobilita. Sembra preparare la casa, le stanze per una ospite cara. Per la verità. Che una volta arrivata darà a lui le ferie. Lo congederà, antipatico e utilissimo servitore.
E allora sulla porta, vedendolo andarsene, non lo si guarderà più con antipatia. Forse per l’uomo di Modena sarà così, speriamo che sia così. In questa estate che avvampa e piange, ora che ha fatto quel che sapeva di dover fare, dopo anni di tormento vissuto in solitudine noi vorremmo non lasciarlo solo.