Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: “la sapienza non ha bisogno di imporsi con la forza” - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
2) Sorpresa: la pena di morte piace a Bruxelles - Un autentico minestrone di codicilli, nel quale norme in antitesi tra loro convivono in un gaudioso “acciaccapesta” giuridico….
3) A Genova un convegno sull'enciclica «Caritas in veritate» - Il primo e principale fattore di sviluppo - La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico - testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All'incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l'economista Ettore Gotti Tedeschi. – L’Osservatore Romano, 20 settembre 2009
4) AFGHANISTAN/ Il metodo Italia - Mario Mauro lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
5) SOCIETA’/ Scola: la gratuità, quella rivoluzione che vince lo Stato padrone - Angelo Scola lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Benedetto XVI: “la sapienza non ha bisogno di imporsi con la forza” - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 20 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI questa domenica, in occasione dell'Angelus, rivolgendosi ai pellegrini riuniti nel cortile interno del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo.
* * *
Carissimi fratelli e sorelle!
Quest’oggi, per la consueta riflessione domenicale, prendo spunto dal passo della Lettera di Giacomo che ci viene proposto nell’odierna Liturgia (3,16-4,3), e mi soffermo, in particolare, su una espressione che colpisce per la sua bellezza e per la sua attualità. Si tratta della descrizione della vera sapienza, che l’Apostolo contrappone alla falsa. Mentre quest’ultima è "terrestre, materiale e diabolica", e si riconosce dal fatto che provoca gelosie, contese, disordini e ogni sorta di cattive azioni (cfr 3,16), al contrario, "la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera" (3,17). Un elenco di sette qualità, secondo l’uso biblico, da cui risaltano la perfezione dell’autentica sapienza e gli effetti positivi che essa produce. Come prima e principale qualità, posta quasi a premessa delle altre, san Giacomo cita la "purezza", cioè la santità, il riflesso trasparente – per così dire – di Dio nell’animo umano. E come Dio dal quale proviene, la sapienza non ha bisogno di imporsi con la forza, perché detiene il vigore invincibile della verità e dell’amore, che si afferma da sé. Perciò è pacifica, mite e arrendevole; non usa parzialità, né tanto meno ricorre a bugie; è indulgente e generosa, si riconosce dai frutti di bene che suscita in abbondanza.
Perché non fermarsi a contemplare ogni tanto la bellezza di questa sapienza? Perché non attingere dalla fonte incontaminata dell’amore di Dio la sapienza del cuore, che ci disintossica dalle scorie della menzogna e dell’egoismo? Questo vale per tutti, ma, in primo luogo, per chi è chiamato ad essere promotore e "tessitore" di pace nelle comunità religiose e civili, nei rapporti sociali e politici e nelle relazioni internazionali. Ai nostri giorni, forse anche per certe dinamiche proprie delle società di massa, si constata non di rado un carente rispetto della verità e della parola data, insieme ad una diffusa tendenza all’aggressività, all’odio e alla vendetta. "Per coloro che fanno opera di pace – scrive san Giacomo – viene seminato nella pace un frutto di giustizia" (Gc 3,18). Ma per fare opere di pace bisogna essere uomini di pace, mettendosi alla scuola della "sapienza che viene dall’alto", per assimilarne le qualità e produrne gli effetti. Se ciascuno, nel proprio ambiente, riuscisse a rigettare la menzogna e la violenza nelle intenzioni, nelle parole e nelle azioni, coltivando con cura sentimenti di rispetto, di comprensione e di stima verso gli altri, forse non risolverebbe tutti i problemi della vita quotidiana, ma potrebbe affrontarli più serenamente ed efficacemente.
Cari amici, ancora una volta la Sacra Scrittura ci ha condotto a riflettere su aspetti morali dell’umana esistenza, ma a partire da una realtà che precede la stessa morale, cioè dalla vera sapienza. Domandiamo a Dio con fiducia la sapienza del cuore, per intercessione di Colei che ha accolto in grembo e generato la Sapienza incarnata, Gesù Cristo, nostro Signore. Maria, Sede della Sapienza, prega per noi!
[DOPO L’ANGELUS]
Per le numerose situazioni di conflitto che esistono nel mondo, ci giungono, quasi quotidianamente, tragiche notizie di vittime sia tra i militari che tra i civili. Sono fatti a cui mai possiamo abituarci e che suscitano profonda riprovazione, nonché sconcerto nelle società che hanno a cuore il bene della pace e della civile convivenza. In questi giorni, la notizia del gravissimo attentato in Afghanistan ad alcuni militari italiani mi ha provocato profondo dolore. Mi unisco con la preghiera alla sofferenza dei familiari e delle comunità civili e militari e, al tempo stesso, penso con eguali sentimenti di partecipazione agli altri contingenti internazionali, che anche di recente hanno avuto vittime e che operano per promuovere la pace e lo sviluppo delle istituzioni, così necessarie alla coesistenza umana; a tutti assicuro il mio ricordo davanti al Signore, con un particolare pensiero alle care popolazioni civili, e per tutti invito ad elevare a Dio la nostra preghiera. Desidero qui anche rinnovare il mio incoraggiamento alla promozione della solidarietà tra le Nazioni per contrastare la logica della violenza e della morte, favorire la giustizia, la riconciliazione, la pace e sostenere lo sviluppo dei popoli partendo dall’amore e dalla comprensione reciproca, come ho scritto recentemente nella mia Enciclica Caritas in veritate (n. 72).
Da sabato prossimo, 26 settembre, a lunedì 28, a Dio piacendo, compirò un viaggio apostolico nella Repubblica Ceca. Sosterò nella capitale Praga, ma mi recherò anche a Brno, in Moravia, e a Stará Boleslav, luogo del martirio di san Venceslao, patrono principale della Nazione. La Repubblica Ceca si trova geograficamente e storicamente nel cuore dell’Europa, e dopo essere passata attraverso i drammi del secolo scorso, ha bisogno, come l’intero Continente, di ritrovare le ragioni della fede e della speranza. Sulle orme del mio amato predecessore Giovanni Paolo II, che visitò quel Paese per ben tre volte, anch’io renderò omaggio agli eroici testimoni del Vangelo, antichi e recenti, e incoraggerò tutti ad andare avanti nella carità e nella verità. Ringrazio fin d’ora quanti mi accompagneranno con la preghiera in questo viaggio, perché il Signore lo benedica e lo renda fruttuoso.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Infine, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare due scolaresche di Castel Gandolfo: la Scuola Pontificia Paolo VI e la Scuola Maestre Pie Filippini. Saluto inoltre il gruppo dell’UNITALSI di Martina Franca e i partecipanti all’Ecorally di San Marino. Domenica prossima, come dicevo, sarò nella Repubblica Ceca, e nella settimana seguente rientrerò in Vaticano; perciò rivolgo il mio più cordiale "arrivederci" alla comunità di Castel Gandolfo, che sempre ricordo nella preghiera. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Sorpresa: la pena di morte piace a Bruxelles - Un autentico minestrone di codicilli, nel quale norme in antitesi tra loro convivono in un gaudioso “acciaccapesta” giuridico….
Straordinario il trattato di Lisbona!
Un autentico minestrone di codicilli, nel quale norme in antitesi tra loro convivono in un gaudioso “acciaccapesta” giuridico….
Mandato avanti dagli autocrati europoidi (un po’ all’italiana, con calcetti e spintarelle), che si sono fatti beffe delle solenni bocciature costituzionali francese ed olandese. I boiardi europeisti hanno allegramente maramaldeggiato sotto il naso degli irlandesi che, lo scorso anno, avevano assestato un bel ceffone a Barroso and Company.
Il Trattato, mira ad estendere considerevolmente il potere dei 27 commissari dell'Unione europea, convogliandolo quindi su una figura presidenziale dotata di un forte potere, riducendo (di concerto) quello delle vetustà nazionali degli Stati membri. Un qualcosa che, guarda un po’, ricorda vagamente il “mostro” dell'ex-Unione Sovietica. Dove le varie repubbliche persero importanza e rinunciarono alle proprie autonomie per il bene dell'impero.
Ed il biscotto, preparato a tale scopo, è raffinato. Ma mortale.
Vengo al dunque.
L’articolo 2 del Trattato recita così: “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze …”
Sacrosanto, direste voi.
Peccato che il Trattato venga (in caratteri vagamente criptici), integrato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La quale, a sua volta, è equiparata alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Dietro tanti pomposi titoli, in verità, si nascondono delle deroghe singolari che, per sottile alchimia giurisprudenziale, coccolano la pena di morte.
La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:
1 - per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale (forse che quella “legale” troverà giustificazione?)
2 - per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta (ma se l’accoppo, che arresto faccio?)
3 - per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione.
Credo appaia un po’ a tutti quanto sia barocco il bizantinismo giuridico prodotto.
Il bello è che il parlamento tedesco nell'aprile 2008, ha deliberato a maggioranza di due terzi, con l’appoggio di cristiano-democratici, dei socialisti e dei verdi (quelli di caino ed abele), l'abbandono della sovranità a favore dell'UE.
Nell'autunno 2009 ci sarà, in Irlanda, un secondo tentativo di approvare il Trattato.
Affinché tutto vada come previsto, il 18 marzo i 27 commissari europei hanno provveduto, a Bruxelles, a premere su Dublino per modificare molte leggi irlandesi prima del referendum.
Così l'UE ha condotto in Irlanda, nonostante il divieto della propaganda politica nei mass media statali, una campagna politica a favore del “sì” al Trattato di Lisbona. Finanziando la campagna con il denaro dei contribuenti europei.
di Maurizio De Santis
Tratto da Giustizia Giusta il 17 settembre 2009
A Genova un convegno sull'enciclica «Caritas in veritate» - Il primo e principale fattore di sviluppo - La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico - testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All'incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l'economista Ettore Gotti Tedeschi. – L’Osservatore Romano, 20 settembre 2009
Pubblichiamo integralmente il testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All'incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l'economista Ettore Gotti Tedeschi.
di Angelo Bagnasco
La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che "solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta" (n. 3). Come è noto, il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la res sociale di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita. Infatti "il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze" (n. 9). Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre "una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali" (n. 31) dello sviluppo. Insomma si richiede "l'allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa", secondo il pressante appello che muove - sin dal suo inizio - il magistero di Benedetto XVI (cfr. Discorso di Ratisbona).
Il richiamo esplicito a Paolo vi e alla Populorum Progressio (1967), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo ii, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un "corpus dottrinale" (n. 12), che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca a pieno titolo nell'alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità. Così facendo il Santo Padre intende chiarire il suo punto di vista, che non è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una precisa prospettiva teologica e cioè che "l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" (n. 8).
La percezione della sfida e l'esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione. Guidano la riflessione della Caritas in veritate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa.
I due presupposti di fondo sono da un lato la convinzione che lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto a una vocazione e dall'altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede. La prospettiva che emerge è dunque "una visione articolata dello sviluppo" (n. 21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi inscindibilmente legata alla questione antropologica. Vorrei ora, sia pure brevemente, sviluppare questi tre aspetti per giungere a una osservazione di fondo conclusiva.
Affermare che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la persona, nella sua integrità: l'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale" (n. 25) significa sottrarre a un cieco determinismo la lettura della globalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana. Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese. Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa. Per questo Benedetto XVI invita a una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda a un livello più profondo. "In realtà - egli scrive - le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell'uomo, che cade nella presunzione dell'autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato" (n. 11).
Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l'enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum Progressio. Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao - ancora lo scorso 19 giugno - ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione.
La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all'anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche. L'enciclica rende avvertiti che "gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati". Per poi aggiungere: "Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi" (n. 21). Infatti "i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani" (n. 32).
Non si fatica d'altra parte a capire che "l'aumento massiccio della povertà... non solo tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del "capitale sociale", ossia quell'insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile" (ibidem). Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione. Infatti "nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, "la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno". Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità" (n. 42).
Ma come aiutare la ragione a non cedere a una lettura rassegnata della realtà e soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l'uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n. 28), la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia. Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata a esercitare nei riguardi della ragione.
Il concetto di "purificazione" è tutt'altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna. Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità. Tra queste due realtà c'è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c'è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo.
Arrivare a intuire l'eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l'insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione. Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Veritas in caritate. La grande sfida che abbiamo davanti "è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica" (n. 36).
Nasce da qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all'ibridazione dei comportamenti economici e delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell'interpretazione dei rapporti internazionali. Per arrivare a un'affermazione forte: "Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" (n. 53). Questa chiara affermazione che dal Vaticano ii (Gaudium et spes, n. 77) è un punto fermo richiede in realtà "un nuovo slancio del pensiero" e obbliga "a un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l'apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell'uomo" (n. 53). In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di riaprire all'interno del dibattito pubblico la questione della fede (cfr. n. 56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti.
Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppo anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando, cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione.
Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme. Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può "avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata" (n. 15). In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell'etica individuale e propugnatori dell'etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme.
Un esempio eloquente è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l'impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti. La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l'eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell'ecosistema o che l'aborto e l'eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all'origine l'accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado. Come sottolinea con vigore il Papa: "Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono" (n. 28).
Ancora una volta l'enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale. Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbruttimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l'etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone. Lo dice espressamente il Papa: "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l'appello del bene comune" (n. 71).
Concludo, facendo riferimento a un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello "sviluppo integrale", che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo vi. Mi riferisco al tema dell'ambiente, cui è espressamente dedicata una parte significativa del capitolo IV (nn. 48-52) e che rileva una ricorrente preoccupazione nel magistero dell'attuale Pontefice. Scrive Benedetto XVI: "La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio" (n. 51).
La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai "deserti esteriori" corrispondono "i deserti interiori" (cfr. Benedetto XVI, Omelia per l'inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005), così come alla morte dei boschi "attorno a noi" fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali "dentro di noi", all'inquinamento delle acque corrisponde l'atteggiamento nichilistico nei confronti della vita. Quando infatti l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera "ecologia umana" si scatenano le dinamiche perverse delle povertà, compromettendo fatalmente anche l'equilibrio della Terra. Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che "il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società" (n. 51).
La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto "occidentale", come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991). Ma lo sguardo dell'enciclica è tutt'altro che pessimista o fatalista. Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito che intendo fare mio: "La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente" (n. 21).
(©L'Osservatore Romano - 20 settembre 2009)
AFGHANISTAN/ Il metodo Italia - Mario Mauro lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Cinque giorni fa la furia di una ideologia che riduce Dio a pretesto per un progetto di potere ha spazzato via la vita di sei nostri giovani soldati e di molti altri nostri fratelli afghani. È possibile comprendere fino in fondo il senso del loro sacrificio se nel celebrare oggi la loro memoria siamo coscienti che la domanda di verità, di bellezza, di giustizia, di pace che ci portiamo dentro c'entra con quelle vite, troncate e compiute insieme.
C'entra con il più piccolo dei particolari della nostra vita e della vita del mondo. Nessuno più di me è convinto che si possa fare anche politica senza sopire quell’inquietudine che ci fa certi che non è nel potere il potere vero, che non è nell’uomo la risposta ai bisogni dell’uomo. Proprio per questo avverto, però, enorme la responsabilità di fare di tutto perché ogni tentativo buono di rendere meno faticosa la vita di tanti sia sostenuta.
Affrontare insieme questa responsabilità può essere un buon modo per vivere come vero, credo, l’ideale di passione per l’uomo che i nostri giovani paracadutisti ci hanno testimoniato. Per questo credo che i nostri ragazzi caduti sarebbero stati orgogliosi e commossi da ciò che ha dichiarato qualche giorno fa al Corriere della sera il Ministro degli esteri Frattini sul ruolo fondamentale della missione italiana nel possibile cambiamento delle strategie della coalizione occidentale.
«Va attuato ciò di cui parliamo da quando la nuova amministrazione americana ha pubblicato la revisione della sua politica sull’Afghanistan. Occorre moltiplicare il “metodo Italia”, approccio che abbina sicurezza e grande professionalità con l’attenzione alla gente che soffre, alla ricostruzione. Va cambiata la visione generale della missione». «Deve considerare sempre più la sicurezza come il mezzo indispensabile, non come il fine in sé, e concentrarsi invece sui risultati visibili e positivi per il popolo che purtroppo non ci sono. Sono quelli la precondizione per evitare che i civili non tollerino, nella migliore delle ipotesi, o non coprano, nella peggiore, l’organizzazione degli attentati».
Dobbiamo essere orgogliosi di essere italiani. Siamo un esempio di solidarietà per tutti. Per questo le famiglie, gli amici, e i colleghi dei caduti abbiano la certezza che non sono state morti vane.
Anche Benedetto XVI nell’angelus di ieri ha voluto sottolineare questo punto, rendendo omaggio a tutti «i contingenti internazionali che hanno avuto vittime e che operano per promuovere la pace e lo sviluppo delle istituzioni, così necessarie alla coesistenza umana».
SOCIETA’/ Scola: la gratuità, quella rivoluzione che vince lo Stato padrone - Angelo Scola lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Un cambio di paradigma
Anche a un profano dell’economia e delle sue implicazioni socio-politiche non mancano informazioni sufficienti per affermar che, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, tutti i sistemi di welfare europei hanno dovuto confrontarsi con la trasformazione, profonda e a volte tumultuosa, dei rispettivi contesti sociali. Ciò è avvenuto sotto la spinta di fenomeni complessi, di natura esogena (legati alla dinamica di globalizzazione economica e sociale, all’emergere di problemi connessi al “meticciato di civiltà”) o endogena (legati soprattutto all’invecchiamento della popolazione e alla modificazione dei sistemi occupazionali ).
La risposta è consistita in un’azione di “ricalibratura” ma, in realtà, ora si vede bene che la situazione domanda un vero e proprio cambio di paradigma. È richiesta una modificazione profonda dell’assetto normativo che regola le politiche sociali per fare spazio a nuovi modelli, pur senza rimettere in discussione i principi di solidarietà ed eguaglianza che hanno caratterizzato l’avvento dei sistemi di welfare state. In particolare non appare più pensabile la perfetta coincidenza fra politiche sociali e politiche pubbliche, dal momento che altri settori della società (gli attori di mercato, le famiglie, le organizzazioni del privato sociale), si stanno rivelando non di rado capaci di affrontare i nuovi bisogni in modo più efficace dello Stato.
Nell’alveo di questo ripensamento è nata l’idea di “welfare society” con le sue differenti modalità applicative orientate alla sussidiarietà. Le sue implicazioni sembrano investire, in modo differenziato, tutti i modelli di politiche sociali fin qui conosciuti, determinando un cambiamento che è già visibile in alcuni esperimenti soprattutto a livello regionale.
All’origine della proposta di una welfare society è individuabile l’ipotesi di un cambiamento nel concepire lo stato sociale sulla base del necessario passaggio da una concezione individualistica della cittadinanza a un visione personale-comunitaria di essa. Questa si fonda sul riconoscimento di un pluralismo sociale che si articola, a livello di sfera pubblica, attraverso il principio di sussidiarietà. Questa nuova modalità di cittadinanza nasce dall’associarsi dei cittadini mediante la creazione di corpi intermedi e di iniziative partecipate dal basso.
È evidente che tale ipotesi prende fisionomia da una svolta di tipo antropologico che comporta una decisiva conseguenza nella configurazioni delle relazioni tra lo Stato e la società. Nell’orizzonte di questa antropologia adeguata si snoda la proposta di sviluppo integrale, inteso come percorso realistico e virtuoso propria della Caritas in Veritate (soprattutto CV, 45).
Antropologia adeguata
L’odierna società post-secolare, tecnicamente plurale, ha sgombrato, senza volerlo il terreno da due tenaci dogmi moderni. La cosiddetta morte del soggetto conseguente al proclama di Nietzsche circa la morte di dio. In che modo? Tutti percepiamo che l’esaltazione atomistica dell’individuo chiamato a relazionarsi con le sole sue forze ad uno Stato leviatano (Hobbes) cui ha previamente devoluto passioni e diritti, ha favorito oggi la nascita di un nuovo soggetto collettivo ad opera della tecno-scienza.
In questo senso il soggetto non è affatto morto. Sulle ceneri del vecchio soggetto empirico è sorto un nuovo soggetto “tecnocratico” che rischia di rendere il primo (il soggetto empirico) ormai ridotto ad oggetto, una semplice protesi, una mera funzione di questo nuovo, inquietante soggetto collettivo. In questa prospettiva si è giunti a definire l’uomo con enfasi faustiana, “come il suo proprio esperimento” (Jongen).
Tuttavia su questo suolo, come avviene a primavera sui terreni abbandonati e pieni di detriti di città, i fili d’erba dell’esperienza umana elementare non cessano di spuntare di nuovo. Cosa dice questa esperienza? Dice - come affermava Karol Wojtyla - che le relazioni, e in modo particolare le relazioni primarie uomo-donna, individuo-comunità sono imprescindibili per la crescita del soggetto e per l’insorgere della sua autocoscienza. L’io è relazionale, comunionale. E lo mostra molto bene il senso della nascita la cui insostituibile decisività è ben suggerita da Holderlin nella poesia “Il Reno”: “Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro”.
La nascita infatti non è solo un fatto biologico ma, come genialmente affermava Giovanni Paolo II, è anzitutto genealogia. Quindi non è solo inizio ma è soprattutto origine. Pronunciando le sue prime parole il bambino non fa altro che dare testimonianza alla promessa contenuta nelle relazioni primarie con il padre e con la madre che indicano l’origine che lo precede e lo inoltra nella vita. Non si dà autogenerazione.
La genealogia di Gesù con cui si apre il Vangelo di Matteo, esprime assai bene questo dinamismo che alla fine implica l’azione stessa del Dio creatore. Tra l’altro la dimenticanza del senso integrale della nascita come origine è alla radice del grave vuoto educativo che sta minando le odierne società multietniche. La catena delle generazioni rischia di spezzarsi per la fatica del “prendersi cura” attraverso la tradizione del significato del vivere.
Implicazione sociale del mistero trinitario
La Caritas in Veritate ha di mira lo sviluppo integrale dell’uomo a partire da questa antropologia adeguata in cui la persona e la società sono viste a partire dall’origine, da ciò che precede il puro fare. Il fatto che la vita sia dono, affondi le radici in un’origine che la precede, finisce per investire tutte le attività umane compresa quella economica. Solo così si comprende il peso anche tecnico, riferito cioè alla “ragione economica”(CV, 32, 36), che viene dato alla gratuità. Senza di essa il “mercato non esplicita la sua funzione” (CV, 35). La Caritas in Veritate guarda in questo senso al mistero della Trinità come paradigma[1].
Romano Guardini affermava che, nella Trinità, l’Amore è comunanza di tutto fino all’identità dell’essenza e della vita ma, nello stesso tempo, è perfetta custodia di sé da parte della persona. Questi elementi ci parlano di una perfezione di unità e di comunità in Dio cui corrisponde la sua fecondità. Da qui una decisiva implicazione per la vita sociale: “La Trinità insegna che tutto proprio tutto potrebbe essere, e al massimo grado, comune, dovrebbe essere comune. Una cosa sola non dovrebbe esserlo e con ciò si contrappone alla dedizione il suo contrappeso: la personalità. Questa deve rimanere inviolata nella sua indipendenza. Il suo sacrificio non può essere né desiderato, né offerto, né accettato. Con questo atteggiamento (l’etica) essenziale di ogni comunità è chiaramente circoscritta. La dedizione deve essere permessa e offerta nel modo e nella misura giusta e imperfetta è quella comunità in cui nasconde se stesso e le sue cose all’altro. Ma il diritto alla personalità è sacro e inviolabile e deve rimanere inviolato: non appena è varcato questo confine, una comunità diventa subito contro natura, immorale, di qualsiasi tipo essa sia)”[2] .
Una nuova cittadinanza
A partire da questa svolta antropologica e dalle sue implicazioni sociali, la nuova cittadinanza comporta un ripensamento della democrazia e soprattutto del ruolo dello stato. Questo è chiamato a specializzarsi in compiti di sussidio rispetto alla società civile e di garante delle regole del gioco per individui e soggetti sociali.
Si apre esattamente a questo livello il tema della sussidiarietà, concettualmente sviluppatosi all’interno della dottrina sociale cattolica, a partire dalla sua originaria tematizzazione all’interno dell’Enciclica Quadragesimo anno (1931) per arrivare alla recentissima ripresa della Caritas in Veritate. Proprio in quest’ultima enciclica Benedetto XVI ne fornisce una definizione che aiuta a coglierne le caratteristiche basilari: “Sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità” (CV, 57). Si tratta dunque di un paradigma applicabile sin negli aspetti più specifici dell’agire sociale ed economico e che può giungere a criteri are il dibattito sull’assetto istituzionale ed europeo[3].
In consonanza con questa visione il lessico della sussidiarietà fa perno sulla coppia persona/dono e fiducia/comunità. Una concezione che rifonda personalisticamente (in modo pertanto relazionale) l’idea di Stato: non lo intende più come fattore unificante sovraordinato alla molteplicità di individui concepiti come atomi isolati bensì come fattore a servizio sussidiario del libero gioco associativo di persone e comunità. Queste non sono tese anzitutto a un utilitarismo interessato ma, e prima di tutto alla generazione di un bene comune. Ciò è decisivo per elaborare una nuova concezione di giustizia assai diversa da quella sottostante lo Stato hobbesiano.
La novità di Caritas in Veritate sta nel porsi dall’interno della “ragione economica” (CV 32, 36) per affermare che tale principio è applicabile anche al mercato: “Anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica” (CV, 58)[4]. Diventa così evidente che il principio di sussidiarietà si presta ad essere interpretato come elemento imprescindibile per il superamento delle storture della modernità.
Questa impostazione si traduce necessariamente in una profonda rilettura delle politiche sociali. Sono chiamate a sperimentare formule di partnership fra pubblico e privato in cui alla modalità regolativa di tipo gerarchico viene sostituita una regolazione reticolare capace di rispettare i differenti codici simbolici presenti nella società così come le diverse forme organizzative. In questa configurazione delle politiche sociali lo Stato e le pubbliche amministrazioni locali perdono il ruolo di gestori diretti dei servizi per acquistare uno specifico stile di governo.
Libertà di scelta e risorse
Elemento portante di un approccio sussidiario alle politiche sociali è la crescente libertà di scelta della persona. Questa può essere ottenuta attraverso il sostegno diretto della domanda con i cosiddetti “titoli sociali” (in particolare i voucher), al fine di rendere più accessibile una più adeguata disponibilità di risorse utilizzabili sui “quasi mercati” dei servizi accreditati. In ottica sussidiaria, peraltro, la libera scelta non si configura all’interno di un quadro di riferimento atomistico e individualistico, ma al contrario diventa elemento fondamentale per istituire libertà e responsabilità alla persona vista nell’ambito delle sue relazioni costitutive.
Prime fra tutte sono da considerare quelle familiari (CV, 44). Proprio la famiglia dovrebbe dunque essere il soggetto autenticamente centrale nel nuovo welfare e a essa debbono essere riconosciuti diritti ulteriori rispetto a quelli individuali aprendo la strada innanzitutto a una autentica sussidiarietà fiscale che tenga conto e valorizzi le concrete responsabilità familiari assunte da ciascun nucleo.
Democrazia economica per uno sviluppo integrale
La carità nella verità è “un’esigenza della stessa ragione economica”(CV, 36), che in se stessa implica il “principio di gratuità” e di “logica del dono come espressione della fraternità”. È importante allora notare che l’ambito proprio di un’economia di gratuità e di fraternità deve andare dalla società civile al mercato e allo Stato: “Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l’aspetto della reciprocità fraterna”(CV, 38).
I tre capisaldi della Dottrina sociale - dignità della persona, principio di solidarietà e principio di sussidiarietà - sono così rivisitati a partire da una forma concreta di democrazia economica. La gratuità non è più intesa come pura cosmesi della giustizia e del bene comune, senza i quali, tuttavia, non si può parlare né di carità né di verità. Benedetto XVI non lascia scampo: “Oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia” (CV, 38).
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[1] “Un simile pensiero [quello della Trinità] obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria di relazione” CV, 53; anche CV, 55.
[2] R. Guardini, Il significato del dogma del Dio trinitario per la vita etica della comunità, in Scritti politici, Opera Omnia VI, Morcelliana, Brescia, 2005, 97.
[3] Nell’enciclica Caritas in veritate si legge anche: “Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente” (CV, 57).
[4]A. Scola, Il dono fa l’economia libera, commento a Caritas in Veritate, IlSole 24Ore, 9 luglio 2009.
1) Benedetto XVI: “la sapienza non ha bisogno di imporsi con la forza” - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
2) Sorpresa: la pena di morte piace a Bruxelles - Un autentico minestrone di codicilli, nel quale norme in antitesi tra loro convivono in un gaudioso “acciaccapesta” giuridico….
3) A Genova un convegno sull'enciclica «Caritas in veritate» - Il primo e principale fattore di sviluppo - La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico - testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All'incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l'economista Ettore Gotti Tedeschi. – L’Osservatore Romano, 20 settembre 2009
4) AFGHANISTAN/ Il metodo Italia - Mario Mauro lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
5) SOCIETA’/ Scola: la gratuità, quella rivoluzione che vince lo Stato padrone - Angelo Scola lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Benedetto XVI: “la sapienza non ha bisogno di imporsi con la forza” - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 20 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI questa domenica, in occasione dell'Angelus, rivolgendosi ai pellegrini riuniti nel cortile interno del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo.
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Carissimi fratelli e sorelle!
Quest’oggi, per la consueta riflessione domenicale, prendo spunto dal passo della Lettera di Giacomo che ci viene proposto nell’odierna Liturgia (3,16-4,3), e mi soffermo, in particolare, su una espressione che colpisce per la sua bellezza e per la sua attualità. Si tratta della descrizione della vera sapienza, che l’Apostolo contrappone alla falsa. Mentre quest’ultima è "terrestre, materiale e diabolica", e si riconosce dal fatto che provoca gelosie, contese, disordini e ogni sorta di cattive azioni (cfr 3,16), al contrario, "la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera" (3,17). Un elenco di sette qualità, secondo l’uso biblico, da cui risaltano la perfezione dell’autentica sapienza e gli effetti positivi che essa produce. Come prima e principale qualità, posta quasi a premessa delle altre, san Giacomo cita la "purezza", cioè la santità, il riflesso trasparente – per così dire – di Dio nell’animo umano. E come Dio dal quale proviene, la sapienza non ha bisogno di imporsi con la forza, perché detiene il vigore invincibile della verità e dell’amore, che si afferma da sé. Perciò è pacifica, mite e arrendevole; non usa parzialità, né tanto meno ricorre a bugie; è indulgente e generosa, si riconosce dai frutti di bene che suscita in abbondanza.
Perché non fermarsi a contemplare ogni tanto la bellezza di questa sapienza? Perché non attingere dalla fonte incontaminata dell’amore di Dio la sapienza del cuore, che ci disintossica dalle scorie della menzogna e dell’egoismo? Questo vale per tutti, ma, in primo luogo, per chi è chiamato ad essere promotore e "tessitore" di pace nelle comunità religiose e civili, nei rapporti sociali e politici e nelle relazioni internazionali. Ai nostri giorni, forse anche per certe dinamiche proprie delle società di massa, si constata non di rado un carente rispetto della verità e della parola data, insieme ad una diffusa tendenza all’aggressività, all’odio e alla vendetta. "Per coloro che fanno opera di pace – scrive san Giacomo – viene seminato nella pace un frutto di giustizia" (Gc 3,18). Ma per fare opere di pace bisogna essere uomini di pace, mettendosi alla scuola della "sapienza che viene dall’alto", per assimilarne le qualità e produrne gli effetti. Se ciascuno, nel proprio ambiente, riuscisse a rigettare la menzogna e la violenza nelle intenzioni, nelle parole e nelle azioni, coltivando con cura sentimenti di rispetto, di comprensione e di stima verso gli altri, forse non risolverebbe tutti i problemi della vita quotidiana, ma potrebbe affrontarli più serenamente ed efficacemente.
Cari amici, ancora una volta la Sacra Scrittura ci ha condotto a riflettere su aspetti morali dell’umana esistenza, ma a partire da una realtà che precede la stessa morale, cioè dalla vera sapienza. Domandiamo a Dio con fiducia la sapienza del cuore, per intercessione di Colei che ha accolto in grembo e generato la Sapienza incarnata, Gesù Cristo, nostro Signore. Maria, Sede della Sapienza, prega per noi!
[DOPO L’ANGELUS]
Per le numerose situazioni di conflitto che esistono nel mondo, ci giungono, quasi quotidianamente, tragiche notizie di vittime sia tra i militari che tra i civili. Sono fatti a cui mai possiamo abituarci e che suscitano profonda riprovazione, nonché sconcerto nelle società che hanno a cuore il bene della pace e della civile convivenza. In questi giorni, la notizia del gravissimo attentato in Afghanistan ad alcuni militari italiani mi ha provocato profondo dolore. Mi unisco con la preghiera alla sofferenza dei familiari e delle comunità civili e militari e, al tempo stesso, penso con eguali sentimenti di partecipazione agli altri contingenti internazionali, che anche di recente hanno avuto vittime e che operano per promuovere la pace e lo sviluppo delle istituzioni, così necessarie alla coesistenza umana; a tutti assicuro il mio ricordo davanti al Signore, con un particolare pensiero alle care popolazioni civili, e per tutti invito ad elevare a Dio la nostra preghiera. Desidero qui anche rinnovare il mio incoraggiamento alla promozione della solidarietà tra le Nazioni per contrastare la logica della violenza e della morte, favorire la giustizia, la riconciliazione, la pace e sostenere lo sviluppo dei popoli partendo dall’amore e dalla comprensione reciproca, come ho scritto recentemente nella mia Enciclica Caritas in veritate (n. 72).
Da sabato prossimo, 26 settembre, a lunedì 28, a Dio piacendo, compirò un viaggio apostolico nella Repubblica Ceca. Sosterò nella capitale Praga, ma mi recherò anche a Brno, in Moravia, e a Stará Boleslav, luogo del martirio di san Venceslao, patrono principale della Nazione. La Repubblica Ceca si trova geograficamente e storicamente nel cuore dell’Europa, e dopo essere passata attraverso i drammi del secolo scorso, ha bisogno, come l’intero Continente, di ritrovare le ragioni della fede e della speranza. Sulle orme del mio amato predecessore Giovanni Paolo II, che visitò quel Paese per ben tre volte, anch’io renderò omaggio agli eroici testimoni del Vangelo, antichi e recenti, e incoraggerò tutti ad andare avanti nella carità e nella verità. Ringrazio fin d’ora quanti mi accompagneranno con la preghiera in questo viaggio, perché il Signore lo benedica e lo renda fruttuoso.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Infine, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare due scolaresche di Castel Gandolfo: la Scuola Pontificia Paolo VI e la Scuola Maestre Pie Filippini. Saluto inoltre il gruppo dell’UNITALSI di Martina Franca e i partecipanti all’Ecorally di San Marino. Domenica prossima, come dicevo, sarò nella Repubblica Ceca, e nella settimana seguente rientrerò in Vaticano; perciò rivolgo il mio più cordiale "arrivederci" alla comunità di Castel Gandolfo, che sempre ricordo nella preghiera. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Sorpresa: la pena di morte piace a Bruxelles - Un autentico minestrone di codicilli, nel quale norme in antitesi tra loro convivono in un gaudioso “acciaccapesta” giuridico….
Straordinario il trattato di Lisbona!
Un autentico minestrone di codicilli, nel quale norme in antitesi tra loro convivono in un gaudioso “acciaccapesta” giuridico….
Mandato avanti dagli autocrati europoidi (un po’ all’italiana, con calcetti e spintarelle), che si sono fatti beffe delle solenni bocciature costituzionali francese ed olandese. I boiardi europeisti hanno allegramente maramaldeggiato sotto il naso degli irlandesi che, lo scorso anno, avevano assestato un bel ceffone a Barroso and Company.
Il Trattato, mira ad estendere considerevolmente il potere dei 27 commissari dell'Unione europea, convogliandolo quindi su una figura presidenziale dotata di un forte potere, riducendo (di concerto) quello delle vetustà nazionali degli Stati membri. Un qualcosa che, guarda un po’, ricorda vagamente il “mostro” dell'ex-Unione Sovietica. Dove le varie repubbliche persero importanza e rinunciarono alle proprie autonomie per il bene dell'impero.
Ed il biscotto, preparato a tale scopo, è raffinato. Ma mortale.
Vengo al dunque.
L’articolo 2 del Trattato recita così: “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze …”
Sacrosanto, direste voi.
Peccato che il Trattato venga (in caratteri vagamente criptici), integrato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La quale, a sua volta, è equiparata alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Dietro tanti pomposi titoli, in verità, si nascondono delle deroghe singolari che, per sottile alchimia giurisprudenziale, coccolano la pena di morte.
La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:
1 - per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale (forse che quella “legale” troverà giustificazione?)
2 - per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta (ma se l’accoppo, che arresto faccio?)
3 - per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione.
Credo appaia un po’ a tutti quanto sia barocco il bizantinismo giuridico prodotto.
Il bello è che il parlamento tedesco nell'aprile 2008, ha deliberato a maggioranza di due terzi, con l’appoggio di cristiano-democratici, dei socialisti e dei verdi (quelli di caino ed abele), l'abbandono della sovranità a favore dell'UE.
Nell'autunno 2009 ci sarà, in Irlanda, un secondo tentativo di approvare il Trattato.
Affinché tutto vada come previsto, il 18 marzo i 27 commissari europei hanno provveduto, a Bruxelles, a premere su Dublino per modificare molte leggi irlandesi prima del referendum.
Così l'UE ha condotto in Irlanda, nonostante il divieto della propaganda politica nei mass media statali, una campagna politica a favore del “sì” al Trattato di Lisbona. Finanziando la campagna con il denaro dei contribuenti europei.
di Maurizio De Santis
Tratto da Giustizia Giusta il 17 settembre 2009
A Genova un convegno sull'enciclica «Caritas in veritate» - Il primo e principale fattore di sviluppo - La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico - testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All'incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l'economista Ettore Gotti Tedeschi. – L’Osservatore Romano, 20 settembre 2009
Pubblichiamo integralmente il testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All'incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell'Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l'economista Ettore Gotti Tedeschi.
di Angelo Bagnasco
La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che "solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta" (n. 3). Come è noto, il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la res sociale di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita. Infatti "il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze" (n. 9). Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre "una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali" (n. 31) dello sviluppo. Insomma si richiede "l'allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa", secondo il pressante appello che muove - sin dal suo inizio - il magistero di Benedetto XVI (cfr. Discorso di Ratisbona).
Il richiamo esplicito a Paolo vi e alla Populorum Progressio (1967), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo ii, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un "corpus dottrinale" (n. 12), che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca a pieno titolo nell'alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità. Così facendo il Santo Padre intende chiarire il suo punto di vista, che non è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una precisa prospettiva teologica e cioè che "l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" (n. 8).
La percezione della sfida e l'esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione. Guidano la riflessione della Caritas in veritate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa.
I due presupposti di fondo sono da un lato la convinzione che lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto a una vocazione e dall'altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede. La prospettiva che emerge è dunque "una visione articolata dello sviluppo" (n. 21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi inscindibilmente legata alla questione antropologica. Vorrei ora, sia pure brevemente, sviluppare questi tre aspetti per giungere a una osservazione di fondo conclusiva.
Affermare che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la persona, nella sua integrità: l'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale" (n. 25) significa sottrarre a un cieco determinismo la lettura della globalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana. Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese. Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa. Per questo Benedetto XVI invita a una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda a un livello più profondo. "In realtà - egli scrive - le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell'uomo, che cade nella presunzione dell'autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato" (n. 11).
Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l'enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum Progressio. Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao - ancora lo scorso 19 giugno - ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione.
La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all'anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche. L'enciclica rende avvertiti che "gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati". Per poi aggiungere: "Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi" (n. 21). Infatti "i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani" (n. 32).
Non si fatica d'altra parte a capire che "l'aumento massiccio della povertà... non solo tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del "capitale sociale", ossia quell'insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile" (ibidem). Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione. Infatti "nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, "la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno". Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità" (n. 42).
Ma come aiutare la ragione a non cedere a una lettura rassegnata della realtà e soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l'uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n. 28), la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia. Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata a esercitare nei riguardi della ragione.
Il concetto di "purificazione" è tutt'altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna. Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità. Tra queste due realtà c'è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c'è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo.
Arrivare a intuire l'eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l'insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione. Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Veritas in caritate. La grande sfida che abbiamo davanti "è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica" (n. 36).
Nasce da qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all'ibridazione dei comportamenti economici e delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell'interpretazione dei rapporti internazionali. Per arrivare a un'affermazione forte: "Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" (n. 53). Questa chiara affermazione che dal Vaticano ii (Gaudium et spes, n. 77) è un punto fermo richiede in realtà "un nuovo slancio del pensiero" e obbliga "a un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l'apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell'uomo" (n. 53). In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di riaprire all'interno del dibattito pubblico la questione della fede (cfr. n. 56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti.
Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppo anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando, cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione.
Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme. Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può "avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata" (n. 15). In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell'etica individuale e propugnatori dell'etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme.
Un esempio eloquente è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l'impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti. La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l'eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell'ecosistema o che l'aborto e l'eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all'origine l'accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado. Come sottolinea con vigore il Papa: "Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono" (n. 28).
Ancora una volta l'enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale. Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbruttimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l'etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone. Lo dice espressamente il Papa: "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l'appello del bene comune" (n. 71).
Concludo, facendo riferimento a un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello "sviluppo integrale", che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo vi. Mi riferisco al tema dell'ambiente, cui è espressamente dedicata una parte significativa del capitolo IV (nn. 48-52) e che rileva una ricorrente preoccupazione nel magistero dell'attuale Pontefice. Scrive Benedetto XVI: "La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio" (n. 51).
La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai "deserti esteriori" corrispondono "i deserti interiori" (cfr. Benedetto XVI, Omelia per l'inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005), così come alla morte dei boschi "attorno a noi" fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali "dentro di noi", all'inquinamento delle acque corrisponde l'atteggiamento nichilistico nei confronti della vita. Quando infatti l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera "ecologia umana" si scatenano le dinamiche perverse delle povertà, compromettendo fatalmente anche l'equilibrio della Terra. Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che "il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società" (n. 51).
La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto "occidentale", come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991). Ma lo sguardo dell'enciclica è tutt'altro che pessimista o fatalista. Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito che intendo fare mio: "La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente" (n. 21).
(©L'Osservatore Romano - 20 settembre 2009)
AFGHANISTAN/ Il metodo Italia - Mario Mauro lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Cinque giorni fa la furia di una ideologia che riduce Dio a pretesto per un progetto di potere ha spazzato via la vita di sei nostri giovani soldati e di molti altri nostri fratelli afghani. È possibile comprendere fino in fondo il senso del loro sacrificio se nel celebrare oggi la loro memoria siamo coscienti che la domanda di verità, di bellezza, di giustizia, di pace che ci portiamo dentro c'entra con quelle vite, troncate e compiute insieme.
C'entra con il più piccolo dei particolari della nostra vita e della vita del mondo. Nessuno più di me è convinto che si possa fare anche politica senza sopire quell’inquietudine che ci fa certi che non è nel potere il potere vero, che non è nell’uomo la risposta ai bisogni dell’uomo. Proprio per questo avverto, però, enorme la responsabilità di fare di tutto perché ogni tentativo buono di rendere meno faticosa la vita di tanti sia sostenuta.
Affrontare insieme questa responsabilità può essere un buon modo per vivere come vero, credo, l’ideale di passione per l’uomo che i nostri giovani paracadutisti ci hanno testimoniato. Per questo credo che i nostri ragazzi caduti sarebbero stati orgogliosi e commossi da ciò che ha dichiarato qualche giorno fa al Corriere della sera il Ministro degli esteri Frattini sul ruolo fondamentale della missione italiana nel possibile cambiamento delle strategie della coalizione occidentale.
«Va attuato ciò di cui parliamo da quando la nuova amministrazione americana ha pubblicato la revisione della sua politica sull’Afghanistan. Occorre moltiplicare il “metodo Italia”, approccio che abbina sicurezza e grande professionalità con l’attenzione alla gente che soffre, alla ricostruzione. Va cambiata la visione generale della missione». «Deve considerare sempre più la sicurezza come il mezzo indispensabile, non come il fine in sé, e concentrarsi invece sui risultati visibili e positivi per il popolo che purtroppo non ci sono. Sono quelli la precondizione per evitare che i civili non tollerino, nella migliore delle ipotesi, o non coprano, nella peggiore, l’organizzazione degli attentati».
Dobbiamo essere orgogliosi di essere italiani. Siamo un esempio di solidarietà per tutti. Per questo le famiglie, gli amici, e i colleghi dei caduti abbiano la certezza che non sono state morti vane.
Anche Benedetto XVI nell’angelus di ieri ha voluto sottolineare questo punto, rendendo omaggio a tutti «i contingenti internazionali che hanno avuto vittime e che operano per promuovere la pace e lo sviluppo delle istituzioni, così necessarie alla coesistenza umana».
SOCIETA’/ Scola: la gratuità, quella rivoluzione che vince lo Stato padrone - Angelo Scola lunedì 21 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Un cambio di paradigma
Anche a un profano dell’economia e delle sue implicazioni socio-politiche non mancano informazioni sufficienti per affermar che, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, tutti i sistemi di welfare europei hanno dovuto confrontarsi con la trasformazione, profonda e a volte tumultuosa, dei rispettivi contesti sociali. Ciò è avvenuto sotto la spinta di fenomeni complessi, di natura esogena (legati alla dinamica di globalizzazione economica e sociale, all’emergere di problemi connessi al “meticciato di civiltà”) o endogena (legati soprattutto all’invecchiamento della popolazione e alla modificazione dei sistemi occupazionali ).
La risposta è consistita in un’azione di “ricalibratura” ma, in realtà, ora si vede bene che la situazione domanda un vero e proprio cambio di paradigma. È richiesta una modificazione profonda dell’assetto normativo che regola le politiche sociali per fare spazio a nuovi modelli, pur senza rimettere in discussione i principi di solidarietà ed eguaglianza che hanno caratterizzato l’avvento dei sistemi di welfare state. In particolare non appare più pensabile la perfetta coincidenza fra politiche sociali e politiche pubbliche, dal momento che altri settori della società (gli attori di mercato, le famiglie, le organizzazioni del privato sociale), si stanno rivelando non di rado capaci di affrontare i nuovi bisogni in modo più efficace dello Stato.
Nell’alveo di questo ripensamento è nata l’idea di “welfare society” con le sue differenti modalità applicative orientate alla sussidiarietà. Le sue implicazioni sembrano investire, in modo differenziato, tutti i modelli di politiche sociali fin qui conosciuti, determinando un cambiamento che è già visibile in alcuni esperimenti soprattutto a livello regionale.
All’origine della proposta di una welfare society è individuabile l’ipotesi di un cambiamento nel concepire lo stato sociale sulla base del necessario passaggio da una concezione individualistica della cittadinanza a un visione personale-comunitaria di essa. Questa si fonda sul riconoscimento di un pluralismo sociale che si articola, a livello di sfera pubblica, attraverso il principio di sussidiarietà. Questa nuova modalità di cittadinanza nasce dall’associarsi dei cittadini mediante la creazione di corpi intermedi e di iniziative partecipate dal basso.
È evidente che tale ipotesi prende fisionomia da una svolta di tipo antropologico che comporta una decisiva conseguenza nella configurazioni delle relazioni tra lo Stato e la società. Nell’orizzonte di questa antropologia adeguata si snoda la proposta di sviluppo integrale, inteso come percorso realistico e virtuoso propria della Caritas in Veritate (soprattutto CV, 45).
Antropologia adeguata
L’odierna società post-secolare, tecnicamente plurale, ha sgombrato, senza volerlo il terreno da due tenaci dogmi moderni. La cosiddetta morte del soggetto conseguente al proclama di Nietzsche circa la morte di dio. In che modo? Tutti percepiamo che l’esaltazione atomistica dell’individuo chiamato a relazionarsi con le sole sue forze ad uno Stato leviatano (Hobbes) cui ha previamente devoluto passioni e diritti, ha favorito oggi la nascita di un nuovo soggetto collettivo ad opera della tecno-scienza.
In questo senso il soggetto non è affatto morto. Sulle ceneri del vecchio soggetto empirico è sorto un nuovo soggetto “tecnocratico” che rischia di rendere il primo (il soggetto empirico) ormai ridotto ad oggetto, una semplice protesi, una mera funzione di questo nuovo, inquietante soggetto collettivo. In questa prospettiva si è giunti a definire l’uomo con enfasi faustiana, “come il suo proprio esperimento” (Jongen).
Tuttavia su questo suolo, come avviene a primavera sui terreni abbandonati e pieni di detriti di città, i fili d’erba dell’esperienza umana elementare non cessano di spuntare di nuovo. Cosa dice questa esperienza? Dice - come affermava Karol Wojtyla - che le relazioni, e in modo particolare le relazioni primarie uomo-donna, individuo-comunità sono imprescindibili per la crescita del soggetto e per l’insorgere della sua autocoscienza. L’io è relazionale, comunionale. E lo mostra molto bene il senso della nascita la cui insostituibile decisività è ben suggerita da Holderlin nella poesia “Il Reno”: “Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro”.
La nascita infatti non è solo un fatto biologico ma, come genialmente affermava Giovanni Paolo II, è anzitutto genealogia. Quindi non è solo inizio ma è soprattutto origine. Pronunciando le sue prime parole il bambino non fa altro che dare testimonianza alla promessa contenuta nelle relazioni primarie con il padre e con la madre che indicano l’origine che lo precede e lo inoltra nella vita. Non si dà autogenerazione.
La genealogia di Gesù con cui si apre il Vangelo di Matteo, esprime assai bene questo dinamismo che alla fine implica l’azione stessa del Dio creatore. Tra l’altro la dimenticanza del senso integrale della nascita come origine è alla radice del grave vuoto educativo che sta minando le odierne società multietniche. La catena delle generazioni rischia di spezzarsi per la fatica del “prendersi cura” attraverso la tradizione del significato del vivere.
Implicazione sociale del mistero trinitario
La Caritas in Veritate ha di mira lo sviluppo integrale dell’uomo a partire da questa antropologia adeguata in cui la persona e la società sono viste a partire dall’origine, da ciò che precede il puro fare. Il fatto che la vita sia dono, affondi le radici in un’origine che la precede, finisce per investire tutte le attività umane compresa quella economica. Solo così si comprende il peso anche tecnico, riferito cioè alla “ragione economica”(CV, 32, 36), che viene dato alla gratuità. Senza di essa il “mercato non esplicita la sua funzione” (CV, 35). La Caritas in Veritate guarda in questo senso al mistero della Trinità come paradigma[1].
Romano Guardini affermava che, nella Trinità, l’Amore è comunanza di tutto fino all’identità dell’essenza e della vita ma, nello stesso tempo, è perfetta custodia di sé da parte della persona. Questi elementi ci parlano di una perfezione di unità e di comunità in Dio cui corrisponde la sua fecondità. Da qui una decisiva implicazione per la vita sociale: “La Trinità insegna che tutto proprio tutto potrebbe essere, e al massimo grado, comune, dovrebbe essere comune. Una cosa sola non dovrebbe esserlo e con ciò si contrappone alla dedizione il suo contrappeso: la personalità. Questa deve rimanere inviolata nella sua indipendenza. Il suo sacrificio non può essere né desiderato, né offerto, né accettato. Con questo atteggiamento (l’etica) essenziale di ogni comunità è chiaramente circoscritta. La dedizione deve essere permessa e offerta nel modo e nella misura giusta e imperfetta è quella comunità in cui nasconde se stesso e le sue cose all’altro. Ma il diritto alla personalità è sacro e inviolabile e deve rimanere inviolato: non appena è varcato questo confine, una comunità diventa subito contro natura, immorale, di qualsiasi tipo essa sia)”[2] .
Una nuova cittadinanza
A partire da questa svolta antropologica e dalle sue implicazioni sociali, la nuova cittadinanza comporta un ripensamento della democrazia e soprattutto del ruolo dello stato. Questo è chiamato a specializzarsi in compiti di sussidio rispetto alla società civile e di garante delle regole del gioco per individui e soggetti sociali.
Si apre esattamente a questo livello il tema della sussidiarietà, concettualmente sviluppatosi all’interno della dottrina sociale cattolica, a partire dalla sua originaria tematizzazione all’interno dell’Enciclica Quadragesimo anno (1931) per arrivare alla recentissima ripresa della Caritas in Veritate. Proprio in quest’ultima enciclica Benedetto XVI ne fornisce una definizione che aiuta a coglierne le caratteristiche basilari: “Sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità” (CV, 57). Si tratta dunque di un paradigma applicabile sin negli aspetti più specifici dell’agire sociale ed economico e che può giungere a criteri are il dibattito sull’assetto istituzionale ed europeo[3].
In consonanza con questa visione il lessico della sussidiarietà fa perno sulla coppia persona/dono e fiducia/comunità. Una concezione che rifonda personalisticamente (in modo pertanto relazionale) l’idea di Stato: non lo intende più come fattore unificante sovraordinato alla molteplicità di individui concepiti come atomi isolati bensì come fattore a servizio sussidiario del libero gioco associativo di persone e comunità. Queste non sono tese anzitutto a un utilitarismo interessato ma, e prima di tutto alla generazione di un bene comune. Ciò è decisivo per elaborare una nuova concezione di giustizia assai diversa da quella sottostante lo Stato hobbesiano.
La novità di Caritas in Veritate sta nel porsi dall’interno della “ragione economica” (CV 32, 36) per affermare che tale principio è applicabile anche al mercato: “Anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica” (CV, 58)[4]. Diventa così evidente che il principio di sussidiarietà si presta ad essere interpretato come elemento imprescindibile per il superamento delle storture della modernità.
Questa impostazione si traduce necessariamente in una profonda rilettura delle politiche sociali. Sono chiamate a sperimentare formule di partnership fra pubblico e privato in cui alla modalità regolativa di tipo gerarchico viene sostituita una regolazione reticolare capace di rispettare i differenti codici simbolici presenti nella società così come le diverse forme organizzative. In questa configurazione delle politiche sociali lo Stato e le pubbliche amministrazioni locali perdono il ruolo di gestori diretti dei servizi per acquistare uno specifico stile di governo.
Libertà di scelta e risorse
Elemento portante di un approccio sussidiario alle politiche sociali è la crescente libertà di scelta della persona. Questa può essere ottenuta attraverso il sostegno diretto della domanda con i cosiddetti “titoli sociali” (in particolare i voucher), al fine di rendere più accessibile una più adeguata disponibilità di risorse utilizzabili sui “quasi mercati” dei servizi accreditati. In ottica sussidiaria, peraltro, la libera scelta non si configura all’interno di un quadro di riferimento atomistico e individualistico, ma al contrario diventa elemento fondamentale per istituire libertà e responsabilità alla persona vista nell’ambito delle sue relazioni costitutive.
Prime fra tutte sono da considerare quelle familiari (CV, 44). Proprio la famiglia dovrebbe dunque essere il soggetto autenticamente centrale nel nuovo welfare e a essa debbono essere riconosciuti diritti ulteriori rispetto a quelli individuali aprendo la strada innanzitutto a una autentica sussidiarietà fiscale che tenga conto e valorizzi le concrete responsabilità familiari assunte da ciascun nucleo.
Democrazia economica per uno sviluppo integrale
La carità nella verità è “un’esigenza della stessa ragione economica”(CV, 36), che in se stessa implica il “principio di gratuità” e di “logica del dono come espressione della fraternità”. È importante allora notare che l’ambito proprio di un’economia di gratuità e di fraternità deve andare dalla società civile al mercato e allo Stato: “Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l’aspetto della reciprocità fraterna”(CV, 38).
I tre capisaldi della Dottrina sociale - dignità della persona, principio di solidarietà e principio di sussidiarietà - sono così rivisitati a partire da una forma concreta di democrazia economica. La gratuità non è più intesa come pura cosmesi della giustizia e del bene comune, senza i quali, tuttavia, non si può parlare né di carità né di verità. Benedetto XVI non lascia scampo: “Oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia” (CV, 38).
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[1] “Un simile pensiero [quello della Trinità] obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria di relazione” CV, 53; anche CV, 55.
[2] R. Guardini, Il significato del dogma del Dio trinitario per la vita etica della comunità, in Scritti politici, Opera Omnia VI, Morcelliana, Brescia, 2005, 97.
[3] Nell’enciclica Caritas in veritate si legge anche: “Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente” (CV, 57).
[4]A. Scola, Il dono fa l’economia libera, commento a Caritas in Veritate, IlSole 24Ore, 9 luglio 2009.