Nella rassegna stampa di oggi:
1) Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
2) Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
3) Lezione Magistrale per la presentazione dell’Enciclica di Benedetto XVI"Caritas in veritate" - Cattedrale di S. Pietro, 25 settembre 2009
4) Moratoria contro i nuovi pagani - di Francesco Agnoli - Il libro di Harry Wu "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina" dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.
5) Nuovi convertiti - Cristianesimo esplosivo - È in libreria Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione (Torino, Lindau, 2009, pagine 214, euro 16) di Lorenzo Fazzini, giornalista collaboratore di "Avvenire" e delle riviste "Tempi" e "Mondo e Missione". Ne pubblichiamo la prefazione: l'autrice, che collabora al nostro giornale, ha ricevuto a Capri, sabato 26 settembre, il Premio Capri - San Michele per il giornalismo. - di Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009
6) Per sottoscrivere la Lettera aperta... - Curatore: Salina, Giorgio - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
7) Per i principi etici gran brutto segno - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
8) Ru 486: la pillola della solitudine. - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 25 settembre 2009
9) Karl Rahner, un cristianesimo senza radici di Fr Giovanni Cavalcoli, op - Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici. - [Da «Radici Cristiane n. 47, Agosto-Settembre 2009]
10) L A S PAGNA PUNTA ALL ’ ABORTO FACILE . A NCHE PER LE MINORENNI - Se la legge insegna che dare la vita è amministrare desideri - PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 27 settembre 2009
11) A PROPOSITO DI « FAMIGLIA ALLARGATA » - La felicità non è un caos - FERDINANDO C AMON – Avvenire, 27 settembre 2009
Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
Oggi, nel primo pomeriggio, Caterina avrebbe dovuto laurearsi in Architettura. Aveva passato tutta l’estate sulla tesi…. Ma non è il momento dello struggimento. Siamo in battaglia e come soldati bisogna stare all’istante presente, senza nostalgie.
Dobbiamo combattere con e per Caterina. Come lei sta facendo: ieri è stato evidente. Ha fatto altri “piccoli” passi che in realtà sono grandi scalate, come il fatto di respirare da sola…
Ieri era anche la festa di padre Pio: avevo chiesto al Padre un bel regalo per Caterina. Ne è arrivato uno inimmaginabile e grandioso: la visita della Regina del Cielo. Sì, sono certo che la Madonna è sempre lì con lei, ma ieri in modo speciale quegli “ojos de cielo” che Caterina canta con tanta passione (l’avete sentita), l’hanno teneramente abbracciata…
In breve: in mattinata mi telefona Marija Pavlovic (una dei sei veggenti di Medjugorje), nostra grande amica che già da giorni prega per Caterina, e mi dice che – per una serie di circostanze – può venire a Firenze e vorrebbe far visita a Cate proprio nell’ora della quotidiana apparizione.
E’ arrivata, abbiamo partecipato alla messa e poi è andata da mia figlia con mia moglie, mentre noi, con gli amici di Cate, recitavamo il rosario fuori. La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina.
La Madonna ha ascoltato e ha iniziato a pregare. Ci ha fatto capire col suo gesto che bisogna affidarsi totalmente a Lei e pregare ancora. E noi instancabilmente continuiamo…
Ce l’hanno insegnato i santi. San Francesco di Paola ha detto: “E’ cosa certa quel che vi dico: tutto ciò che chiedete nella preghiera abbiate certezza che è già vostro perché così dovrà avvenire per volere della Madonna”.
E alla mistica Maria Valtorta – che fra l’altro è sepolta proprio alla S.S. Annunziata, a Firenze – è stato detto: “Io vi dico: abbiate una fede sconfinata nel Signore. Continuate ad averla nonostante ogni insinuazione e ogni evento, e vedrete grandi cose quando il vostro cuore non avrà più motivo di sperare di vederle…”.
Penso che in questi giorni ci stia facendo capire molte cose preziose. Anzitutto che la vera malattia è quella di noi sani quando siamo lontani da Dio. Gesù ha bisogno che qualcuno lo aiuti a portare su di sé il male degli uomini. Per sanarli.
Noi cristiani che siamo parte del Suo Corpo, offrendoGli le nostre sofferenze e le nostre vite lo aiutiamo in questo. Io sono pieno di stupore e commozione per le tante persone che mi hanno scritto che offrono le sofferenze delle loro diverse prove e malattie… E’ stupore e commozione per l’abbraccio del popolo cristiano…
Una mail che ho ricevuto dice:
“Caterina senza fare nulla muove il mondo. Tutto quello che ci comunichi è un grande miracolo che accade davanti ai nostri occhi. Gesù è qui ora e possiamo vedere la Sua Gloria attraverso la fede del suo popolo. Caterina è i nostri figli e tu e Alessandra siete noi. Continuiamo a Pregare Maria perché Gesù guarisca la vostra e nostra Caterina. Un grande abbraccio. A. T. ”.
Penso anche io che attraverso la sofferenza muta di Caterina, che commuove tanti cuori, la Regina del Cielo stia guarendo tante persone e sono certo che, con l’aiuto delle nostre preghiere e dei nostri digiuni, stia facendo grandi cose. Guarirà anche Caterina, facendola svegliare dal coma e facendola tornare a cantare la bellezza di Dio.
Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
Oggi, nel primo pomeriggio, Caterina avrebbe dovuto laurearsi in Architettura. Aveva passato tutta l’estate sulla tesi…. Ma non è il momento dello struggimento. Siamo in battaglia e come soldati bisogna stare all’istante presente, senza nostalgie.
Dobbiamo combattere con e per Caterina. Come lei sta facendo: ieri è stato evidente. Ha fatto altri “piccoli” passi che in realtà sono grandi scalate, come il fatto di respirare da sola…
Ieri era anche la festa di padre Pio: avevo chiesto al Padre un bel regalo per Caterina. Ne è arrivato uno inimmaginabile e grandioso: la visita della Regina del Cielo. Sì, sono certo che la Madonna è sempre lì con lei, ma ieri in modo speciale quegli “ojos de cielo” che Caterina canta con tanta passione (l’avete sentita), l’hanno teneramente abbracciata…
In breve: in mattinata mi telefona Marija Pavlovic (una dei sei veggenti di Medjugorje), nostra grande amica che già da giorni prega per Caterina, e mi dice che – per una serie di circostanze – può venire a Firenze e vorrebbe far visita a Cate proprio nell’ora della quotidiana apparizione.
E’ arrivata, abbiamo partecipato alla messa e poi è andata da mia figlia con mia moglie, mentre noi, con gli amici di Cate, recitavamo il rosario fuori. La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina.
La Madonna ha ascoltato e ha iniziato a pregare. Ci ha fatto capire col suo gesto che bisogna affidarsi totalmente a Lei e pregare ancora. E noi instancabilmente continuiamo…
Ce l’hanno insegnato i santi. San Francesco di Paola ha detto: “E’ cosa certa quel che vi dico: tutto ciò che chiedete nella preghiera abbiate certezza che è già vostro perché così dovrà avvenire per volere della Madonna”.
E alla mistica Maria Valtorta – che fra l’altro è sepolta proprio alla S.S. Annunziata, a Firenze – è stato detto: “Io vi dico: abbiate una fede sconfinata nel Signore. Continuate ad averla nonostante ogni insinuazione e ogni evento, e vedrete grandi cose quando il vostro cuore non avrà più motivo di sperare di vederle…”.
Penso che in questi giorni ci stia facendo capire molte cose preziose. Anzitutto che la vera malattia è quella di noi sani quando siamo lontani da Dio. Gesù ha bisogno che qualcuno lo aiuti a portare su di sé il male degli uomini. Per sanarli.
Noi cristiani che siamo parte del Suo Corpo, offrendoGli le nostre sofferenze e le nostre vite lo aiutiamo in questo. Io sono pieno di stupore e commozione per le tante persone che mi hanno scritto che offrono le sofferenze delle loro diverse prove e malattie… E’ stupore e commozione per l’abbraccio del popolo cristiano…
Una mail che ho ricevuto dice:
“Caterina senza fare nulla muove il mondo. Tutto quello che ci comunichi è un grande miracolo che accade davanti ai nostri occhi. Gesù è qui ora e possiamo vedere la Sua Gloria attraverso la fede del suo popolo. Caterina è i nostri figli e tu e Alessandra siete noi. Continuiamo a Pregare Maria perché Gesù guarisca la vostra e nostra Caterina. Un grande abbraccio. A. T. ”.
Penso anche io che attraverso la sofferenza muta di Caterina, che commuove tanti cuori, la Regina del Cielo stia guarendo tante persone e sono certo che, con l’aiuto delle nostre preghiere e dei nostri digiuni, stia facendo grandi cose. Guarirà anche Caterina, facendola svegliare dal coma e facendola tornare a cantare la bellezza di Dio.
Fra le migliaia (letteralmente) di mail che mi arrivano e a cui tento di rispondere come posso, ne trascrivo una, di una mamma, che dice tutte queste cose:
Cara famiglia che stai soffrendo in un modo tanto simile alla mia, nelle due settimane di coma profondo della mia piccola Elena, una città intera ha pregato per lei. Amici e conoscenti, miscredenti e persone lontane da Dio si sono inginocchiate nelle tante veglie notturne organizzate per la mia piccina. Hanno strappato a Dio una promessa che ora si sta compiendo.
Noi, in sala rianimazione, abbiamo sollecitato continuamente Elena pregando su di lei a voce alta, cantando i canti della messa domenicale che lei, anche se piccolissima, aveva ascoltato, facendole ascoltare tanto Mozart.
Un cervello che dorme va risvegliato! Le ho raccontato tutto quello che avevamo fatto insieme e le ho descritto tutte le cose belle che avremmo fatto ancora e tutte le meraviglie del creato che avrebbero visto i suoi occhi una volta guarita.
Si é svegliata. A dispetto delle sue condizioni definite gravissime. Il Signore ci ascolta. Anche Caterina vi sta sentendo come la mia piccolina. Anche la miocardiopatia dilatativa gravissima, di origine non virale e ancora oggi inspiegabile, si è risolta e il cuoricino di Elena batte senza bisogno di aiuto.
Coraggio, non pensate al domani, vivete giorno per giorno la vostra battaglia e il Signore vi darà forza e pace proprio come a noi.
Continuiamo a pregare per Caterina.
Alessandra.
Queste sono le bellissime testimonianze che mi state dando e che trascrivo qui perché penso possano essere di aiuto per molti. Mentre vi abbraccio tutti ringraziandovi per tutto quello che fate.
Tanti sono rimasti commossi nell’ascoltare “Ojos de cielo” cantata da Caterina con il coro Foné, degli universitari di CL. Nei prossimi giorni cercherò di mettere qui nel blog altri loro canti. Spero che sentire la sua voce e quella dei suoi amici sia un piccolo ringraziamento per le vostre preghiere e le vostre offerte di digiuni. Ma sono certo che la più grande ricompensa vi arriverà dal Cielo…
Antonio Socci
Lezione Magistrale per la presentazione dell’Enciclica di Benedetto XVI"Caritas in veritate" - Cattedrale di S. Pietro, 25 settembre 2009
"La carità nella verità di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita e, soprattutto con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera"
L’incipit dell’Enciclica ne è la fondamentale chiave interpretativa. Il mio compito questa sera è di aiutarvi a leggerla con questa chiave interpretativa; non di sostituirmi alla sua lettura attenta.
1. A modo di premessa al mio discorso parto da una domanda: di chi, di che cosa parla l’Enciclica? E quindi a chi si rivolge?
Per rispondere parto da due testi singolarmente sintonici: uno di G. Leopardi, e uno di S. Ambrogio.
Il testo leopardiano è desunto da una Operetta morale, Dialogo di un fisico e di un metafisico. In esso il grande poeta immagina che un fisico [oggi potremmo dire un biologo, un economista] abbia finalmente scoperto la modalità per tutti di vivere lungamente: di questa scoperta si mostra molto fiero. Il metafisico [oggi diremmo: uno che non si accontenta di usare la sua ragione in modo limitato] gli risponde di secretare subito la scoperta, fino a "quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente". E aggiunge: "se la vita non è felice …… meglio ci torna averla breve che lunga" dal momento che "la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio".
Questa ultima affermazione sembra risuonare e quasi ripetere una pagina di S. Ambrogio, citata da Benedetto XVI nell’Enc. Spe salvi [Cf. n. 10]. Dice dunque il grande Vescovo di Milano: "A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia".
I due testi narrano una quotidiana esperienza di ogni uomo: questi non desidera, non vuole semplicemente vivere: desidera, vuole vivere bene; vivere una buona vita.
Faccio una breve parentesi. In realtà l’Enciclica non usa questa terminologia. Parla di "vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera". Le due parole – "buona/vera vita – vero sviluppo" - denotano la stessa realtà. La seconda ha il vantaggio di sottolineare una proprietà essenziale della persona vivente: il suo sviluppo; il suo dinamismo intrinseco.
E’ dunque in questo contesto che l’Enciclica afferma che la "forza propulsiva" che sviluppa e la persona e la società; la "forza propulsiva" che fa vivere e alla persona e alla società una buona, una vera vita: che dà origine ad una buona vita ed a una buona società, è la carità nella verità. La qualità della vita personale e la qualità della vita associata dipende dalla messa in atto della "carità nella verità".
Abbiamo trovato la risposta alle due domande da cui siamo partiti. Prima domanda: di che cosa parla l’Enciclica? Parla di come e spiega perché la "carità nella verità" "produca" una buona vita associata [= produca il vero sviluppo]. Seconda domanda: a chi si rivolge l’Enciclica? Ad ogni uomo di buona volontà, cioè a chi vuole vivere una vita associata buona, e quindi "amare nella verità".
Ne deriva che la comprensione di ciò che significa "carità nella verità" o "amore nella verità" è la conditio sine qua non per comprendere il testo pontificio.
Nel secondo punto della mia riflessione cercherò di darvi un aiuto in questo senso. Prima però devo fare alcune considerazioni preliminari, molto semplici.
L’Enciclica non parla genericamente di "vita umana", ma di "vita umana associata": più semplicemente, di società umana. E’ quindi un discorso di dottrina della società, di dottrina sociale. Intendendo tutte le espressioni della socialità umana [escluse matrimonio e famiglia]: le società economiche, la società politica, la società internazionale. Per usare un’espressione molto cara al Magistero della Chiesa: parla della famiglia umana.
L’Enciclica quindi intende insegnare perché e come la carità nella verità è la principale forza costruttiva di una buona vita associata. Per usare l’espressione pontificia: l’Enciclica tratta della caritas in veritate in re sociali. E’ di questo che parla.
L’Enciclica fa perciò un’affermazione di grande importanza epistemica all’interno dell’enciclopedia del sapere teologico. La Dottrina sociale della Chiesa è la caritas in veritate - in re sociali – in quanto essa [la caritas in veritate] diventa dottrina, cioè pensiero sociale, economico, politico,……….. ma di questo non è il caso ora di parlare. Dico solo: che è un’affermazione di grande importanza.
2. In questo secondo punto vorrei aiutarvi a capire che cosa significa nell’Enciclica "caritas in veritate".
Quando la Dottrina sociale parla della carità, parla di una elevazione, di una capacitazione della nostra volontà che la rende capace di amare, cioè di volere il bene dell’altro nel modo con cui Dio stesso ha voluto e vuole in Cristo il bene dell’uomo. La carità è la forza divina creatrice e redentiva dell’uomo, che viene comunicata all’uomo che crede.
Proviamo ora a rispondere alla seguente domanda: che cosa produce, cementa e solidifica i rapporti sociali? Non possiamo ora dare una risposta molto articolata. Semplificando un poco, possiamo dire che noi rispondiamo a questa domanda a seconda che riteniamo o no che la persona umana sia originariamente, per natura sociale, oppure che ciascuno sia per natura un individuo isolato.
Partiamo da questa seconda ipotesi. Se ciascuno di noi è per natura un individuo a se stante, ciò che spinge ciascuno ad entrare in società con l’altro è l’utilità che può venirgli dal rapporto sociale. La società quindi si costruisce sulla base dello scambio di equivalenti. È in sostanza la contrattazione fra individui separati originariamente, che sono alla ricerca del proprio bene individuale in con-correnza con gli altri individui. Possiamo dire che "la principale forza propulsiva" di una società così pensata sia la carità? Non sembra. La principale forza propulsiva è che ……. alla fine i conti tornino: che cioè il "peso del vivere associato" sia almeno equivalentemente ricompensato dai vantaggi.
Se, al contrario, parto dalla certezza, generata dall’esperienza, che la persona umana è originariamente, per natura, relazionata ad ogni altra persona umana; che ogni uomo è il prossimo di ogni uomo, la società è edificata da relazioni istituite per il bene umano comune. Ritorneremo su questo concetto centrale nella Enciclica.
La forza propulsiva che produce, aumenta e solidifica i rapporto sociali non è principalmente la ricerca del mio bene a prescindere dal, o contro il tuo bene. È la ricerca del bene che è mio e tuo perché è il bene umano comune. Questa forza è la carità. L’Enciclica quindi dice che essa "è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, famigliari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici" [2,1].
Il primo modello di società mira a creare una società di uguali; il secondo, una società di fratelli. Si può essere uguali senza essere fratelli; non si può essere fratelli se non si è uguali nella diversità e diversi nell’uguaglianza.
La "cifra" del primo modello è lo scambio di equivalenti, e quindi l’assenza della gratuità; la cifra del secondo, è il principio di gratuità [Cf. 34,2].
Tutto questo non deve mai farci dimenticare che esiste ed opera dentro alla società umana una forza disgregatrice, "conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tener presente il peccato originale anche nell’interpretazione di fatti sociali e della costruzione della società" [34,1].
L’Enciclica però non dice semplicemente che la carità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. Ma insegna che tale è la carità nella verità. E’ il punto centrale del documento pontificio. Che cosa significa?
Potrei rispondere molto semplicemente e molto brevemente: significa che la carità non radicata nella verità "diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente" [3]; significa che la carità "va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità" [2,2].
Ma per capire e capirci, di quale verità si parla? Insomma di che cosa parliamo quando in questo contesto parliamo di verità? Parliamo di ciò che è bene per l’uomo; di ciò che è bene per l’uomo in quanto esso – il bene dell’uomo e per l’uomo – è indicato, è suggerito dalle fondamentali esigenze della persona umana come tale.
Faccio qualche esempio. Se un uomo ha fame, non è difficile capire ciò che è bene per quell’uomo: mangiare. Non è difficile sapere che cosa è il bene di quell’uomo: il cibo in quantità sufficiente. Vedete? Alla domanda circa il bene dell’uomo ho risposto con certezza: è il cibo. Ho detto la verità circa il bene dell’uomo. Se di fronte ad un affamato, ritenessi che il suo bene fosse il vestito, e gli donassi un vestito, e non il cibo, non lo amerei in verità: non vorrei il suo bene. La "carità nella verità" significa volere il bene reale, vero dell’altro.
Ho fatto di proposito un esempio assai semplice. Ma le cose purtroppo non lo sono, o comunque non lo sono sempre così chiaramente. Per due motivi.
Il primo. I fenomeni, i fatti sociali sono complessi. L’Enciclica, per esempio, parlando del mercato scrive: "E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché questo sia la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso" [36,2].
Il mercato è un fatto sociale imprescindibile. L’Enciclica fa su di esso una riflessione cha da una parte non può dimenticare che "il mercato non esiste allo stato puro ….. (ma) trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano"; ma dall’altra parte, l’Enciclica afferma che o il mercato è ispirato, governato anche dal principio di gratuità o altrimenti va contro al bene dell’uomo.
Potete costatare che è messo in atto lo stesso uso della ragione. Quale è il bene per chi ha fame? Il cibo. Quale è il mercato che risponde alle esigenze dell’uomo? Quello in cui trova posto il principio di gratuità e la logica del dono. Se tu a chi ha fame doni un vestito, non lo ami in verità; se tu costruisci un mercato dal quale escludi per principio gratuità e dono, non ami l’uomo in verità: non favorisci il vero sviluppo.
Il secondo fatto che complica la questione. Oggi è comune il pensiero che non esista una verità universalmente condivisibile circa ciò che è bene / male per l’uomo, ma tutto dipende esclusivamente dal consenso sociale. Non si dice più: "questo è bene; questo è male"; ma si preferisce: "oggi si ritiene che questo sia bene, che questo sia male".
Spero di aver chiarito che cosa significa "nella verità". Se ci sono riuscito, non vi sarà difficile comprendere e sottoscrivere, alcune gravi affermazioni; e dedurre due conseguenze.
Gravi affermazioni. Il Papa dice: "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità" [3]. Alla fine, se la comunità cristiana si lascia assoggettare dalla tirannia del relativismo, essa riduce la sua forza più grande, la carità, ad un fatto marginale nella società, relegato in un ambito privato e ristretto.
La prima conseguenza. Se non esiste una verità circa ciò che è bene / male per l’uomo, la ricerca e lo sforzo per edificare una vita associata non può non diventare e continuare ad essere uno scontro per imporre i propri interessi. Dice il S. Padre: "Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali" [5,2; cf. anche 4].
La seconda conseguenza. Possiamo comprendere meglio che cosa è la Dottrina sociale della Chiesa, e quale è la sua funzione. Essa è costituita dal Magistero della Chiesa che insegna quali sono le esigenze vere della persona umana e della vita associata; che cosa è chiesto alla carità per volere e promuovere il vero bene della persona umana.
La Dottrina sociale non intende offrire soluzioni tecniche ai problemi sociali, né ancor meno programmi politici concorrenziali con altri programmi politici nella vita democratica della società politica. Si pone su un altro piano. Indica quella verità circa il bene da compiere per una società a misura della dignità dell’uomo. Potrei dire: la Dottrina sociale è "caritas quaerens intellectum"; è la carità che diventa pensiero.
Ecco ho spiegato – spero di esserci riuscito – quale è la "vera forza propulsiva per il vero sviluppo": la caritas in veritate.
3. Giunti a questo punto della nostra riflessione possiamo individuare con una certa facilità la domanda fondamentale a cui l’Enciclica cerca di rispondere.
Se è la carità che costruisce i rapporti sociali; se la carità chiede quali sia in verità una buona società [caritas in veritate], la domanda fondamentale allora è: quale è il vero sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera? E quindi, come contro–domanda fondamentale: quali sono i principali errori, e quindi le insidie più gravi circa lo sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera?
Se voi verificate semplicemente l’indice dell’Enciclica, potete rendervi conto che questa è la sua "filigrana teoretica". Una filigrana in cui s’intrecciano i due fili, le due risposte a domanda e contro–domanda, non limitandosi ad affermazioni generiche, ma analizzando i momenti costitutivi della vita umana associata. Ovviamente non ne faccio l’analisi completa; vi dicevo all’inizio, che non intendo sostituirmi alla lettura personale. Mi limito a due richiami di fondo. L’uno all’interno della risposta alla domanda, l’altro, della risposta alla contro– domanda.
Il primo. Partiamo da un’esperienza semplice, quotidiana, ma stupenda. Nella comunità famigliare la fraternità – l’essere in più figli degli stessi genitori – mostra e fa vivere il fatto che lo stesso amore – quello dei genitori, appunto – è condiviso senza essere spartito, è comunicato senza essere diminuito, è moltiplicato senza essere raffreddato. È la sublime esperienza della fraternità dove ciascuno è se stesso nella sua diversità, ma ugualmente riconosciuto nella sua dignità.
L’Enciclica insiste varie volte nell’affermare che il vero sviluppo della società si fonda sulla fraternità. Ma l’esperienza della fraternità può sorgere solo dall’esperienza della stessa paternità. Scrive l’Enciclica: "Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad "essere di più"" [29].
Il secondo. Uno dei rischi e delle insidie più gravi oggi al vero sviluppo dell’uomo è la tecnocrazia o, come lo chiama il S. Padre, "l’assolutismo della tecnicità".
Ho parlato recentemente di questo tema, e non è tempo di riprenderlo ora. Che cosa significa "assolutismo della tecnocrazia"? Una cosa molto semplice: se qualcosa è fattibile ed io desidero che si faccia, nessuno – almeno in linea di principio – deve impedirmi di averla e al tecnico di compiere, su richiesta, la prestazione. In breve: l’unica domanda sensata di fronte ad un possibile corso d’azione, è se essa è tecnicamente possibile. Ogni altra domanda – è bene? è male? promuove il bene comune? – non ha senso. Si legga il n. 68. Assolutismo tecnocratico significa far coincidere il vero col fattibile [Cf. 70].
Siamo così ritornati al punto di partenza. Se non esiste una verità circa il bene della persona: se la carità non è nella verità, l’uomo è esposto ad ogni pericolo.
4. Sono così giunto alla conclusione. Mi faccio ancora una domanda: questa Enciclica riguarda tutti, o solo chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, finanziarie?
Riguarda tutti noi, almeno per due ragioni connesse. Essa ci aiuta a capire il fatto sociale nelle sue espressioni fondamentali, alla luce congiunta della ragione e della fede. In una situazione come quella attuale di grave incertezza, fare luce è la prima necessità.
L’Enciclica poi, e di conseguenza, ci educa a quel discernimento o giudizio della fede mediante il quale impariamo non solo a capire, ma anche a valutare ciò che accade nella società di oggi. Senza essere schiavi delle mode imperanti.
Ma soprattutto chi a vario titolo ha responsabilità sociali non può ignorare questo documento. Va letto tenendo sempre presente che esso si pone al di sopra della sviante distinzione fra "destra" e "sinistra" correggendo l’una con apporti dell’altra. L’Enciclica si pone oltre. Essa affronta ed offre soluzioni a questioni assai concrete ed ancora oggi irrisolte, relative alla vita personale e sociale: le domande che ogni uomo, di "destra" o "sinistra" che sia, ma veramente appassionato al suo destino, non può non avere.
Il Foglio 29-7-2009
Moratoria contro i nuovi pagani - di Francesco Agnoli - Il libro di Harry Wu "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina" dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.
Ebbene, chi ama la storia sa che quello che succede oggi in questi due grandi paesi, che insieme costituiscono quasi un terzo della popolazione mondiale, è sempre accaduto, in passato, anche nella vecchia Europa o nel nuovo Mondo. Sino all'avvento del cristianesimo.
Una delle idee che più ricorrono negli scritti dei primi cristiani, è infatti il loro desidero di ribadire sovente un concetto: noi cristiani siamo diversi dai pagani, anche perché non uccidiamo i nostri figli, né nel grembo delle nostre donne, né fuori.
Minucio Felice, un apologeta del II secolo, nel suo "Ottavio", al capitolo XXX, paragrafo 2, paragonando l'insegnamento di Cristo con quello degli dei pagani, scrive: "Voi esponete i vostri figli appena nati alle fiere e agli uccelli, o strangolandoli li sopprimete con misera morte; vi sono quelle che ingurgitando dei medicamenti soffocano ancora nelle proprie viscere il germe destinato a divenir creatura umana e commettono un infanticidio prima di aver partorito. E questo apprendete dai vostri Dei, Saturno infatti non espose i propri figli, ma addirittura li divorò".
A sua volta, il grande Tertulliano, nel suo "Apologetico", cap. IX, ribadisce: "A noi cristiani l'omicidio è espressamente vietato, e quindi non ci è permesso neppure di sopprimere il feto nell'utero materno. Impedire la nascita è un omicidio anticipato. Nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si stronchi sul nascere: è già essere umano quello che sta per nascere. Ogni frutto è già nel suo seme".
Un altro documento molto importante del cristianesimo del II secolo, proveniente dall'Asia Minore, la Lettera a Diogneto, ribadisce gli stessi ideali in questo modo assai sintetico: "i cristiani si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati".
Proprio su questo tema dell'infanticidio lo storico A. Baudrillart ha scritto: "Non vi è forse materia, in cui tra la società antica e pagana e la società cristiana e moderna, l'opposizione sia più accentuata che i loro modi rispettivi di considerare il fanciullo".
In effetti, se guardiamo al mondo antico, notiamo che l'aborto e l'infanticidio sono assai diffusi. "Seneca – ricorda il sociologo americano Rodney Stark, in 'Ascesa e affermazione del cristianesimo' – riteneva l'annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole. Tacito accusava i giudei ai quali 'è proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito', ritenendola un'altra delle loro usanze 'sinistre e laide'. Era comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se solitamente veniva lasciato in balia delle intemperie e di animali e uccelli".
I bambini, a Roma come in Grecia, vengono dunque tranquillamente uccisi, oppure venduti, oppure esposti e lasciati morire di fame e di freddo, quando non vi è qualcuno a salvarli, solitamente per farne schiavi. Sappiamo di ritrovamenti, nelle fognature romane, di ammassi di ossa appartenute a neonati, abbandonati e poi gettati via come residui e immondizie.
Vittime dell'infanticidio sono più spesso le bambine, come nella Cina e nell'India di oggi, mentre l'aborto comporta, oltre alla morte del feto, non di rado anche il decesso, oppure la sterilità, della madre.
Il rifiuto dei primi cristiani di ricorrere all'aborto e all'infanticidio, connesso dunque a una loro alta fecondità, non è soltanto una grande conquista dell'umanità, ma anche uno degli elementi che permettono ai primi cristiani, insieme alle conversioni, di crescere sempre di più, sino a superare numericamente i pagani.
Ma l'infanticidio non è praticato soltanto a Roma, come testimoniato anche dalla leggenda di Romolo e Remo, o in Grecia, ma in tutto il mondo antico.
Il celebre bioeticista e animalista Peter Singer sostiene con forza l'idea che tale antica consuetudine sia da riscoprire anche oggi, assieme all'aborto legale. Infatti, se è vero che solo i cristiani la respinsero con forza – argomenta Singer –, perché mai dovremmo credere che essi siano stati gli unici ad aver ragione, mentre tutti gli altri popoli e religioni del passato, avrebbero avuto torto?
"L'uccisione dei neonati indesiderati – scrive Singer nel suo libro 'Ripensare la vita' – è stata prassi normale in moltissime società, in tutto il corso della preistoria e della storia. La troviamo per esempio nell'antica Grecia, dove i bambini handicappati venivano esposti sui pendii delle montagne. La troviamo in tribù nomadi, come quella dei Kung del deserto del Kalahari, dove le donne uccidono i bambini nati quando ci sia un figlio più grande non ancora in grado di camminare. L'infanticidio era prassi corrente anche su isole polinesiane come Tikopia, dove l'equilibrio tra risorse alimentari e popolazione veniva mantenuto soffocando i bambini indesiderati dopo la nascita. In Giappone, prima dell'occidentalizzazione, il 'mabiki', parola nata dalla prassi di sfoltire le piantine di riso per consentire a tutte quelle restanti di fiorire, ma che finì per indicare anche l'infanticidio, era ampiamente praticato non solo dai contadini, che potevano contare su modesti appezzamenti di terreno, ma anche dai benestanti".
Con la diffusione del cristianesimo in buona parte del mondo, aborto e infanticidio divengono fenomeni molto più rari e circoscritti, mentre le legislazioni, a partire da Costantino, intervengono nella tutela degli infanti e si sviluppano opere di carità e di assistenza per i bambini abbandonati e per le famiglie in difficoltà. Sino al ritorno dell'aborto nelle legislazioni comuniste e naziste, nel Novecento, e dell'infanticidio, con la nuova legge sull'eutanasia dei bambini fino ai dodici anni, in Olanda.
***
Se torniamo ora con la mente ai due grandi paesi in cui l'aborto, anche forzato, e l'infanticidio sono fenomeni di massa, è facile, dopo questo breve excursus, capire il perché di tutto ciò: Cina e India sono tra i paesi in cui il Vangelo di Cristo è penetrato di meno, e con esso anche la cultura occidentale, portatrice, consapevole o no, di questo messaggio o almeno di parte di esso.
Quando i primi missionari gesuiti raggiungono la Cina, rimangono piuttosto ammirati da questa grande civiltà. Quello che però colpisce negativamente il grande Matteo Ricci, allorché nel 1583 mette piede nel Celeste Impero, è la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro e, soprattutto, la diffusione della pratica dell'infanticidio. Il regime comunista, capace di pianificare milioni di aborti forzati, sterilizzazioni di massa, uccisione in serie di neonati, ha ancora lontano da venire, ma il rispetto dei fanciulli, in quel paese per altri aspetti ammirevole, manca del tutto.
Come scriverà J. J. Matignon ai primi del Novecento in "Superstition, crime e misère en Chine", i cinesi sovente vendono le loro figlie come prostitute, oppure le uccidono, per la povertà ma anche a causa delle loro superstizioni magiche, del loro ossessivo culto degli antenati: "Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica. Succede che dopo il parto la puerpera cada ammalata, e allora, per ingraziarsi gli spiriti, le bimbe o in certi casi i bimbi sono soppressi. Esistono delle donne che hanno il preciso compito di procurare la morte alle neonate… I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell'abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno ad ostruirne le vie respiratorie". Altre volte i bambini vengono annegati o soffocati con dei cuscini, anche se l'influenza degli europei, conclude Matignon, sembra avere qualche effetto limitante nei confronti di queste consuetudini.
Quasi negli stessi anni di Matignon, due missionari raccontano sulla Cina le medesime cose. Il primo è un gesuita, sant'Alberto Crescitelli, poi decapitato e sventrato, a 37 anni, il 21 luglio 1900, durante la rivoluzione dei Boxer. Il secondo è un missionario verbita della Val Badia, in Trentino Alto Adige, san Giovanni Freinademetz. Giunto nel paese che amerà per tutta la vita, sino a morirvi di tifo, egli scrive ai suoi cari, in più occasioni, che i cinesi hanno il "costume di esporre il proprio bambino o semplicemente scambiarlo oppure venderlo... Uno dei nostri migliori cristiani, prima della sua conversione, aveva ucciso la sua bambina scagliandola contro le pietre semplicemente perché piangeva troppo" (Sepp Hollweck, "Il cinese dal Tirolo", Athesia, 2003).
In un'altra lettera, scritta da Hong Kong il 28 aprile 1879, Freinademetz racconta come le monache cattoliche abbiano costruito due orfanatrofi, in cui raccolgono più di mille bambini all'anno. I cinesi "li danno per niente o per alcuni centesimi, e non se ne curano altro".
I missionari dunque – scrive da Puoli il 2 luglio 1882 – girano per le strade a raccoglierli, ne trovano a migliaia in fin di vita e si limitano a battezzarli, mentre quelli che possono li salvano: "Molte anime furono già salvate dopo che siam arrivati qui, molti bambini di pagani battezzati che poi se ne morirono ed ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambina di più di un anno, che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz'ora prima di morire. Noi volevamo fare la sepoltura con tutta pompa per dimostrare ai pagani come onoriamo loro creature che essi gettano via. I pagani qui non usano scrigni da morte per piccoli bambini ma appena morti fanno un buco e lo gettano dentro. Noi gli facemmo a quella bambina un bel vascello tinto a rosso, la vestimmo con una bella veste azzurra, la portavamo in chiesa, noi tutti missionari accompagnati dai cristiani, che non avevano mai visto così. Molti pagani vennero a vedere…" (G. Freinademetz, "Lettere di un santo", Imprexa).
***
Come in Cina, dove l'infanticidio è oggi addirittura affare di Stato, analogamente in India. Anche nel grande paese dominato dalla religione induista l'uccisione, soprattutto delle bambine, è largamente diffusa, per motivi economici e non solo. L'agenzia missionaria "Asia News" riportava recentemente questa notizia: "Presso molte popolazioni tribali le figlie femmine sono considerate solo un peso e la mentalità sociale ne ammette sia il feticidio che l'infanticidio. Nel 2006 in un piccolo villaggio del distretto di Ranga Reddy, a 80 chilometri da Hyderabad, undici neonate sono state lasciate morire di fame dai genitori. Molti tribali sono soliti avvolgere la bambina non voluta dentro stracci e lasciarla morire. Secondo la stampa locale, Jarpula Peerya Nayak, padre di 27 anni, ha detto che 'mia moglie per la terza volta ha avuto una bambina. Una figlia femmina è un peso e abbiamo deciso di non darle da mangiare. Così è morta. È troppo difficile crescere una bambina e trovarle marito'. Il 25 febbraio anche suo cugino J. Ravi e la moglie hanno lasciato morire di fame la loro neonata. 'Mia figlia – racconta Ravi – è morta due giorni dopo la nascita, perché non l'abbiamo nutrita. Abbiamo già due figlie, non possiamo permetterci di averne un'altra'. Un tribale spiega che quale dote della figlia dovrà fornire 'uno scooter, fino a 70 grammi d'oro e 50 mila rupie, per avere un buon marito'. Dopo la morte, i tribali scavano una fossa e vi seppelliscono la neonata, con sopra una pietra. I cani hanno scavato la fossa e mangiato parte del corpo della figlia di Ravi, così l'hanno seppellita di nuovo. La maggior parte delle quaranta famiglie del villaggio hanno assistito a simili episodi o li hanno commessi, dopo avere già avuto due o più figlie femmine. Jarpula Lokya Nayak ha fatto morire di fame due figlie".
Anche in India l'impegno dei missionari e delle minoranze cristiane è votato, oltre che al tentativo di infrangere il muro delle caste e delle diseguaglianze sociali, alla difesa della vita nascente e dell'infanzia, in nome del Dio che si è fatto bambino. Basti un solo esempio: quello di Madre Teresa di Calcutta.
Tutti sanno che la missione di questa donna è stata quella di aiutare i poveri dell'India, gli emarginati, i deboli, gli ultimi. Tra costoro Madre Teresa non ha mai dimenticato di citare i bambini nel grembo materno, definiti da lei, i "più poveri tra i poveri". Nel libro "Dateli a me. Madre Teresa e l'impegno per la vita", Pier Giorgio Liverani riporta il pensiero della santa, espresso in mille circostanze, con una grande forza, come in queste sue frasi: "L'aborto è ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? Noi combattiamo l'aborto con l'adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo diffuso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi" .
La lotta a favore dei bambini contro l'aborto e l'infanticidio è stata condotta da Madre Teresa e dalle sue suore, talora sino al martirio, con grande forza, scontrandosi con una cultura ignara della sacralità della vita sin dalla sua origine. Per gli induisti ad esempio, i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono, sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che scontano colpe precedenti. Le donne, in generale, e tanto più le bambine, sono costose, a causa della dote, e sono considerate inferiori al maschio, "fino al punto, non raramente, di avvelenarle al seno, cospargendolo di veleno, mentre succhiano il latte materno".
Così succede che vi sia talvolta un numero di nascite molto alto, per la ricerca del maschio a tutti i costi e per il conseguente alto numero di infanticidi femminili: si abortisce selettivamente, sino a quando non si ottiene il figlio desiderato, di sesso maschile. Madre Teresa e le sue suore hanno fondato numerose case della carità, scuole ed orfanotrofi, ottenendo grande apprezzamento, ma anche l'opposizione del primo ministro Morarij Desai, che nel 1979 le accusò di aiutare i bambini con le scuole e gli orfanatrofi al solo fine di battezzarli e di convertirli. Madre Teresa gli rispose: "Mi pare che lei non si renda conto del male che l'aborto sta provocando al suo popolo. L'immoralità è in aumento, si stanno disgregando molte famiglie, sono in allarmante aumento i casi di pazzia nelle madri che hanno ucciso i propri figli innocenti. Signor Desai: forse, tra poco lei si troverà faccia faccia con Dio. Non so quale spiegazione potrà dargli per aver distrutto le vite di tanti bambini non nati, ma sicuramente innocenti, quando si troverà davanti al tribunale di Dio, che la giudicherà per il bene fatto e per il male provocato dall'alto della sua carica di governo".
E Madre Teresa aggiungeva come nei 102 centri di Calcutta gestiti da lei fossero passate, nell'ultimo anno, 11.701 famiglie indù, 5.568 famiglie musulmane e 4.341 famiglie cristiane, a cui si era insegnato il senso della famiglia, il rispetto della vita, la necessità di una procreazione responsabile, arrivando a determinare la riduzione delle nascite, ma senza il ricorso né all'aborto né all'infanticidio! Il grido dei bambini non nati, degli infanti uccisi, diceva Madre Teresa, ripetendo in altro modo i concetti espressi secoli e secoli prima da Minucio Felice, Tertulliano e tanti altri, "ferisce l'orecchio di Dio".
Harry Wu, "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina", Guerini e Associati, Milano, 2009, pp. 192, euro 21,50.
Nuovi convertiti - Cristianesimo esplosivo - È in libreria Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione (Torino, Lindau, 2009, pagine 214, euro 16) di Lorenzo Fazzini, giornalista collaboratore di "Avvenire" e delle riviste "Tempi" e "Mondo e Missione". Ne pubblichiamo la prefazione: l'autrice, che collabora al nostro giornale, ha ricevuto a Capri, sabato 26 settembre, il Premio Capri - San Michele per il giornalismo. - di Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009
Nel nostro mondo occidentale secolarizzato e multiculturalista sembra che, almeno negli ultimi anni, alla flessione dei fedeli "normali" corrisponda un numero crescente di conversioni o, più spesso, di "ritorni" alla Chiesa cattolica, da parte di persone appartenenti all'élite intellettuale e artistica, proprio quella da cui era partito, più di un secolo fa, l'esodo dalla fede cristiana. È un po' come se oggi il processo ricominciasse, ma al contrario: l'avanguardia che, a partire soprattutto dall'Ottocento, aveva guidato e predicato l'allontanamento dalla Chiesa, oggi, almeno in una parte piccola ma significativa, sta iniziando a proporre un riavvicinamento alla fede.
La qualità e le caratteristiche di tale movimento in gran parte elitario sono raccontate molto bene dalle dieci interviste a "nuovi cattolici" proposte in questo libro da Lorenzo Fazzini; interviste che sono anche un po' come scatole cinesi, perché ognuna è preceduta da una introduzione dove si delineano altri percorsi di conversione che si possono avvicinare a quello presentato. Gli esempi raccolti sono dunque molto più numerosi delle interviste, e servono a inquadrare i personaggi incontrati dall'autore nel clima di riavvicinamento alla Chiesa che caratterizza questi ultimi anni.
Le interviste - se pure molto diverse tra loro, così come è diversa la storia e l'indole degli intervistati - ci restituiscono quello che costituisce il carattere più vitale ed entusiasmante della conversione, e cioè il fatto che tutti i protagonisti vedono come nuove delle realtà che al resto dei fedeli sembrano polverose e risapute, e le fanno rivivere, ancora caricati da quella "grazia sorprendente che ha salvato uno sventurato come me", per esprimersi con le parole di un grande convertito, John Henry Newman. Possiamo quindi dire che la vitalità della fede ha sempre bisogno di nuovi convertiti, del loro sguardo nuovo e appassionato, della loro scoperta contagiosa dell'anima di una tradizione. I dieci personaggi narrati da Fazzini possono allora essere considerati una ricchezza del nostro tempo, per altri versi così difficile, e la sua idea di riproporci il loro originale percorso spirituale un dono che serve a risvegliare la fede cristiana. È anche una piacevole lettura: le storie di conversione si possono infatti considerare biografie avventurose a lieto fine, perché il protagonista riesce a trovare ciò che cerca, e dà un nuovo senso alla sua vita. Sono quindi letture apportatrici di speranza, e anche, ci auguriamo, contagiose, quindi capaci di suscitare altre conversioni, come lo sono stati gli scritti di grandi convertiti, ad esempio Chesterton.
Fra i dieci intervistati, tre sono italiani - Pera, Tosatti, Ferretti - molto diversi tra loro quanto possono esserlo un docente universitario prestato alla politica, un giornalista vaticanista - entrambi arrivati o tornati ad apprezzare la Chiesa attraverso un percorso intellettuale - e un musicista rock. Vi sono poi tre francesi - Schmitt, Guillebaud, Hadjadj - a testimoniare come l'importante tradizione della conversione degli intellettuali che ha segnato la cultura francese dell'Ottocento e del Novecento sia ancora viva. Seguono poi l'irlandese Waters, l'inglese Pearce e, infine, soltanto due donne, una studiosa di politica internazionale che ha fatto parte del governo norvegese, Matlary, e una saggista tedesca, Kuby.
Il fatto che in questa raccolta di interviste il numero delle donne sia così nettamente inferiore rispetto ai convertiti maschi mi sembra corrispondere a una realtà storica: le donne sono state le ultime ad allontanarsi dalla Chiesa, negli anni Settanta del Novecento, e oggi probabilmente saranno le ultime a rientrare, ancora in larga parte vittime di una ideologia femminista radicale che ha considerato la religione cattolica una della cause principali dell'oppressione delle donne.
Le scelte compiute da Fazzini si possono quindi considerare un campione significativo, da cui è allora legittimo trarre alcune considerazioni più generali: molti intervistati sono passati attraverso i movimenti di protesta del Novecento, o comunque risultano segnati da una vita avventurosa che tradisce una inquietudine profonda, una ricerca di giustizia e di verità che poi troverà una risposta nella fede cattolica. Anzi, leggendo con attenzione le loro parole, si direbbe che quanto più forti erano l'ansia ribelle e il desiderio di capire e rivoluzionare, tanto più lucide sono oggi le riflessioni sulla cultura attuale, che sanno giudicare dall'esterno. Al contrario, possiamo concludere che sono invece le persone più tranquille - quelle che si accontentano di una società in cui la libertà individuale e la possibilità di realizzare i propri desideri sono assicurati a quasi tutti - ad accettare senza porsi domande l'indifferenza religiosa e il relativismo dei valori.
Lo spiega bene John Waters: già sessantottino e già alcolista, oggi ha scoperto che "la Chiesa è il luogo che porta la verità nel mondo" e ha capito come in una cultura che cerca di soddisfare i nostri desideri subentri fatalmente la noia, perché il tempo dell'esistenza non si limita a regolarsi sul principio della soddisfazione del desiderio, "ma consiste in qualcosa di più straordinario", nella speranza di potere "ricevere qualcosa di più grande dalla vita". E Joseph Pearce, skinhead convertito dalla lettura di Chesterton, è ben consapevole che proprio l'arte costituisce oggi il tramite più fecondo verso la fede: "Se il cammino della religione è bloccato da un'ignoranza insormontabile, possiamo allora conquistare le anime a Cristo mediante il potere della bellezza. La letteratura, la musica e le arti visive sono come le vetrate colorate nel Medioevo".
La via dell'arte è anche quella percorsa da Giovanni Lindo Ferretti, che racconta la sua conversione come un ritorno alla casa del Padre dopo aver finito la sua "guerra personale con Dio". Tra i ribelli di una volta Ferretti è quello che si disegna più nitidamente e lucidamente nell'intervista, forse perché ha già riflettuto su se stesso in un libro autobiografico. L'antico musicista rock denuncia l'impoverimento della dimensione liturgica, contro il quale combatte Benedetto XVI, e confessa di avere raggiunto una serenità prima sconosciuta: "Ritorno a pensare, come quando ero bambino, che già essere vivi è un dono prezioso, mentre prima ritenevo che la vita fosse un inferno, per cui o pensavi di vivere per cambiare la vita e il mondo, oppure eri portato a cercare un'autodistruzione da praticarsi nel più glorioso dei modi". E denuncia lucidamente i mali contemporanei, come l'abitudine a lanciare contro la Chiesa accuse di carattere politico, mentre essa si muove su altri tempi e propone altri valori. Particolarmente acuta è la sua definizione di pacifismo: "Per i partiti la pace è la vittoria della loro parte sull'altro, la pace per il Papa è l'ordine nelle regole ed è un dono di Dio. Il pacifismo assoluto non sta nella dottrina della Chiesa". E ha il coraggio di dire che "senza il cristianesimo l'Europa non è niente".
Una conversione vera e propria, e non un "ritorno", è invece quella narrata da Fabrice Hadjadj, arabo di nome - la famiglia viene dalla Tunisia - ma di origine ebraica, che dice con semplicità: "Dio ci converte con la creazione tutt'intera (...). È questa pressione del Cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto a questo mondo e ci fa sperimentare questo mondo nella sua estrema precarietà". In questa nuova apertura di speranza e di illuminazione intellettuale che ha conosciuto con la conversione, Hadjadj inventa nuove definizioni dei fondamenti della vita religiosa che aprono inedite porte di comprensione: "Il dogma è una finestra e non un muro. Ma, come quando vi è una finestra che si affaccia sul cielo, quelli che non alzano abbastanza la testa non vedono altro che il muro che la sostiene".
Anche Éric-Emmanuel Schmitt coglie la potenza eversiva del messaggio cristiano, quella forza che sembra ormai sbiadita nella vita quotidiana dei fedeli: "È una dinamite, una bomba, che distrugge tutte le nostre costruzioni umane e legislative. C'è nel cristianesimo un messaggio sempre inedito, nuovo, difficile da comprendere, utopico". Ma è proprio per questo entusiasmo, questa speranza così forte da scuotere il nichilismo contemporaneo, diffuso soprattutto nelle élite intellettuali, che i convertiti o ritornati incontrano spesso ostacoli nel loro ambiente, come spiega Jean-Claude Guillebaud che ha raccontato il suo percorso in un libro auto-biografico. Secondo Guillebaud, "di fronte alle barbarie contemporanee - in particolare quelle economiche e tecno-scientifiche - il cristianesimo sembra una controcultura, un dissidente prezioso".
Anche da queste poche citazioni si può capire come lo sguardo nuovo dei personaggi intervistati porti vita nella cultura cattolica, e una lucidità particolarmente interessante nella critica alla cultura contemporanea, conosciuta e attraversata dall'interno. I convertiti e i ritornati, quindi, sono linfa nuova per la Chiesa, ma non sempre questo loro apporto viene valorizzato. Se è vero infatti che spesso parroci od organizzatori di incontri spirituali sono a caccia della testimonianza di un convertito - possibilmente un po' famoso e non troppo intellettuale, come insegna la fortuna in questo ambito di Claudia Koll - al fine di riaccendere la tensione spirituale di un pubblico spesso assopito nell'abitudine, è anche vero, però, che non sempre l'atteggiamento dei cattolici abituali verso convertiti e ritornati, specialmente se intellettuali, è così aperto e affettuoso.
Anzi, i convertiti spesso sono visti con un po' di diffidenza, perché non hanno percorso l'iter abituale nelle organizzazioni cattoliche, non sanno bene come ci si deve comportare con le gerarchie, dimostrano un entusiasmo eccessivo, hanno troppe idee di cambiare e fare, ma anche perché spesso hanno un'identità che viene riconosciuta dal mondo laico. E dal momento che la cultura cattolica e quella laica costituiscono mondi separati che si ignorano fra loro, le persone che in qualche modo fanno parte di entrambe sono viste con un po' di sospetto, forse da ambo i lati. Non è quindi troppo comoda la vita dei convertiti, come traspare anche dalle parole degli intervistati: ma è proprio questo vivere sul confine, questa mancanza di facili consensi, questa "estraneità" percepita da ogni parte che li rende più acuti nell'osservare il presente e più profondi, spesso, nel rileggere la tradizione cristiana.
(©L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009)
Per sottoscrivere la Lettera aperta... - Curatore: Salina, Giorgio - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
Lettera aperta al Ministro italiano per le politiche comunitarie, dott. Andrea Ronchi
al Segretario Generale della CEI, SER Monsignor Mariano Crociata
Certamente sapete più puntualmente di noi come sia iniziata male la VII legislatura del Parlamento Europeo per ciò che riguarda il rispetto delle competenze sancite dai Trattati, il rispetto e la difesa delle culture nazionali, il principio di sussidiarietà nell’ambito delle questioni etiche.
Anche in riferimento alla nota «In Europa iniziata la VII Legislatura – per i principi etici gran brutto segno», pubblicata su CulturaCattolica.it, Signor Ministro, Eccellenza reverendissima, come ritenete si possa procedere a salvaguardia delle peculiarità culturali, sociali e storiche del nostro Paese, di fronte al nostro impegno a rispettare la Carta dei diritti fondamentali e la giurisprudenza connessa, considerando il fatto che la ratifica del Trattato di Lisbona, avvenuta nell’indifferenza generale, nonostante timidi avvertimenti, ci vincola alle decisioni europee?
Grati per la Vostra attenzione; attendendo Vostre importanti indicazioni porgiamo i nostri distinti ossequi.
Gabriele Mangiarotti, responsabile CulturaCattolica.it
Giorgio Salina, Presidente dell’Associazione europea per la Fondazione Europa
Enrico Leonardi, pensionato
Angelo Bignamini, Professore di Statistica Medica
Guido Guastalla, editore
Mauro Materno, operaio
Carmela Cossa, Docente
Ermanno Gaiardelli, Ragioniere pensionato
Rita Sorrentino, casalinga
Domenico Aiuto, Sacerdote
Maria Mirabella, Medico
Francesco Mancusi, professore
Giuseppina Giunta, Insegnante
Salvo Sorbello, impiegato
Porrino Ida, missionaria
Francesco Giuseppe Pianori, Fisioterapista
Alfredo Puzzello, Infermiere Profess. Endoscopia
Angelo Santambrogio, Artigiano-Pensionato
Matteo Dellanoce, Docente, Presidente Cooperativa Zero e Oltre
Maria Vittoria Pinna, pensionata
Giovanni Montisci, pensionato
Donatella Mansi, Insegnante
Massimo Caputo, Ragioniere pensionato
Angelo Busetto, parroco
Franca Pragliola, Insegnante
Tiziano Viganò, insegnante
Chiara Deppieri, insegnante
Cristina Ardigò, ricamatrice
Maurizio Muscas, Medico dentista
Pietro Sammarco, Docente Universitario
Claudio Rocchi, Ingegnere
Elisa Nicodema, insegnante
Stefania Fregni, impiegata
Elio Pastore, pensionato
Nicola Incampo, Insegnante
Paolo Marcon, Impiegato
Sottoscrivi anche tu
Per i principi etici gran brutto segno - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
In Europa iniziata la VII Legislatura
PER SOTTOSCRIVERE LA LETTERA APERTA
Giovedì scorso, 17 settembre 2009, esaminando una recente legge lituana, che prevede tra l’altro l’assenza di propaganda omosessuale dai luoghi abitualmente frequentati dai minori, il Parlamento Europeo ha ritenuto, a larga maggioranza, questa norma una riprovevole “discriminazione in base all’orientamento sessuale”, chiedendo alla Lituania di emendarla. Ogni commento, anche di semplice buon senso, è superfluo.
I Rappresentanti di «World Youth Alliance» (Alleanza mondiale della Gioventù) hanno emesso un comunicato sulla Risoluzione in oggetto in cui dicono tra l’altro: «I giovani europei, specialmente gli irlandesi, sono convinti che la Risoluzione votata giovedì 17 settembre dal PE contro una legge lituana riguardante questioni di famiglia, comprometta i principi di sussidiarietà, già tutelata dalla legislazione europea ed, in particolare, nel nuovo protocollo del Trattato di Lisbona. Su questa Risoluzione deve rimanere aperto il dibattito, dato che gli irlandesi voteranno nuovamente il Trattato di Lisbona il prossimo 2 ottobre.» Ed è da notare, come sostengono i Vescovi irlandesi in una recente nota, che «la situazione è cambiata dal referendum del giugno 2008 con l’aggiunta di garanzie giuridiche per rispondere alle preoccupazioni espresse in quel momento.»
Perché è un gran brutto segno? Perché conferma che anche il nuovo Parlamento europeo ha ed avrà un deriva relativista, che cercherà di imporre uniformemente in tutti i 27 Paesi. Ovviamente nel nostro Paese, salvo mio errore ma non credo, di ciò non è stata data alcuna informazione. È un gran brutto segno perché ancora una volta non sarà possibile alcun accordo per promuovere, nell’interesse di tutti, la vita, la famiglia, l’educazione, come nelle precedenti legislature. Ci si troverà di fronte ad un orientamento prevalente ostile all’uomo, e ad una burocrazia arrogante ed invadente. Tra poco più di tre mesi sarà il turno della Presidenza spagnola!
I quattro Paesi tuttora “recalcitranti” a ratificare il Trattato di Lisbona sono Irlanda, Polonia, Repubblica Ceca e, in misura minore, Germania. Almeno tre di questi (Irlanda, Polonia, Rep. Ceca, oltre alla Gran Bretagna) hanno negoziato ed ottenuto deroghe soprattutto per quel che riguarda la Carta europea dei diritti fondamentali e la giurisprudenza conseguente.
La Carta è un documento ambiguo, che, soprattutto per la difesa della vita, della famiglia e della libertà di educazione, prevede tutto ed il contrario di tutto. Il tristemente noto articolo 9 tratta del diritto di costituire una famiglia e, separatamente, del diritto di sposarsi. (Coppie di fatto, coppie omosessuali, ecc. tutto contemplato.)
Apparentemente comunque non dovrebbe sussistere alcun problema, visto che i Trattati riconoscono la competenza dei singoli Stati a proposito del diritto di famiglia; tutto vero, ma il Trattato di Lisbona recepisce al suo interno la Carta rendendola obbligatoria, così come la conseguente giurisprudenza della Corte di giustizia.
L’ambiguità della Carta e l’orientamento della maggioranza vanificano di fatto le competenze degli Stati e dell’Unione, previste dai Trattati. L’obbligatorietà della Carta prevede che i Paesi membri ne rispettino i contenuti, secondo l’interpretazione corrente in quel momento e secondo l’interpretazione giuridica della Corte di giustizia. L’Italia ratificando il Trattato di Lisbona senza eccezione alcuna, si è impegnata a questo.
Quale è la conseguenza pratica: possiamo smettere di accapigliarci per le coppie di fatto, per le unioni di persone dello stesso sesso, per il rispetto all’obiezione di coscienza: ci siamo solennemente impegnati a far decidere altri per noi, ed a rispettarne le decisioni.
Indipendentemente dagli orientamenti politici, quando recentemente il Governo ha preso posizione contro l’arroganza della Burocrazia europea, i nostri organi di informazione e le forze politiche, sapendo cosa c’è in gioco, come hanno appoggiato l’iniziativa? L’hanno strumentalizzata e asservita alle polemiche domestiche spesso banali e di “bassa cucina”, come per nessun altro Paese succede.
Questo, in un’atmosfera ovattata di retorico europeismo, ci dovrà capitare, probabilmente con l’accordo di parte della nostra opinione pubblica e delle forze politiche. L’Europa ci vuole, l’Europa la vogliamo, ma l’Europa dei popoli, rispettosa delle diversità culturali, e con una burocrazia che torni nell’ambito dei propri compiti istituzionali.
Ru 486: la pillola della solitudine. - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 25 settembre 2009
Adesso che durante la pausa estiva l’Aifa ha approvato la Ru 486 (dopo la sperimentazione in alcuni ospedali) e che non si sa ancora se e come sarà attuato nei reparti di ginecologia l’aborto farmacologico, anche se non riguarderà direttamente chi lavora in reparto di cardiologia come me, mi sono interrogato profondamente, come medico e come neo-papà. L’aborto farmacologico – si è detto – è già attuato in altri paesi, è una possibilità in più per chi non può sottoporsi ad un intervento chirurgico, è meno traumatico… Sinceramente faccio fatica a capire queste motivazioni.
L’aborto farmacologico consisterebbe nella somministrazione di mifepristone (Ru 486) al primo giorno e poi di misoprostol (una prostaglandina) al terzo giorno, il primo antagonizzando il progesterone impedirebbe all’embrione di sopravvivere, il secondo indurrebbe le contrazioni uterine e farebbe espellere l’embrione. In questa maniera in realtà circa il 2-5% delle donne abortirebbe già al primo giorno, la maggior parte abortirebbe dopo la somministrazione del misoprostol con una percentuale di riuscita di circa il 92% (in base alle casistiche più numerose), mentre dal 4% al 6% circa (secondo una revisione della letteratura su 54 studi pubblicati tra 1991 e 1998) necessiterebbe comunque di un aborto chirurgico per prosecuzione della gravidanza. La reazione della donna alla somministrazione del farmaco non è prevedibile, può comportare qualche disagio, oppure tutto un corteo sintomatologico come dolori e crampi (93.2% e nel 43% dolore severo), nausea (66.6%), debolezza (54.7%), cefalea (46.2%), vertigini (44.2%), o in rari casi complicanze emorragiche severe tali da rendere necessaria un’emotrasfusione (0.16%) e perfino la morte stessa (dati tratti da Aborto farmacologico mediante mifepristone e misoprostol – It. J. Gynaecol. Obstet. 2008, 20: N. 1: 43-68).
Che senso ha tutto questo? Che peso psicologico, prima che fisico avrebbe sulla donna stessa? L’attesa più bella della vita, quella di veder nascere il proprio bimbo, quella creaturina che è stata per mesi nel grembo della mamma, diventa l’attesa che venga espulso l’embrione morto. Certo, è molto piccolo, quasi non si vede – si potrà fare solo entro le prime 7 settimane – le contrazioni non sono così intense come quelle del parto (ma comunque in molti casi ci sono). Ma che senso ha questa sofferenza? È una sofferenza che porta solo morte. Quando è nato mio figlio, poco meno di un mese fa, mia moglie ha sofferto il travaglio del parto, ma quando il piccolo Giovanni ha messo fuori la testolina ed ha cominciato a piangere, l’abbiamo messo subito con la mamma e la gioia di vederlo è stata più grande di qualunque sofferenza. Ma in questo nuovo ritrovato medico, nell’aborto farmacologico, che cosa porterà nel cuore della donna questa attesa e questa sofferenza?
Si è detto che è una possibilità in più per chi non può subire un’anestesia ed un intervento chirurgico. Ma che cosa avverrà per quelle poche situazioni (descritte in letteratura) in cui ci sono complicanze emorragiche maggiori che necessitano di un approccio chirurgico? E che cosa ne sarà di quella percentuale di donne non bassa nelle quali la gravidanza prosegue a meno di andare incontro ad un successivo aborto chirurgico (4-6%)? Senza contare il fatto che, secondo uno studio di M. Greene apparso nel 2005 sul New England Journal of Medicine, l’aborto con mifepristone/misoprostol a parità di età gestazionale avrebbe un tasso di mortalità dieci volte maggiore di quello chirurgico (1:100.000 contro 1:1.000.000).
Qualcuno ha anche osato pensare che, somministrata la pillola, non è sempre necessario ospedalizzare la donna, e che la si potrà rivedere ad aborto avvenuto (come avviene in Francia, ad esempio). Almeno da questo punto di vista sembra che sia rimasto un po’ di buon senso a chi ha approvato l’introduzione della Ru 486 e che in Italia si ospedalizzerà comunque la donna. Ma vorrei anche vedere! Neanche l’assistenza sanitaria dobbiamo garantire a queste donne? Davvero pensiamo che tutto avvenga in modo meccanico come negli animali?! Così fanno in Francia ed in altri civilissimi paesi. E quindi? L’evoluzione del sistema sanitario e della disciplina medica consiste forse nell’importare tutte le peggiori sozzure che esistono?
Hanno anche detto che così, finalmente, si applica appieno la legge 194. Ma di quale legge parlano? La nostra legge sull’aborto, anche se molti non lo sanno, ha la pretesa di nascere come legge in difesa della vita. All’articolo 1 si legge che lo stato “riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio” e che “l’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. Questo strano paradosso – che la legge che ha legalizzato la soppressione di vite innocenti fosse in realtà una legge a difesa della vita – si fonda sul fatto che si intendeva porre dei limiti alla pratica dell’aborto clandestino ed indiscriminato. Ed infatti la legge prevede che nei primi 90 giorni di gravidanza la donna possa abortire solo se “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”. Mentre dopo i 90 giorni l’interruzione volontaria di gravidanza può essere praticata solo: “a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”; non solo, ma continua la legge: “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Già adesso, dietro al presunto pericolo per la salute psico-fisica della donna, la maggior parte degli aborti avviene in buona sostanza perché la gravidanza non era ricercata (altro che gli intendimenti degli estensori della 194), ma con la Ru 486 che proporzioni raggiungerà questa strage? Che rispetto vi può essere per la vita se la semplice prescrizione di una pillola basta ad eliminarla?
Guardo mio figlio Giovanni, che ha due mesi e penso a tutto questo. In queste prime settimane di vita nel nostro mondo esterno lui si attacca al seno della mamma, fa il ruttino, fa la cacca ed a volte piange tanto. Cosa capisci tu, piccolo Giovanni? A volte di notte non ci fai dormire e potrebbe sembrare che sei un fastidio, un peso. Ma sei così bello! Ci guardi con degli occhioni così grandi. Non so che cosa passa nella tua piccola testolina, ma di una cosa sono certo: sei un dono. Non ci appartieni. Non sei una nostra proprietà. Sei un mistero. Come posso pensare che non ci sia un legame tra quando eri una sola cellula (l’incontro tra il mio seme e l’ovulo di mia moglie), quando già si formava il tuo corpicino ed adesso che ti vediamo, o quando sarai grande. Chi stabilisce quando diventi persona. La legge? Chi decide quando non sei più violabile, quando ucciderti diventa un reato. Tre mesi dal concepimento? Sei mesi? Non lo so. Ma nessuno lo sa. Sono limiti convenzionali, che si fondano su studi senza senso, su teorie sbagliate. Su quale organo si sviluppa prima e quale dopo. Ma cosa cambia? Tu resti e sei un dono, e lo eri anche prima.
Per questo io come padre e come medico non potrò mai capire questo mondo che è a favore dell’aborto, in qualunque forma si attui. Perché con tutta la compassione che posso provare per le donne violentate, per chi attende un figlio malformato, per quelle che sono senza marito, con tutto questo non posso non gridare a tutti innanzi tutto che tu sei e resti una vita come me. Che lo eri già prima, anche se non ti vedevo. Mio piccolo Giovanni, se mai vorrai capire che strano mestiere è quello di un papà medico, vorrei innanzitutto dirti questo. Che amo la tua vita.
Dottor Alfredo Corticelli
Karl Rahner, un cristianesimo senza radici di Fr Giovanni Cavalcoli, op - Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici. - [Da «Radici Cristiane n. 47, Agosto-Settembre 2009]
Sappiamo come di recente il Papa, parlando dell'interpretazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ha rilevato l'esistenza di un' “ermeneutica della rottura", da lui giudicata fuorviante, e l'ha contrapposta all'ermeneutica giusta che ha chiamato "della continuità".
Il teologo gesuita Karl Rahner (1904-1984), secondo quanto sta apparendo con sempre maggiore chiarezza da uno studio critico di molte delle sue opere condotto ormai da decenni, è forse l'esponente maggiore di tale ermeneutica della rottura, che da quarantenni ha attirato e continua ad attrarre schiere di teologi e pastori in tutto il mondo.
L'ermeneutica della rottura è una caratteristica di gran parte della teologia di Rahner, una teologia che enfatizza il nuovo, il moderno assolutizzato, fine a se stesso e senza discernimento, in modo tale da portarlo a una rottura con quel passato nel quale si trovano quelle radici cristiane, dalle quali soltanto può sorgere una sana modernità, che non può essere sana se non in continuità con quelle radici, che contengono valori divini, perenni e immortali.
La modernità secondo Rahner
Rahner ha avuto la buona idea di cercare di ammodernare il cristianesimo, di creare un dialogo del cristianesimo con la modernità. Ma ha sbagliato nel concepire il moderno. È rimasto vittima del mito idealista tedesco della "filosofia moderna". Non è sbagliato di per se aspirare a una filosofia moderna, apprezzare una filosofia moderna, perché si suppone che sia meglio informata, più sapiente, più solida e più intelligente dell'antica. Esiste un tomismo moderno certo migliore di quello del Sei o Settecento.
L'errore di Rahner è stato quello di optare per una filosofia "moderna", la quale è stata sì moderna nel senso temporale, ma non nel senso qualitativo. Che cosa conta che una filosofia sia temporalmente moderna se poi di fatto ricade in antichi errori pagani, che già erano stati corretti dalla filosofia cristiana medievale, autrice delle radici cristiane dell'Europa? Che "moderno" è quel moderno che distrugge un passato, quale quello delle radici cristiane dell'Europa, legato all'immutabilità della parola di Dio, quella parola della quale Cristo ha detto: «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno?».
Rahner ha concepito il progresso come rottura, come contraddizione col passalo di una tradizione cristiana sacra e perenne, quella che appunto si chiama sacra Tradizione, sorgente della divina rivelazione insieme con la Sacra Scrittura, come da sempre insegna la Chiesa Cattolica. Questa rottura è nata dal fatto che Rahner non si è accorto della perenne validità di tale Tradizione, come condizione di vero progresso.
Da che cosa sorge, da quali radici sorge la modernità rahneriana? Da un idealismo come quello che - per sua espressa dichiarazione - trae origine da Cartesio, passa per Kant. Fichte. Schelling ed Hegel e giunge ad Heidegger. Ma la tanto declamata novità cartesiana, come dimostrano gli storici del pensiero, in realtà riprende le fila dell'antico pensiero greco presocratico dei parmenidei, degli eraclitei, dei sofisti e degli scettici. Anche la continuità non è un valore, se è la continuità di un vizio perenne della ragione, come quello che si trascina da Protagora ad Heidegger.
Continuità ed evoluzione
Rahner non ha capito qual è la legge dell'evoluzione dogmatica. La vera evoluzione non è rottura, ma esplicitazione nella continuità. Non suppone l'equivocità, ma la continuità analogica. Il dogma di Calcedonia contiene la stessa verità della cristologia del Vaticano II, solo che nel corso di quattordici secoli la Chiesa ha conosciuto meglio (e come diversamente avrebbe dovuto accadere?) quel medesimo mistero di Cristo che già è immutabilmente e definitivamente enunciato dal dogma calcedonese.
Rahner ha inteso gli insegnamenti del Concilio come rottura con la Tradizione. Egli distrugge la Tradizione e quindi non opera in nome di una sana modernità, ma di un rinnovato modernismo peggiore di quello dei tempi di san Pio X. Per Rahner la verità cristiana comincia col Vaticano II da lui interpretato peraltro in modo modernistico. Prima c'è la barbarie, il vuoto, il nulla. Nessuna radice. Nessuna sorgente, nessuna base o nessun principio. Ma tutto comincia con Cartesio per finire con Heidegger. L'idealismo tedesco poi si sposa in Rahner con l'influsso luterano.
Tuttavia uno potrebbe obbiettare: ma in fin dei conti, anche Rahner ha rispetto per il passato e per la Tradizione, giacché anch'egli, almeno a quanto pare, basa la tua teologia sulla Sacra Scrittura e sulla storia del Cristianesimo e della teologia cattolica.
Sì, ma con quale impostazione? Non con l'impostazione del vero cattolico, il quale accoglie docilmente e fiduciosamente tutti i pronunciamenti dottrinali o dogmatici del Magistero della Chiesa e dei concili ecumenici, quali pepite d'oro che appaiono via via nel fiume della storia, ma con l'atteggiamento tipicamente luterano del "libero esame" (con la scusa dell' "esegesi storico-critica''), che di volta in volta, con diversi pretesti, si permette di stabilire in questo preziosissimo e ricchissimo patrimonio della Tradizione, quello che gli garba o non gli garba alla luce di quella che egli chiama "filosofia moderna".
Qual è il risultato? Un puro e semplice gnosticismo (come rivelano chiaramente gli studi di don Ennio Innocenti), come è stato quello dell'idealismo tedesco fino ad Heidegger. Dove va finire la fede? Non e più virtù teologale soprannaturale con la quale si accoglie per vero quanto Dio ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere, ma la famosa «esperienza trascendentale aprioristica ed atematica», ispirata all'ermetismo, alla teosofia, a Schleiermacher e ad Heidegger. Insomma, un rinnovato gnosticismo, col quale Rahner crede di conoscere Dio e Cristo meglio di quanto gli insegna la Chiesa Cattolica.
Rahner non è capace di unire l'immutabile col mutevole sul piano dei concetti. Immutabile e universale è soltanto l’ “esperienza trascendentale", ma essa è ineffabile ("Mistero assoluto") e non concettualizzabile; viceversa il concetto (il "categoriale"), anche quello dogmatico, è privo di universalità e immutabilità. Ne viene la conseguenza incresciosa che la verità teologica esiste, ma è inesprimibile; mentre ciò che può essere espresso appartiene solo al campo del particolare, del mutevole e dell'incerto.
Divinizzazione dell’uomo
L'etica rahneriana. come sempre avviene, è conseguenza logica dei suoi princìpi metafisici, gnoseologici e antropologici. La base fondamentale di tutto, come fu acutamente denunciato a suo tempo da Cornelio Fabro. è l'identificazione dell'essere col pensiero, identificazione che perla verità, è propria solo dell'essenza divina, ma che invece Rahner pone come principio di tutto il reale. Da qui il panteismo in metafisica e l'idealismo in gnoseologia.
Da qui viene anche l'identificazione dell'essere con l'agire e col divenire e la tendenza monistica che non distingue più adeguatamente il vero dal falso, il bene dal male, l'eterno dal temporale, il finito dall'infinito. Dio dal mondo. Ciò non gli impedisce peraltro di cadere in dualismi irresolubili, che qui non è il caso di esaminare. Per distinguere egli separa, e per unire, confonde.
Da questi principi fondamentali discende la sua concezione del rapporto dell'uomo con Dio: la ragione umana non dimostra l'esistenza di Dio partendo dagli effetti creati, come insegna san Paolo (Rm. 1,20) e il libro biblico della Sapienza (Sap. 13,5), ma possiede originariamente ed atematicamente un'«esperienza preconcettuale dell'essere» (“Vorgriff”). nella quale legge immediatamente la propria autocoscienza e l'esistenza di Dio. Come nella conoscenza divina, non si passa dalle cose a Dio, ma da Dio alle cose. Rahner confonde il sapere umano col sapere divino.
L'uomo dunque è già di per sé originariamente, benché "atematicamente". potenzialmente Dio; Dio non è che la piena attuazione dell'uomo (Dio è l' «orizzonte trascendentale dell’autotrascendenza umana»). Dunque nessuna reale distinzione tra natura umana e grazia. L'uomo è per essenza in grazia, la natura umana è definita dalla grazia, senza la grazia è nulla, è pura "astrazione", pura "possibilità" (polemica contro la "natura pura").
La quale grazia poi non è un dono di Dio, o un accidente (qualità) dell'anima, ma è Dio stesso, che così diventa il costitutivo sostanziale dell'uomo ("causa formale" dell'uomo), confondendo così Dio con l'anima umana. La grazia dunque è inammissibile, così come l'uomo non può perdere la sua essenza. Da qui l'estrema difficoltà con la quale Rahner cerca di spiegare l'esistenza del peccato.
La distruzione del cristianesimo
Da qui la tesi secondo la quale tutti per essenza tendono a Dio, tutti sono sempre in grazia, tutti si salvano ("buonismo"), il peccato diventa impossibile oppure è un costituivo irrilevante della natura perché sempre perdonato da Dio (Lutero), da qui la negazione della redenzione di Cristo come sacrificio espiativo e riparatore del peccato (e quindi la crisi del sacerdozio, della Messa e della Liturgia).
Da qui la negazione dì una natura umana oggettiva. universale e immutabile (difetto dell'esistenzialismo), dell'immortalità dell'anima (col rischio del materialismo), della legge naturale (con conseguente relativismo morale), dell'oggettività della conoscenza concettuale-razionale (con la conseguenza del relativismo dogmatico) e del libero arbitrio (con la conseguenza di un'etica spontaneistica, antiascetica e schiava delle passioni: Freud), la negazione della Parusia futura di Cristo (Parusia adesso), dei privilegi mariani (niente verginità), dell'esistenza degli angeli (sono solo "possibili"), di dannati nell'inferno (non c'è nessuno) e la tesi secondo la quale anche l'ateo è credente ("cristianesimo anonimo").
La cristologia è concepita hegelianamente in modo evolutivo-dialettico come passaggio dall'umano al divino e viceversa (riappare l'eresia di Eutiche), sicché Rahner giunge alla conclusione che antropologia, teologia e cristologia sono la stessa cosa (effetto del panteismo). Le tre Persone divine non sono tre relazioni sussistenti ovvero tre sussistenze, ma tre "modi di sussistenza" di un'unica persona-natura-sussistente (modalismo), mentre l'essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo («la Trinità immanente è la Trinità economica»). Allora Dio è obbligato a creare? È obbligato a incarnarsi? A manifestarsi all'uomo? Qui si vede l'influsso della fenomenologia di Husserl e viene anche in mente Hegel: «Senza il mondo. Dio non è Dio».
In particolare, in morale, la persona appare come soggetto meramente spirituale (cf. la res cogitans di Cartesio), che liberamente (come in Fichte, Gentile e Sartre) pone o progetta la propria essenza e quindi la legge morale, la quale quindi non è posta da Dio nella natura umana, ma il soggetto liberamente la pone da sé onde porre la propria essenza e la propria natura. Salvo poi a porre la persona come emergente dalla materia, per il fatto che viene negata la distinzione fra anima e corpo.
La persona non appare come «individua substantia rationalis naturae», ma alla maniera idealistica, come autocoscienza e libertà, come una specie di relazione sussistente in atto, sicché c'è poi da chiedersi come potranno essere persone quei soggetti i quali per vari motivi non possono o non vogliano relazionarsi a Dio ed agli altri.
Figlio dell'orgoglio moderno
I princìpi di fondo possono riassumersi in una divinizzazione gnostica dell'uomo e in una secolarizzazione del soprannaturale, si fanno sentire in vari modi: nel suo stesso metodo di pensare e di argomentare, dettato spesso da presunzione nei confronti delle massime autorità nel campo della filosofia come della religione, nell'aver sempre ignorato le osservazioni e le critiche che gli sono state fatte per decenni da eccellenti studiosi e teologi, nel sollecitare o suggerire una condotta morale improntata a un esagerato amore per la libertà personale, nel disprezzo dei valori oggettivi, eterni e universali, insomma un'esaltazione dell'io che ben poco ha a che vedere con un sano amore di sé riconosciuto dal cristianesimo, ma assomiglia molto di più al soggettivismo e alla presunzione tipici della religiosità luterana e al limite alla spropositata esaltazione dell'io propria dell’etica fichtiana.
Appare l'ombra sinistra di Nietzsche. Siamo ancora nel Cristianesimo? È questa l'interpretazione del Concilio?
© Radici Cristiane
www.radicicristiane.it/
L A S PAGNA PUNTA ALL ’ ABORTO FACILE . A NCHE PER LE MINORENNI - Se la legge insegna che dare la vita è amministrare desideri - PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 27 settembre 2009
A quale futuro guarda oggi la Spagna?
Certamente a quello legato a una rapida ripresa economica, visto il pesante deficit pagato alla recente disfatta dei mercati finanziari. Non sembra però altrettanto preoccupata a fornire motivi di speranza alla sua storia e alla sua cultura, se è vero che sembra ormai assoggettata a quell’ideologia liberticida e relativistica, che fa delle questioni eticamente sensibili problemi relativi solo all’autogoverno della vita dei suoi singoli. Non sembra perciò dare risposta alle donne, ormai indirizzate a vedere la trasmissione della vita umana come una faccenda essenzialmente fisiologica, offrendo loro una soluzione molecolare, farmaceutica a un problema assai più ampio, in grado di toccare le corde profonde della loro coscienza.
È di ieri la notizia che il governo di Madrid ha varato un disegno di legge che di fatto depenalizza totalmente l’aborto, prevedendo la libera scelta della donna fino alla 14ª settimana e concedendo la facoltà anche alle minorenni fra i 16 e i 18 anni di abortire senza la consultazione dei genitori. C’è da sperare che il progetto, trasmesso al Parlamento, possa ricevere delle significative correzioni, visto anche le reazioni accorate del mondo cattolico spagnolo, che si riunirà il 17 ottobre per una grande manifestazione di protesta nella capitale, e la voce fortemente critica di alcuni pastori, come il cardinale Amigo, arcivescovo di Siviglia, che aveva già parlato, dalle pagine di 'Religíon Digital', di «inquisizione laica e agnostica, di statolatria e di indottrinamento laico», segnando ancora la distanza tra le politiche iperlibertarie di Zapatero e la voce profetica della Chiesa.
Nazione plurilingue e di ricchezza multietnica, questa Spagna sembra voler recidere le radici della sua esperienza storica e religiosa, per gettarsi sulle braccia dell’ideologia relativistica e nichilista, riconducendo tutte le pratiche abortive come faccende private, lasciate alla sola autodeterminazione delle donne. Sono quest’ultime, come si sa, a dover pesantemente portare l’emblema di questa mutazione etico-antropologica, dal momento che queste ulteriori liberalizzazioni dell’aborto, insieme alla paventata libertà e gratuità della pillola del giorno dopo, (per venire incontro alle 'difficoltà' delle adolescenti) non sono altro che sostegni legislativi volti alla soppressione culturale della coscienza dell’aborto. Non si tratta soltanto di eliminare il senso di colpa, privatizzando gli interventi atti a procurare la morte dei potenziali bambini, ma di considerare l’embrione non più come il soggetto della trasmissione della vita, ma qualcosa come un tessuto ormono- dipendente, il cui sviluppo e sopravvivenza può essere regolato attraverso antiormoni, come la Ru486 o la pillola del giorno dopo.
Ne va dell’idea stessa della vita, quasi che fosse possibile governarla attraverso l’intervento dei viventi, delle donne in particolare, non più custodi di questo bene, ma amministratrici di una risorsa da modellare a seconda delle leggi, dei desideri, delle idee, della conoscenza scientifica. La revisione nichilista della nozione di vita indotta da queste modalità di contraccezione non può che chiudere il futuro di una nazione, privata dall’immane schiera del popolo dei non-nati, orfana di inizi nuovi nella storia, prigioniera delle sue idolatrie. Il 17 ottobre a Madrid ci saremo idealmente tutti ad alzare un grido di rivolta e di riscatto.
A PROPOSITO DI « FAMIGLIA ALLARGATA » - La felicità non è un caos - FERDINANDO C AMON – Avvenire, 27 settembre 2009
« I l giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati»: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: «Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato». La bambina è la prima della classe, scrive perfino delle poesie. Senza rima, ma ormai chi usa più la rima? Leggevo, ieri, che ci sono bambini per i quali avere tre o quattro genitori è una festa: si divertono di più. Se poi i nuovi genitori hanno dei bambini, i figli nati dai due-tre matrimoni formano una squadra, giocano sempre, è come se fossero continuamente al parco. Questo leggevo. Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: «Dove sei? sei sola? o sei con X?». La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre. Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una perfezione. Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò. Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi. Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: 'papigno', 'mammastra', 'cugipote'. Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro.
'Papigno' è il maschile di 'matrigna', e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre. So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E 'papigno' è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto. Se c’è la 'mammastra' ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu. La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini 'tua madre' o 'tuo padre', perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: 'gli adulti che vivono con te'. La parola 'madre' è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola 'mamma' derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società.
Un ministro italiano in carica ha confidato ieri: «Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli». È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria. La felicità della famiglia – e il Papa ce lo ha ricordato – non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo.
1) Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
2) Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
3) Lezione Magistrale per la presentazione dell’Enciclica di Benedetto XVI"Caritas in veritate" - Cattedrale di S. Pietro, 25 settembre 2009
4) Moratoria contro i nuovi pagani - di Francesco Agnoli - Il libro di Harry Wu "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina" dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.
5) Nuovi convertiti - Cristianesimo esplosivo - È in libreria Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione (Torino, Lindau, 2009, pagine 214, euro 16) di Lorenzo Fazzini, giornalista collaboratore di "Avvenire" e delle riviste "Tempi" e "Mondo e Missione". Ne pubblichiamo la prefazione: l'autrice, che collabora al nostro giornale, ha ricevuto a Capri, sabato 26 settembre, il Premio Capri - San Michele per il giornalismo. - di Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009
6) Per sottoscrivere la Lettera aperta... - Curatore: Salina, Giorgio - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
7) Per i principi etici gran brutto segno - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
8) Ru 486: la pillola della solitudine. - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 25 settembre 2009
9) Karl Rahner, un cristianesimo senza radici di Fr Giovanni Cavalcoli, op - Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici. - [Da «Radici Cristiane n. 47, Agosto-Settembre 2009]
10) L A S PAGNA PUNTA ALL ’ ABORTO FACILE . A NCHE PER LE MINORENNI - Se la legge insegna che dare la vita è amministrare desideri - PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 27 settembre 2009
11) A PROPOSITO DI « FAMIGLIA ALLARGATA » - La felicità non è un caos - FERDINANDO C AMON – Avvenire, 27 settembre 2009
Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
Oggi, nel primo pomeriggio, Caterina avrebbe dovuto laurearsi in Architettura. Aveva passato tutta l’estate sulla tesi…. Ma non è il momento dello struggimento. Siamo in battaglia e come soldati bisogna stare all’istante presente, senza nostalgie.
Dobbiamo combattere con e per Caterina. Come lei sta facendo: ieri è stato evidente. Ha fatto altri “piccoli” passi che in realtà sono grandi scalate, come il fatto di respirare da sola…
Ieri era anche la festa di padre Pio: avevo chiesto al Padre un bel regalo per Caterina. Ne è arrivato uno inimmaginabile e grandioso: la visita della Regina del Cielo. Sì, sono certo che la Madonna è sempre lì con lei, ma ieri in modo speciale quegli “ojos de cielo” che Caterina canta con tanta passione (l’avete sentita), l’hanno teneramente abbracciata…
In breve: in mattinata mi telefona Marija Pavlovic (una dei sei veggenti di Medjugorje), nostra grande amica che già da giorni prega per Caterina, e mi dice che – per una serie di circostanze – può venire a Firenze e vorrebbe far visita a Cate proprio nell’ora della quotidiana apparizione.
E’ arrivata, abbiamo partecipato alla messa e poi è andata da mia figlia con mia moglie, mentre noi, con gli amici di Cate, recitavamo il rosario fuori. La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina.
La Madonna ha ascoltato e ha iniziato a pregare. Ci ha fatto capire col suo gesto che bisogna affidarsi totalmente a Lei e pregare ancora. E noi instancabilmente continuiamo…
Ce l’hanno insegnato i santi. San Francesco di Paola ha detto: “E’ cosa certa quel che vi dico: tutto ciò che chiedete nella preghiera abbiate certezza che è già vostro perché così dovrà avvenire per volere della Madonna”.
E alla mistica Maria Valtorta – che fra l’altro è sepolta proprio alla S.S. Annunziata, a Firenze – è stato detto: “Io vi dico: abbiate una fede sconfinata nel Signore. Continuate ad averla nonostante ogni insinuazione e ogni evento, e vedrete grandi cose quando il vostro cuore non avrà più motivo di sperare di vederle…”.
Penso che in questi giorni ci stia facendo capire molte cose preziose. Anzitutto che la vera malattia è quella di noi sani quando siamo lontani da Dio. Gesù ha bisogno che qualcuno lo aiuti a portare su di sé il male degli uomini. Per sanarli.
Noi cristiani che siamo parte del Suo Corpo, offrendoGli le nostre sofferenze e le nostre vite lo aiutiamo in questo. Io sono pieno di stupore e commozione per le tante persone che mi hanno scritto che offrono le sofferenze delle loro diverse prove e malattie… E’ stupore e commozione per l’abbraccio del popolo cristiano…
Una mail che ho ricevuto dice:
“Caterina senza fare nulla muove il mondo. Tutto quello che ci comunichi è un grande miracolo che accade davanti ai nostri occhi. Gesù è qui ora e possiamo vedere la Sua Gloria attraverso la fede del suo popolo. Caterina è i nostri figli e tu e Alessandra siete noi. Continuiamo a Pregare Maria perché Gesù guarisca la vostra e nostra Caterina. Un grande abbraccio. A. T. ”.
Penso anche io che attraverso la sofferenza muta di Caterina, che commuove tanti cuori, la Regina del Cielo stia guarendo tante persone e sono certo che, con l’aiuto delle nostre preghiere e dei nostri digiuni, stia facendo grandi cose. Guarirà anche Caterina, facendola svegliare dal coma e facendola tornare a cantare la bellezza di Dio.
Marija da Caterina con la Regina del Cielo – Antonio Socci - 24 settembre 2009
Oggi, nel primo pomeriggio, Caterina avrebbe dovuto laurearsi in Architettura. Aveva passato tutta l’estate sulla tesi…. Ma non è il momento dello struggimento. Siamo in battaglia e come soldati bisogna stare all’istante presente, senza nostalgie.
Dobbiamo combattere con e per Caterina. Come lei sta facendo: ieri è stato evidente. Ha fatto altri “piccoli” passi che in realtà sono grandi scalate, come il fatto di respirare da sola…
Ieri era anche la festa di padre Pio: avevo chiesto al Padre un bel regalo per Caterina. Ne è arrivato uno inimmaginabile e grandioso: la visita della Regina del Cielo. Sì, sono certo che la Madonna è sempre lì con lei, ma ieri in modo speciale quegli “ojos de cielo” che Caterina canta con tanta passione (l’avete sentita), l’hanno teneramente abbracciata…
In breve: in mattinata mi telefona Marija Pavlovic (una dei sei veggenti di Medjugorje), nostra grande amica che già da giorni prega per Caterina, e mi dice che – per una serie di circostanze – può venire a Firenze e vorrebbe far visita a Cate proprio nell’ora della quotidiana apparizione.
E’ arrivata, abbiamo partecipato alla messa e poi è andata da mia figlia con mia moglie, mentre noi, con gli amici di Cate, recitavamo il rosario fuori. La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina.
La Madonna ha ascoltato e ha iniziato a pregare. Ci ha fatto capire col suo gesto che bisogna affidarsi totalmente a Lei e pregare ancora. E noi instancabilmente continuiamo…
Ce l’hanno insegnato i santi. San Francesco di Paola ha detto: “E’ cosa certa quel che vi dico: tutto ciò che chiedete nella preghiera abbiate certezza che è già vostro perché così dovrà avvenire per volere della Madonna”.
E alla mistica Maria Valtorta – che fra l’altro è sepolta proprio alla S.S. Annunziata, a Firenze – è stato detto: “Io vi dico: abbiate una fede sconfinata nel Signore. Continuate ad averla nonostante ogni insinuazione e ogni evento, e vedrete grandi cose quando il vostro cuore non avrà più motivo di sperare di vederle…”.
Penso che in questi giorni ci stia facendo capire molte cose preziose. Anzitutto che la vera malattia è quella di noi sani quando siamo lontani da Dio. Gesù ha bisogno che qualcuno lo aiuti a portare su di sé il male degli uomini. Per sanarli.
Noi cristiani che siamo parte del Suo Corpo, offrendoGli le nostre sofferenze e le nostre vite lo aiutiamo in questo. Io sono pieno di stupore e commozione per le tante persone che mi hanno scritto che offrono le sofferenze delle loro diverse prove e malattie… E’ stupore e commozione per l’abbraccio del popolo cristiano…
Una mail che ho ricevuto dice:
“Caterina senza fare nulla muove il mondo. Tutto quello che ci comunichi è un grande miracolo che accade davanti ai nostri occhi. Gesù è qui ora e possiamo vedere la Sua Gloria attraverso la fede del suo popolo. Caterina è i nostri figli e tu e Alessandra siete noi. Continuiamo a Pregare Maria perché Gesù guarisca la vostra e nostra Caterina. Un grande abbraccio. A. T. ”.
Penso anche io che attraverso la sofferenza muta di Caterina, che commuove tanti cuori, la Regina del Cielo stia guarendo tante persone e sono certo che, con l’aiuto delle nostre preghiere e dei nostri digiuni, stia facendo grandi cose. Guarirà anche Caterina, facendola svegliare dal coma e facendola tornare a cantare la bellezza di Dio.
Fra le migliaia (letteralmente) di mail che mi arrivano e a cui tento di rispondere come posso, ne trascrivo una, di una mamma, che dice tutte queste cose:
Cara famiglia che stai soffrendo in un modo tanto simile alla mia, nelle due settimane di coma profondo della mia piccola Elena, una città intera ha pregato per lei. Amici e conoscenti, miscredenti e persone lontane da Dio si sono inginocchiate nelle tante veglie notturne organizzate per la mia piccina. Hanno strappato a Dio una promessa che ora si sta compiendo.
Noi, in sala rianimazione, abbiamo sollecitato continuamente Elena pregando su di lei a voce alta, cantando i canti della messa domenicale che lei, anche se piccolissima, aveva ascoltato, facendole ascoltare tanto Mozart.
Un cervello che dorme va risvegliato! Le ho raccontato tutto quello che avevamo fatto insieme e le ho descritto tutte le cose belle che avremmo fatto ancora e tutte le meraviglie del creato che avrebbero visto i suoi occhi una volta guarita.
Si é svegliata. A dispetto delle sue condizioni definite gravissime. Il Signore ci ascolta. Anche Caterina vi sta sentendo come la mia piccolina. Anche la miocardiopatia dilatativa gravissima, di origine non virale e ancora oggi inspiegabile, si è risolta e il cuoricino di Elena batte senza bisogno di aiuto.
Coraggio, non pensate al domani, vivete giorno per giorno la vostra battaglia e il Signore vi darà forza e pace proprio come a noi.
Continuiamo a pregare per Caterina.
Alessandra.
Queste sono le bellissime testimonianze che mi state dando e che trascrivo qui perché penso possano essere di aiuto per molti. Mentre vi abbraccio tutti ringraziandovi per tutto quello che fate.
Tanti sono rimasti commossi nell’ascoltare “Ojos de cielo” cantata da Caterina con il coro Foné, degli universitari di CL. Nei prossimi giorni cercherò di mettere qui nel blog altri loro canti. Spero che sentire la sua voce e quella dei suoi amici sia un piccolo ringraziamento per le vostre preghiere e le vostre offerte di digiuni. Ma sono certo che la più grande ricompensa vi arriverà dal Cielo…
Antonio Socci
Lezione Magistrale per la presentazione dell’Enciclica di Benedetto XVI"Caritas in veritate" - Cattedrale di S. Pietro, 25 settembre 2009
"La carità nella verità di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita e, soprattutto con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera"
L’incipit dell’Enciclica ne è la fondamentale chiave interpretativa. Il mio compito questa sera è di aiutarvi a leggerla con questa chiave interpretativa; non di sostituirmi alla sua lettura attenta.
1. A modo di premessa al mio discorso parto da una domanda: di chi, di che cosa parla l’Enciclica? E quindi a chi si rivolge?
Per rispondere parto da due testi singolarmente sintonici: uno di G. Leopardi, e uno di S. Ambrogio.
Il testo leopardiano è desunto da una Operetta morale, Dialogo di un fisico e di un metafisico. In esso il grande poeta immagina che un fisico [oggi potremmo dire un biologo, un economista] abbia finalmente scoperto la modalità per tutti di vivere lungamente: di questa scoperta si mostra molto fiero. Il metafisico [oggi diremmo: uno che non si accontenta di usare la sua ragione in modo limitato] gli risponde di secretare subito la scoperta, fino a "quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente". E aggiunge: "se la vita non è felice …… meglio ci torna averla breve che lunga" dal momento che "la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio".
Questa ultima affermazione sembra risuonare e quasi ripetere una pagina di S. Ambrogio, citata da Benedetto XVI nell’Enc. Spe salvi [Cf. n. 10]. Dice dunque il grande Vescovo di Milano: "A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia".
I due testi narrano una quotidiana esperienza di ogni uomo: questi non desidera, non vuole semplicemente vivere: desidera, vuole vivere bene; vivere una buona vita.
Faccio una breve parentesi. In realtà l’Enciclica non usa questa terminologia. Parla di "vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera". Le due parole – "buona/vera vita – vero sviluppo" - denotano la stessa realtà. La seconda ha il vantaggio di sottolineare una proprietà essenziale della persona vivente: il suo sviluppo; il suo dinamismo intrinseco.
E’ dunque in questo contesto che l’Enciclica afferma che la "forza propulsiva" che sviluppa e la persona e la società; la "forza propulsiva" che fa vivere e alla persona e alla società una buona, una vera vita: che dà origine ad una buona vita ed a una buona società, è la carità nella verità. La qualità della vita personale e la qualità della vita associata dipende dalla messa in atto della "carità nella verità".
Abbiamo trovato la risposta alle due domande da cui siamo partiti. Prima domanda: di che cosa parla l’Enciclica? Parla di come e spiega perché la "carità nella verità" "produca" una buona vita associata [= produca il vero sviluppo]. Seconda domanda: a chi si rivolge l’Enciclica? Ad ogni uomo di buona volontà, cioè a chi vuole vivere una vita associata buona, e quindi "amare nella verità".
Ne deriva che la comprensione di ciò che significa "carità nella verità" o "amore nella verità" è la conditio sine qua non per comprendere il testo pontificio.
Nel secondo punto della mia riflessione cercherò di darvi un aiuto in questo senso. Prima però devo fare alcune considerazioni preliminari, molto semplici.
L’Enciclica non parla genericamente di "vita umana", ma di "vita umana associata": più semplicemente, di società umana. E’ quindi un discorso di dottrina della società, di dottrina sociale. Intendendo tutte le espressioni della socialità umana [escluse matrimonio e famiglia]: le società economiche, la società politica, la società internazionale. Per usare un’espressione molto cara al Magistero della Chiesa: parla della famiglia umana.
L’Enciclica quindi intende insegnare perché e come la carità nella verità è la principale forza costruttiva di una buona vita associata. Per usare l’espressione pontificia: l’Enciclica tratta della caritas in veritate in re sociali. E’ di questo che parla.
L’Enciclica fa perciò un’affermazione di grande importanza epistemica all’interno dell’enciclopedia del sapere teologico. La Dottrina sociale della Chiesa è la caritas in veritate - in re sociali – in quanto essa [la caritas in veritate] diventa dottrina, cioè pensiero sociale, economico, politico,……….. ma di questo non è il caso ora di parlare. Dico solo: che è un’affermazione di grande importanza.
2. In questo secondo punto vorrei aiutarvi a capire che cosa significa nell’Enciclica "caritas in veritate".
Quando la Dottrina sociale parla della carità, parla di una elevazione, di una capacitazione della nostra volontà che la rende capace di amare, cioè di volere il bene dell’altro nel modo con cui Dio stesso ha voluto e vuole in Cristo il bene dell’uomo. La carità è la forza divina creatrice e redentiva dell’uomo, che viene comunicata all’uomo che crede.
Proviamo ora a rispondere alla seguente domanda: che cosa produce, cementa e solidifica i rapporti sociali? Non possiamo ora dare una risposta molto articolata. Semplificando un poco, possiamo dire che noi rispondiamo a questa domanda a seconda che riteniamo o no che la persona umana sia originariamente, per natura sociale, oppure che ciascuno sia per natura un individuo isolato.
Partiamo da questa seconda ipotesi. Se ciascuno di noi è per natura un individuo a se stante, ciò che spinge ciascuno ad entrare in società con l’altro è l’utilità che può venirgli dal rapporto sociale. La società quindi si costruisce sulla base dello scambio di equivalenti. È in sostanza la contrattazione fra individui separati originariamente, che sono alla ricerca del proprio bene individuale in con-correnza con gli altri individui. Possiamo dire che "la principale forza propulsiva" di una società così pensata sia la carità? Non sembra. La principale forza propulsiva è che ……. alla fine i conti tornino: che cioè il "peso del vivere associato" sia almeno equivalentemente ricompensato dai vantaggi.
Se, al contrario, parto dalla certezza, generata dall’esperienza, che la persona umana è originariamente, per natura, relazionata ad ogni altra persona umana; che ogni uomo è il prossimo di ogni uomo, la società è edificata da relazioni istituite per il bene umano comune. Ritorneremo su questo concetto centrale nella Enciclica.
La forza propulsiva che produce, aumenta e solidifica i rapporto sociali non è principalmente la ricerca del mio bene a prescindere dal, o contro il tuo bene. È la ricerca del bene che è mio e tuo perché è il bene umano comune. Questa forza è la carità. L’Enciclica quindi dice che essa "è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, famigliari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici" [2,1].
Il primo modello di società mira a creare una società di uguali; il secondo, una società di fratelli. Si può essere uguali senza essere fratelli; non si può essere fratelli se non si è uguali nella diversità e diversi nell’uguaglianza.
La "cifra" del primo modello è lo scambio di equivalenti, e quindi l’assenza della gratuità; la cifra del secondo, è il principio di gratuità [Cf. 34,2].
Tutto questo non deve mai farci dimenticare che esiste ed opera dentro alla società umana una forza disgregatrice, "conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tener presente il peccato originale anche nell’interpretazione di fatti sociali e della costruzione della società" [34,1].
L’Enciclica però non dice semplicemente che la carità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. Ma insegna che tale è la carità nella verità. E’ il punto centrale del documento pontificio. Che cosa significa?
Potrei rispondere molto semplicemente e molto brevemente: significa che la carità non radicata nella verità "diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente" [3]; significa che la carità "va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità" [2,2].
Ma per capire e capirci, di quale verità si parla? Insomma di che cosa parliamo quando in questo contesto parliamo di verità? Parliamo di ciò che è bene per l’uomo; di ciò che è bene per l’uomo in quanto esso – il bene dell’uomo e per l’uomo – è indicato, è suggerito dalle fondamentali esigenze della persona umana come tale.
Faccio qualche esempio. Se un uomo ha fame, non è difficile capire ciò che è bene per quell’uomo: mangiare. Non è difficile sapere che cosa è il bene di quell’uomo: il cibo in quantità sufficiente. Vedete? Alla domanda circa il bene dell’uomo ho risposto con certezza: è il cibo. Ho detto la verità circa il bene dell’uomo. Se di fronte ad un affamato, ritenessi che il suo bene fosse il vestito, e gli donassi un vestito, e non il cibo, non lo amerei in verità: non vorrei il suo bene. La "carità nella verità" significa volere il bene reale, vero dell’altro.
Ho fatto di proposito un esempio assai semplice. Ma le cose purtroppo non lo sono, o comunque non lo sono sempre così chiaramente. Per due motivi.
Il primo. I fenomeni, i fatti sociali sono complessi. L’Enciclica, per esempio, parlando del mercato scrive: "E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché questo sia la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso" [36,2].
Il mercato è un fatto sociale imprescindibile. L’Enciclica fa su di esso una riflessione cha da una parte non può dimenticare che "il mercato non esiste allo stato puro ….. (ma) trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano"; ma dall’altra parte, l’Enciclica afferma che o il mercato è ispirato, governato anche dal principio di gratuità o altrimenti va contro al bene dell’uomo.
Potete costatare che è messo in atto lo stesso uso della ragione. Quale è il bene per chi ha fame? Il cibo. Quale è il mercato che risponde alle esigenze dell’uomo? Quello in cui trova posto il principio di gratuità e la logica del dono. Se tu a chi ha fame doni un vestito, non lo ami in verità; se tu costruisci un mercato dal quale escludi per principio gratuità e dono, non ami l’uomo in verità: non favorisci il vero sviluppo.
Il secondo fatto che complica la questione. Oggi è comune il pensiero che non esista una verità universalmente condivisibile circa ciò che è bene / male per l’uomo, ma tutto dipende esclusivamente dal consenso sociale. Non si dice più: "questo è bene; questo è male"; ma si preferisce: "oggi si ritiene che questo sia bene, che questo sia male".
Spero di aver chiarito che cosa significa "nella verità". Se ci sono riuscito, non vi sarà difficile comprendere e sottoscrivere, alcune gravi affermazioni; e dedurre due conseguenze.
Gravi affermazioni. Il Papa dice: "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità" [3]. Alla fine, se la comunità cristiana si lascia assoggettare dalla tirannia del relativismo, essa riduce la sua forza più grande, la carità, ad un fatto marginale nella società, relegato in un ambito privato e ristretto.
La prima conseguenza. Se non esiste una verità circa ciò che è bene / male per l’uomo, la ricerca e lo sforzo per edificare una vita associata non può non diventare e continuare ad essere uno scontro per imporre i propri interessi. Dice il S. Padre: "Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali" [5,2; cf. anche 4].
La seconda conseguenza. Possiamo comprendere meglio che cosa è la Dottrina sociale della Chiesa, e quale è la sua funzione. Essa è costituita dal Magistero della Chiesa che insegna quali sono le esigenze vere della persona umana e della vita associata; che cosa è chiesto alla carità per volere e promuovere il vero bene della persona umana.
La Dottrina sociale non intende offrire soluzioni tecniche ai problemi sociali, né ancor meno programmi politici concorrenziali con altri programmi politici nella vita democratica della società politica. Si pone su un altro piano. Indica quella verità circa il bene da compiere per una società a misura della dignità dell’uomo. Potrei dire: la Dottrina sociale è "caritas quaerens intellectum"; è la carità che diventa pensiero.
Ecco ho spiegato – spero di esserci riuscito – quale è la "vera forza propulsiva per il vero sviluppo": la caritas in veritate.
3. Giunti a questo punto della nostra riflessione possiamo individuare con una certa facilità la domanda fondamentale a cui l’Enciclica cerca di rispondere.
Se è la carità che costruisce i rapporti sociali; se la carità chiede quali sia in verità una buona società [caritas in veritate], la domanda fondamentale allora è: quale è il vero sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera? E quindi, come contro–domanda fondamentale: quali sono i principali errori, e quindi le insidie più gravi circa lo sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera?
Se voi verificate semplicemente l’indice dell’Enciclica, potete rendervi conto che questa è la sua "filigrana teoretica". Una filigrana in cui s’intrecciano i due fili, le due risposte a domanda e contro–domanda, non limitandosi ad affermazioni generiche, ma analizzando i momenti costitutivi della vita umana associata. Ovviamente non ne faccio l’analisi completa; vi dicevo all’inizio, che non intendo sostituirmi alla lettura personale. Mi limito a due richiami di fondo. L’uno all’interno della risposta alla domanda, l’altro, della risposta alla contro– domanda.
Il primo. Partiamo da un’esperienza semplice, quotidiana, ma stupenda. Nella comunità famigliare la fraternità – l’essere in più figli degli stessi genitori – mostra e fa vivere il fatto che lo stesso amore – quello dei genitori, appunto – è condiviso senza essere spartito, è comunicato senza essere diminuito, è moltiplicato senza essere raffreddato. È la sublime esperienza della fraternità dove ciascuno è se stesso nella sua diversità, ma ugualmente riconosciuto nella sua dignità.
L’Enciclica insiste varie volte nell’affermare che il vero sviluppo della società si fonda sulla fraternità. Ma l’esperienza della fraternità può sorgere solo dall’esperienza della stessa paternità. Scrive l’Enciclica: "Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad "essere di più"" [29].
Il secondo. Uno dei rischi e delle insidie più gravi oggi al vero sviluppo dell’uomo è la tecnocrazia o, come lo chiama il S. Padre, "l’assolutismo della tecnicità".
Ho parlato recentemente di questo tema, e non è tempo di riprenderlo ora. Che cosa significa "assolutismo della tecnocrazia"? Una cosa molto semplice: se qualcosa è fattibile ed io desidero che si faccia, nessuno – almeno in linea di principio – deve impedirmi di averla e al tecnico di compiere, su richiesta, la prestazione. In breve: l’unica domanda sensata di fronte ad un possibile corso d’azione, è se essa è tecnicamente possibile. Ogni altra domanda – è bene? è male? promuove il bene comune? – non ha senso. Si legga il n. 68. Assolutismo tecnocratico significa far coincidere il vero col fattibile [Cf. 70].
Siamo così ritornati al punto di partenza. Se non esiste una verità circa il bene della persona: se la carità non è nella verità, l’uomo è esposto ad ogni pericolo.
4. Sono così giunto alla conclusione. Mi faccio ancora una domanda: questa Enciclica riguarda tutti, o solo chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, finanziarie?
Riguarda tutti noi, almeno per due ragioni connesse. Essa ci aiuta a capire il fatto sociale nelle sue espressioni fondamentali, alla luce congiunta della ragione e della fede. In una situazione come quella attuale di grave incertezza, fare luce è la prima necessità.
L’Enciclica poi, e di conseguenza, ci educa a quel discernimento o giudizio della fede mediante il quale impariamo non solo a capire, ma anche a valutare ciò che accade nella società di oggi. Senza essere schiavi delle mode imperanti.
Ma soprattutto chi a vario titolo ha responsabilità sociali non può ignorare questo documento. Va letto tenendo sempre presente che esso si pone al di sopra della sviante distinzione fra "destra" e "sinistra" correggendo l’una con apporti dell’altra. L’Enciclica si pone oltre. Essa affronta ed offre soluzioni a questioni assai concrete ed ancora oggi irrisolte, relative alla vita personale e sociale: le domande che ogni uomo, di "destra" o "sinistra" che sia, ma veramente appassionato al suo destino, non può non avere.
Il Foglio 29-7-2009
Moratoria contro i nuovi pagani - di Francesco Agnoli - Il libro di Harry Wu "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina" dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.
Ebbene, chi ama la storia sa che quello che succede oggi in questi due grandi paesi, che insieme costituiscono quasi un terzo della popolazione mondiale, è sempre accaduto, in passato, anche nella vecchia Europa o nel nuovo Mondo. Sino all'avvento del cristianesimo.
Una delle idee che più ricorrono negli scritti dei primi cristiani, è infatti il loro desidero di ribadire sovente un concetto: noi cristiani siamo diversi dai pagani, anche perché non uccidiamo i nostri figli, né nel grembo delle nostre donne, né fuori.
Minucio Felice, un apologeta del II secolo, nel suo "Ottavio", al capitolo XXX, paragrafo 2, paragonando l'insegnamento di Cristo con quello degli dei pagani, scrive: "Voi esponete i vostri figli appena nati alle fiere e agli uccelli, o strangolandoli li sopprimete con misera morte; vi sono quelle che ingurgitando dei medicamenti soffocano ancora nelle proprie viscere il germe destinato a divenir creatura umana e commettono un infanticidio prima di aver partorito. E questo apprendete dai vostri Dei, Saturno infatti non espose i propri figli, ma addirittura li divorò".
A sua volta, il grande Tertulliano, nel suo "Apologetico", cap. IX, ribadisce: "A noi cristiani l'omicidio è espressamente vietato, e quindi non ci è permesso neppure di sopprimere il feto nell'utero materno. Impedire la nascita è un omicidio anticipato. Nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si stronchi sul nascere: è già essere umano quello che sta per nascere. Ogni frutto è già nel suo seme".
Un altro documento molto importante del cristianesimo del II secolo, proveniente dall'Asia Minore, la Lettera a Diogneto, ribadisce gli stessi ideali in questo modo assai sintetico: "i cristiani si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati".
Proprio su questo tema dell'infanticidio lo storico A. Baudrillart ha scritto: "Non vi è forse materia, in cui tra la società antica e pagana e la società cristiana e moderna, l'opposizione sia più accentuata che i loro modi rispettivi di considerare il fanciullo".
In effetti, se guardiamo al mondo antico, notiamo che l'aborto e l'infanticidio sono assai diffusi. "Seneca – ricorda il sociologo americano Rodney Stark, in 'Ascesa e affermazione del cristianesimo' – riteneva l'annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole. Tacito accusava i giudei ai quali 'è proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito', ritenendola un'altra delle loro usanze 'sinistre e laide'. Era comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se solitamente veniva lasciato in balia delle intemperie e di animali e uccelli".
I bambini, a Roma come in Grecia, vengono dunque tranquillamente uccisi, oppure venduti, oppure esposti e lasciati morire di fame e di freddo, quando non vi è qualcuno a salvarli, solitamente per farne schiavi. Sappiamo di ritrovamenti, nelle fognature romane, di ammassi di ossa appartenute a neonati, abbandonati e poi gettati via come residui e immondizie.
Vittime dell'infanticidio sono più spesso le bambine, come nella Cina e nell'India di oggi, mentre l'aborto comporta, oltre alla morte del feto, non di rado anche il decesso, oppure la sterilità, della madre.
Il rifiuto dei primi cristiani di ricorrere all'aborto e all'infanticidio, connesso dunque a una loro alta fecondità, non è soltanto una grande conquista dell'umanità, ma anche uno degli elementi che permettono ai primi cristiani, insieme alle conversioni, di crescere sempre di più, sino a superare numericamente i pagani.
Ma l'infanticidio non è praticato soltanto a Roma, come testimoniato anche dalla leggenda di Romolo e Remo, o in Grecia, ma in tutto il mondo antico.
Il celebre bioeticista e animalista Peter Singer sostiene con forza l'idea che tale antica consuetudine sia da riscoprire anche oggi, assieme all'aborto legale. Infatti, se è vero che solo i cristiani la respinsero con forza – argomenta Singer –, perché mai dovremmo credere che essi siano stati gli unici ad aver ragione, mentre tutti gli altri popoli e religioni del passato, avrebbero avuto torto?
"L'uccisione dei neonati indesiderati – scrive Singer nel suo libro 'Ripensare la vita' – è stata prassi normale in moltissime società, in tutto il corso della preistoria e della storia. La troviamo per esempio nell'antica Grecia, dove i bambini handicappati venivano esposti sui pendii delle montagne. La troviamo in tribù nomadi, come quella dei Kung del deserto del Kalahari, dove le donne uccidono i bambini nati quando ci sia un figlio più grande non ancora in grado di camminare. L'infanticidio era prassi corrente anche su isole polinesiane come Tikopia, dove l'equilibrio tra risorse alimentari e popolazione veniva mantenuto soffocando i bambini indesiderati dopo la nascita. In Giappone, prima dell'occidentalizzazione, il 'mabiki', parola nata dalla prassi di sfoltire le piantine di riso per consentire a tutte quelle restanti di fiorire, ma che finì per indicare anche l'infanticidio, era ampiamente praticato non solo dai contadini, che potevano contare su modesti appezzamenti di terreno, ma anche dai benestanti".
Con la diffusione del cristianesimo in buona parte del mondo, aborto e infanticidio divengono fenomeni molto più rari e circoscritti, mentre le legislazioni, a partire da Costantino, intervengono nella tutela degli infanti e si sviluppano opere di carità e di assistenza per i bambini abbandonati e per le famiglie in difficoltà. Sino al ritorno dell'aborto nelle legislazioni comuniste e naziste, nel Novecento, e dell'infanticidio, con la nuova legge sull'eutanasia dei bambini fino ai dodici anni, in Olanda.
***
Se torniamo ora con la mente ai due grandi paesi in cui l'aborto, anche forzato, e l'infanticidio sono fenomeni di massa, è facile, dopo questo breve excursus, capire il perché di tutto ciò: Cina e India sono tra i paesi in cui il Vangelo di Cristo è penetrato di meno, e con esso anche la cultura occidentale, portatrice, consapevole o no, di questo messaggio o almeno di parte di esso.
Quando i primi missionari gesuiti raggiungono la Cina, rimangono piuttosto ammirati da questa grande civiltà. Quello che però colpisce negativamente il grande Matteo Ricci, allorché nel 1583 mette piede nel Celeste Impero, è la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro e, soprattutto, la diffusione della pratica dell'infanticidio. Il regime comunista, capace di pianificare milioni di aborti forzati, sterilizzazioni di massa, uccisione in serie di neonati, ha ancora lontano da venire, ma il rispetto dei fanciulli, in quel paese per altri aspetti ammirevole, manca del tutto.
Come scriverà J. J. Matignon ai primi del Novecento in "Superstition, crime e misère en Chine", i cinesi sovente vendono le loro figlie come prostitute, oppure le uccidono, per la povertà ma anche a causa delle loro superstizioni magiche, del loro ossessivo culto degli antenati: "Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica. Succede che dopo il parto la puerpera cada ammalata, e allora, per ingraziarsi gli spiriti, le bimbe o in certi casi i bimbi sono soppressi. Esistono delle donne che hanno il preciso compito di procurare la morte alle neonate… I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell'abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno ad ostruirne le vie respiratorie". Altre volte i bambini vengono annegati o soffocati con dei cuscini, anche se l'influenza degli europei, conclude Matignon, sembra avere qualche effetto limitante nei confronti di queste consuetudini.
Quasi negli stessi anni di Matignon, due missionari raccontano sulla Cina le medesime cose. Il primo è un gesuita, sant'Alberto Crescitelli, poi decapitato e sventrato, a 37 anni, il 21 luglio 1900, durante la rivoluzione dei Boxer. Il secondo è un missionario verbita della Val Badia, in Trentino Alto Adige, san Giovanni Freinademetz. Giunto nel paese che amerà per tutta la vita, sino a morirvi di tifo, egli scrive ai suoi cari, in più occasioni, che i cinesi hanno il "costume di esporre il proprio bambino o semplicemente scambiarlo oppure venderlo... Uno dei nostri migliori cristiani, prima della sua conversione, aveva ucciso la sua bambina scagliandola contro le pietre semplicemente perché piangeva troppo" (Sepp Hollweck, "Il cinese dal Tirolo", Athesia, 2003).
In un'altra lettera, scritta da Hong Kong il 28 aprile 1879, Freinademetz racconta come le monache cattoliche abbiano costruito due orfanatrofi, in cui raccolgono più di mille bambini all'anno. I cinesi "li danno per niente o per alcuni centesimi, e non se ne curano altro".
I missionari dunque – scrive da Puoli il 2 luglio 1882 – girano per le strade a raccoglierli, ne trovano a migliaia in fin di vita e si limitano a battezzarli, mentre quelli che possono li salvano: "Molte anime furono già salvate dopo che siam arrivati qui, molti bambini di pagani battezzati che poi se ne morirono ed ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambina di più di un anno, che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz'ora prima di morire. Noi volevamo fare la sepoltura con tutta pompa per dimostrare ai pagani come onoriamo loro creature che essi gettano via. I pagani qui non usano scrigni da morte per piccoli bambini ma appena morti fanno un buco e lo gettano dentro. Noi gli facemmo a quella bambina un bel vascello tinto a rosso, la vestimmo con una bella veste azzurra, la portavamo in chiesa, noi tutti missionari accompagnati dai cristiani, che non avevano mai visto così. Molti pagani vennero a vedere…" (G. Freinademetz, "Lettere di un santo", Imprexa).
***
Come in Cina, dove l'infanticidio è oggi addirittura affare di Stato, analogamente in India. Anche nel grande paese dominato dalla religione induista l'uccisione, soprattutto delle bambine, è largamente diffusa, per motivi economici e non solo. L'agenzia missionaria "Asia News" riportava recentemente questa notizia: "Presso molte popolazioni tribali le figlie femmine sono considerate solo un peso e la mentalità sociale ne ammette sia il feticidio che l'infanticidio. Nel 2006 in un piccolo villaggio del distretto di Ranga Reddy, a 80 chilometri da Hyderabad, undici neonate sono state lasciate morire di fame dai genitori. Molti tribali sono soliti avvolgere la bambina non voluta dentro stracci e lasciarla morire. Secondo la stampa locale, Jarpula Peerya Nayak, padre di 27 anni, ha detto che 'mia moglie per la terza volta ha avuto una bambina. Una figlia femmina è un peso e abbiamo deciso di non darle da mangiare. Così è morta. È troppo difficile crescere una bambina e trovarle marito'. Il 25 febbraio anche suo cugino J. Ravi e la moglie hanno lasciato morire di fame la loro neonata. 'Mia figlia – racconta Ravi – è morta due giorni dopo la nascita, perché non l'abbiamo nutrita. Abbiamo già due figlie, non possiamo permetterci di averne un'altra'. Un tribale spiega che quale dote della figlia dovrà fornire 'uno scooter, fino a 70 grammi d'oro e 50 mila rupie, per avere un buon marito'. Dopo la morte, i tribali scavano una fossa e vi seppelliscono la neonata, con sopra una pietra. I cani hanno scavato la fossa e mangiato parte del corpo della figlia di Ravi, così l'hanno seppellita di nuovo. La maggior parte delle quaranta famiglie del villaggio hanno assistito a simili episodi o li hanno commessi, dopo avere già avuto due o più figlie femmine. Jarpula Lokya Nayak ha fatto morire di fame due figlie".
Anche in India l'impegno dei missionari e delle minoranze cristiane è votato, oltre che al tentativo di infrangere il muro delle caste e delle diseguaglianze sociali, alla difesa della vita nascente e dell'infanzia, in nome del Dio che si è fatto bambino. Basti un solo esempio: quello di Madre Teresa di Calcutta.
Tutti sanno che la missione di questa donna è stata quella di aiutare i poveri dell'India, gli emarginati, i deboli, gli ultimi. Tra costoro Madre Teresa non ha mai dimenticato di citare i bambini nel grembo materno, definiti da lei, i "più poveri tra i poveri". Nel libro "Dateli a me. Madre Teresa e l'impegno per la vita", Pier Giorgio Liverani riporta il pensiero della santa, espresso in mille circostanze, con una grande forza, come in queste sue frasi: "L'aborto è ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? Noi combattiamo l'aborto con l'adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo diffuso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi" .
La lotta a favore dei bambini contro l'aborto e l'infanticidio è stata condotta da Madre Teresa e dalle sue suore, talora sino al martirio, con grande forza, scontrandosi con una cultura ignara della sacralità della vita sin dalla sua origine. Per gli induisti ad esempio, i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono, sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che scontano colpe precedenti. Le donne, in generale, e tanto più le bambine, sono costose, a causa della dote, e sono considerate inferiori al maschio, "fino al punto, non raramente, di avvelenarle al seno, cospargendolo di veleno, mentre succhiano il latte materno".
Così succede che vi sia talvolta un numero di nascite molto alto, per la ricerca del maschio a tutti i costi e per il conseguente alto numero di infanticidi femminili: si abortisce selettivamente, sino a quando non si ottiene il figlio desiderato, di sesso maschile. Madre Teresa e le sue suore hanno fondato numerose case della carità, scuole ed orfanotrofi, ottenendo grande apprezzamento, ma anche l'opposizione del primo ministro Morarij Desai, che nel 1979 le accusò di aiutare i bambini con le scuole e gli orfanatrofi al solo fine di battezzarli e di convertirli. Madre Teresa gli rispose: "Mi pare che lei non si renda conto del male che l'aborto sta provocando al suo popolo. L'immoralità è in aumento, si stanno disgregando molte famiglie, sono in allarmante aumento i casi di pazzia nelle madri che hanno ucciso i propri figli innocenti. Signor Desai: forse, tra poco lei si troverà faccia faccia con Dio. Non so quale spiegazione potrà dargli per aver distrutto le vite di tanti bambini non nati, ma sicuramente innocenti, quando si troverà davanti al tribunale di Dio, che la giudicherà per il bene fatto e per il male provocato dall'alto della sua carica di governo".
E Madre Teresa aggiungeva come nei 102 centri di Calcutta gestiti da lei fossero passate, nell'ultimo anno, 11.701 famiglie indù, 5.568 famiglie musulmane e 4.341 famiglie cristiane, a cui si era insegnato il senso della famiglia, il rispetto della vita, la necessità di una procreazione responsabile, arrivando a determinare la riduzione delle nascite, ma senza il ricorso né all'aborto né all'infanticidio! Il grido dei bambini non nati, degli infanti uccisi, diceva Madre Teresa, ripetendo in altro modo i concetti espressi secoli e secoli prima da Minucio Felice, Tertulliano e tanti altri, "ferisce l'orecchio di Dio".
Harry Wu, "Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina", Guerini e Associati, Milano, 2009, pp. 192, euro 21,50.
Nuovi convertiti - Cristianesimo esplosivo - È in libreria Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione (Torino, Lindau, 2009, pagine 214, euro 16) di Lorenzo Fazzini, giornalista collaboratore di "Avvenire" e delle riviste "Tempi" e "Mondo e Missione". Ne pubblichiamo la prefazione: l'autrice, che collabora al nostro giornale, ha ricevuto a Capri, sabato 26 settembre, il Premio Capri - San Michele per il giornalismo. - di Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009
Nel nostro mondo occidentale secolarizzato e multiculturalista sembra che, almeno negli ultimi anni, alla flessione dei fedeli "normali" corrisponda un numero crescente di conversioni o, più spesso, di "ritorni" alla Chiesa cattolica, da parte di persone appartenenti all'élite intellettuale e artistica, proprio quella da cui era partito, più di un secolo fa, l'esodo dalla fede cristiana. È un po' come se oggi il processo ricominciasse, ma al contrario: l'avanguardia che, a partire soprattutto dall'Ottocento, aveva guidato e predicato l'allontanamento dalla Chiesa, oggi, almeno in una parte piccola ma significativa, sta iniziando a proporre un riavvicinamento alla fede.
La qualità e le caratteristiche di tale movimento in gran parte elitario sono raccontate molto bene dalle dieci interviste a "nuovi cattolici" proposte in questo libro da Lorenzo Fazzini; interviste che sono anche un po' come scatole cinesi, perché ognuna è preceduta da una introduzione dove si delineano altri percorsi di conversione che si possono avvicinare a quello presentato. Gli esempi raccolti sono dunque molto più numerosi delle interviste, e servono a inquadrare i personaggi incontrati dall'autore nel clima di riavvicinamento alla Chiesa che caratterizza questi ultimi anni.
Le interviste - se pure molto diverse tra loro, così come è diversa la storia e l'indole degli intervistati - ci restituiscono quello che costituisce il carattere più vitale ed entusiasmante della conversione, e cioè il fatto che tutti i protagonisti vedono come nuove delle realtà che al resto dei fedeli sembrano polverose e risapute, e le fanno rivivere, ancora caricati da quella "grazia sorprendente che ha salvato uno sventurato come me", per esprimersi con le parole di un grande convertito, John Henry Newman. Possiamo quindi dire che la vitalità della fede ha sempre bisogno di nuovi convertiti, del loro sguardo nuovo e appassionato, della loro scoperta contagiosa dell'anima di una tradizione. I dieci personaggi narrati da Fazzini possono allora essere considerati una ricchezza del nostro tempo, per altri versi così difficile, e la sua idea di riproporci il loro originale percorso spirituale un dono che serve a risvegliare la fede cristiana. È anche una piacevole lettura: le storie di conversione si possono infatti considerare biografie avventurose a lieto fine, perché il protagonista riesce a trovare ciò che cerca, e dà un nuovo senso alla sua vita. Sono quindi letture apportatrici di speranza, e anche, ci auguriamo, contagiose, quindi capaci di suscitare altre conversioni, come lo sono stati gli scritti di grandi convertiti, ad esempio Chesterton.
Fra i dieci intervistati, tre sono italiani - Pera, Tosatti, Ferretti - molto diversi tra loro quanto possono esserlo un docente universitario prestato alla politica, un giornalista vaticanista - entrambi arrivati o tornati ad apprezzare la Chiesa attraverso un percorso intellettuale - e un musicista rock. Vi sono poi tre francesi - Schmitt, Guillebaud, Hadjadj - a testimoniare come l'importante tradizione della conversione degli intellettuali che ha segnato la cultura francese dell'Ottocento e del Novecento sia ancora viva. Seguono poi l'irlandese Waters, l'inglese Pearce e, infine, soltanto due donne, una studiosa di politica internazionale che ha fatto parte del governo norvegese, Matlary, e una saggista tedesca, Kuby.
Il fatto che in questa raccolta di interviste il numero delle donne sia così nettamente inferiore rispetto ai convertiti maschi mi sembra corrispondere a una realtà storica: le donne sono state le ultime ad allontanarsi dalla Chiesa, negli anni Settanta del Novecento, e oggi probabilmente saranno le ultime a rientrare, ancora in larga parte vittime di una ideologia femminista radicale che ha considerato la religione cattolica una della cause principali dell'oppressione delle donne.
Le scelte compiute da Fazzini si possono quindi considerare un campione significativo, da cui è allora legittimo trarre alcune considerazioni più generali: molti intervistati sono passati attraverso i movimenti di protesta del Novecento, o comunque risultano segnati da una vita avventurosa che tradisce una inquietudine profonda, una ricerca di giustizia e di verità che poi troverà una risposta nella fede cattolica. Anzi, leggendo con attenzione le loro parole, si direbbe che quanto più forti erano l'ansia ribelle e il desiderio di capire e rivoluzionare, tanto più lucide sono oggi le riflessioni sulla cultura attuale, che sanno giudicare dall'esterno. Al contrario, possiamo concludere che sono invece le persone più tranquille - quelle che si accontentano di una società in cui la libertà individuale e la possibilità di realizzare i propri desideri sono assicurati a quasi tutti - ad accettare senza porsi domande l'indifferenza religiosa e il relativismo dei valori.
Lo spiega bene John Waters: già sessantottino e già alcolista, oggi ha scoperto che "la Chiesa è il luogo che porta la verità nel mondo" e ha capito come in una cultura che cerca di soddisfare i nostri desideri subentri fatalmente la noia, perché il tempo dell'esistenza non si limita a regolarsi sul principio della soddisfazione del desiderio, "ma consiste in qualcosa di più straordinario", nella speranza di potere "ricevere qualcosa di più grande dalla vita". E Joseph Pearce, skinhead convertito dalla lettura di Chesterton, è ben consapevole che proprio l'arte costituisce oggi il tramite più fecondo verso la fede: "Se il cammino della religione è bloccato da un'ignoranza insormontabile, possiamo allora conquistare le anime a Cristo mediante il potere della bellezza. La letteratura, la musica e le arti visive sono come le vetrate colorate nel Medioevo".
La via dell'arte è anche quella percorsa da Giovanni Lindo Ferretti, che racconta la sua conversione come un ritorno alla casa del Padre dopo aver finito la sua "guerra personale con Dio". Tra i ribelli di una volta Ferretti è quello che si disegna più nitidamente e lucidamente nell'intervista, forse perché ha già riflettuto su se stesso in un libro autobiografico. L'antico musicista rock denuncia l'impoverimento della dimensione liturgica, contro il quale combatte Benedetto XVI, e confessa di avere raggiunto una serenità prima sconosciuta: "Ritorno a pensare, come quando ero bambino, che già essere vivi è un dono prezioso, mentre prima ritenevo che la vita fosse un inferno, per cui o pensavi di vivere per cambiare la vita e il mondo, oppure eri portato a cercare un'autodistruzione da praticarsi nel più glorioso dei modi". E denuncia lucidamente i mali contemporanei, come l'abitudine a lanciare contro la Chiesa accuse di carattere politico, mentre essa si muove su altri tempi e propone altri valori. Particolarmente acuta è la sua definizione di pacifismo: "Per i partiti la pace è la vittoria della loro parte sull'altro, la pace per il Papa è l'ordine nelle regole ed è un dono di Dio. Il pacifismo assoluto non sta nella dottrina della Chiesa". E ha il coraggio di dire che "senza il cristianesimo l'Europa non è niente".
Una conversione vera e propria, e non un "ritorno", è invece quella narrata da Fabrice Hadjadj, arabo di nome - la famiglia viene dalla Tunisia - ma di origine ebraica, che dice con semplicità: "Dio ci converte con la creazione tutt'intera (...). È questa pressione del Cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto a questo mondo e ci fa sperimentare questo mondo nella sua estrema precarietà". In questa nuova apertura di speranza e di illuminazione intellettuale che ha conosciuto con la conversione, Hadjadj inventa nuove definizioni dei fondamenti della vita religiosa che aprono inedite porte di comprensione: "Il dogma è una finestra e non un muro. Ma, come quando vi è una finestra che si affaccia sul cielo, quelli che non alzano abbastanza la testa non vedono altro che il muro che la sostiene".
Anche Éric-Emmanuel Schmitt coglie la potenza eversiva del messaggio cristiano, quella forza che sembra ormai sbiadita nella vita quotidiana dei fedeli: "È una dinamite, una bomba, che distrugge tutte le nostre costruzioni umane e legislative. C'è nel cristianesimo un messaggio sempre inedito, nuovo, difficile da comprendere, utopico". Ma è proprio per questo entusiasmo, questa speranza così forte da scuotere il nichilismo contemporaneo, diffuso soprattutto nelle élite intellettuali, che i convertiti o ritornati incontrano spesso ostacoli nel loro ambiente, come spiega Jean-Claude Guillebaud che ha raccontato il suo percorso in un libro auto-biografico. Secondo Guillebaud, "di fronte alle barbarie contemporanee - in particolare quelle economiche e tecno-scientifiche - il cristianesimo sembra una controcultura, un dissidente prezioso".
Anche da queste poche citazioni si può capire come lo sguardo nuovo dei personaggi intervistati porti vita nella cultura cattolica, e una lucidità particolarmente interessante nella critica alla cultura contemporanea, conosciuta e attraversata dall'interno. I convertiti e i ritornati, quindi, sono linfa nuova per la Chiesa, ma non sempre questo loro apporto viene valorizzato. Se è vero infatti che spesso parroci od organizzatori di incontri spirituali sono a caccia della testimonianza di un convertito - possibilmente un po' famoso e non troppo intellettuale, come insegna la fortuna in questo ambito di Claudia Koll - al fine di riaccendere la tensione spirituale di un pubblico spesso assopito nell'abitudine, è anche vero, però, che non sempre l'atteggiamento dei cattolici abituali verso convertiti e ritornati, specialmente se intellettuali, è così aperto e affettuoso.
Anzi, i convertiti spesso sono visti con un po' di diffidenza, perché non hanno percorso l'iter abituale nelle organizzazioni cattoliche, non sanno bene come ci si deve comportare con le gerarchie, dimostrano un entusiasmo eccessivo, hanno troppe idee di cambiare e fare, ma anche perché spesso hanno un'identità che viene riconosciuta dal mondo laico. E dal momento che la cultura cattolica e quella laica costituiscono mondi separati che si ignorano fra loro, le persone che in qualche modo fanno parte di entrambe sono viste con un po' di sospetto, forse da ambo i lati. Non è quindi troppo comoda la vita dei convertiti, come traspare anche dalle parole degli intervistati: ma è proprio questo vivere sul confine, questa mancanza di facili consensi, questa "estraneità" percepita da ogni parte che li rende più acuti nell'osservare il presente e più profondi, spesso, nel rileggere la tradizione cristiana.
(©L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009)
Per sottoscrivere la Lettera aperta... - Curatore: Salina, Giorgio - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
Lettera aperta al Ministro italiano per le politiche comunitarie, dott. Andrea Ronchi
al Segretario Generale della CEI, SER Monsignor Mariano Crociata
Certamente sapete più puntualmente di noi come sia iniziata male la VII legislatura del Parlamento Europeo per ciò che riguarda il rispetto delle competenze sancite dai Trattati, il rispetto e la difesa delle culture nazionali, il principio di sussidiarietà nell’ambito delle questioni etiche.
Anche in riferimento alla nota «In Europa iniziata la VII Legislatura – per i principi etici gran brutto segno», pubblicata su CulturaCattolica.it, Signor Ministro, Eccellenza reverendissima, come ritenete si possa procedere a salvaguardia delle peculiarità culturali, sociali e storiche del nostro Paese, di fronte al nostro impegno a rispettare la Carta dei diritti fondamentali e la giurisprudenza connessa, considerando il fatto che la ratifica del Trattato di Lisbona, avvenuta nell’indifferenza generale, nonostante timidi avvertimenti, ci vincola alle decisioni europee?
Grati per la Vostra attenzione; attendendo Vostre importanti indicazioni porgiamo i nostri distinti ossequi.
Gabriele Mangiarotti, responsabile CulturaCattolica.it
Giorgio Salina, Presidente dell’Associazione europea per la Fondazione Europa
Enrico Leonardi, pensionato
Angelo Bignamini, Professore di Statistica Medica
Guido Guastalla, editore
Mauro Materno, operaio
Carmela Cossa, Docente
Ermanno Gaiardelli, Ragioniere pensionato
Rita Sorrentino, casalinga
Domenico Aiuto, Sacerdote
Maria Mirabella, Medico
Francesco Mancusi, professore
Giuseppina Giunta, Insegnante
Salvo Sorbello, impiegato
Porrino Ida, missionaria
Francesco Giuseppe Pianori, Fisioterapista
Alfredo Puzzello, Infermiere Profess. Endoscopia
Angelo Santambrogio, Artigiano-Pensionato
Matteo Dellanoce, Docente, Presidente Cooperativa Zero e Oltre
Maria Vittoria Pinna, pensionata
Giovanni Montisci, pensionato
Donatella Mansi, Insegnante
Massimo Caputo, Ragioniere pensionato
Angelo Busetto, parroco
Franca Pragliola, Insegnante
Tiziano Viganò, insegnante
Chiara Deppieri, insegnante
Cristina Ardigò, ricamatrice
Maurizio Muscas, Medico dentista
Pietro Sammarco, Docente Universitario
Claudio Rocchi, Ingegnere
Elisa Nicodema, insegnante
Stefania Fregni, impiegata
Elio Pastore, pensionato
Nicola Incampo, Insegnante
Paolo Marcon, Impiegato
Sottoscrivi anche tu
Per i principi etici gran brutto segno - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 27 settembre 2009
In Europa iniziata la VII Legislatura
PER SOTTOSCRIVERE LA LETTERA APERTA
Giovedì scorso, 17 settembre 2009, esaminando una recente legge lituana, che prevede tra l’altro l’assenza di propaganda omosessuale dai luoghi abitualmente frequentati dai minori, il Parlamento Europeo ha ritenuto, a larga maggioranza, questa norma una riprovevole “discriminazione in base all’orientamento sessuale”, chiedendo alla Lituania di emendarla. Ogni commento, anche di semplice buon senso, è superfluo.
I Rappresentanti di «World Youth Alliance» (Alleanza mondiale della Gioventù) hanno emesso un comunicato sulla Risoluzione in oggetto in cui dicono tra l’altro: «I giovani europei, specialmente gli irlandesi, sono convinti che la Risoluzione votata giovedì 17 settembre dal PE contro una legge lituana riguardante questioni di famiglia, comprometta i principi di sussidiarietà, già tutelata dalla legislazione europea ed, in particolare, nel nuovo protocollo del Trattato di Lisbona. Su questa Risoluzione deve rimanere aperto il dibattito, dato che gli irlandesi voteranno nuovamente il Trattato di Lisbona il prossimo 2 ottobre.» Ed è da notare, come sostengono i Vescovi irlandesi in una recente nota, che «la situazione è cambiata dal referendum del giugno 2008 con l’aggiunta di garanzie giuridiche per rispondere alle preoccupazioni espresse in quel momento.»
Perché è un gran brutto segno? Perché conferma che anche il nuovo Parlamento europeo ha ed avrà un deriva relativista, che cercherà di imporre uniformemente in tutti i 27 Paesi. Ovviamente nel nostro Paese, salvo mio errore ma non credo, di ciò non è stata data alcuna informazione. È un gran brutto segno perché ancora una volta non sarà possibile alcun accordo per promuovere, nell’interesse di tutti, la vita, la famiglia, l’educazione, come nelle precedenti legislature. Ci si troverà di fronte ad un orientamento prevalente ostile all’uomo, e ad una burocrazia arrogante ed invadente. Tra poco più di tre mesi sarà il turno della Presidenza spagnola!
I quattro Paesi tuttora “recalcitranti” a ratificare il Trattato di Lisbona sono Irlanda, Polonia, Repubblica Ceca e, in misura minore, Germania. Almeno tre di questi (Irlanda, Polonia, Rep. Ceca, oltre alla Gran Bretagna) hanno negoziato ed ottenuto deroghe soprattutto per quel che riguarda la Carta europea dei diritti fondamentali e la giurisprudenza conseguente.
La Carta è un documento ambiguo, che, soprattutto per la difesa della vita, della famiglia e della libertà di educazione, prevede tutto ed il contrario di tutto. Il tristemente noto articolo 9 tratta del diritto di costituire una famiglia e, separatamente, del diritto di sposarsi. (Coppie di fatto, coppie omosessuali, ecc. tutto contemplato.)
Apparentemente comunque non dovrebbe sussistere alcun problema, visto che i Trattati riconoscono la competenza dei singoli Stati a proposito del diritto di famiglia; tutto vero, ma il Trattato di Lisbona recepisce al suo interno la Carta rendendola obbligatoria, così come la conseguente giurisprudenza della Corte di giustizia.
L’ambiguità della Carta e l’orientamento della maggioranza vanificano di fatto le competenze degli Stati e dell’Unione, previste dai Trattati. L’obbligatorietà della Carta prevede che i Paesi membri ne rispettino i contenuti, secondo l’interpretazione corrente in quel momento e secondo l’interpretazione giuridica della Corte di giustizia. L’Italia ratificando il Trattato di Lisbona senza eccezione alcuna, si è impegnata a questo.
Quale è la conseguenza pratica: possiamo smettere di accapigliarci per le coppie di fatto, per le unioni di persone dello stesso sesso, per il rispetto all’obiezione di coscienza: ci siamo solennemente impegnati a far decidere altri per noi, ed a rispettarne le decisioni.
Indipendentemente dagli orientamenti politici, quando recentemente il Governo ha preso posizione contro l’arroganza della Burocrazia europea, i nostri organi di informazione e le forze politiche, sapendo cosa c’è in gioco, come hanno appoggiato l’iniziativa? L’hanno strumentalizzata e asservita alle polemiche domestiche spesso banali e di “bassa cucina”, come per nessun altro Paese succede.
Questo, in un’atmosfera ovattata di retorico europeismo, ci dovrà capitare, probabilmente con l’accordo di parte della nostra opinione pubblica e delle forze politiche. L’Europa ci vuole, l’Europa la vogliamo, ma l’Europa dei popoli, rispettosa delle diversità culturali, e con una burocrazia che torni nell’ambito dei propri compiti istituzionali.
Ru 486: la pillola della solitudine. - Autore: Corticelli, Alfredo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 25 settembre 2009
Adesso che durante la pausa estiva l’Aifa ha approvato la Ru 486 (dopo la sperimentazione in alcuni ospedali) e che non si sa ancora se e come sarà attuato nei reparti di ginecologia l’aborto farmacologico, anche se non riguarderà direttamente chi lavora in reparto di cardiologia come me, mi sono interrogato profondamente, come medico e come neo-papà. L’aborto farmacologico – si è detto – è già attuato in altri paesi, è una possibilità in più per chi non può sottoporsi ad un intervento chirurgico, è meno traumatico… Sinceramente faccio fatica a capire queste motivazioni.
L’aborto farmacologico consisterebbe nella somministrazione di mifepristone (Ru 486) al primo giorno e poi di misoprostol (una prostaglandina) al terzo giorno, il primo antagonizzando il progesterone impedirebbe all’embrione di sopravvivere, il secondo indurrebbe le contrazioni uterine e farebbe espellere l’embrione. In questa maniera in realtà circa il 2-5% delle donne abortirebbe già al primo giorno, la maggior parte abortirebbe dopo la somministrazione del misoprostol con una percentuale di riuscita di circa il 92% (in base alle casistiche più numerose), mentre dal 4% al 6% circa (secondo una revisione della letteratura su 54 studi pubblicati tra 1991 e 1998) necessiterebbe comunque di un aborto chirurgico per prosecuzione della gravidanza. La reazione della donna alla somministrazione del farmaco non è prevedibile, può comportare qualche disagio, oppure tutto un corteo sintomatologico come dolori e crampi (93.2% e nel 43% dolore severo), nausea (66.6%), debolezza (54.7%), cefalea (46.2%), vertigini (44.2%), o in rari casi complicanze emorragiche severe tali da rendere necessaria un’emotrasfusione (0.16%) e perfino la morte stessa (dati tratti da Aborto farmacologico mediante mifepristone e misoprostol – It. J. Gynaecol. Obstet. 2008, 20: N. 1: 43-68).
Che senso ha tutto questo? Che peso psicologico, prima che fisico avrebbe sulla donna stessa? L’attesa più bella della vita, quella di veder nascere il proprio bimbo, quella creaturina che è stata per mesi nel grembo della mamma, diventa l’attesa che venga espulso l’embrione morto. Certo, è molto piccolo, quasi non si vede – si potrà fare solo entro le prime 7 settimane – le contrazioni non sono così intense come quelle del parto (ma comunque in molti casi ci sono). Ma che senso ha questa sofferenza? È una sofferenza che porta solo morte. Quando è nato mio figlio, poco meno di un mese fa, mia moglie ha sofferto il travaglio del parto, ma quando il piccolo Giovanni ha messo fuori la testolina ed ha cominciato a piangere, l’abbiamo messo subito con la mamma e la gioia di vederlo è stata più grande di qualunque sofferenza. Ma in questo nuovo ritrovato medico, nell’aborto farmacologico, che cosa porterà nel cuore della donna questa attesa e questa sofferenza?
Si è detto che è una possibilità in più per chi non può subire un’anestesia ed un intervento chirurgico. Ma che cosa avverrà per quelle poche situazioni (descritte in letteratura) in cui ci sono complicanze emorragiche maggiori che necessitano di un approccio chirurgico? E che cosa ne sarà di quella percentuale di donne non bassa nelle quali la gravidanza prosegue a meno di andare incontro ad un successivo aborto chirurgico (4-6%)? Senza contare il fatto che, secondo uno studio di M. Greene apparso nel 2005 sul New England Journal of Medicine, l’aborto con mifepristone/misoprostol a parità di età gestazionale avrebbe un tasso di mortalità dieci volte maggiore di quello chirurgico (1:100.000 contro 1:1.000.000).
Qualcuno ha anche osato pensare che, somministrata la pillola, non è sempre necessario ospedalizzare la donna, e che la si potrà rivedere ad aborto avvenuto (come avviene in Francia, ad esempio). Almeno da questo punto di vista sembra che sia rimasto un po’ di buon senso a chi ha approvato l’introduzione della Ru 486 e che in Italia si ospedalizzerà comunque la donna. Ma vorrei anche vedere! Neanche l’assistenza sanitaria dobbiamo garantire a queste donne? Davvero pensiamo che tutto avvenga in modo meccanico come negli animali?! Così fanno in Francia ed in altri civilissimi paesi. E quindi? L’evoluzione del sistema sanitario e della disciplina medica consiste forse nell’importare tutte le peggiori sozzure che esistono?
Hanno anche detto che così, finalmente, si applica appieno la legge 194. Ma di quale legge parlano? La nostra legge sull’aborto, anche se molti non lo sanno, ha la pretesa di nascere come legge in difesa della vita. All’articolo 1 si legge che lo stato “riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio” e che “l’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. Questo strano paradosso – che la legge che ha legalizzato la soppressione di vite innocenti fosse in realtà una legge a difesa della vita – si fonda sul fatto che si intendeva porre dei limiti alla pratica dell’aborto clandestino ed indiscriminato. Ed infatti la legge prevede che nei primi 90 giorni di gravidanza la donna possa abortire solo se “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”. Mentre dopo i 90 giorni l’interruzione volontaria di gravidanza può essere praticata solo: “a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”; non solo, ma continua la legge: “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Già adesso, dietro al presunto pericolo per la salute psico-fisica della donna, la maggior parte degli aborti avviene in buona sostanza perché la gravidanza non era ricercata (altro che gli intendimenti degli estensori della 194), ma con la Ru 486 che proporzioni raggiungerà questa strage? Che rispetto vi può essere per la vita se la semplice prescrizione di una pillola basta ad eliminarla?
Guardo mio figlio Giovanni, che ha due mesi e penso a tutto questo. In queste prime settimane di vita nel nostro mondo esterno lui si attacca al seno della mamma, fa il ruttino, fa la cacca ed a volte piange tanto. Cosa capisci tu, piccolo Giovanni? A volte di notte non ci fai dormire e potrebbe sembrare che sei un fastidio, un peso. Ma sei così bello! Ci guardi con degli occhioni così grandi. Non so che cosa passa nella tua piccola testolina, ma di una cosa sono certo: sei un dono. Non ci appartieni. Non sei una nostra proprietà. Sei un mistero. Come posso pensare che non ci sia un legame tra quando eri una sola cellula (l’incontro tra il mio seme e l’ovulo di mia moglie), quando già si formava il tuo corpicino ed adesso che ti vediamo, o quando sarai grande. Chi stabilisce quando diventi persona. La legge? Chi decide quando non sei più violabile, quando ucciderti diventa un reato. Tre mesi dal concepimento? Sei mesi? Non lo so. Ma nessuno lo sa. Sono limiti convenzionali, che si fondano su studi senza senso, su teorie sbagliate. Su quale organo si sviluppa prima e quale dopo. Ma cosa cambia? Tu resti e sei un dono, e lo eri anche prima.
Per questo io come padre e come medico non potrò mai capire questo mondo che è a favore dell’aborto, in qualunque forma si attui. Perché con tutta la compassione che posso provare per le donne violentate, per chi attende un figlio malformato, per quelle che sono senza marito, con tutto questo non posso non gridare a tutti innanzi tutto che tu sei e resti una vita come me. Che lo eri già prima, anche se non ti vedevo. Mio piccolo Giovanni, se mai vorrai capire che strano mestiere è quello di un papà medico, vorrei innanzitutto dirti questo. Che amo la tua vita.
Dottor Alfredo Corticelli
Karl Rahner, un cristianesimo senza radici di Fr Giovanni Cavalcoli, op - Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici. - [Da «Radici Cristiane n. 47, Agosto-Settembre 2009]
Sappiamo come di recente il Papa, parlando dell'interpretazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ha rilevato l'esistenza di un' “ermeneutica della rottura", da lui giudicata fuorviante, e l'ha contrapposta all'ermeneutica giusta che ha chiamato "della continuità".
Il teologo gesuita Karl Rahner (1904-1984), secondo quanto sta apparendo con sempre maggiore chiarezza da uno studio critico di molte delle sue opere condotto ormai da decenni, è forse l'esponente maggiore di tale ermeneutica della rottura, che da quarantenni ha attirato e continua ad attrarre schiere di teologi e pastori in tutto il mondo.
L'ermeneutica della rottura è una caratteristica di gran parte della teologia di Rahner, una teologia che enfatizza il nuovo, il moderno assolutizzato, fine a se stesso e senza discernimento, in modo tale da portarlo a una rottura con quel passato nel quale si trovano quelle radici cristiane, dalle quali soltanto può sorgere una sana modernità, che non può essere sana se non in continuità con quelle radici, che contengono valori divini, perenni e immortali.
La modernità secondo Rahner
Rahner ha avuto la buona idea di cercare di ammodernare il cristianesimo, di creare un dialogo del cristianesimo con la modernità. Ma ha sbagliato nel concepire il moderno. È rimasto vittima del mito idealista tedesco della "filosofia moderna". Non è sbagliato di per se aspirare a una filosofia moderna, apprezzare una filosofia moderna, perché si suppone che sia meglio informata, più sapiente, più solida e più intelligente dell'antica. Esiste un tomismo moderno certo migliore di quello del Sei o Settecento.
L'errore di Rahner è stato quello di optare per una filosofia "moderna", la quale è stata sì moderna nel senso temporale, ma non nel senso qualitativo. Che cosa conta che una filosofia sia temporalmente moderna se poi di fatto ricade in antichi errori pagani, che già erano stati corretti dalla filosofia cristiana medievale, autrice delle radici cristiane dell'Europa? Che "moderno" è quel moderno che distrugge un passato, quale quello delle radici cristiane dell'Europa, legato all'immutabilità della parola di Dio, quella parola della quale Cristo ha detto: «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno?».
Rahner ha concepito il progresso come rottura, come contraddizione col passalo di una tradizione cristiana sacra e perenne, quella che appunto si chiama sacra Tradizione, sorgente della divina rivelazione insieme con la Sacra Scrittura, come da sempre insegna la Chiesa Cattolica. Questa rottura è nata dal fatto che Rahner non si è accorto della perenne validità di tale Tradizione, come condizione di vero progresso.
Da che cosa sorge, da quali radici sorge la modernità rahneriana? Da un idealismo come quello che - per sua espressa dichiarazione - trae origine da Cartesio, passa per Kant. Fichte. Schelling ed Hegel e giunge ad Heidegger. Ma la tanto declamata novità cartesiana, come dimostrano gli storici del pensiero, in realtà riprende le fila dell'antico pensiero greco presocratico dei parmenidei, degli eraclitei, dei sofisti e degli scettici. Anche la continuità non è un valore, se è la continuità di un vizio perenne della ragione, come quello che si trascina da Protagora ad Heidegger.
Continuità ed evoluzione
Rahner non ha capito qual è la legge dell'evoluzione dogmatica. La vera evoluzione non è rottura, ma esplicitazione nella continuità. Non suppone l'equivocità, ma la continuità analogica. Il dogma di Calcedonia contiene la stessa verità della cristologia del Vaticano II, solo che nel corso di quattordici secoli la Chiesa ha conosciuto meglio (e come diversamente avrebbe dovuto accadere?) quel medesimo mistero di Cristo che già è immutabilmente e definitivamente enunciato dal dogma calcedonese.
Rahner ha inteso gli insegnamenti del Concilio come rottura con la Tradizione. Egli distrugge la Tradizione e quindi non opera in nome di una sana modernità, ma di un rinnovato modernismo peggiore di quello dei tempi di san Pio X. Per Rahner la verità cristiana comincia col Vaticano II da lui interpretato peraltro in modo modernistico. Prima c'è la barbarie, il vuoto, il nulla. Nessuna radice. Nessuna sorgente, nessuna base o nessun principio. Ma tutto comincia con Cartesio per finire con Heidegger. L'idealismo tedesco poi si sposa in Rahner con l'influsso luterano.
Tuttavia uno potrebbe obbiettare: ma in fin dei conti, anche Rahner ha rispetto per il passato e per la Tradizione, giacché anch'egli, almeno a quanto pare, basa la tua teologia sulla Sacra Scrittura e sulla storia del Cristianesimo e della teologia cattolica.
Sì, ma con quale impostazione? Non con l'impostazione del vero cattolico, il quale accoglie docilmente e fiduciosamente tutti i pronunciamenti dottrinali o dogmatici del Magistero della Chiesa e dei concili ecumenici, quali pepite d'oro che appaiono via via nel fiume della storia, ma con l'atteggiamento tipicamente luterano del "libero esame" (con la scusa dell' "esegesi storico-critica''), che di volta in volta, con diversi pretesti, si permette di stabilire in questo preziosissimo e ricchissimo patrimonio della Tradizione, quello che gli garba o non gli garba alla luce di quella che egli chiama "filosofia moderna".
Qual è il risultato? Un puro e semplice gnosticismo (come rivelano chiaramente gli studi di don Ennio Innocenti), come è stato quello dell'idealismo tedesco fino ad Heidegger. Dove va finire la fede? Non e più virtù teologale soprannaturale con la quale si accoglie per vero quanto Dio ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere, ma la famosa «esperienza trascendentale aprioristica ed atematica», ispirata all'ermetismo, alla teosofia, a Schleiermacher e ad Heidegger. Insomma, un rinnovato gnosticismo, col quale Rahner crede di conoscere Dio e Cristo meglio di quanto gli insegna la Chiesa Cattolica.
Rahner non è capace di unire l'immutabile col mutevole sul piano dei concetti. Immutabile e universale è soltanto l’ “esperienza trascendentale", ma essa è ineffabile ("Mistero assoluto") e non concettualizzabile; viceversa il concetto (il "categoriale"), anche quello dogmatico, è privo di universalità e immutabilità. Ne viene la conseguenza incresciosa che la verità teologica esiste, ma è inesprimibile; mentre ciò che può essere espresso appartiene solo al campo del particolare, del mutevole e dell'incerto.
Divinizzazione dell’uomo
L'etica rahneriana. come sempre avviene, è conseguenza logica dei suoi princìpi metafisici, gnoseologici e antropologici. La base fondamentale di tutto, come fu acutamente denunciato a suo tempo da Cornelio Fabro. è l'identificazione dell'essere col pensiero, identificazione che perla verità, è propria solo dell'essenza divina, ma che invece Rahner pone come principio di tutto il reale. Da qui il panteismo in metafisica e l'idealismo in gnoseologia.
Da qui viene anche l'identificazione dell'essere con l'agire e col divenire e la tendenza monistica che non distingue più adeguatamente il vero dal falso, il bene dal male, l'eterno dal temporale, il finito dall'infinito. Dio dal mondo. Ciò non gli impedisce peraltro di cadere in dualismi irresolubili, che qui non è il caso di esaminare. Per distinguere egli separa, e per unire, confonde.
Da questi principi fondamentali discende la sua concezione del rapporto dell'uomo con Dio: la ragione umana non dimostra l'esistenza di Dio partendo dagli effetti creati, come insegna san Paolo (Rm. 1,20) e il libro biblico della Sapienza (Sap. 13,5), ma possiede originariamente ed atematicamente un'«esperienza preconcettuale dell'essere» (“Vorgriff”). nella quale legge immediatamente la propria autocoscienza e l'esistenza di Dio. Come nella conoscenza divina, non si passa dalle cose a Dio, ma da Dio alle cose. Rahner confonde il sapere umano col sapere divino.
L'uomo dunque è già di per sé originariamente, benché "atematicamente". potenzialmente Dio; Dio non è che la piena attuazione dell'uomo (Dio è l' «orizzonte trascendentale dell’autotrascendenza umana»). Dunque nessuna reale distinzione tra natura umana e grazia. L'uomo è per essenza in grazia, la natura umana è definita dalla grazia, senza la grazia è nulla, è pura "astrazione", pura "possibilità" (polemica contro la "natura pura").
La quale grazia poi non è un dono di Dio, o un accidente (qualità) dell'anima, ma è Dio stesso, che così diventa il costitutivo sostanziale dell'uomo ("causa formale" dell'uomo), confondendo così Dio con l'anima umana. La grazia dunque è inammissibile, così come l'uomo non può perdere la sua essenza. Da qui l'estrema difficoltà con la quale Rahner cerca di spiegare l'esistenza del peccato.
La distruzione del cristianesimo
Da qui la tesi secondo la quale tutti per essenza tendono a Dio, tutti sono sempre in grazia, tutti si salvano ("buonismo"), il peccato diventa impossibile oppure è un costituivo irrilevante della natura perché sempre perdonato da Dio (Lutero), da qui la negazione della redenzione di Cristo come sacrificio espiativo e riparatore del peccato (e quindi la crisi del sacerdozio, della Messa e della Liturgia).
Da qui la negazione dì una natura umana oggettiva. universale e immutabile (difetto dell'esistenzialismo), dell'immortalità dell'anima (col rischio del materialismo), della legge naturale (con conseguente relativismo morale), dell'oggettività della conoscenza concettuale-razionale (con la conseguenza del relativismo dogmatico) e del libero arbitrio (con la conseguenza di un'etica spontaneistica, antiascetica e schiava delle passioni: Freud), la negazione della Parusia futura di Cristo (Parusia adesso), dei privilegi mariani (niente verginità), dell'esistenza degli angeli (sono solo "possibili"), di dannati nell'inferno (non c'è nessuno) e la tesi secondo la quale anche l'ateo è credente ("cristianesimo anonimo").
La cristologia è concepita hegelianamente in modo evolutivo-dialettico come passaggio dall'umano al divino e viceversa (riappare l'eresia di Eutiche), sicché Rahner giunge alla conclusione che antropologia, teologia e cristologia sono la stessa cosa (effetto del panteismo). Le tre Persone divine non sono tre relazioni sussistenti ovvero tre sussistenze, ma tre "modi di sussistenza" di un'unica persona-natura-sussistente (modalismo), mentre l'essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo («la Trinità immanente è la Trinità economica»). Allora Dio è obbligato a creare? È obbligato a incarnarsi? A manifestarsi all'uomo? Qui si vede l'influsso della fenomenologia di Husserl e viene anche in mente Hegel: «Senza il mondo. Dio non è Dio».
In particolare, in morale, la persona appare come soggetto meramente spirituale (cf. la res cogitans di Cartesio), che liberamente (come in Fichte, Gentile e Sartre) pone o progetta la propria essenza e quindi la legge morale, la quale quindi non è posta da Dio nella natura umana, ma il soggetto liberamente la pone da sé onde porre la propria essenza e la propria natura. Salvo poi a porre la persona come emergente dalla materia, per il fatto che viene negata la distinzione fra anima e corpo.
La persona non appare come «individua substantia rationalis naturae», ma alla maniera idealistica, come autocoscienza e libertà, come una specie di relazione sussistente in atto, sicché c'è poi da chiedersi come potranno essere persone quei soggetti i quali per vari motivi non possono o non vogliano relazionarsi a Dio ed agli altri.
Figlio dell'orgoglio moderno
I princìpi di fondo possono riassumersi in una divinizzazione gnostica dell'uomo e in una secolarizzazione del soprannaturale, si fanno sentire in vari modi: nel suo stesso metodo di pensare e di argomentare, dettato spesso da presunzione nei confronti delle massime autorità nel campo della filosofia come della religione, nell'aver sempre ignorato le osservazioni e le critiche che gli sono state fatte per decenni da eccellenti studiosi e teologi, nel sollecitare o suggerire una condotta morale improntata a un esagerato amore per la libertà personale, nel disprezzo dei valori oggettivi, eterni e universali, insomma un'esaltazione dell'io che ben poco ha a che vedere con un sano amore di sé riconosciuto dal cristianesimo, ma assomiglia molto di più al soggettivismo e alla presunzione tipici della religiosità luterana e al limite alla spropositata esaltazione dell'io propria dell’etica fichtiana.
Appare l'ombra sinistra di Nietzsche. Siamo ancora nel Cristianesimo? È questa l'interpretazione del Concilio?
© Radici Cristiane
www.radicicristiane.it/
L A S PAGNA PUNTA ALL ’ ABORTO FACILE . A NCHE PER LE MINORENNI - Se la legge insegna che dare la vita è amministrare desideri - PAOLA RICCI SINDONI – Avvenire, 27 settembre 2009
A quale futuro guarda oggi la Spagna?
Certamente a quello legato a una rapida ripresa economica, visto il pesante deficit pagato alla recente disfatta dei mercati finanziari. Non sembra però altrettanto preoccupata a fornire motivi di speranza alla sua storia e alla sua cultura, se è vero che sembra ormai assoggettata a quell’ideologia liberticida e relativistica, che fa delle questioni eticamente sensibili problemi relativi solo all’autogoverno della vita dei suoi singoli. Non sembra perciò dare risposta alle donne, ormai indirizzate a vedere la trasmissione della vita umana come una faccenda essenzialmente fisiologica, offrendo loro una soluzione molecolare, farmaceutica a un problema assai più ampio, in grado di toccare le corde profonde della loro coscienza.
È di ieri la notizia che il governo di Madrid ha varato un disegno di legge che di fatto depenalizza totalmente l’aborto, prevedendo la libera scelta della donna fino alla 14ª settimana e concedendo la facoltà anche alle minorenni fra i 16 e i 18 anni di abortire senza la consultazione dei genitori. C’è da sperare che il progetto, trasmesso al Parlamento, possa ricevere delle significative correzioni, visto anche le reazioni accorate del mondo cattolico spagnolo, che si riunirà il 17 ottobre per una grande manifestazione di protesta nella capitale, e la voce fortemente critica di alcuni pastori, come il cardinale Amigo, arcivescovo di Siviglia, che aveva già parlato, dalle pagine di 'Religíon Digital', di «inquisizione laica e agnostica, di statolatria e di indottrinamento laico», segnando ancora la distanza tra le politiche iperlibertarie di Zapatero e la voce profetica della Chiesa.
Nazione plurilingue e di ricchezza multietnica, questa Spagna sembra voler recidere le radici della sua esperienza storica e religiosa, per gettarsi sulle braccia dell’ideologia relativistica e nichilista, riconducendo tutte le pratiche abortive come faccende private, lasciate alla sola autodeterminazione delle donne. Sono quest’ultime, come si sa, a dover pesantemente portare l’emblema di questa mutazione etico-antropologica, dal momento che queste ulteriori liberalizzazioni dell’aborto, insieme alla paventata libertà e gratuità della pillola del giorno dopo, (per venire incontro alle 'difficoltà' delle adolescenti) non sono altro che sostegni legislativi volti alla soppressione culturale della coscienza dell’aborto. Non si tratta soltanto di eliminare il senso di colpa, privatizzando gli interventi atti a procurare la morte dei potenziali bambini, ma di considerare l’embrione non più come il soggetto della trasmissione della vita, ma qualcosa come un tessuto ormono- dipendente, il cui sviluppo e sopravvivenza può essere regolato attraverso antiormoni, come la Ru486 o la pillola del giorno dopo.
Ne va dell’idea stessa della vita, quasi che fosse possibile governarla attraverso l’intervento dei viventi, delle donne in particolare, non più custodi di questo bene, ma amministratrici di una risorsa da modellare a seconda delle leggi, dei desideri, delle idee, della conoscenza scientifica. La revisione nichilista della nozione di vita indotta da queste modalità di contraccezione non può che chiudere il futuro di una nazione, privata dall’immane schiera del popolo dei non-nati, orfana di inizi nuovi nella storia, prigioniera delle sue idolatrie. Il 17 ottobre a Madrid ci saremo idealmente tutti ad alzare un grido di rivolta e di riscatto.
A PROPOSITO DI « FAMIGLIA ALLARGATA » - La felicità non è un caos - FERDINANDO C AMON – Avvenire, 27 settembre 2009
« I l giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati»: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: «Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato». La bambina è la prima della classe, scrive perfino delle poesie. Senza rima, ma ormai chi usa più la rima? Leggevo, ieri, che ci sono bambini per i quali avere tre o quattro genitori è una festa: si divertono di più. Se poi i nuovi genitori hanno dei bambini, i figli nati dai due-tre matrimoni formano una squadra, giocano sempre, è come se fossero continuamente al parco. Questo leggevo. Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: «Dove sei? sei sola? o sei con X?». La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre. Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una perfezione. Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò. Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi. Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: 'papigno', 'mammastra', 'cugipote'. Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro.
'Papigno' è il maschile di 'matrigna', e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre. So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E 'papigno' è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto. Se c’è la 'mammastra' ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu. La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini 'tua madre' o 'tuo padre', perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: 'gli adulti che vivono con te'. La parola 'madre' è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola 'mamma' derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società.
Un ministro italiano in carica ha confidato ieri: «Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli». È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria. La felicità della famiglia – e il Papa ce lo ha ricordato – non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo.