martedì 8 settembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: una fede amica dell'intelligenza per alimentare la speranza - Nel suo discorso agli abitanti Bagnoregio, la città di San Bonaventura
2) PAKISTAN: nuova strage di cristiani
3) UE/ Il ricatto di Schulz - Mario Mauro martedì 8 settembre 2009 – Ilsussidirio.net
4) UGANDA/ Agnes, bambina soldato: la violenza non avrà mai l’ultima parola - Redazione lunedì 7 settembre 2009 – ilsussidiario.net
5) SENZA L ’ ATTESA DELLA NOVITÀ LA VITA PERDE SAPORE - Che tristezza il «rientro» se non è un passo avanti - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 8 settembre 2009


Il Papa: una fede amica dell'intelligenza per alimentare la speranza - Nel suo discorso agli abitanti Bagnoregio, la città di San Bonaventura
BAGNOREGIO, lunedì, 7 settembre 2009 (ZENIT.org).- Solo una fede amica dell'intelligenza può aiutarci oggi a “dispiegare le ali della speranza”. E' questo il messaggio lasciato da Benedetto XVI nel visitare domenica pomeriggio Bagnoregio, la città natale di San Bonaventura, che maggiormente ha influenzato la formazione teologica di Joseph Ratzinger.

Dopo aver visitato la cittadina di Viterbo, il Papa tedesco – il primo Successore di Pietro a recarsi in visita a Bagnoregio – ha compiuto una breve sosta alla Cattedrale per venerare la reliquia del braccio di san Bonaventura.

Il Papa è quindi giunto in piazza Sant'Agostino dove, davanti alla grande statua marmorea del “Doctor Seraphicus”, era stato allestito il palco per l'incontro con la popolazione.

Ad accogliere il Papa c'era una folla entusiasta. Una “comunità viva - come ha sottolineato il sindaco di Bagnoregio, Francesco Bigiotti - che sa di essere immersa in una corrente di vita che viene da tempi remoti, portando con sé caratteri propri di storia, di cultura, di operosità, di qualità spirituali, morali e civili che la distinguono”.

Nel suo breve indirizzo di saluto il Vescovo di Viterbo, mons. Lorenzo Chiarinelli, ha poi chiesto al Papa di benedire “gli 'Egidio' e i 'Silvestro' che si scalzano ancora oggi dietro allo Sposo 'sì la sposa piace' per abbracciare quella 'forma vitae' della radicalità evangelica, oltre l’ovvio e lo scontato”.

“Benedica i teologi nel prezioso servizio dell’intelletto che cerca la fede e della fede amica dell’intelligenza – ha aggiunto –. Benedica i cercatori della verità come scoperta affascinante del volto del Dio vivente”.

“San Bonaventura morì in Concilio, a Lione, nel 1274, ricomponendo l’unità tra i cristiani: ci aiuti a vivere la comunione; ad essere chiesa del sì; a fare del territorio il campo della fraternità vera”, ha continuato.

Nel suo discorso il Papa ha tracciato i tratti salienti della figura di San Bonaventura come instancabile cercatore di Dio, serafico cantore del creato e messaggero di speranza.

Citando quella che fu la sua tesi di abilitazione all’insegnamento, “San Bonaventura e la teologia della storia” (ed. Porziuncola, 2006), il Papa ha sottolineato come “alla sapienza, che fiorisce in santità, Bonaventura orienta ogni passo della sua speculazione e tensione mistica”.

Quello offerto dal francescano, ha continuato, è “un percorso di fede impegnativo, nel quale ‘non basta la lettura senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l’ammirazione, la considerazione senza l’esultanza, l’industria senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina, lo specchio senza la sapienza divinamente ispirata’”.

“Questo cammino di purificazione – ha spiegato il Papa alla luce de 'L’itinerario della mente a Dio’, opera fondamentale di Bonaventura – coinvolge tutta la persona per arrivare, attraverso Cristo, all’amore trasformante della Trinità”.

A pochi giorni dalla Giornata per la Salvaguardia del Creato, Benedetto XVI è quindi tornato a rilanciare la necessità di riscoprire “la bellezza, il valore del creato, alla luce della bontà e della bellezza divine”.

Di fronte, invece, alle sfide del presente il Papa ha invitato a fare ricorso alla “speranza affidabile” a quella “grande speranza -certezza” che “ci assicura che nonostante i fallimenti della vita personale e le contraddizioni della storia nel suo insieme ci custodisce sempre il 'potere indistruttibile dell’Amore'”.

“Quando allora a sorreggerci è tale speranza non rischiamo mai di perdere il coraggio di contribuire, come hanno fatto i Santi, alla salvezza dell’umanità, aprendo noi stessi e il mondo all’ingresso di Dio: della verità dell’amore e della luce”, ha osservato infine il Pontefice.


PAKISTAN: nuova strage di cristiani
Erano originari della provincia pachistana del Punjab, la stessa dell’attacco all’enclave cristiana di Gojra del primo agosto con 11 morti (tutti arsi vivi) e la disperazione di una comunità assediata. Come loro colpevoli di aderire a una fede, quella cristiana, minoritaria in un Pakistan islamico per costituzione e discriminatorio per legge. I cinque uomini falciati dai colpi di armi automatiche insieme ad altri sette rimasti feriti il 28 agosto nella città di Quetta, capoluogo della provincia del Belucistan, sono le ultime vittime di una violenza settaria che molti identificano come la nuova strategia del terrore di matrice taleban.

Non più (o non solo) attentati suicidi sempre più difficili da organizzare e per i quali vi sono sempre meno reclute, ma attacchi pianificati per spargere il terrore e insieme contrapporre le minoranze al governo e a una maggioranza islamica pacifica e tollerante verso uomini e donne con cui condividono territorio, problemi e speranze. Sovente anche etnia.

Proprio la concomitanza di elementi etnici, religiosi e politici potrebbe essere dietro alla nuova strage, non a caso arrivata a “salutare” il terzo anniversario dell’uccisione da parte delle forze governative di Akbar Bugti, leader autonomista alla cui memoria fanno riferimento diversi movimenti, anche armati, di rivendicazione della supremazia locale davanti alla forte immigrazione dal Punjab, provincia più popolosa del Paese, che al Pakistan fornisce anche la maggioranza degli effettivi dell’esercito e delle sue élite. Punjab da cui provengono anche parte dei cristiani immigrati in questa provincia che fatica ad allentare la propria identità tribale, arroccata attorno a una fede dai tratti arcaici e alle necessità dei clan.

Alle 9 del mattino di venerdì scorso, due uomini armati su una motocicletta hanno aperto il fuoco nel pieno centro cittadino contro una piccola manifattura di proprietà di cattolici, il Maryam Labs, uccidendo Mushtaq Masih, Naveed John, Naymat Gill, Nadeem Akhtar e Suleman. Dei sette feriti ricoverati, due sono in gravi condizioni. Secondo le fonti cristiane locali, il laboratorio e i cristiani che vi lavoravano avevano già ricevuto ne mesi scorsi, attraverso lettere e telefonate anonime, la “sollecitazione” da parte di militanti islamici a «convertirsi o a prepararsi a morire».

La città di Quetta, un grande, polveroso agglomerato sulla strada principale che, passando dalla città di Chaman, conduce a Kandahar, roccaforte taleban nell’Afghanistan meridionale, ospita 300mila abitanti e la sua Prefettura apostolica, costituita nel 2001, registra circa 30mila cattolici in sei parrocchie, affidate a missionari Oblati e Salesiani. Non una situazione idilliaca, quella della comunità guidata da monsignor Victor Gnanapragasam, che risente abitualmente più delle difficoltà di organizzare una diocesi assai estesa con comunità cattoliche molto sparse, piuttosto che della sfida del fondamentalismo.

Se confermate, le voci che dietro alla strage vi sarebbe l’Alleanza per la Liberazione del Belucistan, potrebbero indicare ulteriori difficoltà nei tempi a venire, in quanto la piccola comunità, che ha una forte componente immigratoria, si troverebbe coinvolta nel confronto tra nazionalisti locali, oltre che ad essere nel mirino del terrorismo dal pretesto religioso. Oggetto di una violenza ancora una volta condannata durante i funerali che per tre degli uccisi si sono tenuti nelle città natali di Lahore e di Kushpur, in Punjab.

Intanto, mentre la polizia di Quetta ha aperto un’indagine contro ignoti per il fatto di sangue, i cristiani confermano l’ultimatum dato al governo del 15 settembre per abrogare i provvedimenti giuridici, complessivamente definiti “Legge antiblasfemia”, che da anni sono spunto e giustificazione dell’assedio alle minoranze religiose.
da Bamgkok Stefano Vecchia
Fonte: AVVENIRE


UE/ Il ricatto di Schulz - Mario Mauro martedì 8 settembre 2009 – Ilsussidirio.net
Fino ad oggi non sembrano esserci stati ostacoli credibili alla riconferma di Josè Manuel Barroso al comando dell’organo esecutivo dell’Unione europea, la Commissione. Barroso ha infatti avuto fin dai primi negoziati in seno al Consiglio europeo un consenso pressoché unanime da parte dei 27 Stati membri dell’Unione. Durante i suoi 5 anni di presidenza tutti quanti hanno sempre apprezzato la capacità di mediazione e la sua imparzialità sui temi più delicati sui quali era più difficile raggiungere un compromesso tra componenti nazionali e partitiche.

Anche le priorità che il Presidente ha individuato come basi per il rilancio del progetto politico chiamato Europa unita non costituiscono oggetto di particolari divisioni: innanzitutto il recupero dei valori di libertà e solidarietà, per combattere le grandi sfide globali come la crisi economica (con tutte le conseguenze che comporta soprattutto in termini di disoccupazione) e il cambiamento climatico, con la rinnovata ambizione di giocare finalmente un ruolo di leader nel mondo su questi e altri grandi temi. Fin qui tutto bene, ma cosa accadrà quando tra pochissimi giorni il presidente Barroso si presenterà al Parlamento europeo per riceverne la fiducia?

Mi pongo questa domanda dopo aver vissuto da vicino il botta e risposta che c’è stato la scorsa settimana tra il portoghese e Silvio Berlusconi sulla questione dei portavoce, dopo la richiesta di chiarimenti in merito ai respingimenti inoltrata al Governo italiano dalla Commissione europea. Era assolutamente evidente che il problema sollevato da Berlusconi sull’esigenza di far parlare meno i portavoce era volto a non frenare inutilmente l’implementazione di politiche interne agli stati membri che sono palesemente conformi alle direttive comunitarie. Berlusconi ha sollevato un problema di metodo sul quale Barroso ha risposto in maniera stranamente risentita dicendo che «ci sono persone che a volte non comprendono l'originalità della Commissione, che ha non solo il diritto, ma il dovere di dare informazioni a tutti i cittadini».

Ebbene, è chiaro che il presidente Berlusconi ha parlato contro le farraginose e spesso inutili prassi che permeano l’attività della Commissione europea, con il preciso intento di ridarle forza e autorevolezza. Non è la prima volta che Berlusconi muove una critica alla macchina burocratica di Bruxelles, spesso le critiche sono state ben più pesanti di questa sui portavoce. Perché allora Barroso stavolta si è sentito in dovere di replicare alle parole di un primo ministro che per di più fa parte del suo stesso schieramento politico in Europa? Ci può essere soltanto un motivo: il ricatto politico dei socialisti europei.

Mi sorprende che Barroso si stia facendo cucinare a fuoco lento dagli avversari. Lo scenario è infatti già delineato: il giorno del voto per il presidente della Commissione, lo stesso Schulz farà un discorso di fuoco, dove ne dirà di cotte e di crude contro l’Italia e il suo premier. Poi, però, spiegherà che il suo gruppo si astiene sulla Commissione e non vota contro. Ma c’è di più: alcuni degli uomini di Schulz, invece, non si asterranno, ma voteranno contro Barroso, tenendo così il più basso possibile il consenso con cui verrà eletto il presidente della Commissione, che quindi sarà depotenziato. Non dimentichiamo che fra pochi giorni ci sono le elezioni in Germania e Schulz guarda anche in quella direzione: ad esempio, la posizione del suo partito, la Spd tedesca, sarà legata anche al risultato elettorale in Germania e alla politica delle alleanze.

Il presidente Barroso deve rendersi conto che rischia moltissimo se davvero ha l’intenzione di mettersi alle dipendenze di Martin Schulz, perché se fino ad oggi il Ppe è rimasto a guardare sostenendolo ciecamente, da oggi potrebbe non essere più così. Il Ppe, che conserva una maggioranza relativa in Parlamento anche dopo il recente risultato elettorale, ha bisogno di vedere ribadite dal presidente della Commissione le ragioni ideali del proprio progetto a servizio di tutti gli europei.


UGANDA/ Agnes, bambina soldato: la violenza non avrà mai l’ultima parola - Redazione lunedì 7 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Agnes Ochitti ha 25 anni, è avvocato e collabora con AVSI in Uganda. A 14 anni è stata rapita dai ribelli e oggi la bella Uma Turman sta portando al cinema la sua bella storia con la nuova pellicola in lavorazione “Girl Soldier”, film indipendente prodotto dalla Caspian Pictures, nella quale l’attrice veste i panni di Suor Rachele, insegnante di Agnes e protagonista di un’avventura dell’altro mondo.

Nel 1998, Agnes, mentre era studente al St. Mary’s College di Aboke, nel nord dell’Uganda, è stata rapita con altre 139 compagne, tutte tra i 13 e i 16 anni, dai ribelli del Lord’s Resistance Army (LRA). Suor Rachele Fassera, comboniana italiana, insegnante della scuola, con grande coraggio ha seguito i ribelli nel bush implorando la liberazione. Risultato: 109 ragazze sono state liberate, mentre altre 30, tra le quali Agnes che allora aveva 14 anni, trattenute. «Quella notte», dice suor Rachele, «un centinaio di ribelli sono piombati nella scuola. Abbiamo sperato che le porte di ferro e le sbarre alle finestre fossero sufficienti: non è stato così». Quando la suora si è accorta del rapimento, ha seguito i ribelli. Suor Rachele ha affrontato il loro capo. «Mi ha detto che mi avrebbe restituito le mie bambine. Ma non tutte: trenta le avrebbe trattenute. Mi sono inginocchiata davanti a lui: “Lasciale andare e trattieni me”, ho supplicato. Ha rifiutato».

Agnes rimane nel bush per mesi interi. Un ragazzo le insegna a sopportare le botte in silenzio e a svolgere il ruolo di soldato. È costretta a uccidere e compiere atti osceni sotto la minaccia delle armi. «Ci hanno ordinato di prendere dei grossi bastoni e di picchiare a morte la nostra coetanea. L’abbiamo dovuto fare - ricorda Agnes - altrimenti ci avrebbero uccise». Essere addestrate a fare il soldato, andare a piazzare le mine, partecipare ai saccheggi, uccidere le compagne di sventura che si azzardano a tentare la fuga. Oppure essere date in moglie ai comandanti dei ribelli. L’uccisione dell’amica è solo uno dei tanti episodi di crudeltà subìti da Agnes nei mesi di prigionia.

Ma nel mezzo di una battaglia Agnes sente all’improvviso che le sue gambe non la sostengono più. «Non avevo più voglia di correre. Quello era il momento … ho sentito che la vita non aveva significato». Nello stesso istante, Agnes pensa ai volti di sua madre e di suo padre, al dolore che li avrebbe consumati alla notizia della sua morte. L’immagine vivida trasforma la disperazione in decisione e si prepara a fuggire. Al campo dei ribelli Agnes sente che si stanno facendo piani per un viaggio in Sudan. Lei è destinata a raggiungere un capo guerrigliero per diventarne la moglie. Il giorno successivo, mentre i ribelli cercano copertura da un elicottero del governo, Agnes si allontana furtivamente dal gruppo e riesce a fuggire. «Al mio ritorno i miei genitori mi hanno detto che mi volevano bene come prima, ed anche di più - racconta Agnes -. Anche a scuola, le suore, gli insegnanti, le mie compagne, tutti mi volevano bene; con il loro aiuto ho cominciato poco a poco a riprendermi».

Oggi Agnes considera la sua fede in Dio come la fonte maggiore della sua forza. Fintanto che ci saranno dei bambini tenuti prigionieri dall’LRA, in Nord Uganda, un pezzetto del cuore di Agnes rimane là con loro. Agnes è ben determinata a diventare una voce in difesa del suo popolo e per conseguire questo obiettivo ha scelto di studiare Legge, sostenuta da alcuni amici europei. Durante le vacanze, Agnes ha sempre collaborato con AVSI in Uganda, dedicando il proprio impegno a costruire la pace e a migliorare i diritti dell’infanzia.

Nel 2002, Agnes Ochitti ha partecipato al World Summit for Children delle Nazioni Unite di New York, il primo appuntamento mondiale dell’Onu dedicato ai bambini, al quale gli stessi bambini erano invitati a portare la loro difficile testimonianza. Nel 2006 ha partecipato a un seminario internazionale al Parlamento Europeo, sempre con AVSI, sui bambini soldato e sugli aiuti umanitari. È stata la voce più vibrante e commovente.



«È un’esperienza sconvolgente che mi ha cambiato come donna, come religiosa, come missionaria. Il dolore più grande della mia vita l’ho vissuto quel giorno in cui ho dovuto lasciare nelle mani dei ribelli trenta ragazzine che imploravano aiuto». Suor Rachele si interrompe, una lunga pausa per soffocare a fatica l’emozione. «Chiedo perdono perché solo quando siamo state toccate direttamente abbiamo capito il dramma terribile che si consuma sui bambini rapiti in Uganda. Solo allora abbiamo deciso di denunciarlo in ogni sede». Ma sono ferite che non guariscono da sole.

«La nostra presenza in Uganda risale al 1984 - afferma Alberto Piatti, segretario generale di AVSI -. Quando ci trovammo a dover prenderci cura dei bambini soldato, cioè di bambini che sono stati protagonisti di violenze inaudite, fu inizialmente la sensazione di impotenza ad avere il sopravvento. Il compito era apparentemente impossibile, ma non potevamo tirarci indietro. La situazione imponeva un bisogno enorme che non potevamo non condividere. La gente lo chiedeva. I bambini lo chiedevano. Non si poteva stare in nord Uganda senza occuparsi concretamente di questi ragazzi. Abbiamo mobilitato risorse finanziarie, conoscenze e competenze specifiche. Imparando da altre esperienze, abbiamo coinvolto esperti e creato partnership con donatori e con agenzie internazionali e ci siamo proiettati sulla realtà di questo bisogno cercando una risposta che fosse efficace. Si trattava di reinserire nella vita normale bambini che hanno subito ed esercitato violenze enormi nei confronti di familiari e persone della loro comunità». Continua Piatti: «La fatica del lavoro ci ha insegnato che tutte le risorse finanziarie e tecniche messe in campo erano necessarie, ma non sufficienti. Il punto fondamentale è restituire a questi ragazzi la possibilità di recuperare la loro umanità offesa, ma non uccisa. Questa condivisione quotidiana con i ragazzi e le loro spaventose storie ci ha costretto a pronunciare e a praticare la grande parola introdotta dal cristianesimo nella storia: il perdono».



(Elisabetta Ponzone)



Essere uomo in Nord Uganda, nonostante l’emergenza, non è solo un problema umanitario. È la grande sfida che anima e riassume l’impegno della Fondazione AVSI, organizzazione non governativa italiana presente ininterrottamente dal 1984 in Nord Uganda. Nelle regioni Acholi, Lango e Teso del Nord, il 90% della popolazione ha vissuto negli ultimi 20 anni in campi sfollati a causa di una guerra civile che ha rapito bambini per arruolarli con la forza nelle fila del suo esercito, distruggendo quasi tutti i villaggi e i campi coltivati, uccidendo e mutilando brutalmente chiunque si opponesse al suo volere, radendo al suolo tutto. Oggi, le oltre 1.600.000 persone che hanno vissuto nei campi sfollati, dove manca anche l’indispensabile per sopravvivere, stanno timidamente tornando a casa, nei loro villaggi. AVSI è sempre al loro fianco, sostenendole con programmi educativi e con attività che favoriscono il rientro alla vita normale; aiutando la comunità a ricostruire scuole, case. Ma, soprattutto, favorendo il consolidamento della persona umana.

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SENZA L ’ ATTESA DELLA NOVITÀ LA VITA PERDE SAPORE - Che tristezza il «rientro» se non è un passo avanti - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 8 settembre 2009
Si dice: il rientro. A scuola, al lavoro.
Nelle case di sempre. Il rientro dal­le vacanze. Da mo­menti di riposo, di di­verso ambiente. Di panorami diversi dal solito. Si dice così, il rientro. Come se si rientrasse nei ranghi, nella routine.
Nel solito posto, le solite facce. Nei soliti limiti, dove si era prima. Ma se è così, allora l’estate è stata un’estate persa. Se è solo un rientrare, un tor­nare dove si era, come si era, allora sono state vacanze, tempo buttati via. Magari si sono viste tante cose, si so­no fatte tante cose. Magari si sono fatte cose diverse dal solito. Ma è co­me se non si fosse fatto nessun passo oltre a dove si era già, oltre a come si era già. E si rientra. Insomma, non si è fatta nessuna esperienza? Sì, certo, magari si sono provate delle cose nuove. Sensazioni inedite. Nuovi co­lori, nuovi sapori. Nuovi brividi, for­se. Ma se ora si rientra, se ora si torna come e dove si era prima, allora signi­fica che non c’è stato nessun accre­scimento. Nessun aumento di noi stessi. Insomma, nessuna esperienza. Se si torna dove e come si era prima delle vacanze, vuol dire così. Che si sono provate tante cose, anche belle, bellissime. Ma non sono state una ve­ra esperienza. Non ci hanno fatto fare un passo in più rispetto a dove erava­mo prima. Le vedi, le riconosci, le facce da rientro. Quelle che sanno già cosa li aspetta. Che non sono cam­biate di un pelo, e non si aspettano nessun cambiamento del luogo e del­le persone tra cui rientrano. Le facce da rientro le riconosci. Sono tristi. Si lasciano qualcosa alle spalle, portano dei segni esteriori ( l’abbronzatura, qualche monile esotico, magari certe ferite di dolcezze provate) ma non si sentono aumentati, cambiati. Non sono eccedenti il perimetro dove sta­vano prima. Forse hanno fatto pure cose esagerate. Viaggi esagerati. Han­no provato vari generi di esagerazio­ni. Ma non sono cresciuti di un nien­te. Non hanno allargato il perimetro della propria coscienza. Si ripetono, rientrano.
Questa differenza tra ' provare delle cose' e ' esperienza' è uno dei sottili limiti, dei minimi confini che celano un baratro in cui ci si perde. In cui si perde la vita. Che se resta uguale in realtà diminuisce. Se solo rientra, in realtà arretra. Se la stagione della va­canza non ci ha portato a fare real­mente una esperienza nuova allora più che vacanza, più che tempo so­speso tra un impegno e l’altro, è stato un tempo vuoto. Di vita apparente.
Di vita senza vita reale, nutriente. Per questo il rientro è per i più una triste liturgia. Una cosa che provoca un po­co d’ansia, perché si sente il vuoto premere intorno e la noia premere dentro il perimetro in cui si deve rientrare.
Le facce da rientro sono senza segni di vera novità. Le altre, quelle di chi prosegue, di chi è in viaggio, bambi­no o ragazzo che riprendono la scuo­la, o adulto che reinizia il lavoro, au­mentati dall’esperienza, sono invece facce vivaci. Si riconoscono a vista d’occhio. Fanno la differenza. Coloro che proseguono portano il segno di quel che han vissuto e l’attesa di quel che incontreranno. Gli altri, i rien­tranti, portano la nostalgia di quel che han vissuto e nessuna attesa per ciò che li aspetta. Due tipi di persone tornano dalle vacanze, poveri o ricchi che siano, fortunati o meno. I rien­tranti portano più peso al vivere co­mune, gli altri lo mobilitano, lo pro­vocano. Rendono interessanti anche i soliti luoghi.