giovedì 23 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)BIOETICA/ Roccella: aborto, biotestamento e legge 40, ecco dove attacca l'ideologia di oggi - Redazione giovedì 23 luglio 2009 - ilsussidiario.net
2)Riflesso nella vanità di Scalfari, il venerabile gesuita è insopportabile - di Giuliano Ferrara
3)Nella riforma sanitaria di Obama c'è anche il sostegno pubblico all'aborto - Dopo aver fatto alcuni cortesi commenti sulla necessità di trovare un “terreno comune” con i “pro-life”, l’amministrazione non ha mostrato alcun interesse nel portare avanti questo tipo di politica. Il programma di Obama, al contrario di ciò che si pensa, sta ‘tessendo’ il sostegno governativo all’aborto nel tessuto della vita americana, per renderlo una parte ancora più integrale della politica nazionale ed estera del presidente, e più che mai rispetto al passato…
4)La beatificazione di Newman per far risorgere l’Europa cristiana - Segno di contraddizione per la Modernità che rifiuta Dio - di Paolo Gulisano
5)Il dramma dimenticato delle donne oggetto di violenza in Congo - I leader delle Chiese cristiane denunciano la situazione - di Nieves San Martín
6)La silenziosa ricerca della verità di John Henry Newman - E il cardinale rispose al bambino - di Inos Biffi – L'Osservatore Romano, 23 luglio 2009
7)UE/ Mario Mauro: le grandi sfide del nuovo governo europeo - Mario Mauro giovedì 23 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)NATURA UMANA/ Siamo buoni per scelta o per necessità? - Andrea Moro giovedì 23 luglio 2009 – ilsussidiario.net


BIOETICA/ Roccella: aborto, biotestamento e legge 40, ecco dove attacca l'ideologia di oggi - Redazione giovedì 23 luglio 2009 - ilsussidiario.net

L'approvazione della moratoria internazionale sull'aborto imposto ha riaperto in Italia il dibattito sui temi etici già risollevato potentemente dal caso di Eluana Englaro. Libertà, diritto, politica, conquiste civili, difesa della vita e laicità sono termini che sono tornati di nuovo al centro del dibattito politico come non avveniva dalla fine degli anni settanta. Ilsussidiario.net ha fatto il punto di tutti i temi che si stanno intersecando in queste combattute sedute parlamentari con Eugenia Roccella, sottosegretario del ministero del Welfare e grande protagonista nelle battaglie civili sui temi etici.

Sottosegretario Roccella, cosa pensa della moratoria sull'aborto proposta dall'onorevole Rocco Buttiglione?

Si tratta di un’iniziativa che può essere particolarmente significativa, soprattutto dopo le politiche a cui abbiamo assistito da parte anche di organizzazioni non governative legate in qualche modo alle Nazioni Unite.

La battaglia sull'aborto c'è da diversi anni. I valori e i problemi attuali sono diversi dall’inizio?

Dagli anni ‘60 si è diffusa l’idea che lo sviluppo economico fosse collegato a una fissità delle risorse. Le risorse erano un dato incomprimibile e immodificabile. Su che cosa si poteva intervenire allora? Sulla popolazione, attraverso i nuovi metodi di controllo delle nascite, e l’aborto era in tal senso un elemento essenziale. Il controllo della natalità era considerato un fattore di sviluppo. L’aborto è stato questo, non la “libera scelta delle donne”, ma un fondamentale elemento di questo teorema, soprattutto in moltissimi paesi del terzo mondo, perché non esiste una politica sul controllo delle nascite che sia attuabile senza l’aborto.

Ritiene che ci siano lobby internazionali che premono per utilizzare l'aborto per il controllo delle nascite?

Più che di lobby, il problema è politico. Si è partiti con dei piani finanziati da alcune Ong e poi attuati dai governi in maniera autoritaria. Il compagno violento dell’aborto era, ed è tutt’oggi, la sterilizzazione, che non sempre è coatta e non per forza dev’esserlo. Non c’è bisogno, infatti, che un aborto sia coatto perché risulti essere una violenza. Bastano le politiche di promozione, che spingono all’aborto.
Pensiamo che ci sono 160 milioni di donne sterilizzate nel mondo. Nei paesi molto poveri, come il Bangladesh per esempio, davano un “sari” alle donne che venivano sterilizzate; queste, una volta vendutolo, ne ricavavano soldi da spendere per mantenere la famiglia per mesi. È chiaro che è una forma di promozione nei confronti di donne che non sanno nemmeno esattamente a che cosa vanno incontro.

Crede che la legge 194 sia sempre stata applicata in modo aderente allo spirito con cui è stata scritta?

Si sa che tutta la prima parte non è stata mai applicata, e ci sono alcuni punti che non vengono mai applicati. Penso, per esempio, a quello in cui si dice che l’aborto non è consentito quando c’è la possibilità di vita autonoma del feto. Tale questione ha suscitato un dibattito molto forte dopo il caso di “Careggi”. Ci sono ospedali che hanno posto nel proprio statuto alcuni limiti, ma c’è bisogno di dare una linea omogenea. Più che attraverso una correzione legislativa, questo si può fare soltanto attraverso linee guida condivise con le regioni.

E per quanto riguarda la legge 40?

Sulla legge 40 ci sono sempre state forzature di tipo giurisprudenziale, cioè continui tentativi di aprire varchi nella legge, soprattutto per quanto riguarda la diagnosi pre-impianto e il numero degli embrioni da produrre. La Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che conferma tutto l’impianto della legge, ma sposta la responsabilità di quanti embrioni bisogna produrre dal legislatore al medico, e questo principio è giusto. Se ciò non viene usato in modo strumentale è un criterio sul quale possiamo essere d’accordo, considerando che rimane in piedi il divieto di crioconservazione e la dicitura in cui si afferma che il numero di embrioni da produrre dev’essere strettamente necessario. Se ci fosse un’applicazione corretta della sentenza non ci sarebbero problemi. Resta il dubbio che nella prassi possa essere usata come un varco per tentare di stravolgere la legge o applicarla in modo diverso da quanto stabilito dal legislatore.

Dopo l’approvazione al Senato, il ddl sul fine vita sembra incagliato alla Camera. Si vorrebbe ripartire da un nuovo testo. Secondo lei come andrà a finire?

Questa è una legge di iniziativa parlamentare, quindi come rappresentante del Governo non posso entrare più di tanto nel merito della questione.
Non si può non tenere comunque conto del testo votato dal Senato. Al Senato è stato votato un testo di legge dopo un dibattito molto approfondito, con delle modifiche volute e accolte dall’opposizione.
Inoltre questo testo ha attraversato 60 votazioni segrete in cui molto spesso abbiamo avuto una maggioranza più ampia di quella che avevamo sulla carta, e proprio sui punti critici. C’è una altro fatto interessante per quanto riguarda l’atteggiamento dell’opposizione: attualmente la legge è valida solo per quanto riguarda gli stati vegetativi, e al Senato era stato fatto un emendamento per allargarla anche ad altre condizioni di incapacità di intendere e di volere. E c’è stato un voto contrario. Insomma quel testo non è uscito da uno scontro fra maggioranza e opposizione in cui la prima si è chiusa a riccio. Di tutto questo la Camera deve tenerne conto.

Il Ministro Sacconi ha ribadito che il diritto all’idratazione e all’alimentazione non potranno essere oggetto di modifiche. La maggioranza riuscirà a mantenere questo intento?

Su questo è il Parlamento che deve decidere, ma sono fiduciosa. Penso che in Parlamento ci sia una maggioranza che considera l’idratazione e l’alimentazione non come terapie. E quindi non possono rientrare nella disponibilità della scelta del paziente, perché l’articolo 32 della Costituzione è chiaro: c’è la libertà di scegliere le terapie, non di scegliere di morire. Il problema è proprio questo: non configurare un diritto a morire.

In una recente intervista al Corriere della Sera, il Cardinal Scola ha richiamato a un impegno anche per le cure palliative e la terapia del dolore. Cosa intende fare in tal senso il Governo?

Il Governo ha già fatto qualcosa: ha già destinato 100 milioni di euro, negli obiettivi di piano di quest’anno, alla costruzione delle reti per le cure palliative e la terapia del dolore. Adesso si è aperta la discussione sulle Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento) solo dopo che la commissione ha chiuso l’esame del testo sulle cure. Noi avevamo fatto questa promessa: al Senato si sarebbe iniziato a lavorare sul testamento biologico, mentre alla Camera si sarebbe andati con le cure palliative, e questo patto è stato mantenuto.

A proposito di Dat, c’è dice che vi sia stata un’improvvisa accelerazione alla Camera su questo tema…

In realtà il problema è l’esatto contrario: l’opposizione ha fatto un po’ di “melina” sulle cure palliative per non arrivare alla discussione sul testamento biologico, e quindi noi abbiamo voluto dare un’accelerazione, che in realtà cerca solo di rimediare a un ritardo. Vorrei aggiungere anche una cosa: è chiaro che c’è una connessione di civiltà e di carità fra le cure palliative e l’eventuale legge sulle Dat. Noi vogliamo sottolineare che ognuno ha il diritto a non soffrire, a vivere una fine dignitosa e un accompagnamento alla morte il più amoroso possibile.
Questo è qualcosa che dev’essere visto ormai come un diritto ed è un forte perno dell’idea di solidarietà che noi vogliamo coltivare. Vogliamo una società in cui l’etica della cura sia centrale, che non abbandoni nessuno, in particolare quelli che stanno morendo. Gli ultimi momenti di una vita sono quelli che ne testimoniano l’unicità. Ma non c’è uno stretto legame fra l’ideologia del testamento biologico e le cure palliative.

Cosa intende dire?

Il testamento biologico è in molti casi un’affermazione di tipo ideologico, e non è un caso che chi fa i testamenti biologici in questo particolare momento siano per lo più persone giovanissime senza alcun problema di salute. Questo dimostra due cose sul testamento biologico. Da una parte l’affermazione dell’autodeterminazione, un atteggiamento che esclude la relazionalità: io decido quando morire. Dall’altra parte (ed è la situazione più pericolosa), l’idea che in una condizione di patologia, soprattutto grave, la vita non merita di essere vissuta. Da ciò deriva un’idea della disabilità come una vita non di qualità, legata a degli standard, e non alle potenzialità del singolo.

Cosa pensa dell'iniziativa di chiedere l'istituzione di registri comunali sul testamento biologico?

Io penso che dobbiamo fare una legge sul tema, e che in questo momento c’è una rincorsa a metodi surrettizi che si sostituiscono all’unica iniziativa legittima, che è quella rispettosa delle competenze del parlamento e dei valori democratici di questo Paese.



Riflesso nella vanità di Scalfari, il venerabile gesuita è insopportabile - di Giuliano Ferrara
Eugenio Scalfari spesso tira fuori il peggio dei suoi interlocutori, perché li sfida in una gara di narcisismo camuffata da emulazione intellettuale e morale, per giunta nobile. Accadde anche ieri in una conversazione su Repubblica con il cardinale Carlo Maria Martini, che ha deciso di passare questi anni venerabili alla ricerca non del giusto, del bello, del vero e del buono ma del consenso, comunque sia.

Da Scalfari Martini si è lasciato sgridare per aver scritto un libretto modesto, a quattro mani, con don Luigi Verzè, definito dal famoso moralista laico come “un personaggio di notevole intraprendenza”, che sarebbe una formale diminutio di persona non grata se non si attagliasse, la definizione, al suo stesso autore. Si è anche mediocremente giustificato, cosa che un principe della chiesa dovrebbe evitare di fare: per lavorare di penitenza, il confessionale giusto non è il lettorato di Repubblica. Martini ricorda spesso il vangelo, che sarebbe anche il suo mestiere. Sostiene che bisognerebbe smantellare la chiesa come istituzione, diplomazia e rocciosità della sede petrina prima di ogni altra cosa; tutto quello che non è spiritualità e pauperismo è istituzionalismo o residuo temporalista, deriva costantiniana, orrida alleanza con il potere. Bisognava fare Papa un pastore, non un teologo o un diplomatico, nell’ultimo conclave. E va bene. Abbiamo capito.

Ma è andata così, e sarà da farsene una ragione, se si voglia risultare persuasivi nel ragionare intorno alla chiesa di Benedetto XVI. Martini dimentica però di citare il vangelo in quel versetto che ci sembra di ricordare dedicato al matrimonio: l’uomo non disgiunga ciò che Dio ha unito. Il carattere sacramentale del matrimonio non interessa l’esegeta biblico fattosi pastore dei divorziati risposati, che vorrebbe addirittura dedicare un concilio non già alla vasta piaga sociologica e spirituale della distruzione della famiglia moderna attraverso il divorzio, l’aborto e altri ammennicoli del diavolo: no, Martini vuole fare un concilio per alleviare il disagio spirituale dei divorziati che si risposano e chiedono l’eucaristia, infatti il cardinale intuisce il numero sempre crescente dei peccatori (dal punto di vista della chiesa) e vuole ingurgitarli tutti come segni dei tempi, correzioni di un’etica cattolica cattiva in quanto formalistica e antirelativistica, numeri di un consenso decisivo per l’alleanza con il mondo com’è.

Già che c’è, Martini definisce la frequenza dei sacramenti, della messa e le vocazioni come “aspetti esterni, non sostanziali” della vita cristiana, che sarebbe solo e soltanto carità, e forse fede e speranza. A Martini, dice infine Scalfari, piace Scalfari, che è un “ateo perfetto”; a entrambi, dicono in coro Scalfari e Martini, dispiacciamo noi atei imperfetti, che manifestiamo liberamente, in nome di una ragione più larga e varia del razionalismo conformista, una certa ironica ma sincera devozione per la dottrina, l’annuncio e la liturgia cattoliche. Sinceramente, e gentilmente, ricambiamo.

di Giuliano Ferrara

Fonte: © Copyright Il Foglio, 19 giugno 2009


Nella riforma sanitaria di Obama c'è anche il sostegno pubblico all'aborto - Dopo aver fatto alcuni cortesi commenti sulla necessità di trovare un “terreno comune” con i “pro-life”, l’amministrazione non ha mostrato alcun interesse nel portare avanti questo tipo di politica. Il programma di Obama, al contrario di ciò che si pensa, sta ‘tessendo’ il sostegno governativo all’aborto nel tessuto della vita americana, per renderlo una parte ancora più integrale della politica nazionale ed estera del presidente, e più che mai rispetto al passato…

Durante la sua prima settimana al governo, il presidente Obama ha emesso un ordine esecutivo che revoca la “Mexico City Policy” dell’epoca di Reagan, che proibiva al governo americano di finanziare organizzazioni che sostengono l’aborto all’estero. Poche settimane dopo, la società di rilevamento Gallup ha registrato che l’ordine esecutivo di Obama è stato l’atto meno popolare preso dal presidente durante il suo periodo di “luna di miele” con l’elettorato. In un momento in cui il patrimonio netto delle famiglie americane è diminuito in media del 25 per cento, aumentare quello di chi pratica aborti all’estero non sembra proprio in cima alla lista delle cose da fare.
La reazione degli americani appare meno sorprendente alla luce di un altro recente sondaggio Gallup: per la prima volta in più di dieci anni, gli elettori che si definiscono “pro-life” hanno sorpassato quelli che si definiscono “pro-choice” (51 per cento contro il 42 per cento). E potrebbe anche essere che il sentimento antiaborista sia sottostimato, visto che molte persone che si definiscono “pro-choice”, quando rispondono ai sondaggi, appoggiano le restrizioni sull’aborto che l’attuale Corte Suprema ha introdotto con la sentenza sul caso Planned Parenthood v. Casey.
Vista l’ampiezza della sua agenda domestica, il presidente avrebbe potuto fare una correzione di medio-termine per quanto riguarda l’aborto. Perché sbandierare una questione che va nel senso opposto a quelle gradite dalla maggioranza del popolo americano - compresa una fetta abbastanza grande di quel 52,9 per cento dell’elettorato che ha votato per lui - e su cui gli americani hanno posto delle serie riserve?
Ma ormai, dopo quasi sei mesi, l’obiettivo finale per Obama è diventato chiaro. Dopo aver fatto alcuni cortesi commenti sulla necessità di trovare un “terreno comune” con i “pro-life”, l’amministrazione non ha mostrato alcun interesse nel portare avanti questo tipo di polica. Il programma di Obama, al contrario di ciò che si pensa, sta ‘tessendo’ il sostegno governativo all’aborto nel tessuto della vita americana, per renderlo una parte ancora più integrale della politica nazionale ed estera del presidente, e più che mai rispetto al passato.
La "prova regina" è il progetto di riforma dell’assistenza sanitaria che sta emergendo fra i democratici. Mentre scrivo, il progetto di legge in discussione al Congresso è il migliore indicatore della direzione che stanno seguendo l’amministrazione e i vertici del Partito Democratico. Stabilita da tre potenti responsabili del “committee” democratico - Henry Waxman (energia e commercio), George Miller (istruzione e lavoro) e Charles Ranger (che presiede la Commissione “Ways and Means”) -, la legge presentata alla Camera offre un pacchetto di benefici minimi che saranno universali – nel senso che potranno valere per tutti i programmi di assicurazione forniti agli americani, che siano erogati da aziende private o dal governo.
Il piano include tra le altre cose due categorie: “i servizi ospedalieri per pazienti esterni” e “i servizi clinici per pazienti esterni”. Ma quali saranno precisamente i servizi inclusi sotto queste categorie? L’aborto è compreso oppure no? Se i democratici che hanno scritto la bozza di legge l’avranno vinta, questo aspetto non verrà mai specificato nel testo della legge. La decisione spetterà alla Health Benefits Advisory Committee controllata dal presidente Obama e da Kathleen Sebelius, il ministro della sanità che i “pro-life” del Kansas ricordano bene perché usò il suo potere di governatore per mettere il veto sulle restrizioni agli aborti tardivi.
Chiaramente, se la riforma della sanità proposta da Obama diventasse legge, l’aborto verrà automaticamente definito come un “beneficio sanitario” da fornire ad ogni famiglia americana. L’emendamento Hyde, che per 30 anni ha proibito quasi tutti i finanziamenti federali dell’aborto, e che ha goduto di un ottimo sostegno al Congresso, diventerà quasi irrilevante una volta che l’aborto su richiesta venisse definito come un “benificio sanitario” universale.
La stessa inflessibile agenda della Casa Bianca è emersa anche "localmente", per così dire, quando il presidente ha approvato l’abrogazione dell’emendamento Dornan. Se Obama ottenesse il suo scopo, il governo liberal di sinistra del Distretto di Columbia sarà libero di spendere i soldi del governo negli aborti, per la prima volta dal 1995. Apparentemente, Obama ha deciso che la capitale della nostra nazione ha bisogno di questo, nonostante la sua popolazione sia continuamente in declino, così come il tasso di formazione delle famiglie, e il numero di aborti legali e registrati risulti pari al numero dei bambini nati vivi.
Questa visione verrà aggressivamente promossa anche all’estero dal Segreterio di Stato Hillary Clinton. La Clinton ha recentemente dichiarato che l’amministrazione promuove “la salute riproduttiva” che, come riconosce lei stessa, include “l’accesso all’aborto”. Recentemente, alla Camera è passato il Foreign Affairs Authorization Act che, se dovesse ottenere anche l’ok dal Senato, darà vita ad un "Ufficio sui temi globali della situazione delle donne" che dovrebbe occuparsi anche delle questioni internazionali legate al mondo della donna. Quando Chris Smith, un membro del Congresso proveniente dal New Jersey, ha avanzato un emendamento che proibiva al nuovo ufficio di promuovere l’aborto, la norma è stato bocciata e la leadership democratica ha impedito di valutare l’emendamento nella Camera dei Rappresentanti.
Perché Obama sta spingendo su un programma abortista tanto radicale? Visto che non possiamo spiegarcelo dicendo che lo fa per opportunismo politico - basta guardare ai risultati dei sondaggi di opinione - il motivo il più plausibile deve essere una sua sincera convinzione. In certi casi la risposta più semplice e franca è anche quella che aiuta a dare un senso a delle decisioni politiche. Un presidente che una volta ha detto che non vorrebbe mai punire sua figlia con un bambino, se quel bambino è frutto di un "errore", è un presidente profondamente impegnato a liberalizzare l'aborto, a renderlo facile e gratuito, come un elemento inevitabile della cultura americana.
Marjorie Dannenfelser è la presidente del Susan B. Anthony List, un’organizzazione che promuove, mobilita e rappresenta le donne "pro-life" nella vita politica americana.
Tratto da The Weekly Standard
Traduzione di Ashleigh Rose
L’Occidentale 20 Luglio 2009


La beatificazione di Newman per far risorgere l’Europa cristiana - Segno di contraddizione per la Modernità che rifiuta Dio - di Paolo Gulisano


ROMA, mercoledì, 22 luglio 2009 (ZENIT.org).- John Henry Newman, nato in Inghilterra nel 1801 e morto nel 1890, uno dei più grandi pensatori cristiani degli ultimi secoli, convertito al Cattolicesimo, sarà presto annoverato tra i beati della Chiesa Cattolica. Si tratta di un avvenimento che lascerà il segno, e non solo nella Chiesa che è in Inghilterra, ma per tutta la Cristianità.

Newman nell’800 positivista e scientista che aveva cominciato a rifiutare Dio fu un segno di contraddizione che aveva scosso l’Inghilterra sia cattolica che protestante.

Da anglicano aveva dato vita al Movimento di Oxford, teso ad approfondire la ricerca teologica, specie nel campo della Patristica (la teologia del tempo in cui la Chiesa era ancora una e indivisa) e a confrontarsi con le sfide della modernità. Questa ricerca della verità lo aveva fatto infine approdare, quarantenne, al cattolicesimo. Un distacco, quello dall’anglicanesimo a vantaggio di Roma, che fece scalpore.

Peraltro, divenuto cattolico, non mancarono a Newman altre contrarietà se non ostilità. Il suo genio teologico, la sua grande libertà con cui anteponeva il primato della coscienza ad ogni semplicistico dogmatismo suscitarono invidie e sospetti. Anche nella stessa gerarchia non mancò chi giudicava Newman non sufficientemente “romano”, non abbastanza polemico nei confronti di quell’anglicanesimo che aveva lasciato.

Newman attraversò anche queste prove, sostenendo sempre che “diecimila difficoltà non fanno un dubbio, se io capisco bene la questione”.

L’ex grande protagonista della vita culturale di Oxford venne messo in disparte nella sua nuova chiesa, dove gli si rimproverava di non attuare abbastanza conversioni.“Per me le conversioni non erano l’opera essenziale, ma piuttosto l’edificazione dei cattolici”, scrisse.

Entrato a far parte della Congregazione di San Filippo Neri, si stabilì a Birmingham, fondandovi un Oratorio. Qui il grande pensatore, l’intellettuale brillante, si trovò accanto alla miseria degli slums, in una realtà ecclesiale dove pochi erano quelli che si erano potuti permettere un’istruzione, e proprio qui, e a partire da qui, la Grazia di Dio che era in lui cominciò a seminare a piene mani.

“Il vero trionfo del Vangelo- aveva scritto- consiste in ciò: nell’elevare al di sopra di sé e al di sopra della natura umana uomini di ogni condizione di vita, nel creare questa cooperazione misteriosa della volontà alla Grazia… I santi: ecco la creazione autentica del Vangelo e della Chiesa.”

Oggi la Chiesa indica proprio in Newman una di queste figure di santità. Che cosa significa la beatificazione di Newman nella realtà britannica ed anglosassone? Vuol dire riproporre ancora una volta un modello di santità fondato sulla sequela di Cristo.

Significa non rassegnarsi all’idea di un mondo che sembra totalmente secolarizzato, significa – per il mondo britannico- offrire una via d’uscita alla crisi gravissima dell’anglicanesimo. “La Chiesa Cattolica è per i santi e per i peccatori, per le persone rispettabili è sufficiente la Chiesa Anglicana”: così aveva scritto Oscar Wilde in procinto di convertirsi al Cattolicesimo.

Oggi la Chiesa Anglicana ha perso anche questo aplomb di rispettabilità formale: tra pastori smarriti che cercano di inseguire le varie mode ideologiche a vescovi che dichiarano pubblicamente di non credere nei fondamenti della Fede cristiana a reverende donne, in tutta questa confusione c’è una parte non trascurabile di fedeli anglicani che non si ritrovano più in questa chiesa, che tra l’altro alla morte della Regina Elisabetta II avrebbe formalmente come capo il panteista Carlo. La beatificazione di Newman potrebbe rappresentare un momento di riflessione per questo mondo anglicano smarrito.

La sua teologia, che quando era in vita appariva “liberale”, in realtà fu sempre profondamente sensibile alla tradizione e rispettosa dell'autorità magisteriale della Chiesa.

Le obiezioni cessarono quando fu elevato alla porpora cardinalizia da Leone XIII alla soglia degli ottant’anni, un riconoscimento dovuto per la sua opera e per la nobiltà della sua figura. Venne altresì nominato Fellow onorario del Trinity College di Oxford, un riconoscimento accademico straordinario, se si pensa che era dai tempi della Riforma, tre secoli prima, che un tale riconoscimento del massimo istituto accademico inglese non veniva più dato ad un cattolico.

Nonostante la mitezza, quasi la fragilità della sua persona. Il volto magro e solcato di rughe profonde in cui splendevano due occhi intrisi di ideale che avevano scrutato per anni in quella difficile Inghilterra dell’epoca vittoriana, John Henry Newman fu un apostolo e un profeta. Quando si spense a Birmingham nel 1890, la Chiesa cattolica in Inghilterra era in piena rifioritura, dopo tre secoli di persecuzione e emarginazione.

Newman lasciò il segno in generazioni di cattolici britannici, tra i quali numerosissimi convertiti. Tutta la grande cultura cattolica anglosassone gli è in qualche modo debitrice: senza Newman non avremmo avuto Chesterton, Belloc, Tolkien, Bruce Marshall e tanti altri ancora.

Il suo pensiero, la sua Fede coniugata alla Ragione sono più che mai attuali, e per questo motivo la sua beatificazione suscita in certi ambienti fastidio e irritazione. Il mondo anglosassone è veramente incredibile: mantiene sempre un impostazione puritana, e mentre da una parte promuove e diffonde la cultura del libertinismo sessuale, dall’altra appena la Chiesa cattolica prova a far emergere qualcosa di buono, bello e santo, trova il modo di attaccarla duramente.

Lo si è visto quando recentemente - proprio in vista del buon esito del processo di beatificazione - si è reso necessario riesumare il corpo di Newman, provocando così diverse reazioni, in particolare da parte della lobby omosessuale inglese, secondo cui egli non dovrebbe essere separato dal suo grande amico e collaboratore, padre Ambrose St John, insieme al quale Newman era stato sepolto, in accordo con le sue volontà testamentarie.

L'implicazione di tali proteste è chiara: Newman avrebbe voluto essere seppellito con il suo amico perché legato a lui da qualcosa di più di una semplice amicizia. Si adduca sostegno di questa tesi ciò che il cardinale scrisse alla morte di padre Ambrose, suo confratello nell’ordine oratoriano e stretto collaboratore:“Ho sempre pensato che nessun lutto fosse pari a quello di un marito o di una moglie, ma io sento difficile credere che ve ne sia uno più grande, o un dolore più grande, del mio”. In questa frase c’è semplicemente un riferimento al senso di una perdita, non certamente un’equiparazione di stato di vita.

Newman inoltre fu sempre un sostenitore decisissimo della castità e del celibato sacerdotale, tanto che lo definiva “uno stato superiore di vita, al quale la maggioranza degli uomini non possono aspirare”. I maliziosi hanno addirittura visto nel motto di Newman, cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”, un criptato riferimento ai suoi sentimenti per Padre Ambrose, ignorando grossolanamente che questa è un’espressione di san Francesco di Sales.

In realtà quella tra Newman e St. John fu la storia di una grande amicizia fondata sul comune amore per Cristo e la sua Chiesa. Quando Padre Ambrose morì, stava lavorando su indicazione di Newman alla traduzione di un testo teologico a sostegno del Dogma dell’infallibilità papale: una strana occupazione per una improbabile “coppia di fatto” ecclesiastica.

Ma la cultura libertina e pansessualista sembra non volere ammettere che possano esistere rapporti di amicizia puri, gratuiti: sembra che non riesca a concepire il bello morale che Cristo ha manifestato.

Anche per questo beatificare Newman è un segno della Chiesa per salvare e far risorgere l’Europa Cristiana. Sulla sua tomba il grande convertito aveva voluto che fossero incise queste parole: Ex umbris et imaginibus ad veritatem. Andiamo verso la verità passando attraverso ombre e immagini. Questo è il destino dei cristiani nei nostri tempi difficili.


Il dramma dimenticato delle donne oggetto di violenza in Congo - I leader delle Chiese cristiane denunciano la situazione - di Nieves San Martín

KINSHASA, mercoledì, 22 luglio 2009 (ZENIT.org).- Sono decine di migliaia le donne che hanno subito violenze nella Repubblica Democratica del Congo. Su questo problema, l'Arcivescovo di Kinshasa, monsignor Laurent Monsengwo Pasinya, ha esortato Governo e società a mobilitarsi.

Il dramma delle donne violate è stato al centro degli interventi non solo di monsignor Monsengwo, ma anche del segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC), Samuel Kobia, in occasione di un incontro ecumenico svoltosi a Kinshasa, secondo quanto ha reso noto “L'Osservatore Romano”.

Sulla questione, l'Arcivescovo della capitale congolese ha affermato che “la fede cristiana condanna la violenza, qualunque sia la sua origine, poiché partecipa della malvagità di quei metodi che provocano direttamente la morte”.

“La violenza contro il sesso femminile contraddice l'armonia originale voluta da Dio tra l'uomo e la donna. La donna è stata donata all'uomo come un aiuto che gli fosse simile e una compagna della sua stessa natura, creata a immagine e somiglianza di Dio, ossia dotata della ragione e del libero arbitrio”, ha aggiunto.

Il presule ha sottolineato che “le violenze sono agli antipodi della cultura africana, in cui la donna è considerata come una madre e la cui missione è fortemente esaltata nella società, poiché la madre è fonte di vita. Le violenze perciò denotano una barbarie estranea alla visione cristiana e alla saggezza africana”.

“E' fondamentale che le forze di Governo, la società civile, le organizzazioni di difesa dei diritti umani e le confessioni religiose si mobilitino”, ha concluso.

Dal canto suo, Samuel Kobia ha esortato le comunità ecclesiali a mettere al centro dell'attenzione la questione nei suoi molteplici aspetti, sottolineando che “relegano ancora la violenza nella sfera privata e la considerano soltanto dal punto di vista fisico”.

Il primo passo da compiere, ha osservato, è “quello di riconoscere che la violenza realmente esiste”.

“Questo significa affrontare il problema pubblicamente, nelle nostre comunità, nella nostra assemblea parlamentare e nelle nostre accademie”, ha rilevato.

Il WCC denuncia che molte donne vengono sequestrate e trattate brutalmente dalle bande di ribelli.

Secondo dati dell'ospedale di Panzi, a Bukavu, Sud Kivu, solo nel 2008 sono state 3.500 le donne assistite per i traumi subiti.

Il medico Christine Amisi, che lavora nell'ospedale, sottolinea: “Queste donne sono traumatizzate e noi continuiamo a domandarci che cosa possiamo fare per porre fine alla violenza”.

Cinque gruppi di delegati ecumenici del WCC hanno visitato il Paese nel contesto del programma di questo organismo “Living Letters”.

“Abbiamo ascoltato storie di donne con figli – ha ricordato Kobia – che non soltanto hanno patito la povertà, ma hanno anche pagato con la loro vita gli egoismi degli uomini violenti”.

“E mentre queste storie riecheggiano nelle nostre orecchie e il loro dolore fa sanguinare il nostro cuore, constatiamo ancora la miopia e forse la completa cecità delle nostre comunità nel riconoscere questa violenza”.

La Chiesa cattolica ha lanciato da tempo l'allarme per le violenze contro le donne congolesi.

In un rapporto della Commissione Giustizia e Pace dell'Arcidiocesi di Bukavu ci si riferisce a “una barbarie inimmaginabile della quale bisogna parlare perché a volte si ha più paura del silenzio dei buoni che della barbarie dei cattivi”.

“Le violenze contro le donne sono considerate come un modo d'infliggere la morte a un'intera comunità. È un modo di colpire al cuore stesso della comunità”.

Secondo il rapporto, l'area più colpita dai crimini è quella di Walungu, nel distretto di Kaniola.


La silenziosa ricerca della verità di John Henry Newman - E il cardinale rispose al bambino - di Inos Biffi – L'Osservatore Romano, 23 luglio 2009

Nel firmamento della Chiesa sta per accendersi una nuova luce: quella del beato John Henry Newman. Sarà così riconosciuta la santità di una vita trascorsa silenziosamente nell'infaticabile ricerca della verità, nell'adesione a Dio e nel consenso alla coscienza, nell'operoso e prolungato servizio alla Chiesa, nella serena e dolorosa sopportazione di incomprensioni e di isolamenti.
Sul finire dei suoi anni, al bambino che - in visita con la nonna Jemima, la sorella di Newman - contravvenendo alla raccomandazione di non fare domande, gli aveva chiesto: "Chi è più grande: un cardinale o un santo?", l'anziano zio rispose: "Vedi, piccolo mio, un cardinale appartiene alla terra: è terrestre; un santo appartiene al cielo, è celeste". Il cardinalato gli era giunto, sorprendentemente e non senza penosi intralci, ormai al tramonto della vita: egli non lo aveva desiderato, anche se lo aveva gradito, come riconoscimento della sua opera e soprattutto come apprezzamento per la Chiesa cattolica inglese; però, sapeva bene che la santità era tutt'altra cosa.
D'altra parte, di là dall'altezza del suo ingegno, penetrante e versatile, di là dai suoi raffinati gusti estetici, dal suo "stile incantatore" (Piero Chiminelli), dalla discrezione del comportamento distinto, dalla elevatezza e nobiltà dei suoi sentimenti, la santità di Newman non mancava di essere diffusamente presentita.
Vedendo la sua salma esposta nella chiesa dell'Oratorio di Birmingham - era morto l'11 agosto del 1890 - un visitatore annotò: "Il cardinale, come i resti mortali di un santo, spiccava sul feretro, pallido, distante, logorato. Era come se un intero ciclo di esistenza e di pensiero umani si fossero concentrati in quell'augusto riposo. Una dolce luce aveva condotto e guidato Newman fino a questa singolare, brillante e incomparabile meta". Ma già qualche anno prima, il vescovo di Birmingham, Ullathorne, dopo averlo incontrato, commentava: "Mi sono sentito rimpicciolito davanti alla sua presenza. Dentro quest'uomo c'è un santo".
Ed era, alla fine, la stessa persuasione del cardinale Manning. Al discorso funebre per Newman nella chiesa del Brompton Oratory di Londra, quando ormai le polemiche erano lontane e il tempo aveva dileguato le diffidenze, l'arcivescovo di Westminster, dopo aver rievocato "la sua figura, la sua voce, e le parole penetranti che uscivano dalle sue labbra nella chiesa universitaria di Oxford", affermava: "A nostra memoria, nessun inglese è stato oggetto di una venerazione così viva e sincera. Qualcuno ha detto: "Lo canonizzi o meno Roma, egli sarà canonizzato nella mente della gente religiosa di tutte le confessioni in Inghilterra". È vero. E se questo fatto equivale a una nobile testimonianza di riconoscenza a una grande vita cristiana, è anche una magnifica prova dell'equità e della giustizia del popolo inglese. Egli è sempre stato lo stesso, unito a Dio e aperto nella carità a tutti quelli che avevano bisogno di lui. Fu centro di numerose anime, che erano andate da lui, come maestro, guida e consigliere durante molti anni. Una vita bella e nobile".
Forse la via più illuminante e suggestiva per comprendere la concezione e i lineamenti della santità di questa "vita bella e nobile" consiste nel percorrere i profili dei Padri della Chiesa, tracciati da Newman con penna finissima e intima consonanza.
Potremmo, anzi, dire che, nella "fraternità d'anime" con queste "preziose creazioni di Dio" - come li definiva - e nella loro assidua e degustata frequentazione, si veniva plasmando e maturando la sua stessa vita spirituale, mentre nelle loro vicissitudini egli leggeva, quasi in una profetica filigrana, le sue peripezie e insieme ritrovava disvelate le proprie emozioni e la propria umanità.
Scriveva il penetrante, e un po' deviante, Bremond: "In ciascuno dei Padri Newman cerca anzitutto l'uomo, il santo. Prima di prenderli come maestri, egli li vuole avere per amici". "Si scelgono gli amici come si vuole. Newman li vuole santi, e vuole che le ore che dedica loro siano ancora una specie di preghiera", e aggiungeva: "Chi non ama la santità, non ama i santi". Newman mostra di amare sia i santi sia la santità.
E tra i santi sopra tutti lo attraeva Giovanni Crisostomo. Newman stesso si domandava: "Da dove viene questa devozione a san Giovanni Crisostomo, che mi spinge a fissare il pensiero su di lui, e mi infiamma al solo suo nome?". E rispondeva: "Penso che il fascino di san Crisostomo si trovi nella sua profonda solidarietà e compassione per il mondo intero; non solo nella sua forza, ma nella sua debolezza".
Newman è attirato dal fatto che, per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, il Crisostomo "non ha perso una fibra, non manca di alcuna vibrazione del complicato organismo del sentimento e dell'affetto umano": "Egli scrive come chi scruta con occhi acuti ma compassionevoli il mondo degli uomini e la loro storia".
Senza dire che per un altro aspetto Newman sentiva consonante col proprio il temperamento del Crisostomo, ed è il vivo senso dell'amicizia, che fu motivo per Newman di intima gioia e di profonda sofferenza:
"Nessuno poteva vivere più intimamente nei propri amici come san Giovanni Crisostomo: non aveva lo spirito di distacco proprio del monaco, che lo rendesse indifferente alla presenza, alla corrispondenza, all'azione, al benessere dell'anima e del corpo di coloro che, come lui, erano figli della stessa grazia ed eredi della medesima promessa". E concludeva: "San Giovanni Crisostomo appartiene a quella schiera scelta di personaggi che gli uomini iniziano a comprendere e a venerare dopo che ne vengono privati. È la legge generale del mondo, che la nuova legge del Vangelo non ha capovolto": sarebbe avvenuto così anche per lui.
Senza dubbio, l'itinerario e la forma della santità sono aperti soltanto allo sguardo di Dio, così come essa è possibile solo all'opera misteriosa e fantasiosa della sua grazia.
Tuttavia, forse, riusciamo a sorprendere alcuni momenti in certo modo decisivi del tragitto interiore di Newman. Ci sembra che uno di questi momenti sia quello della conversione di questo "ipersensibile", insieme dotato "di una docile volontà" e di una "fermezza d'acciaio" (Bouyer).
Era l'autunno del 1816, e nel "grande rivolgimento di pensieri" - com'egli nell'Apologia pro vita sua chiama la conversione - gli brillò l'evidenza di due esseri: il suo "io" e il suo "Creatore". Mentre ogni altra realtà sbiadiva ai suoi occhi e veniva guardata con sospetto, questo eccezionale quindicenne con una fermezza estrema si sentì ancorare "al pensiero di due e solo due esseri assoluti, di un'intrinseca e luminosa evidenza, che lo segnerà per sempre: me stesso e il mio Creatore". Così, Dio, il Dio vivo della Scrittura, "gli si impose, in modo intimo, senza intermediario, personale", con la conseguenza che i grandi dogmi, come l'incarnazione, la redenzione, la Trinità, gli apparvero "non come idee astratte, ma come fatti vitali" (Bouyer), ai quali corrispondere con la sua condotta.
E sempre nel tempo della sua conversione lo aveva colpito un'espressione, che divenne un programma, di Walter Scott: "La santità più che la pace", e lui stesso scriverà che il grande fine del ministero "è la santità".
Un altro momento cruciale nel cammino spirituale di Newman fu, senza dubbio, quello del viaggio nel Mediterraneo, con la sua malattia in Sicilia. Negli anni che lo hanno preceduto, "cominciavo - egli afferma - a preferire l'eccellenza intellettuale all'eccellenza morale", e a cedere al liberalismo.
Quel viaggio, coi rimorsi e i pentimenti che suscitava e la lucidità interiore che vi accendeva sul suo "orgoglio", fu provvidenziale. In quelle settimane Newman ebbe l'"intuizione" e il presentimento di una sua missione che lo attendeva, insieme con la persuasione da un lato di non aver mai peccato contro la Luce e di avere assolutamente bisogno di Luce. Fu allora che scrisse l'inno inglese più cantato nelle chiese cattoliche e protestanti, Lead kindly Light, che è una confessione sincera della sua presunzione, e una appassionata e umile implorazione di quella Luce. "In mezzo al buio" che lo avvolgeva, egli la invocava come guida, che illuminasse non "l'orizzonte lontano", ma tanto quanto bastasse per compiere un passo. La santità di Newman appare come il crescere silenzioso e perseverante di questa fedeltà alla Luce.
Certo, durante "la sua così lunga e spesso penosa vita" non sarebbero mancati difficili situazioni di prova e profondi motivi di sofferenza, di fronte a chiari segni di sfiducia, a manovre non limpide, ad anni di emarginazione e di isolamento.
Nel 1860 constatava e scriveva nel suo diario: "Non ho nessun amico a Roma, ho lavorato in Inghilterra dove non sono stato capito e dove mi hanno attaccato e disprezzato. Pare che sia incorso in molti fallimenti", e aggiungerà: "Credo di dire tutto questo senza amarezza".
Si era anche affacciata la possibilità che fosse fatto vescovo; gli era anche stata promessa autorevolmente quella nomina che poi svanì. Viene in mente che anche a Rosmini era stata assicurata la nomina cardinalizia, poi intralciata e revocata. E come Rosmini, la cui stella si è inattesamente e felicemente da poco accesa nello stesso firmamento del santorale della Chiesa, anche Newman non ebbe per questo parole di amaro risentimento. D'altronde, egli riconosceva serenamente: "Io non ho il talento, l'energia, le risorse, lo spirito, la capacità di governare, necessari per occupare l'alta carica di vescovo. Non ho mai occupato in vita mia cariche di potere. Il mio modo di esercitare una qualche influenza è completamente diverso".
E fu esattamente così. La sua influenza non fece che accrescere, come riflesso della luminosità garbata, e pure intensissima della sua intelligenza, che sa toccare in profondità la mente e sa parlare al cuore. Cor ad cor loquitur si legge nel suo stemma cardinalizio.
E non meno attraente è la santità di Newman, contrassegnata da equilibrio alieno da rigide e mortificanti ascesi. Essa ci appare la santità di un gentiluomo che, con incrollabile fede, seppe sopportare per amore della verità e della Chiesa innumerevoli tribolazioni, abitualmente nascoste sotto la sua cortese e un po' distaccata amabilità, nel silenzio lucido della sua coscienza, aperta a Colui che solo assolutamente gli importava, secondo l'intuizione della sua prima conversione, a quindici anni: "Io e il mio Creatore".
(©L'Osservatore Romano - 23 luglio 2009)


UE/ Mario Mauro: le grandi sfide del nuovo governo europeo - Mario Mauro giovedì 23 luglio 2009 – ilsussidiario.net

Il Parlamento europeo ha ripreso, durante la settimana appena trascorsa la sua attività, aprendo ufficialmente la settima legislatura. Dopo la tornata elettorale del 6 e 7 giugno, in Europa i nuovi deputati scelti da circa 400 milioni di elettori hanno preso posto nell’emiciclo di Strasburgo e hanno insieme designato i propri rappresentanti nelle principali commissioni.


Un’agenda davvero fitta ha caratterizzato la passata sessione plenaria che non solo ha visto portare a termine le trattative per la composizione del nuovo Parlamento - dove per la prima volta la delegazione italiana del Partito popolare europeo ha ottenuto un numero altissimo di incarichi di responsabilità pari a quello della delegazione tedesca - ma in cui si è discusso di due temi attualissimi: il bilancio sulla presidenza ceca e la situazione in Iran.



Tutti quanti riconosciamo come l'Unione europea sia l'unica piattaforma possibile per affrontare alcune delle grandi sfide che ci troviamo davanti. Nessuno può pensare, ad esempio, che Malta da sola o l'Italia con 5.000 km di coste possano risolvere i problemi dell'immigrazione, così come tanti altri paesi i problemi legati all'approvvigionamento dell'energia.



Eppure, proprio le vicende della Presidenza ceca - combattere cioè contro grandi difficoltà interne, ma anche contro una differente interpretazione dell'Europa - ci hanno fatto meglio comprendere il nostro compito: diffidare dei nazionalismi ottusi e diffidare anche di mostri burocratici che possono togliere il cuore della nostra esperienza politica e farci dimenticare che cosa siamo chiamati a realizzare.



La verità è che l’Europa non può pagare per non decidere. Ciò accade quando non ha il coraggio di prendere certe decisioni che oggi sono epocali. Non può, quindi, non avere la forza, in questo momento, di affrontare le circostanze più immediate, che sono quelle legate a un inizio di avvio di legislatura molto problematico.



Qualcuno ha vinto di più in queste elezioni, qualcuno di meno, ma tutti con certezza sappiamo che non potremo affrontare nessuna sfida, se non tutti insieme. Allora è necessario assumersi le responsabilità e dare a questa istituzione la forza per poter riavvicinare i nostri cittadini o la conseguenza negativa sarà la disaffezione da parte dei cittadini che si allontanano dagli ideali dei padri fondatori.



Nella scorsa sessione plenaria grande spazio ha avuto il dibattito per la preoccupante situazione di guerriglia in Iran. Infatti, se è vero che in questo stato vige una teocrazia in cui il fondamentalismo ha disegnato il suo progetto di potere prendendo come pretesto il nome di Dio, abbiamo anche notato in questi giorni la gente scendere in piazza gridando che "Dio è grande", ma con una sottile differenza rispetto ai Pasdaran di Ahmadinejad. Quella differenza negli sguardi, nella volontà che quelle persone hanno espresso, nella determinazione a non essere violenti ci fa capire che in Iran l'amore per la libertà, la verità, il destino del proprio popolo non è morto.



Non sono bastati trent'anni anni di teocrazia e sistematica distruzione dell'umano per cancellare quella memoria che è nel cuore di ognuno di noi. Ed è a questo che l’Europa deve una fedeltà. È a questo fatto, a questo amore alla verità e a questo amore alla libertà che deve caricare la responsabilità di ognuno, perché il fatto di chiedere alle istituzioni europee di essere forti, di essere determinate e di far sentire la propria voce non è innanzitutto, da parte del Parlamento, la richiesta di una sottolineatura geopolitica, ma significa far capire che le istituzioni europee, per quello che rappresenta quel progetto politico che chiamiamo Europa unita, non possono venire meno all'amore per la libertà e per la verità che c'è in ognuno di coloro che sono scesi in piazza in questi giorni.


NATURA UMANA/ Siamo buoni per scelta o per necessità? - Andrea Moro giovedì 23 luglio 2009 – ilsussidiario.net

In un interessante articolo appena comparso sul Corriere della Sera, Umberto Veronesi prende in rassegna alcuni recenti lavori in campo neuropsicologico per mettere a fuoco il problema del bene nell’uomo. Quando mettiamo in atto un gesto altruistico, secondo l’antropologo Donald Brown dell’Università della California, si attiverebbero nel cervello le stesse reti neuronali che si attivano quando vediamo cose belle, o sperimentiamo comunque cose piacevoli. La conclusione di Veronesi è che «è vero che il gene della bontà non è stato ancora scoperto, ma il senso del bene e dell’altruismo è iscritto nei nostri geni». Il messaggio appare, a prima vista, molto, molto rassicurante: è davvero cosi? Quale prezzo dobbiamo pagare a questa visione dell’uomo?

Lasciamo pure in disparte Hiroshima, le stragi dei lager sovietici e nazisti, per i quali intravvedere l’azione dei geni della bontà ci troverebbe come minimo impreparati, e concentriamoci invece su quale immagine dell’uomo nasce dall’idea che il bene sia il risultato della nostra programmazione biologica. Intendiamoci: certamente la nostra capacità di riconoscere il bene deve essere legata al modo con il quale siamo costruiti. D’altra parte il bene, l’esperienza del bene, non è un fatto astratto; in ultima analisi passa attraverso le nostre percezioni sensoriali. Ma qui si dice qualcosa di ben più grande: si dice che è la nostra capacità di scegliere il bene che è frutto di una programmazione biologica. Una prima obiezione a questa lettura naturalistica della bontà la pone la capacità umana di compiere sacrifici: sì, sacrifici, cioè quei gesti nei quali le nostre percezioni derogano alle sensazioni immediatamente piacevoli per noi per proiettarle su una sensazione piacevole per un altro. Si dirà che anche questo è un modo di attivare le stesse reti neuronali; si dirà che i meccanismi di empatia – che pure sembrano avere una base neuropsicologica, come mostrano gli studi che fanno capo al gruppo di ricerca italiano di Giacomo Rizzolati sui cosiddetti “neuroni specchio” - provocano per immedesimazione una sensazione piacevole in chi compie il sacrificio e che dunque la tesi della bontà programmata geneticamente è confermata. Un papà o una mamma lavorano giorno e notte sperimentando la fatica per i figli, sapendo che così possono permetter loro una vita di agi e comodità: questo, in fondo, darebbe loro soddisfazione, come «la vista di una bella donna, un dolce, il denaro o altre gradevolezze». Ma cosa rimane dell’uomo se fosse vero questo? L’uomo che esce da questa lettura è la tristissima immagine di un uomo che non è in grado di scegliere: un uomo che è controllato dalla struttura con la quale è costruito da «una facoltà della mente che si è evoluta per milioni di anni fino a includere un insieme di principi che tutti ritengono giusto rispettare». Un uomo, in definitiva, senza libertà; un uomo che scarta necessariamente il male: in fondo, un uomo che è una macchina. Non so quanti di noi provano una sensazione piacevole a sentirsi dire che siamo solo dei complicatissimi ingranaggi, ma anche se ciò fosse, anche se ignorassimo la nostra coscienza, è interessante comunque vedere dove questa tesi ci porta. Ci sono due linee argomentative nell’articolo: quella culturale, in senso lato, e quella biologica. Vediamole.

Sulla domanda «perché siamo buoni», dice Veronesi, «l’etica, la filosofia e la religione hanno cercato di dare risposte, spesso parziali, spesso fideistiche». Curiosa questa partizione: etica, filosofia e religione. Sembra di esser di fronte a tre prospettive distinte: senza dubbio, la religione non è un’etica né una filosofia, ma aspettarsi che la religione non dica nulla sull’etica o non fornisca una prospettiva filosofica – cioè inerente alla nostra visione globale del mondo – non sembra sostenibile, a meno che non si parta dal presupposto che la religione sia un’etica, contraddicendo la premessa: «il senso morale non deriva dalla religione che ci viene inculcata», dice Veronesi citando un libro di Steve Pinker, divulgatore scientifico di fama, professore a Harvard. Ammettiamo pure che “inculcare” sia un modo un po’ goffo per dirci che nella nostra società siamo forzati ad appartenere ad una religione – situazione non molto credibile nella secolarizzazione odierna: quello che vien dato per scontato qui è proprio che la religione sia una «visione del mondo» non un’esperienza, un’apertura della ragione alle domande ultime. Quanto sono lontane le parole di Luigi Giussani secondo il quale «il contenuto del senso religioso coincide con queste domande [per che cosa vale la pena che io viva? Qual è il significato della realtà? Che senso ha l’esistenza, n.d.r.] e con qualunque risposta a queste domande». (Il senso di Dio e l’uomo moderno, p. 12). Certo, se si parte così è difficile pensare che la «religione inculcata» possa fornire delle risposte.

E non pare convincente nemmeno la prospettiva biologica. Veronesi cita in particolare due professori di Harvard: Mark Hauser e Steve Pinker. Entrambi porterebbero dati a favore di questa visione naturalistica della tendenza dell’uomo al bene. Per entrambi esisterebbe una «grammatica universale» della morale che per effetto dell’evoluzione ci porta a volere il bene. Forse non possiamo accorgercene ma davvero è così, forse la nostra intuizione di scegliere è un’illusione ottica della nostra coscienza, forse è la nostra coscienza ad essere un’illusione ottica: ciascuno di noi è davvero un complicato meccanismo, ma è curioso notare come la posizione di Hauser e Pinker sia di fatto l’importazione di una visione rivoluzionaria della natura del linguaggio in ambito morale (come immediatamente suggerisce il termine “grammatica universale”). Non è certo un caso che Pinker sia stato un allievo di Noam Chomsky, il Newton della linguistica moderna, e che Hauser abbia scritto un articolo recente proprio con Chomsky. La rivoluzione che Chomsky ha portato nella linguistica – la cui portata ormai si fa sentire in ogni campo dello studio della mente – è che malgrado le differenze, ogni lingua umana non è che l’esecuzione di un progetto biologicamente determinato. Ma qui sta il gigantesco equivoco: quello che è innato, per Chomsky, è la grammatica, non le frasi che produciamo, quello che è innato è la struttura non l’uso che se ne fa. Se l’atteggiamento attribuito ad Hauser e Pinker fosse riprodotto in linguistica, saremmo portati a dire che, dal momento che l’uomo condivide la stessa struttura del linguaggio, tutti gli uomini dicono le stesse cose. Chomsky, invece, proseguendo la linea di pensiero di Cartesio, sottolinea proprio l’irriducibilità della libertà espressiva dell’uomo, anche se deve usare un codice grammaticale biologicamente determinato.

Ma non è difficile constatare quanto questo tentativo di riduzione naturalistica della bontà ai circuiti neuronali provochi imbarazzanti paradossi. Intanto la prospettiva genetica non è coerente con la visione sostenuta qua. Peter Medawar, premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1960, scrisse: «Uno fra gli errori più gravi e più diffusi del geneticismo è la convinzione che, se un carattere è condiviso da tutti gli individui di una comunità, deve avere una base genetica. […] Può essere bene ripetere in questo contesto la ragione per cui questo canone supremo del genetisicmo non è soddisfacente: perché un qualche carattere possa essere giudicato ereditario o programmato geneticamente dev’esserci qualcuno che non lo possiede. La capacità di sentire il sapore della feniltiocarbammide, per esempio, ha notoriamente una base genetica proprio in quanto ci sono persone che non la possiedono (Medawar (1986): pagg. 161-162; corsivo mio)». Dunque, se la scelta del bene avesse letteralmente una base genetica, dovrebbero anche esistere persone geneticamente incapaci di compiere il bene e saremmo d’accapo. Anzi, si contraddirebbe una delle conclusioni più forti della tesi sostenuta da Veronesi: quella dell’universalità della bontà umana su base genetica. Infine, sempre nel suo articolo, Veronesi parte dicendo che «nel processo evolutivo degli esseri viventi la selezione della specie umana ha rappresentato un elemento di rottura». Verissimo: ma l’articolo si conclude dicendo che, secondo lo psicologo-filosofo Jonathan Haidt della Università della Virginia, «l’istinto a rifiutare la violenza è presente nelle scimmie reso (il cui genoma è identico per il 98 per cento al nostro)». Dove sta, dunque, il punto di rottura nell’evoluzione della specie umana? Forse, sarebbe meglio mettere la nostra libertà al centro, sia essa la libertà di scelta morale – tra il bene e il male – o la libertà espressiva – come quella che sperimentiamo quando utilizziamo questo tratto, questa volta sì unico della specie umana, quello di un linguaggio dalle potenzialità creative «infinite».