Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di san Pier Damiani - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) La legge del taglione e dintorni - Roberto Fontolan giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
3) CHIESA/ Don Carlo Gnocchi, alpino sulle vette della carità - Stefano Zurlo giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
4) Il filosofo e il Papa - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 10 settembre 2009
5) Arrestate 150 persone per aver interrotto in pubblico il digiuno durante il ramadan - I cristiani in Egitto per la libertà religiosa – L’Osservatore Romano, 10 settembre 2009
6) ORMAI 49 I SUICIDI IN CARCERE - COME IN UNA TRAGICA DISCARICA D’UMANITÀ - MARINA C ORRADI – Avvenire, 10 settembre 2009
7) «Da femminista dico che la Ru486 è devastante» - di Francesco Ognibene – Avvenire, 10 settembre 2009
8) Ricerche: Stati vegetativi, sbagliato il 40% delle diagnosi - di Gian Luigi Gigli – Avvenire, 10 settembre 2009
9) Malati terminali senza cibo: Londra si divide - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 10 settembre 2009
Benedetto XVI presenta la figura di san Pier Damiani - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 9 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli ed i pellegrini nell'Aula Paolo VI del Vaticano per la tradizionale Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su san Pier Damiani (1007-1072), monaco.
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Cari fratelli e sorelle,
durante le catechesi di questi mercoledì sto trattando di alcune grandi figure della vita della Chiesa fin dalle sue origini. Oggi vorrei soffermarmi su una delle più significative personalità del secolo XI, san Pier Damiani, monaco, amante della solitudine e, insieme, intrepido uomo di Chiesa, impegnato in prima persona nell’opera di riforma avviata dai Papi del tempo. Nacque a Ravenna nel 1007 da famiglia nobile, ma disagiata. Rimasto orfano di ambedue i genitori, visse un’infanzia non priva di stenti e di sofferenze, anche se la sorella Roselinda si impegnò a fargli da mamma e il fratello maggiore Damiano lo adottò come figlio. Proprio per questo sarà poi chiamato Piero di Damiano, Pier Damiani. La formazione gli venne impartita prima a Faenza e poi a Parma, dove, già all’età di 25 anni, lo troviamo impegnato nell’insegnamento. Accanto ad una buona competenza nel campo del diritto, acquisì una raffinata perizia nell’arte del comporre – l’ars scribendi – e, grazie alla sua conoscenza dei grandi classici latini, diventò "uno dei migliori latinisti del suo tempo, uno dei più grandi scrittori del medioevo latino" (J. Leclercq, Pierre Damien, ermite et homme d’Église, Roma 1960, p. 172).
Si distinse nei generi letterari più diversi: dalle lettere ai sermoni, dalle agiografie alle preghiere, dai poemi agli epigrammi. La sua sensibilità per la bellezza lo portava alla contemplazione poetica del mondo. Pier Damiani concepiva l'universo come una inesauribile "parabola" e una distesa di simboli, da cui partire per interpretare la vita interiore e la realtà divina e soprannaturale. In questa prospettiva, intorno all’anno 1034, la contemplazione dell’assoluto di Dio lo spinse a staccarsi progressivamente dal mondo e dalle sue realtà effimere, per ritirarsi nel monastero di Fonte Avellana, fondato solo qualche decennio prima, ma già famoso per la sua austerità. Ad edificazione dei monaci egli scrisse la Vita del fondatore, san Romualdo di Ravenna, e s’impegnò al tempo stesso ad approfondirne la spiritualità, esponendo il suo ideale del monachesimo eremitico.
Un particolare va subito sottolineato: l’eremo di Fonte Avellana era dedicato alla Santa Croce, e la Croce sarà il mistero cristiano che più di tutti gli altri affascinerà Pier Damiani. "Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo", afferma (Sermo XVIII, 11, p. 117) e si qualifica come: "Petrus crucis Christi servorum famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo" (Ep, 9, 1). Alla Croce Pier Damiani rivolge bellissime orazioni, nelle quali rivela una visione di questo mistero che ha dimensioni cosmiche, perché abbraccia l'intera storia della salvezza: "O beata Croce – egli esclama - ti venerano, ti predicano e ti onorano la fede dei patriarchi, i vaticini dei profeti, il senato giudicante degli apostoli, l’esercito vittorioso dei martiri e le schiere di tutti i santi" (Sermo XLVIII, 14, p. 304). Cari fratelli e sorelle, l’esempio di san Pier Damiani spinga anche noi a guardare sempre alla Croce come al supremo atto di amore di Dio nei confronti dell’uomo, che ci ha donato la salvezza. Per lo svolgimento della vita eremitica, questo grande monaco redige una Regola in cui sottolinea fortemente il "rigore dell’eremo": nel silenzio del chiostro, il monaco è chiamato a trascorrere una vita di preghiera, diurna e notturna, con prolungati ed austeri digiuni; deve esercitarsi in una generosa carità fraterna e in un’obbedienza al priore sempre pronta e disponibile. Nello studio e nella meditazione quotidiana della Sacra Scrittura, Pier Damiani scopre i mistici significati della parola di Dio, trovando in essa nutrimento per la sua vita spirituale. In questo senso egli qualifica la cella dell’eremo come "parlatorio dove Dio conversa con gli uomini". La vita eremitica è per lui il vertice della vita cristiana, è "al culmine degli stati di vita", perché il monaco, ormai libero dai legami del mondo e del proprio io, riceve "la caparra dello Spirito Santo e la sua anima si unisce felice allo Sposo celeste" (Ep 18, 17; cfr Ep 28, 43 ss.). Questo risulta importante oggi pure per noi, anche se non siamo monaci: saper fare silenzio in noi per ascoltare la voce di Dio, cercare, per così dire un "parlatorio" dove Dio parla con noi: Apprendere la Parola di Dio nella preghiera e nella meditazione è la strada della vita.
San Pier Damiani, che sostanzialmente fu un uomo di preghiera, di meditazione, di contemplazione, fu anche un fine teologo: la sua riflessione sui diversi temi dottrinali lo porta a conclusioni importanti per la vita. Così, ad esempio, espone con chiarezza e vivacità la dottrina trinitaria utilizzando già, sulla scorta dei testi biblici e patristici, i tre termini fondamentali, che sono poi divenuti determinanti anche per la filosofia dell’Occidente, processio, relatio e persona (cfr Opusc. XXXVIII: PL CXLV, 633-642; e Opusc. II e III: ibid., 41ss e 58ss). Tuttavia, poiché l’analisi teologica del mistero lo conduce a contemplare la vita intima di Dio e il dialogo d’amore ineffabile tra le tre divine Persone, egli ne trae conclusioni ascetiche per la vita in comunità e per gli stessi rapporti tra cristiani latini e greci, divisi su questo tema. Pure la meditazione sulla figura di Cristo ha riflessi pratici significativi, essendo tutta la Scrittura centrata su di Lui. Lo stesso "popolo dei giudei, - annota san Pier Damiani - attraverso le pagine della Sacra Scrittura, ha come portato Cristo sulle spalle" (Sermo XLVI, 15). Cristo pertanto, egli aggiunge, deve essere al centro della vita del monaco: "Cristo sia udito nella nostra lingua, Cristo sia veduto nella nostra vita, sia percepito nel nostro cuore" (Sermo VIII, 5). L’intima unione con Cristo impegna non solo i monaci, ma tutti i battezzati. Troviamo qui un forte richiamo anche per noi a non lasciarci assorbire totalmente dalle attività, dai problemi e dalle preoccupazioni di ogni giorno, dimenticandoci che Gesù deve essere veramente al centro della nostra vita.
La comunione con Cristo crea unità d’amore tra i cristiani. Nella lettera 28, che è un geniale trattato di ecclesiologia, Pier Damiani sviluppa una profonda teologia della Chiesa come comunione. "La Chiesa di Cristo - egli scrive - è unita dal vincolo della carità a tal punto che, come è una in più membri, così è tutta intera misticamente nel singolo membro; cosicché l'intera Chiesa universale si denomina giustamente unica Sposa di Cristo al singolare, e ciascuna anima eletta, per il mistero sacramentale, viene considerata pienamente Chiesa". E’ importante questo: non solo che l’intera Chiesa universale sia unita, ma in ognuno di noi dovrebbe essere presente la Chiesa nella sua totalità. Così il servizio del singolo diventa "espressione dell’universalità" (Ep 28, 9-23). Tuttavia l’immagine ideale della "santa Chiesa" illustrata da Pier Damiani non corrisponde – lo sapeva bene - alla realtà del suo tempo. Per questo non teme di denunziare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero, a motivo, soprattutto, della prassi del conferimento, da parte delle Autorità laiche, dell’investitura degli uffici ecclesiastici: diversi vescovi e abati si comportavano da governatori dei propri sudditi più che da pastori d’anime. Non di rado la loro vita morale lasciava molto a desiderare. Per questo, con grande dolore e tristezza, nel 1057 Pier Damiani lascia il monastero e accetta, pur con difficoltà, la nomina a Cardinale Vescovo di Ostia, entrando così pienamente in collaborazione con i Papi nella non facile impresa della riforma della Chiesa. Ha visto che non era sufficiente contemplare e ha dovuto rinunciare alla bellezza della contemplazione per portare il proprio aiuto nell’opera di rinnovamento della Chiesa. Ha rinunciato così alla bellezza dell’eremo e con coraggio ha intrapreso numerosi viaggi e missioni.
Per il suo amore alla vita monastica, dieci anni dopo, nel 1067, ottiene il permesso di tornare a Fonte Avellana, rinunciando alla diocesi di Ostia. Ma la sospirata quiete dura poco: già due anni dopo viene inviato a Francoforte nel tentativo di evitare il divorzio di Enrico IV dalla moglie Berta; e di nuovo due anni dopo, nel 1071, va a Montecassino per la consacrazione della chiesa abbaziale e agli inizi del 1072 si reca a Ravenna per ristabilire la pace con l’Arcivescovo locale, che aveva appoggiato l'antipapa provocando l'interdetto sulla città. Durante il viaggio di ritorno al suo eremo, un’improvvisa malattia lo costringe a fermarsi a Faenza nel monastero benedettino di Santa Maria Vecchia fuori porta, e lì muore nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072.
Cari fratelli e sorelle, è una grande grazia che nella vita della Chiesa il Signore abbia suscitato una personalità così esuberante, ricca e complessa, come quella di san Pier Damiani e non è comune trovare opere di teologia e di spiritualità così acute e vive come quelle dell’eremita di Fonte Avellana. Fu monaco fino in fondo, con forme di austerità, che oggi potrebbero sembrarci persino eccessive. In tal modo, però, egli ha fatto della vita monastica una testimonianza eloquente del primato di Dio e un richiamo per tutti a camminare verso la santità, liberi da ogni compromesso col male. Egli si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa del suo tempo. Donò tutte le sue energie spirituali e fisiche a Cristo e alla Chiesa, restando però sempre, come amava definirsi, Petrus ultimus monachorum servus, Pietro, ultimo servo dei monaci.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, consiglieri ecclesiastici, dirigenti e rappresentanti tutti della Coldiretti, e vi incoraggio a proseguire con impegno il vostro servizio sociale e spirituale nel mondo dell’agricoltura. Le tematiche del vostro convegno vi siano di stimolo a riaffermare i principi etici nell’economia per rianimare la speranza con la solidarietà. Saluto gli esponenti dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro, come pure quelli dell’Associazione Invalidi Civili auspicando che nei confronti di questi nostri fratelli ci sia un’attenzione sempre più viva da parte della società e delle Istituzioni. Saluto con affetto i soci del Lyons Club Nardò ed assicuro per ciascuno e per le rispettive famiglie la mia fervida preghiera.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica della Natività della Beata Vergine Maria. Il Concilio Vaticano II dice che Maria ci precede nel cammino della fede perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45). Chiedo alla Vergine Santa il dono di una fede sempre più matura per voi giovani; una speranza sempre più salda per voi ammalati; un amore sempre più profondo e duraturo e per voi sposi novelli.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La legge del taglione e dintorni - Roberto Fontolan giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Occorre ammettere che la norma di comportamento sociale più praticata e che resiste inalterata da migliaia di anni, è la legge del taglione. Tu fai questo a me, io faccio altrettanto a te. Altro che la cristianissima “non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”, certamente entrata nel sistema dei valori indicati e predicati, ma ultimamente considerata un auspicio morale in realtà impraticabile, un sogno lontano dalla vita.
Negli anni recenti René Girard con i suoi monumentali studi sul capro espiatorio e la violenza rituale, ha dimostrato la verità attuale, concreta, sconvolgente dell’avvenimento cristiano, portatore di una novità letteralmente “incomparabile” (novità che ha storicamente inciso nella società e nelle relazioni umane) e documentato così la portata rivoluzionaria della Nuova Legge evangelica. Ma nella nostra epoca paganeggiante il Vangelo non fa parte dei libri di testo consigliati – tantomeno ne fanno parte le opere di Girard.
E così la legge del taglione è lo strumento più semplice, immediato, disponibile su larghissima scala. Chiunque lo può adottare, avendone pieno diritto, beninteso. È brandito a più non posso anche nell’attuale bagarre giornalistico-politica. Se quelli hanno frugato nelle camere da letto, ora frugheremo noi. Se quelli hanno distrutto persone, ora le distruggeremo noi. Sostituite il “noi” a “quelli” e il “quelli” al “noi” e avrete l’eterno ciclo di azione e reazione che accompagna la vicenda umana dai tempi dei tempi. Cui oggi si aggiunge il Grande Gioco dello Sputtanamento Incrociato: tu hai usato un’arma ignobile (poniamo: le intercettazioni telefoniche), ora tocca a me usare la stessa arma. Oppure: visto che non hai difeso Tizio non puoi difendere Caio. E d’altronde, e giustamente: perché difendi Caio visto che non hai difeso Tizio? O anche: se dici A in realtà vuoi dire B e io ti reputo colpevole non per quello che hai detto ma per quello che io so che in realtà intendevi dire. E così via. Gratta gratta la storia è sempre la stessa. Qualcuno, non importa chi, ha cominciato, ora bisogna ripagare con la stessa moneta, magari anche leggermente più pesante, in una spirale che finisce sempre al peggio, nell’illusione che la tua morte è la mia vita (ricordate “La guerra dei Roses?”). Nel mondo criminale si chiama faida, in quello civile non c’è il coraggio di chiamarla così, ma non è molto diverso. È la reciprocità al negativo, figlia del “cupio dissolvi” che incalza il nostro tempo.
Ma rispetto ad allora, rispetto ai tempi degli dèi indifferenti e delle guerre primordiali, sappiamo che nella legge del taglione c’è qualcosa che non convince, che non quadra, che provoca disagio. Abbiamo, sia pur vago e opaco, il senso di un’ingiustizia. Ce lo ritroviamo addosso, ereditato da secoli di educazione e testimonianza. Confusamente sappiamo che c’è una verità altra, forse più grande e più felice di quella che crediamo assicurata dalla Vecchia Legge, ma ci manca qualcosa per affermarla realmente.
Già, tu uccidi-io uccido può anche placare per un attimo l’istinto della restituzione del male, ma sappiamo (lo sappiamo: è un contenuto certo della nostra coscienza umana) che otterremo non giustizia ma macerie (ancora un film da citare: “Munich” di Spielberg). Da poco più di duemila anni il comportamento rituale e ancestrale galleggia su un’inquietudine prima ignota: il nemico è annientato, ma… cos’è dunque quella spina che non riusciamo a togliere? Quella frustrazione che oscura il momento dell’appagamento? Che nome ha lo smarrimento che ci coglie nell’istante stesso della vendetta compiuta?
CHIESA/ Don Carlo Gnocchi, alpino sulle vette della carità - Stefano Zurlo giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Lo beatificheranno il 25 ottobre, ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima con i bisogni del corpo.
La storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso, ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini, osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà. O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.
Il resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito. L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione. Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati, spesso da famiglie poverissime, in istituto.
Lui li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con loro va in udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei ragazzi sarei anche più contento».
La vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno. Muore donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua morte una grande fioritura.
Ai suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.
Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.
Il filosofo e il Papa - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 10 settembre 2009
Prima della sua elezione il card. Ratzinger si è confrontato più volte con filosofi laici. Il più noto di questi dialoghi fu con Habermas, su ragione e fede. Al Meeting di Rimini il filosofo francese Rémi Brague - docente alla Sorbona e a Monaco, noto per il suo libro “Il futuro dell’occidente” Ed. Bompiani -, mi ha fatto pensare al dialogo prima citato tra il card. Ratzinger e Habermas. Brague sembra proseguire idealmente alcune riflessioni su ragione-fede e, mentre si addentra a parlare della sfida della conoscenza, fa eco al pensiero del Papa che richiama la necessaria interazione tra fede e ragione. La filosofia, a partire da Comte, ci ha convinti che dei fenomeni possiamo capire solo le leggi e non i fenomeni stessi in quanto di essi restano sconosciute le cause. La scienza moderna ci ha condannati a non capire i fenomeni e ci limita all’azione su di essi. Da qui, incalza Brague, il sopravvento della tecnologia e la teorizzazione di alcuni pensatori moderni dell’uomo gnostico “buttato come naufrago nel mondo indifferente”. Il paradosso della scienza moderna è che sta diventando sempre più esatta e sempre meno interessante, perché la ragione esige la totalità del reale e la scienza non risolve la questione. “A conciliare la conoscenza scientifica dell’universo e l’interesse vitale dell’uomo interviene la fede”. Con un esempio spiega che la fede non dice come è fatto il creato, lascia liberi di costruire modelli di intellegibilità, ma dice qualcosa di più importante: che la realtà è intellegibile. Questa visione è slancio per l’avventura della conoscenza, fiducia nelle umane facoltà. Ci vuole la metafisica, non l’etica, ha concluso, e in questo la Chiesa ci aiuta. Benedetto XVI nell’incontro con la cittadinanza a Bagnoregio, ha parlato del servizio che i teologi sono chiamati a rendere a quella fede che cerca l’intelletto, quella fede che è “amica dell’intelligenza”. Presentando S. Bonaventura come un instancabile cercatore di Dio, un amante della sapienza e un cantore del creato sulle orme di S. Francesco, ha riproposto in breve aspetti del pensiero del santo. È necessario che la mente si elevi in alto perché Dio è in alto. Tutta la persona è coinvolto in questo itinerario della mente in Dio e “la fede è perfezionamento delle nostre capacità conoscitive e partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso e del mondo”. È l’esperienza della conoscenza come avvenimento e la fede la scopre nel suo vertice che è l’incontro con Cristo. Tanto da far dire al Papa che i nostri contemporanei, quando s’incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun’altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto.
Arrestate 150 persone per aver interrotto in pubblico il digiuno durante il ramadan - I cristiani in Egitto per la libertà religiosa – L’Osservatore Romano, 10 settembre 2009
Il Cairo, 9. Almeno centocinquanta persone sono state arrestate dalla Polizia in Egitto per aver interrotto in pubblico il digiuno che caratterizza il ramadan, mese sacro ai musulmani. A denunciarlo è il direttore di un movimento liberale cristiano del Paese, Samwel Alashay, copto, il quale ha riferito all'agenzia spagnola Efe che la campagna di arresti, la prima di questo tipo in Egitto e riguardante anche la minoranza cristiana che non digiuna durante il ramadan, "è incostituzionale, poiché le leggi egiziane garantiscono la totale libertà". Secondo quanto riferiscono il movimento e alcune locali organizzazioni per i diritti umani, i provvedimenti sono stati eseguiti nei governatorati di Aswân, Daqahlîya, Mar Rosso e Porto Said, mentre i fermati stavano mangiando o fumando per strada durante le ore diurne. Alcuni arrestati sono stati liberati grazie al pagamento di una cauzione di cinquecento lire egiziane (circa cento dollari).
Il movimento liberale cristiano ha inviato una lettera al ministero dell'Interno nella quale chiede di interrogare e di giudicare gli ufficiali della Polizia responsabili di questa campagna. "Il fatto che alti responsabili della Polizia compiano questi arresti - ha detto Alashay - è un segnale grave per i musulmani in generale e per i cristiani nel concreto, perché trasforma il Paese in uno Stato di tipo talebano e wahabbita", con una rigida interpretazione della religione islamica.
In Egitto la maggioranza è musulmana sunnita (quasi il 90 per cento della popolazione). Il restante 10 per cento è costituito in gran parte da cristiani, soprattutto copti ortodossi. Una minoranza che si sente minacciata, discriminata, non sufficientemente tutelata. Per questo il movimento guidato da Alashay e altre associazioni copte hanno indetto, per venerdì 11 settembre, uno "sciopero dei cristiani" per rivendicare i propri diritti e per chiedere una legge che faciliti la costruzione di chiese in Egitto. La questione è stata argomento, nei giorni scorsi, di una fatwa emanata dal Consiglio islamico dell'Egitto. Il decreto - secondo quanto riferisce l'Assyrian international news agency - sostiene che "l'intenzione da parte di un musulmano di donare soldi per costruire una chiesa è un peccato contro Dio", paragonabile a quello che si commette finanziando un night club, una casa da gioco o "una stalla dove tenere maiali, gatti o cani". La fatwa ha provocato polemiche, tanto che il gran muftì Ali Gomaa e il ministro della Giustizia hanno avviato un'indagine sui saggi che l'hanno emessa. Anche lo sceicco Al-Azhar Mohammed Sayed Tantawi l'ha criticata sostenendo che i musulmani possono donare soldi per costruire chiese e che deve essere favorita la libertà di culto.
Secondo Samwel Alashay, la campagna di arresti durante il ramadan è una risposta alla convocazione dello sciopero. Le associazioni che sostengono la manifestazione hanno chiesto ai cristiani di rimanere venerdì nelle loro case e di vestirsi di nero. Finora - riferisce la Efe - almeno tremila cristiani hanno assicurato, attraverso Facebook, la loro partecipazione e, giorno dopo giorno, cresce il numero dei copti che danno la propria adesione.
Va detto, tuttavia, che un portavoce della comunità copto ortodossa in Egitto ha dichiarato - sempre all'agenzia spagnola - che "la Chiesa non ha nulla a che vedere con lo sciopero" e che "la Chiesa utilizza il dialogo per risolvere qualsiasi problema. Gli scioperi non servono a niente".
L'ondata di arresti è stata commentata negativamente anche dai non cristiani. "È orribile che stia accadendo questo - ha dichiarato uno dei fermati, membro della Fratellanza musulmana - e non possiamo restare fermi e consentire che ciò continui. Vogliamo vivere in una società libera, la religione non è obbligatoria e così deve continuare a essere". Anche il direttore dell'Arabic network for human rights information, Gamal Eid, ha criticato gli arresti definendoli "illegali" e ha definito la "campagna" lanciata dal ministro dell'Interno "una manovra del Governo per compiacere gli islamici, in modo da guadagnare terreno" presso di loro. "Non esiste alcuna esplicita norma di legge - ha aggiunto il presidente della Fondazione per lo sviluppo della democrazia egiziana, Negad Al Borai - che autorizzi l'arresto delle persone che interrompono il digiuno durante il ramadan".
Il ministro dell'Interno, Habib el Adli, non ha confermato né smentito la notizia. Ma una fonte della sicurezza egiziana ha riferito che la campagna potrebbe essere stata lanciata per mantenere l'ordine e far diminuire i crimini durante il mese sacro ai musulmani.
(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2009)
ORMAI 49 I SUICIDI IN CARCERE - COME IN UNA TRAGICA DISCARICA D’UMANITÀ - MARINA C ORRADI – Avvenire, 10 settembre 2009
L’ ultimo è un ambulante senegalese di 32 anni, sposato e padre di un bambino. Accusato di violenza sessuale, giurava di essere innocente. Si è ammazzato nel carcere di Teramo, aspirando il gas della bomboletta dei fornelli. Il penultimo era un tunisino, morto dopo quaranta giorni di sciopero della fame e della sete, a Pavia. Un altro, uno fra i tanti, era italiano, finito dentro per droga, in attesa di trattamento psichiatrico. La notte del 12 agosto s’è impiccato nella sua cella, a San Vittore, nel cuore della Milano deserta per ferie. Si chiamava Luca, aveva 28 anni.
Le notizie dei suicidi in carcere prendono poche righe sui giornali, quasi fossero un fatto ineluttabile.
Però l’ambulante africano di Teramo è il quarantanovesimo suicida, quest’anno, nelle prigioni italiane. Il dato è del sito di informazione carceraria 'ristretti. it', che di ognuno ricostruisce nome e storia. Che riporta le testimonianze di carcerati in vari istituti italiani. E fra queste righe la cifra di oggi, 64 mila reclusi in Italia, record dal dopoguerra, acquista uno spessore drammaticamente concreto: «Tre persone si ritrovano a dividere in undici metri quadri, nei quali sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno: ecco che lo spazio calpestabile fa incarognire tutti, riducendoli al pari di animali rinchiusi in gabbia», scrive uno. «Nel mio letto a castello a Venezia avevo imparato a isolarmi dalle altre otto, nove, dieci compagne di cella: cuffie con la musica nelle orecchie per leggere, tappi di cera e maschera sugli occhi per dormire», racconta un’altra. Cronache di una invivibilità che aumenta, di nervi sfatti, di pensieri disperati che una notte dopo l’altra acquistano consistenza, diventano progetti, e poi realtà.
E quei 49 suicidi ad oggi, con questo stesso ritmo, si potrebbero fare 70 alla fine dell’anno. Con una incidenza superiore di 21 volte a quella della popolazione italiana. Con una relazione, rintracciabile nei numeri, fra l’aumento periodico dei suicidi e quel sovraffollamento, quel ritrovarsi quasi a calpestarsi l’un l’altro, senza un minuto di silenzio e di pace. («Stiamo ammassati come in una discarica», scrive un altro). E allora le storie di questi quarantanove non sono più private tragedie, ma diventano come un grido che sale dalle mura alte e cieche attorno alle carceri. Come se, passata quella porta, ci fosse un altro mondo; dove formalmente si è uomini, titolari di tutti i diritti proclamati e benedetti dalle Carte della democrazia occidentale; ma, in realtà, non si è più uomini proprio come gli altri. Dove un ragazzo che ha bisogno di cure psichiatriche, lasciato solo, si impicca; dove uno straniero, per gridare la sua innocenza, si lascia morire di fame e sete. Quale altro mondo c’è, dietro quei portoni blindati e sorvegliati? Le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione, dice la Costituzione. Ma come si rieduca, fra uomini stretti come in gabbia, avviliti da quella promiscuità in cui il senso di sé, assediato, vacilla? Come si spera, nei raggi fatiscenti e strapieni di san Vittore?
Dal Veneto un detenuto racconta on-line che la sua cella pullula di scarafaggi. Lui una notte ne mette in fuga una famiglia, e ne fa prigioniero uno. Lo chiude in un bicchiere; si fa, di quell’insetto, secondino. Ma, poi, comincia a parlargli. Il miserabile prigioniero infine gli fa pena, e lo libera. Breve storia di sapore kafkiano in un carcere italiano. Per chi la legge, un pugno nello stomaco. Uomini o no, in quelle celle? Uomini, sempre. Ma è come se tra quelle mura proprio questa certezza radicale venisse ad essere incrinata.
«Da femminista dico che la Ru486 è devastante» - di Francesco Ognibene – Avvenire, 10 settembre 2009
Il no alla Ru486 è un’esclusiva dei cattolici? È quello che si sente dire dopo l’adozione – condizionata – da parte dell’Aifa della pillola abortiva anche in Italia, il 31 luglio. Sarebbe, insomma, un’ostinazione su base confessionale. Peccato che non sia così.
A confermarlo – se ce ne fosse bisogno, e purtroppo è così – è l’autorevole voce di Renate Klein, combattiva femminista australiana, su posizioni certo non 'cattoliche', che nel suo Paese ha guidato la tenace 'resistenza' all’introduzione della Ru486, vinta solo da un voto parlamentare. Con Avvenire si dice «addolorata» dalla notizia del via libera dell’Aifa. E spiega le sue ragioni.
In Italia si sente spesso dire che quello con la Ru486 è il modo migliore di abortire. È così?
«No, al contrario. L’assunzione della pillola Ru486, seguìta da quella della prostaglandina (che fa espellere il feto abortito, ndr ) scarica ogni rischio e ogni responsabilità sulla donna».
Può spiegare in che modo?
«Sarò cruda: una donna si può trovare su un autobus o al lavoro mentre iniziano i conati di vomito, le scariche di diarrea e le contrazioni che seguono l’assunzione del farmaco. Si può arrivare a perdere anche molto sangue. La donna può continuare a sanguinare per giorni, se non settimane, e non sapere con certezza se il figlio che ha dentro di lei è stato abortito o continua a vivere.
Nell’ipotesi peggiore per avere questa certezza deve vedere lo stesso figlio espulso nel water: un’esperienza scioccante. Immaginarsi quale senso di colpa la segnerà per tutta la vita dopo questo tipo di aborto».
E gli effetti psicologici?
«Sono devastanti. E hanno una portata spaventosamente lunga. Quando sanguini per sei settimane, e hai bisogno di un intervento di raschiamento perché tuo figlio è ancora nel tuo grembo, l’esperienza dell’aborto diventa indimenticabile. Ti segna per sempre, come donna, soprattutto se in realtà un bambino lo avevi desiderato, e lo desideri ancora per il futuro. Ma l’aborto è stata una scelta dovuta ad altre circostanze, come alla mancanza di risorse economiche o al rifiuto del padre. Nel caso dell’aborto chirurgico – un intervento fatto in anestesia che dura poco più di mezz’ora – una donna può invece ricominciare a pensare alla propria vita, anche di madre. E qualora sorgessero complicazioni, la donna è comunque ricoverata, sotto l’occhio attento e costante dei medici. Cosa fare, invece, nel caso abbia un’emorragia il sabato sera, magari in un piccolo paese di campagna, con un presidio sanitario lontano chilometri? Rischia la vita! E poi c’è il funzionamento delle pillola: al bambino essa toglie ogni forma di nutrimento. La donna sa che sta facendo morire di fame e di sete la creatura che porta in grembo. E questo non ha nulla a che vedere col diritto di scegliere l’aborto o meno: qui si tratta di una madre che sente il proprio figlio, e che lo uccide».
Eppure i media italiani vanno ripetendo da mesi che è giusto lasciare alle donne la possibilità di scegliere come abortire, che la legge deve rispettare questa decisione. Lei cosa ne pensa?
«La questione della libertà di scelta per le donne è spinosa. Io, per esempio, condivido che le donne abbiano diritto ad accedere a un aborto sicuro e legale, dopo un’appropriata consulenza psicologica, qualora non vogliano mettere al mondo un figlio per ragioni valide: un padre violento, la mancanza di risorse economiche, la minaccia per il proprio lavoro o per la propria formazione. Ma, lo sottolineo, è importante che la donna sia informata correttamente su cosa significhi abortire.
Il messaggio banalizzato 'è davvero facile, prendi la pillola, e bingo!, non sarai più incinta' è pericolosissimo».
Perché le femministe hanno in genere una buona opinione della pillola abortiva? Lei, che è una voce storica del movimento, è contraria...
«La seconda ondata del movimento femminista si trovò concorde, in tutti i Paesi occidentali, sulla depenalizzazione dell’aborto. Quello che fu dimenticato, e continua a esserlo, è che una donna dovrebbe avere anche il diritto di continuare una gravidanza e di avere supporto e risorse adeguate per farlo.
Negli anni ’70, quando in molti Paesi si cominciò a legalizzare l’aborto, le donne furono spesso forzate a rifiutare le gravidanze: mai epilogo di una battaglia per i diritti fu più sbagliato. E visto che è stato così difficile conquistare quella legge, oggi accade che molte femministe non siano preparate a criticare la tendenza ormai diffusa a normalizzare l’aborto. Si finisce col dire alle giovani donne che abortire è normale, non è un grande problema. Ecco perché quando la Ru486 fu inventata in Francia, nel 1988, e io pubblicai il libro Ru486 Misconceptions Myths and Morals insieme a Janice Raymond and Lynette Dumble, nel 1991, fummo viste come delle traditrici degli ideali del femminismo.
Questa divisione continua. Eppure io sono convinta che noi siamo chiamati a giudicare ogni trattamento medico per i suoi meriti o per le sue lacune. E l’aborto chimico è molto più pericoloso di quello chirurgico».
La decisione di commercializzare la Ru486 ha solo a che fare con ragioni 'tecniche'?
«Nient’affatto. Ha anzi radici e ricadute culturali fortissime. A causa dell’assunto errato secondo cui prendere una pillola per abortire è più facile e naturale di un intervento chirurgico, le donne (soprattutto quelle giovani) tendono a essere meno attente alla prevenzione della gravidanza. Per non parlare dei partner: che importa se la loro compagna rimane incinta, basta una pillola e il 'problema' è risolto. È questa mentalità che favorisce la diffusione della Ru486, e che la Ru486 potrebbe rendere dilagante. Aumentando il numero di aborti».
In Australia com’è regolamentato l’uso della Ru486?
Si tratta di un impiego ancora molto ristretto: i medici che la usano devono chiedere un permesso speciale alle autorità sanitarie, e comunque può essere assunta solo da quelle donne che per ragioni di salute non possono sottoporsi all’intervento chirurgico.
Nessuna casa farmaceutica, peraltro, ha mai chiesto di commercializzare la Ru486 in Australia, anche per una questione di costi, troppo alti».
Queste regole vengono rispettate?
«Non sempre. Una delle condizioni cliniche necessarie per ottenere il permesso di utilizzare la Ru486, infatti, è quello di soffrire di una 'grave forma di depressione'. Il che, a mio avviso, è del tutto incomprensibile. Anche perché la diagnosi di tale stato psicologico è tutto fuorché oggettiva (come misurare una depressione, esiste un test?) e si tratta di decisioni mediche, su cui viene mantenuto riserbo. È il caso della più nota vittima australiana della Ru486, Mary Stopes: le fu consentito l’uso della Ru486 proprio per il suo presunto stato depressivo acuto. Un altro fenomeno che stiamo registrando in Australia è quello degli aborti con la Ru486 acquistata all’estero».
L’Agenzia italiana del farmaco ha stabilito che la donna debba rimanere in ospedale finché l’aborto non si è concluso, ma sappiamo che se lo desidera e chiede di tornare a casa non si può fare nulla per impedirglielo. Cosa fare per evitare che questo accada?
«La questione è semplice: è facile per i medici dispensare la ricetta per un farmaco. Più facile che avere a che fare con un intervento chirurgico. Se qualcosa va storto, c’è già una giustificazione: forse quella paziente ha assunto alcol, forse ha fumato. La Ru486, in questo senso, li solleva da ogni responsabilità. Io credo invece che i medici dovrebbero informare le donne sulla realtà dei fatti, dicendo loro quali sono i rischi a cui vanno incontro, spiegando quali sono i possibili eventi avversi».
In Italia si sente dire che la battaglia per introdurre la Ru486 nel nostro Paese è anche una battaglia per la laicità. Cosa pensa di questo assunto?
«Anche in Australia la Chiesa ha preso una posizione dura contro questo tipo di aborto. Personalmente non sono d’accordo con l’idea che la Ru486 abbia a che fare con la laicità di uno Stato. La Ru486 è semplicemente un modo per abortire, un cattivo modo direi, e ciò che più conta è pericoloso per le donne. E comodo per i medici, sollevati da ogni responsabilità rispetto alle proprie pazienti».
(ha collaborato Viviana Daloiso)
Parla la leader del movimento che in Australia si oppose alla Ru486, voce storica del femminismo internazionale: «È solo un cattivo modo per abortire, pericoloso per le donne e comodo per i medici, sollevati da ogni responsabilità rispetto alle proprie pazienti»
Renate Klein
È ricercatrice e saggista, autrice di studi sulle tecnologie riproduttive e sul femminismo. Biologa e sociologa, è stata docente di Studi sulla donna alla Deakin University di Melbourne. Ha fondato «Finrrage» (Network internazionale femminista di resistenza all’ingegneria riproduttiva e genetica»: www.finrrage.org).
Ricerche: Stati vegetativi, sbagliato il 40% delle diagnosi - di Gian Luigi Gigli – Avvenire, 10 settembre 2009
L’«Economist» ha rilanciato uno studio belga che dimostra come la presenza di 'coscienza minima' nei pazienti sia sistematicamente sottostimata Eppure da anni esiste una scala di valutazione che permetterebbe di evitare gli errori
« Sfortunatamente per alcuni » : così, il 23 luglio, The Economist titolava un interessante articolo sullo stato vegetativo. Non si riferiva, tuttavia, alla gravità della disabilità che connota – ovviamente – questa condizione clinica, ma al fatto ancor più terribile che molti di questi pazienti siano stati lasciati morire sulla base di un errore diagnostico. L’articolo dell’Economist riprendeva con grande risalto i risultati di uno studio belga pubblicato sulla rivista scientifica BMC Neurology solo due giorni prima. Si trattava per la verità di risultati già noti agli addetti ai lavori e comunicati dagli autori poche settimane prima a Milano, nel corso del Congresso della European Neurological Society.
Proprio Avvenire ne aveva dato conto in un’intervista a Steven Laureys, uno degli autori del gruppo di Liegi. La grande stampa italiana non ne ha fatto ( ancora) menzione.
Distinguere tra i diversi stati di compromissione della coscienza è sempre stato difficile. Nel 1996 Keith Andrews riportò che, nei pazienti ricoverati al Royal Hospital for Neurodisability di Londra, il 40 % delle diagnosi di stato vegetativo erano errate.
Il dato allarmante fu confermato da altri studi.
Andava in quegli anni precisandosi la categoria dello stato di minima coscienza, codificata internazionalmente solo nel 2002 dal gruppo di Aspen. Si tratta di pazienti che, emersi dallo stato vegetativo, mostrano segni di coscienza, sebbene fluttuanti e incostanti.
Negli anni successivi Joseph Giacino, l’animatore dell’Aspen Group, mise a punto una scala di valutazione standardizzata in grado di distinguere i pazienti in stato vegetativo da quelli in stato di minima coscienza e di identificare quelli che erano ormai emersi anche dallo stato di minima coscienza in cui prima si trovavano. Purtroppo, la Coma Recovery Scale- Revised ( CRS- R), a distanza di cinque anni dalla sua pubblicazione, non è ancora utilizzata routinariamente.
Gli studiosi di Liegi, dunque, hanno dimostrato che il mancato uso di questi accurati metodi di valutazioni causa il persistere di una forte percentuale di errori diagnostici anche in centri specializzati.
L’indagine, che ha coinvolto 103 pazienti, è stata infatti condotta nei centri che fanno parte della rete belga per l’assistenza ai pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza, utilizzando rigorosi criteri di inclusione ed esclusione e fondandosi su osservazioni comportamentali quotidiane condotte da un team multidisciplinare di esperti.
Il confronto tra la diagnosi clinica, formulata in modo consensuale, e la valutazione mediante la CRS- R ha mostrato che il 40% dei pazienti ritenuti in stato vegetativo erano in realtà in stato di minima coscienza e che il 10% dei pazienti ritenuti in stato di minima coscienza erano in realtà emersi da quella condizione ed erano ormai capaci di comunicare, anche se i loro medici non se ne erano accorti.
A tali dati allarmanti ci permettiamo solo di aggiungere che, probabilmente, il tasso di errore diagnostico sarebbe stato ancora più elevato se si fossero usate anche le indagini di risonanza magnetica funzionale, di PET e di neurofisiologia che hanno mostrano la possibilità del persistere di una comunicazione residua anche in pazienti in cui essa non è clinicamente evidenziabile.
È certamente più facile fare una diagnosi basandosi sul proprio convincimento clinico piuttosto che sulle misurazioni standardizzate richieste da una scala di valutazione. Le convinzioni possono tuttavia essere fuorvianti, specie se influenzate dall’ideologia o dalle influenze esterne. Le compagnie assicurative, per esempio, possono preferire una diagnosi di stato vegetativo, perché non richiede il perpetuarsi delle spese per la riabilitazione. Ma anche in Paesi come il nostro l’intensità e la durata dell’intervento riabilitativo può dipendere dalla diagnosi.
Soprattutto, la ' piccola' differenza tra una diagnosi di stato vegetativo e una di stato di minima coscienza può significare lo spartiacque per l’autorizzazione a lasciar morire una persona di fame e di sete, non solo all’estero. Quando si emette una sentenza di morte sarebbe bene non avere paura del dubbio. Purtroppo di tutto quanto si è mosso nel mondo scientifico negli ultimi 15 anni non vi è traccia nel decreto della Corte d’Appello di Milano con cui si è autorizzata la sospensione di idratazione e nutrizione in Eluana. Il dubbio purtroppo non alberga neanche nella stampa laica, almeno in Italia, e i giudici, si sa, non sono tenuti a leggere The Economist.
Malati terminali senza cibo: Londra si divide - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 10 settembre 2009
La settimana scorsa un gruppo di medici esperti in cure palliative ha condannato la pratica in molti ospedali del Regno Unito di usare il cosiddetto ' Liverpool Care Pathway' ( Lcp), un metodo che include l’interruzione di alimentazione e idratazione ai malati in fin di vita.
Mentre il Paese dibatte animatamente sulla possibilità di sollevare da accuse di crimine chi aiuta una persona a suicidarsi e l’opinione pubblica, fomentata dalla stampa, si spacca sulla possibilità di una legalizzazione del suicidio assistito, scriveva qualche giorno fa Gerald Warner, noto autore britannico ed esperto di politica, storia e religione: « Non è strano che l’introduzione di questo metodo, il Lcp, sia stata appena menzionata da stampa e televisione, senza filmati o interviste, in netto contrasto con la copertura che ha avuto negli ultimi mesi una vera e propria ' crociata' della lobby a favore del cosiddetto ' diritto alla morte'. Non è dunque difficile capire da che parte stia la stampa. Passo dopo passo lo Stato sta controllando non solo come viviamo la nostra vita, ma anche come questa finisce. Gli Stati Uniti d’America si sono ribellati contro i così chiamati ' death panels' di Obama, ma è difficile che la Gran Bretagna farà lo stesso » . Un richiamo alle coscienze su una notizia choc che ha lasciato a bocca aperta il mondo intero.
La pratica introdotta dal sistema sanitario nazionale qualche anno fa è stata studiata, ha dichiarato un portavoce della Sanità, ' per alleviare le sofferenze del malato terminale'. Nel 2004 il modello è stato raccomandato dal National Institute for Health and Clinical Exellence ( Nice) e oggi viene adottato in oltre 300 ospedali, 130 ospizi e 560 case di riposo. Le direttive introdotte attraverso l’Lcp permettono ai medici di togliere ai malati terminali liquidi e medicine e lasciarli sotto sedativi fino alla morte. Un sistema che, hanno accusato i medici che si sono ribellati, non tiene conto se nel frattempo ci sono stati dei miglioramenti nel paziente. Prevedere la morte, spiega il professor Peter Millard, esperto in cure palliative, « è una scienza non esatta. Mi è capitato spesso di avere in cura pazienti dichiarati in fin di vita che poi si sono ripresi. Togliendogli liquidi e solidi e sedarli equivale a condannarli a morte » .
Secondo uno studio pubblicato recentemente dalla Barts and the London School of Medicine and Dentistry, nel 2007 e nel 2008 il 16,5% delle morti nel Regno Unito sono state causate da forti e costanti dosi di sedativi, il doppio di quelle usate in Belgio e in Olanda. La legge in Gran Bretagna sostiene che una persona che ne aiuta un’altra a morire rischia fino a 14 anni di reclusione, anche quando questa accompagna un familiare a recarsi all’estero per morire. E proprio questa legge è stata sfidata in più di un’occasione da alcuni malati terminali che vorrebbero recarsi in Svizzera a morire alla clinica Dignitas, accompagnati da uno dei loro cari, senza che essi siano incriminati. Solo poche settimane fa Debbie Purdy, una malata di sclerosi multipla, ha vinto una battaglia che dura da un anno e che ora le permetterà di conoscere il destino del marito quando questo andrà con lei in Svizzera. Questo non significa però che avrà la certezza che il marito non sarà incriminato. Fino a oggi nessuno dei familiari che sono andati alla clinica Dignitas hanno subito un processo ma la legge, sostengono in molti, su questo punto non è chiara.
Stupisce dunque ancora di più il fatto che il governo, sostenitore di un non cambiamento del Suicide Act ( che criminalizza il suicidio assistito) abbia approvato le direttive contenute nel Liverpool Care Pathway e che di questo si stata fatta molta poca pubblicità. « Dopo aver letto la lettera dei medici al Telegraph – spiega John Camilleri – ho capito di cosa è morta mia madre, non di tumore ma di Lcp. All’inizio i medici mi avevano detto che aveva ancora sei mesi di vita ma dopo essere stata messa sotto lo schema del Lcp se ne è andata in tre mesi senza nemmeno avere la possibilità di darci l’addio. Così il sistema nazionale si è portato via mia madre prima che fosse pronta e questo non potrò mai perdonarlo » .
Dopo la notizia choc della settimana scorsa sul protocollo di morte adottato in molti ospedali inglesi, l’opinione pubblica e le autorità si interrogano
1) Benedetto XVI presenta la figura di san Pier Damiani - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) La legge del taglione e dintorni - Roberto Fontolan giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
3) CHIESA/ Don Carlo Gnocchi, alpino sulle vette della carità - Stefano Zurlo giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
4) Il filosofo e il Papa - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 10 settembre 2009
5) Arrestate 150 persone per aver interrotto in pubblico il digiuno durante il ramadan - I cristiani in Egitto per la libertà religiosa – L’Osservatore Romano, 10 settembre 2009
6) ORMAI 49 I SUICIDI IN CARCERE - COME IN UNA TRAGICA DISCARICA D’UMANITÀ - MARINA C ORRADI – Avvenire, 10 settembre 2009
7) «Da femminista dico che la Ru486 è devastante» - di Francesco Ognibene – Avvenire, 10 settembre 2009
8) Ricerche: Stati vegetativi, sbagliato il 40% delle diagnosi - di Gian Luigi Gigli – Avvenire, 10 settembre 2009
9) Malati terminali senza cibo: Londra si divide - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 10 settembre 2009
Benedetto XVI presenta la figura di san Pier Damiani - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 9 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli ed i pellegrini nell'Aula Paolo VI del Vaticano per la tradizionale Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su san Pier Damiani (1007-1072), monaco.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
durante le catechesi di questi mercoledì sto trattando di alcune grandi figure della vita della Chiesa fin dalle sue origini. Oggi vorrei soffermarmi su una delle più significative personalità del secolo XI, san Pier Damiani, monaco, amante della solitudine e, insieme, intrepido uomo di Chiesa, impegnato in prima persona nell’opera di riforma avviata dai Papi del tempo. Nacque a Ravenna nel 1007 da famiglia nobile, ma disagiata. Rimasto orfano di ambedue i genitori, visse un’infanzia non priva di stenti e di sofferenze, anche se la sorella Roselinda si impegnò a fargli da mamma e il fratello maggiore Damiano lo adottò come figlio. Proprio per questo sarà poi chiamato Piero di Damiano, Pier Damiani. La formazione gli venne impartita prima a Faenza e poi a Parma, dove, già all’età di 25 anni, lo troviamo impegnato nell’insegnamento. Accanto ad una buona competenza nel campo del diritto, acquisì una raffinata perizia nell’arte del comporre – l’ars scribendi – e, grazie alla sua conoscenza dei grandi classici latini, diventò "uno dei migliori latinisti del suo tempo, uno dei più grandi scrittori del medioevo latino" (J. Leclercq, Pierre Damien, ermite et homme d’Église, Roma 1960, p. 172).
Si distinse nei generi letterari più diversi: dalle lettere ai sermoni, dalle agiografie alle preghiere, dai poemi agli epigrammi. La sua sensibilità per la bellezza lo portava alla contemplazione poetica del mondo. Pier Damiani concepiva l'universo come una inesauribile "parabola" e una distesa di simboli, da cui partire per interpretare la vita interiore e la realtà divina e soprannaturale. In questa prospettiva, intorno all’anno 1034, la contemplazione dell’assoluto di Dio lo spinse a staccarsi progressivamente dal mondo e dalle sue realtà effimere, per ritirarsi nel monastero di Fonte Avellana, fondato solo qualche decennio prima, ma già famoso per la sua austerità. Ad edificazione dei monaci egli scrisse la Vita del fondatore, san Romualdo di Ravenna, e s’impegnò al tempo stesso ad approfondirne la spiritualità, esponendo il suo ideale del monachesimo eremitico.
Un particolare va subito sottolineato: l’eremo di Fonte Avellana era dedicato alla Santa Croce, e la Croce sarà il mistero cristiano che più di tutti gli altri affascinerà Pier Damiani. "Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo", afferma (Sermo XVIII, 11, p. 117) e si qualifica come: "Petrus crucis Christi servorum famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo" (Ep, 9, 1). Alla Croce Pier Damiani rivolge bellissime orazioni, nelle quali rivela una visione di questo mistero che ha dimensioni cosmiche, perché abbraccia l'intera storia della salvezza: "O beata Croce – egli esclama - ti venerano, ti predicano e ti onorano la fede dei patriarchi, i vaticini dei profeti, il senato giudicante degli apostoli, l’esercito vittorioso dei martiri e le schiere di tutti i santi" (Sermo XLVIII, 14, p. 304). Cari fratelli e sorelle, l’esempio di san Pier Damiani spinga anche noi a guardare sempre alla Croce come al supremo atto di amore di Dio nei confronti dell’uomo, che ci ha donato la salvezza. Per lo svolgimento della vita eremitica, questo grande monaco redige una Regola in cui sottolinea fortemente il "rigore dell’eremo": nel silenzio del chiostro, il monaco è chiamato a trascorrere una vita di preghiera, diurna e notturna, con prolungati ed austeri digiuni; deve esercitarsi in una generosa carità fraterna e in un’obbedienza al priore sempre pronta e disponibile. Nello studio e nella meditazione quotidiana della Sacra Scrittura, Pier Damiani scopre i mistici significati della parola di Dio, trovando in essa nutrimento per la sua vita spirituale. In questo senso egli qualifica la cella dell’eremo come "parlatorio dove Dio conversa con gli uomini". La vita eremitica è per lui il vertice della vita cristiana, è "al culmine degli stati di vita", perché il monaco, ormai libero dai legami del mondo e del proprio io, riceve "la caparra dello Spirito Santo e la sua anima si unisce felice allo Sposo celeste" (Ep 18, 17; cfr Ep 28, 43 ss.). Questo risulta importante oggi pure per noi, anche se non siamo monaci: saper fare silenzio in noi per ascoltare la voce di Dio, cercare, per così dire un "parlatorio" dove Dio parla con noi: Apprendere la Parola di Dio nella preghiera e nella meditazione è la strada della vita.
San Pier Damiani, che sostanzialmente fu un uomo di preghiera, di meditazione, di contemplazione, fu anche un fine teologo: la sua riflessione sui diversi temi dottrinali lo porta a conclusioni importanti per la vita. Così, ad esempio, espone con chiarezza e vivacità la dottrina trinitaria utilizzando già, sulla scorta dei testi biblici e patristici, i tre termini fondamentali, che sono poi divenuti determinanti anche per la filosofia dell’Occidente, processio, relatio e persona (cfr Opusc. XXXVIII: PL CXLV, 633-642; e Opusc. II e III: ibid., 41ss e 58ss). Tuttavia, poiché l’analisi teologica del mistero lo conduce a contemplare la vita intima di Dio e il dialogo d’amore ineffabile tra le tre divine Persone, egli ne trae conclusioni ascetiche per la vita in comunità e per gli stessi rapporti tra cristiani latini e greci, divisi su questo tema. Pure la meditazione sulla figura di Cristo ha riflessi pratici significativi, essendo tutta la Scrittura centrata su di Lui. Lo stesso "popolo dei giudei, - annota san Pier Damiani - attraverso le pagine della Sacra Scrittura, ha come portato Cristo sulle spalle" (Sermo XLVI, 15). Cristo pertanto, egli aggiunge, deve essere al centro della vita del monaco: "Cristo sia udito nella nostra lingua, Cristo sia veduto nella nostra vita, sia percepito nel nostro cuore" (Sermo VIII, 5). L’intima unione con Cristo impegna non solo i monaci, ma tutti i battezzati. Troviamo qui un forte richiamo anche per noi a non lasciarci assorbire totalmente dalle attività, dai problemi e dalle preoccupazioni di ogni giorno, dimenticandoci che Gesù deve essere veramente al centro della nostra vita.
La comunione con Cristo crea unità d’amore tra i cristiani. Nella lettera 28, che è un geniale trattato di ecclesiologia, Pier Damiani sviluppa una profonda teologia della Chiesa come comunione. "La Chiesa di Cristo - egli scrive - è unita dal vincolo della carità a tal punto che, come è una in più membri, così è tutta intera misticamente nel singolo membro; cosicché l'intera Chiesa universale si denomina giustamente unica Sposa di Cristo al singolare, e ciascuna anima eletta, per il mistero sacramentale, viene considerata pienamente Chiesa". E’ importante questo: non solo che l’intera Chiesa universale sia unita, ma in ognuno di noi dovrebbe essere presente la Chiesa nella sua totalità. Così il servizio del singolo diventa "espressione dell’universalità" (Ep 28, 9-23). Tuttavia l’immagine ideale della "santa Chiesa" illustrata da Pier Damiani non corrisponde – lo sapeva bene - alla realtà del suo tempo. Per questo non teme di denunziare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero, a motivo, soprattutto, della prassi del conferimento, da parte delle Autorità laiche, dell’investitura degli uffici ecclesiastici: diversi vescovi e abati si comportavano da governatori dei propri sudditi più che da pastori d’anime. Non di rado la loro vita morale lasciava molto a desiderare. Per questo, con grande dolore e tristezza, nel 1057 Pier Damiani lascia il monastero e accetta, pur con difficoltà, la nomina a Cardinale Vescovo di Ostia, entrando così pienamente in collaborazione con i Papi nella non facile impresa della riforma della Chiesa. Ha visto che non era sufficiente contemplare e ha dovuto rinunciare alla bellezza della contemplazione per portare il proprio aiuto nell’opera di rinnovamento della Chiesa. Ha rinunciato così alla bellezza dell’eremo e con coraggio ha intrapreso numerosi viaggi e missioni.
Per il suo amore alla vita monastica, dieci anni dopo, nel 1067, ottiene il permesso di tornare a Fonte Avellana, rinunciando alla diocesi di Ostia. Ma la sospirata quiete dura poco: già due anni dopo viene inviato a Francoforte nel tentativo di evitare il divorzio di Enrico IV dalla moglie Berta; e di nuovo due anni dopo, nel 1071, va a Montecassino per la consacrazione della chiesa abbaziale e agli inizi del 1072 si reca a Ravenna per ristabilire la pace con l’Arcivescovo locale, che aveva appoggiato l'antipapa provocando l'interdetto sulla città. Durante il viaggio di ritorno al suo eremo, un’improvvisa malattia lo costringe a fermarsi a Faenza nel monastero benedettino di Santa Maria Vecchia fuori porta, e lì muore nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072.
Cari fratelli e sorelle, è una grande grazia che nella vita della Chiesa il Signore abbia suscitato una personalità così esuberante, ricca e complessa, come quella di san Pier Damiani e non è comune trovare opere di teologia e di spiritualità così acute e vive come quelle dell’eremita di Fonte Avellana. Fu monaco fino in fondo, con forme di austerità, che oggi potrebbero sembrarci persino eccessive. In tal modo, però, egli ha fatto della vita monastica una testimonianza eloquente del primato di Dio e un richiamo per tutti a camminare verso la santità, liberi da ogni compromesso col male. Egli si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa del suo tempo. Donò tutte le sue energie spirituali e fisiche a Cristo e alla Chiesa, restando però sempre, come amava definirsi, Petrus ultimus monachorum servus, Pietro, ultimo servo dei monaci.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, consiglieri ecclesiastici, dirigenti e rappresentanti tutti della Coldiretti, e vi incoraggio a proseguire con impegno il vostro servizio sociale e spirituale nel mondo dell’agricoltura. Le tematiche del vostro convegno vi siano di stimolo a riaffermare i principi etici nell’economia per rianimare la speranza con la solidarietà. Saluto gli esponenti dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro, come pure quelli dell’Associazione Invalidi Civili auspicando che nei confronti di questi nostri fratelli ci sia un’attenzione sempre più viva da parte della società e delle Istituzioni. Saluto con affetto i soci del Lyons Club Nardò ed assicuro per ciascuno e per le rispettive famiglie la mia fervida preghiera.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica della Natività della Beata Vergine Maria. Il Concilio Vaticano II dice che Maria ci precede nel cammino della fede perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45). Chiedo alla Vergine Santa il dono di una fede sempre più matura per voi giovani; una speranza sempre più salda per voi ammalati; un amore sempre più profondo e duraturo e per voi sposi novelli.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La legge del taglione e dintorni - Roberto Fontolan giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Occorre ammettere che la norma di comportamento sociale più praticata e che resiste inalterata da migliaia di anni, è la legge del taglione. Tu fai questo a me, io faccio altrettanto a te. Altro che la cristianissima “non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”, certamente entrata nel sistema dei valori indicati e predicati, ma ultimamente considerata un auspicio morale in realtà impraticabile, un sogno lontano dalla vita.
Negli anni recenti René Girard con i suoi monumentali studi sul capro espiatorio e la violenza rituale, ha dimostrato la verità attuale, concreta, sconvolgente dell’avvenimento cristiano, portatore di una novità letteralmente “incomparabile” (novità che ha storicamente inciso nella società e nelle relazioni umane) e documentato così la portata rivoluzionaria della Nuova Legge evangelica. Ma nella nostra epoca paganeggiante il Vangelo non fa parte dei libri di testo consigliati – tantomeno ne fanno parte le opere di Girard.
E così la legge del taglione è lo strumento più semplice, immediato, disponibile su larghissima scala. Chiunque lo può adottare, avendone pieno diritto, beninteso. È brandito a più non posso anche nell’attuale bagarre giornalistico-politica. Se quelli hanno frugato nelle camere da letto, ora frugheremo noi. Se quelli hanno distrutto persone, ora le distruggeremo noi. Sostituite il “noi” a “quelli” e il “quelli” al “noi” e avrete l’eterno ciclo di azione e reazione che accompagna la vicenda umana dai tempi dei tempi. Cui oggi si aggiunge il Grande Gioco dello Sputtanamento Incrociato: tu hai usato un’arma ignobile (poniamo: le intercettazioni telefoniche), ora tocca a me usare la stessa arma. Oppure: visto che non hai difeso Tizio non puoi difendere Caio. E d’altronde, e giustamente: perché difendi Caio visto che non hai difeso Tizio? O anche: se dici A in realtà vuoi dire B e io ti reputo colpevole non per quello che hai detto ma per quello che io so che in realtà intendevi dire. E così via. Gratta gratta la storia è sempre la stessa. Qualcuno, non importa chi, ha cominciato, ora bisogna ripagare con la stessa moneta, magari anche leggermente più pesante, in una spirale che finisce sempre al peggio, nell’illusione che la tua morte è la mia vita (ricordate “La guerra dei Roses?”). Nel mondo criminale si chiama faida, in quello civile non c’è il coraggio di chiamarla così, ma non è molto diverso. È la reciprocità al negativo, figlia del “cupio dissolvi” che incalza il nostro tempo.
Ma rispetto ad allora, rispetto ai tempi degli dèi indifferenti e delle guerre primordiali, sappiamo che nella legge del taglione c’è qualcosa che non convince, che non quadra, che provoca disagio. Abbiamo, sia pur vago e opaco, il senso di un’ingiustizia. Ce lo ritroviamo addosso, ereditato da secoli di educazione e testimonianza. Confusamente sappiamo che c’è una verità altra, forse più grande e più felice di quella che crediamo assicurata dalla Vecchia Legge, ma ci manca qualcosa per affermarla realmente.
Già, tu uccidi-io uccido può anche placare per un attimo l’istinto della restituzione del male, ma sappiamo (lo sappiamo: è un contenuto certo della nostra coscienza umana) che otterremo non giustizia ma macerie (ancora un film da citare: “Munich” di Spielberg). Da poco più di duemila anni il comportamento rituale e ancestrale galleggia su un’inquietudine prima ignota: il nemico è annientato, ma… cos’è dunque quella spina che non riusciamo a togliere? Quella frustrazione che oscura il momento dell’appagamento? Che nome ha lo smarrimento che ci coglie nell’istante stesso della vendetta compiuta?
CHIESA/ Don Carlo Gnocchi, alpino sulle vette della carità - Stefano Zurlo giovedì 10 settembre 2009 – ilsussidiario.net
Lo beatificheranno il 25 ottobre, ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima con i bisogni del corpo.
La storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso, ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini, osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà. O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.
Il resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito. L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione. Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati, spesso da famiglie poverissime, in istituto.
Lui li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con loro va in udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei ragazzi sarei anche più contento».
La vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno. Muore donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua morte una grande fioritura.
Ai suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.
Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.
Il filosofo e il Papa - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 10 settembre 2009
Prima della sua elezione il card. Ratzinger si è confrontato più volte con filosofi laici. Il più noto di questi dialoghi fu con Habermas, su ragione e fede. Al Meeting di Rimini il filosofo francese Rémi Brague - docente alla Sorbona e a Monaco, noto per il suo libro “Il futuro dell’occidente” Ed. Bompiani -, mi ha fatto pensare al dialogo prima citato tra il card. Ratzinger e Habermas. Brague sembra proseguire idealmente alcune riflessioni su ragione-fede e, mentre si addentra a parlare della sfida della conoscenza, fa eco al pensiero del Papa che richiama la necessaria interazione tra fede e ragione. La filosofia, a partire da Comte, ci ha convinti che dei fenomeni possiamo capire solo le leggi e non i fenomeni stessi in quanto di essi restano sconosciute le cause. La scienza moderna ci ha condannati a non capire i fenomeni e ci limita all’azione su di essi. Da qui, incalza Brague, il sopravvento della tecnologia e la teorizzazione di alcuni pensatori moderni dell’uomo gnostico “buttato come naufrago nel mondo indifferente”. Il paradosso della scienza moderna è che sta diventando sempre più esatta e sempre meno interessante, perché la ragione esige la totalità del reale e la scienza non risolve la questione. “A conciliare la conoscenza scientifica dell’universo e l’interesse vitale dell’uomo interviene la fede”. Con un esempio spiega che la fede non dice come è fatto il creato, lascia liberi di costruire modelli di intellegibilità, ma dice qualcosa di più importante: che la realtà è intellegibile. Questa visione è slancio per l’avventura della conoscenza, fiducia nelle umane facoltà. Ci vuole la metafisica, non l’etica, ha concluso, e in questo la Chiesa ci aiuta. Benedetto XVI nell’incontro con la cittadinanza a Bagnoregio, ha parlato del servizio che i teologi sono chiamati a rendere a quella fede che cerca l’intelletto, quella fede che è “amica dell’intelligenza”. Presentando S. Bonaventura come un instancabile cercatore di Dio, un amante della sapienza e un cantore del creato sulle orme di S. Francesco, ha riproposto in breve aspetti del pensiero del santo. È necessario che la mente si elevi in alto perché Dio è in alto. Tutta la persona è coinvolto in questo itinerario della mente in Dio e “la fede è perfezionamento delle nostre capacità conoscitive e partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso e del mondo”. È l’esperienza della conoscenza come avvenimento e la fede la scopre nel suo vertice che è l’incontro con Cristo. Tanto da far dire al Papa che i nostri contemporanei, quando s’incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun’altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto.
Arrestate 150 persone per aver interrotto in pubblico il digiuno durante il ramadan - I cristiani in Egitto per la libertà religiosa – L’Osservatore Romano, 10 settembre 2009
Il Cairo, 9. Almeno centocinquanta persone sono state arrestate dalla Polizia in Egitto per aver interrotto in pubblico il digiuno che caratterizza il ramadan, mese sacro ai musulmani. A denunciarlo è il direttore di un movimento liberale cristiano del Paese, Samwel Alashay, copto, il quale ha riferito all'agenzia spagnola Efe che la campagna di arresti, la prima di questo tipo in Egitto e riguardante anche la minoranza cristiana che non digiuna durante il ramadan, "è incostituzionale, poiché le leggi egiziane garantiscono la totale libertà". Secondo quanto riferiscono il movimento e alcune locali organizzazioni per i diritti umani, i provvedimenti sono stati eseguiti nei governatorati di Aswân, Daqahlîya, Mar Rosso e Porto Said, mentre i fermati stavano mangiando o fumando per strada durante le ore diurne. Alcuni arrestati sono stati liberati grazie al pagamento di una cauzione di cinquecento lire egiziane (circa cento dollari).
Il movimento liberale cristiano ha inviato una lettera al ministero dell'Interno nella quale chiede di interrogare e di giudicare gli ufficiali della Polizia responsabili di questa campagna. "Il fatto che alti responsabili della Polizia compiano questi arresti - ha detto Alashay - è un segnale grave per i musulmani in generale e per i cristiani nel concreto, perché trasforma il Paese in uno Stato di tipo talebano e wahabbita", con una rigida interpretazione della religione islamica.
In Egitto la maggioranza è musulmana sunnita (quasi il 90 per cento della popolazione). Il restante 10 per cento è costituito in gran parte da cristiani, soprattutto copti ortodossi. Una minoranza che si sente minacciata, discriminata, non sufficientemente tutelata. Per questo il movimento guidato da Alashay e altre associazioni copte hanno indetto, per venerdì 11 settembre, uno "sciopero dei cristiani" per rivendicare i propri diritti e per chiedere una legge che faciliti la costruzione di chiese in Egitto. La questione è stata argomento, nei giorni scorsi, di una fatwa emanata dal Consiglio islamico dell'Egitto. Il decreto - secondo quanto riferisce l'Assyrian international news agency - sostiene che "l'intenzione da parte di un musulmano di donare soldi per costruire una chiesa è un peccato contro Dio", paragonabile a quello che si commette finanziando un night club, una casa da gioco o "una stalla dove tenere maiali, gatti o cani". La fatwa ha provocato polemiche, tanto che il gran muftì Ali Gomaa e il ministro della Giustizia hanno avviato un'indagine sui saggi che l'hanno emessa. Anche lo sceicco Al-Azhar Mohammed Sayed Tantawi l'ha criticata sostenendo che i musulmani possono donare soldi per costruire chiese e che deve essere favorita la libertà di culto.
Secondo Samwel Alashay, la campagna di arresti durante il ramadan è una risposta alla convocazione dello sciopero. Le associazioni che sostengono la manifestazione hanno chiesto ai cristiani di rimanere venerdì nelle loro case e di vestirsi di nero. Finora - riferisce la Efe - almeno tremila cristiani hanno assicurato, attraverso Facebook, la loro partecipazione e, giorno dopo giorno, cresce il numero dei copti che danno la propria adesione.
Va detto, tuttavia, che un portavoce della comunità copto ortodossa in Egitto ha dichiarato - sempre all'agenzia spagnola - che "la Chiesa non ha nulla a che vedere con lo sciopero" e che "la Chiesa utilizza il dialogo per risolvere qualsiasi problema. Gli scioperi non servono a niente".
L'ondata di arresti è stata commentata negativamente anche dai non cristiani. "È orribile che stia accadendo questo - ha dichiarato uno dei fermati, membro della Fratellanza musulmana - e non possiamo restare fermi e consentire che ciò continui. Vogliamo vivere in una società libera, la religione non è obbligatoria e così deve continuare a essere". Anche il direttore dell'Arabic network for human rights information, Gamal Eid, ha criticato gli arresti definendoli "illegali" e ha definito la "campagna" lanciata dal ministro dell'Interno "una manovra del Governo per compiacere gli islamici, in modo da guadagnare terreno" presso di loro. "Non esiste alcuna esplicita norma di legge - ha aggiunto il presidente della Fondazione per lo sviluppo della democrazia egiziana, Negad Al Borai - che autorizzi l'arresto delle persone che interrompono il digiuno durante il ramadan".
Il ministro dell'Interno, Habib el Adli, non ha confermato né smentito la notizia. Ma una fonte della sicurezza egiziana ha riferito che la campagna potrebbe essere stata lanciata per mantenere l'ordine e far diminuire i crimini durante il mese sacro ai musulmani.
(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2009)
ORMAI 49 I SUICIDI IN CARCERE - COME IN UNA TRAGICA DISCARICA D’UMANITÀ - MARINA C ORRADI – Avvenire, 10 settembre 2009
L’ ultimo è un ambulante senegalese di 32 anni, sposato e padre di un bambino. Accusato di violenza sessuale, giurava di essere innocente. Si è ammazzato nel carcere di Teramo, aspirando il gas della bomboletta dei fornelli. Il penultimo era un tunisino, morto dopo quaranta giorni di sciopero della fame e della sete, a Pavia. Un altro, uno fra i tanti, era italiano, finito dentro per droga, in attesa di trattamento psichiatrico. La notte del 12 agosto s’è impiccato nella sua cella, a San Vittore, nel cuore della Milano deserta per ferie. Si chiamava Luca, aveva 28 anni.
Le notizie dei suicidi in carcere prendono poche righe sui giornali, quasi fossero un fatto ineluttabile.
Però l’ambulante africano di Teramo è il quarantanovesimo suicida, quest’anno, nelle prigioni italiane. Il dato è del sito di informazione carceraria 'ristretti. it', che di ognuno ricostruisce nome e storia. Che riporta le testimonianze di carcerati in vari istituti italiani. E fra queste righe la cifra di oggi, 64 mila reclusi in Italia, record dal dopoguerra, acquista uno spessore drammaticamente concreto: «Tre persone si ritrovano a dividere in undici metri quadri, nei quali sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno: ecco che lo spazio calpestabile fa incarognire tutti, riducendoli al pari di animali rinchiusi in gabbia», scrive uno. «Nel mio letto a castello a Venezia avevo imparato a isolarmi dalle altre otto, nove, dieci compagne di cella: cuffie con la musica nelle orecchie per leggere, tappi di cera e maschera sugli occhi per dormire», racconta un’altra. Cronache di una invivibilità che aumenta, di nervi sfatti, di pensieri disperati che una notte dopo l’altra acquistano consistenza, diventano progetti, e poi realtà.
E quei 49 suicidi ad oggi, con questo stesso ritmo, si potrebbero fare 70 alla fine dell’anno. Con una incidenza superiore di 21 volte a quella della popolazione italiana. Con una relazione, rintracciabile nei numeri, fra l’aumento periodico dei suicidi e quel sovraffollamento, quel ritrovarsi quasi a calpestarsi l’un l’altro, senza un minuto di silenzio e di pace. («Stiamo ammassati come in una discarica», scrive un altro). E allora le storie di questi quarantanove non sono più private tragedie, ma diventano come un grido che sale dalle mura alte e cieche attorno alle carceri. Come se, passata quella porta, ci fosse un altro mondo; dove formalmente si è uomini, titolari di tutti i diritti proclamati e benedetti dalle Carte della democrazia occidentale; ma, in realtà, non si è più uomini proprio come gli altri. Dove un ragazzo che ha bisogno di cure psichiatriche, lasciato solo, si impicca; dove uno straniero, per gridare la sua innocenza, si lascia morire di fame e sete. Quale altro mondo c’è, dietro quei portoni blindati e sorvegliati? Le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione, dice la Costituzione. Ma come si rieduca, fra uomini stretti come in gabbia, avviliti da quella promiscuità in cui il senso di sé, assediato, vacilla? Come si spera, nei raggi fatiscenti e strapieni di san Vittore?
Dal Veneto un detenuto racconta on-line che la sua cella pullula di scarafaggi. Lui una notte ne mette in fuga una famiglia, e ne fa prigioniero uno. Lo chiude in un bicchiere; si fa, di quell’insetto, secondino. Ma, poi, comincia a parlargli. Il miserabile prigioniero infine gli fa pena, e lo libera. Breve storia di sapore kafkiano in un carcere italiano. Per chi la legge, un pugno nello stomaco. Uomini o no, in quelle celle? Uomini, sempre. Ma è come se tra quelle mura proprio questa certezza radicale venisse ad essere incrinata.
«Da femminista dico che la Ru486 è devastante» - di Francesco Ognibene – Avvenire, 10 settembre 2009
Il no alla Ru486 è un’esclusiva dei cattolici? È quello che si sente dire dopo l’adozione – condizionata – da parte dell’Aifa della pillola abortiva anche in Italia, il 31 luglio. Sarebbe, insomma, un’ostinazione su base confessionale. Peccato che non sia così.
A confermarlo – se ce ne fosse bisogno, e purtroppo è così – è l’autorevole voce di Renate Klein, combattiva femminista australiana, su posizioni certo non 'cattoliche', che nel suo Paese ha guidato la tenace 'resistenza' all’introduzione della Ru486, vinta solo da un voto parlamentare. Con Avvenire si dice «addolorata» dalla notizia del via libera dell’Aifa. E spiega le sue ragioni.
In Italia si sente spesso dire che quello con la Ru486 è il modo migliore di abortire. È così?
«No, al contrario. L’assunzione della pillola Ru486, seguìta da quella della prostaglandina (che fa espellere il feto abortito, ndr ) scarica ogni rischio e ogni responsabilità sulla donna».
Può spiegare in che modo?
«Sarò cruda: una donna si può trovare su un autobus o al lavoro mentre iniziano i conati di vomito, le scariche di diarrea e le contrazioni che seguono l’assunzione del farmaco. Si può arrivare a perdere anche molto sangue. La donna può continuare a sanguinare per giorni, se non settimane, e non sapere con certezza se il figlio che ha dentro di lei è stato abortito o continua a vivere.
Nell’ipotesi peggiore per avere questa certezza deve vedere lo stesso figlio espulso nel water: un’esperienza scioccante. Immaginarsi quale senso di colpa la segnerà per tutta la vita dopo questo tipo di aborto».
E gli effetti psicologici?
«Sono devastanti. E hanno una portata spaventosamente lunga. Quando sanguini per sei settimane, e hai bisogno di un intervento di raschiamento perché tuo figlio è ancora nel tuo grembo, l’esperienza dell’aborto diventa indimenticabile. Ti segna per sempre, come donna, soprattutto se in realtà un bambino lo avevi desiderato, e lo desideri ancora per il futuro. Ma l’aborto è stata una scelta dovuta ad altre circostanze, come alla mancanza di risorse economiche o al rifiuto del padre. Nel caso dell’aborto chirurgico – un intervento fatto in anestesia che dura poco più di mezz’ora – una donna può invece ricominciare a pensare alla propria vita, anche di madre. E qualora sorgessero complicazioni, la donna è comunque ricoverata, sotto l’occhio attento e costante dei medici. Cosa fare, invece, nel caso abbia un’emorragia il sabato sera, magari in un piccolo paese di campagna, con un presidio sanitario lontano chilometri? Rischia la vita! E poi c’è il funzionamento delle pillola: al bambino essa toglie ogni forma di nutrimento. La donna sa che sta facendo morire di fame e di sete la creatura che porta in grembo. E questo non ha nulla a che vedere col diritto di scegliere l’aborto o meno: qui si tratta di una madre che sente il proprio figlio, e che lo uccide».
Eppure i media italiani vanno ripetendo da mesi che è giusto lasciare alle donne la possibilità di scegliere come abortire, che la legge deve rispettare questa decisione. Lei cosa ne pensa?
«La questione della libertà di scelta per le donne è spinosa. Io, per esempio, condivido che le donne abbiano diritto ad accedere a un aborto sicuro e legale, dopo un’appropriata consulenza psicologica, qualora non vogliano mettere al mondo un figlio per ragioni valide: un padre violento, la mancanza di risorse economiche, la minaccia per il proprio lavoro o per la propria formazione. Ma, lo sottolineo, è importante che la donna sia informata correttamente su cosa significhi abortire.
Il messaggio banalizzato 'è davvero facile, prendi la pillola, e bingo!, non sarai più incinta' è pericolosissimo».
Perché le femministe hanno in genere una buona opinione della pillola abortiva? Lei, che è una voce storica del movimento, è contraria...
«La seconda ondata del movimento femminista si trovò concorde, in tutti i Paesi occidentali, sulla depenalizzazione dell’aborto. Quello che fu dimenticato, e continua a esserlo, è che una donna dovrebbe avere anche il diritto di continuare una gravidanza e di avere supporto e risorse adeguate per farlo.
Negli anni ’70, quando in molti Paesi si cominciò a legalizzare l’aborto, le donne furono spesso forzate a rifiutare le gravidanze: mai epilogo di una battaglia per i diritti fu più sbagliato. E visto che è stato così difficile conquistare quella legge, oggi accade che molte femministe non siano preparate a criticare la tendenza ormai diffusa a normalizzare l’aborto. Si finisce col dire alle giovani donne che abortire è normale, non è un grande problema. Ecco perché quando la Ru486 fu inventata in Francia, nel 1988, e io pubblicai il libro Ru486 Misconceptions Myths and Morals insieme a Janice Raymond and Lynette Dumble, nel 1991, fummo viste come delle traditrici degli ideali del femminismo.
Questa divisione continua. Eppure io sono convinta che noi siamo chiamati a giudicare ogni trattamento medico per i suoi meriti o per le sue lacune. E l’aborto chimico è molto più pericoloso di quello chirurgico».
La decisione di commercializzare la Ru486 ha solo a che fare con ragioni 'tecniche'?
«Nient’affatto. Ha anzi radici e ricadute culturali fortissime. A causa dell’assunto errato secondo cui prendere una pillola per abortire è più facile e naturale di un intervento chirurgico, le donne (soprattutto quelle giovani) tendono a essere meno attente alla prevenzione della gravidanza. Per non parlare dei partner: che importa se la loro compagna rimane incinta, basta una pillola e il 'problema' è risolto. È questa mentalità che favorisce la diffusione della Ru486, e che la Ru486 potrebbe rendere dilagante. Aumentando il numero di aborti».
In Australia com’è regolamentato l’uso della Ru486?
Si tratta di un impiego ancora molto ristretto: i medici che la usano devono chiedere un permesso speciale alle autorità sanitarie, e comunque può essere assunta solo da quelle donne che per ragioni di salute non possono sottoporsi all’intervento chirurgico.
Nessuna casa farmaceutica, peraltro, ha mai chiesto di commercializzare la Ru486 in Australia, anche per una questione di costi, troppo alti».
Queste regole vengono rispettate?
«Non sempre. Una delle condizioni cliniche necessarie per ottenere il permesso di utilizzare la Ru486, infatti, è quello di soffrire di una 'grave forma di depressione'. Il che, a mio avviso, è del tutto incomprensibile. Anche perché la diagnosi di tale stato psicologico è tutto fuorché oggettiva (come misurare una depressione, esiste un test?) e si tratta di decisioni mediche, su cui viene mantenuto riserbo. È il caso della più nota vittima australiana della Ru486, Mary Stopes: le fu consentito l’uso della Ru486 proprio per il suo presunto stato depressivo acuto. Un altro fenomeno che stiamo registrando in Australia è quello degli aborti con la Ru486 acquistata all’estero».
L’Agenzia italiana del farmaco ha stabilito che la donna debba rimanere in ospedale finché l’aborto non si è concluso, ma sappiamo che se lo desidera e chiede di tornare a casa non si può fare nulla per impedirglielo. Cosa fare per evitare che questo accada?
«La questione è semplice: è facile per i medici dispensare la ricetta per un farmaco. Più facile che avere a che fare con un intervento chirurgico. Se qualcosa va storto, c’è già una giustificazione: forse quella paziente ha assunto alcol, forse ha fumato. La Ru486, in questo senso, li solleva da ogni responsabilità. Io credo invece che i medici dovrebbero informare le donne sulla realtà dei fatti, dicendo loro quali sono i rischi a cui vanno incontro, spiegando quali sono i possibili eventi avversi».
In Italia si sente dire che la battaglia per introdurre la Ru486 nel nostro Paese è anche una battaglia per la laicità. Cosa pensa di questo assunto?
«Anche in Australia la Chiesa ha preso una posizione dura contro questo tipo di aborto. Personalmente non sono d’accordo con l’idea che la Ru486 abbia a che fare con la laicità di uno Stato. La Ru486 è semplicemente un modo per abortire, un cattivo modo direi, e ciò che più conta è pericoloso per le donne. E comodo per i medici, sollevati da ogni responsabilità rispetto alle proprie pazienti».
(ha collaborato Viviana Daloiso)
Parla la leader del movimento che in Australia si oppose alla Ru486, voce storica del femminismo internazionale: «È solo un cattivo modo per abortire, pericoloso per le donne e comodo per i medici, sollevati da ogni responsabilità rispetto alle proprie pazienti»
Renate Klein
È ricercatrice e saggista, autrice di studi sulle tecnologie riproduttive e sul femminismo. Biologa e sociologa, è stata docente di Studi sulla donna alla Deakin University di Melbourne. Ha fondato «Finrrage» (Network internazionale femminista di resistenza all’ingegneria riproduttiva e genetica»: www.finrrage.org).
Ricerche: Stati vegetativi, sbagliato il 40% delle diagnosi - di Gian Luigi Gigli – Avvenire, 10 settembre 2009
L’«Economist» ha rilanciato uno studio belga che dimostra come la presenza di 'coscienza minima' nei pazienti sia sistematicamente sottostimata Eppure da anni esiste una scala di valutazione che permetterebbe di evitare gli errori
« Sfortunatamente per alcuni » : così, il 23 luglio, The Economist titolava un interessante articolo sullo stato vegetativo. Non si riferiva, tuttavia, alla gravità della disabilità che connota – ovviamente – questa condizione clinica, ma al fatto ancor più terribile che molti di questi pazienti siano stati lasciati morire sulla base di un errore diagnostico. L’articolo dell’Economist riprendeva con grande risalto i risultati di uno studio belga pubblicato sulla rivista scientifica BMC Neurology solo due giorni prima. Si trattava per la verità di risultati già noti agli addetti ai lavori e comunicati dagli autori poche settimane prima a Milano, nel corso del Congresso della European Neurological Society.
Proprio Avvenire ne aveva dato conto in un’intervista a Steven Laureys, uno degli autori del gruppo di Liegi. La grande stampa italiana non ne ha fatto ( ancora) menzione.
Distinguere tra i diversi stati di compromissione della coscienza è sempre stato difficile. Nel 1996 Keith Andrews riportò che, nei pazienti ricoverati al Royal Hospital for Neurodisability di Londra, il 40 % delle diagnosi di stato vegetativo erano errate.
Il dato allarmante fu confermato da altri studi.
Andava in quegli anni precisandosi la categoria dello stato di minima coscienza, codificata internazionalmente solo nel 2002 dal gruppo di Aspen. Si tratta di pazienti che, emersi dallo stato vegetativo, mostrano segni di coscienza, sebbene fluttuanti e incostanti.
Negli anni successivi Joseph Giacino, l’animatore dell’Aspen Group, mise a punto una scala di valutazione standardizzata in grado di distinguere i pazienti in stato vegetativo da quelli in stato di minima coscienza e di identificare quelli che erano ormai emersi anche dallo stato di minima coscienza in cui prima si trovavano. Purtroppo, la Coma Recovery Scale- Revised ( CRS- R), a distanza di cinque anni dalla sua pubblicazione, non è ancora utilizzata routinariamente.
Gli studiosi di Liegi, dunque, hanno dimostrato che il mancato uso di questi accurati metodi di valutazioni causa il persistere di una forte percentuale di errori diagnostici anche in centri specializzati.
L’indagine, che ha coinvolto 103 pazienti, è stata infatti condotta nei centri che fanno parte della rete belga per l’assistenza ai pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza, utilizzando rigorosi criteri di inclusione ed esclusione e fondandosi su osservazioni comportamentali quotidiane condotte da un team multidisciplinare di esperti.
Il confronto tra la diagnosi clinica, formulata in modo consensuale, e la valutazione mediante la CRS- R ha mostrato che il 40% dei pazienti ritenuti in stato vegetativo erano in realtà in stato di minima coscienza e che il 10% dei pazienti ritenuti in stato di minima coscienza erano in realtà emersi da quella condizione ed erano ormai capaci di comunicare, anche se i loro medici non se ne erano accorti.
A tali dati allarmanti ci permettiamo solo di aggiungere che, probabilmente, il tasso di errore diagnostico sarebbe stato ancora più elevato se si fossero usate anche le indagini di risonanza magnetica funzionale, di PET e di neurofisiologia che hanno mostrano la possibilità del persistere di una comunicazione residua anche in pazienti in cui essa non è clinicamente evidenziabile.
È certamente più facile fare una diagnosi basandosi sul proprio convincimento clinico piuttosto che sulle misurazioni standardizzate richieste da una scala di valutazione. Le convinzioni possono tuttavia essere fuorvianti, specie se influenzate dall’ideologia o dalle influenze esterne. Le compagnie assicurative, per esempio, possono preferire una diagnosi di stato vegetativo, perché non richiede il perpetuarsi delle spese per la riabilitazione. Ma anche in Paesi come il nostro l’intensità e la durata dell’intervento riabilitativo può dipendere dalla diagnosi.
Soprattutto, la ' piccola' differenza tra una diagnosi di stato vegetativo e una di stato di minima coscienza può significare lo spartiacque per l’autorizzazione a lasciar morire una persona di fame e di sete, non solo all’estero. Quando si emette una sentenza di morte sarebbe bene non avere paura del dubbio. Purtroppo di tutto quanto si è mosso nel mondo scientifico negli ultimi 15 anni non vi è traccia nel decreto della Corte d’Appello di Milano con cui si è autorizzata la sospensione di idratazione e nutrizione in Eluana. Il dubbio purtroppo non alberga neanche nella stampa laica, almeno in Italia, e i giudici, si sa, non sono tenuti a leggere The Economist.
Malati terminali senza cibo: Londra si divide - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 10 settembre 2009
La settimana scorsa un gruppo di medici esperti in cure palliative ha condannato la pratica in molti ospedali del Regno Unito di usare il cosiddetto ' Liverpool Care Pathway' ( Lcp), un metodo che include l’interruzione di alimentazione e idratazione ai malati in fin di vita.
Mentre il Paese dibatte animatamente sulla possibilità di sollevare da accuse di crimine chi aiuta una persona a suicidarsi e l’opinione pubblica, fomentata dalla stampa, si spacca sulla possibilità di una legalizzazione del suicidio assistito, scriveva qualche giorno fa Gerald Warner, noto autore britannico ed esperto di politica, storia e religione: « Non è strano che l’introduzione di questo metodo, il Lcp, sia stata appena menzionata da stampa e televisione, senza filmati o interviste, in netto contrasto con la copertura che ha avuto negli ultimi mesi una vera e propria ' crociata' della lobby a favore del cosiddetto ' diritto alla morte'. Non è dunque difficile capire da che parte stia la stampa. Passo dopo passo lo Stato sta controllando non solo come viviamo la nostra vita, ma anche come questa finisce. Gli Stati Uniti d’America si sono ribellati contro i così chiamati ' death panels' di Obama, ma è difficile che la Gran Bretagna farà lo stesso » . Un richiamo alle coscienze su una notizia choc che ha lasciato a bocca aperta il mondo intero.
La pratica introdotta dal sistema sanitario nazionale qualche anno fa è stata studiata, ha dichiarato un portavoce della Sanità, ' per alleviare le sofferenze del malato terminale'. Nel 2004 il modello è stato raccomandato dal National Institute for Health and Clinical Exellence ( Nice) e oggi viene adottato in oltre 300 ospedali, 130 ospizi e 560 case di riposo. Le direttive introdotte attraverso l’Lcp permettono ai medici di togliere ai malati terminali liquidi e medicine e lasciarli sotto sedativi fino alla morte. Un sistema che, hanno accusato i medici che si sono ribellati, non tiene conto se nel frattempo ci sono stati dei miglioramenti nel paziente. Prevedere la morte, spiega il professor Peter Millard, esperto in cure palliative, « è una scienza non esatta. Mi è capitato spesso di avere in cura pazienti dichiarati in fin di vita che poi si sono ripresi. Togliendogli liquidi e solidi e sedarli equivale a condannarli a morte » .
Secondo uno studio pubblicato recentemente dalla Barts and the London School of Medicine and Dentistry, nel 2007 e nel 2008 il 16,5% delle morti nel Regno Unito sono state causate da forti e costanti dosi di sedativi, il doppio di quelle usate in Belgio e in Olanda. La legge in Gran Bretagna sostiene che una persona che ne aiuta un’altra a morire rischia fino a 14 anni di reclusione, anche quando questa accompagna un familiare a recarsi all’estero per morire. E proprio questa legge è stata sfidata in più di un’occasione da alcuni malati terminali che vorrebbero recarsi in Svizzera a morire alla clinica Dignitas, accompagnati da uno dei loro cari, senza che essi siano incriminati. Solo poche settimane fa Debbie Purdy, una malata di sclerosi multipla, ha vinto una battaglia che dura da un anno e che ora le permetterà di conoscere il destino del marito quando questo andrà con lei in Svizzera. Questo non significa però che avrà la certezza che il marito non sarà incriminato. Fino a oggi nessuno dei familiari che sono andati alla clinica Dignitas hanno subito un processo ma la legge, sostengono in molti, su questo punto non è chiara.
Stupisce dunque ancora di più il fatto che il governo, sostenitore di un non cambiamento del Suicide Act ( che criminalizza il suicidio assistito) abbia approvato le direttive contenute nel Liverpool Care Pathway e che di questo si stata fatta molta poca pubblicità. « Dopo aver letto la lettera dei medici al Telegraph – spiega John Camilleri – ho capito di cosa è morta mia madre, non di tumore ma di Lcp. All’inizio i medici mi avevano detto che aveva ancora sei mesi di vita ma dopo essere stata messa sotto lo schema del Lcp se ne è andata in tre mesi senza nemmeno avere la possibilità di darci l’addio. Così il sistema nazionale si è portato via mia madre prima che fosse pronta e questo non potrò mai perdonarlo » .
Dopo la notizia choc della settimana scorsa sul protocollo di morte adottato in molti ospedali inglesi, l’opinione pubblica e le autorità si interrogano