mercoledì 16 settembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’ AUGURIO DI UN PADRE (PSICOLOGO ) PER SUO FIGLIO . E PER TUTTI I FIGLI - Qualcuno accenda il desiderio a questi ragazzi che tornano a scuola - STEFANO GHENO – Avvenire, 16 settembre 2009
2) I cristiani di Terra Santa, vittime di continue oppressioni - Il Patriarca Twal: senza l'aiuto esterno, la Chiesa è a rischio
3) I cattolici in Kuwait - Intervista al Vicario Apostolico monsignor Camillo Ballin - di Alessandra Nucci
4) Lo Studium Generale Marcianum presenta Asset, un'alta scuola post-universitaria su società, economia e teologia - Dove ci portano la scienza e la tecnica? - L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009
5) Il pluralismo è necessario ma non sufficiente - Si è aperto il 15 settembre a Venezia il convegno internazionale "La società plurale", organizzato dallo Studium Generale Marcianum per presentare il progetto Asset. Pubblichiamo un estratto dell'intervento del direttore della Forschungsstelle Politische Philosophie, Philosophisches Seminar dell'università di Tubinga, nella traduzione dal tedesco di Carlo Carniato. - di Otfried Höffe - L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009
6) Concluso il convegno al monastero di Bose - Sei aspetti della lotta spirituale - L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009 - Apprezzamento per il lavoro del movimento ecumenico e della Chiesa cattolica è stato espresso dall'arcivescovo ortodosso russo Zosima di Elista e Kalmykija nel corso del convegno ecumenico internazionale svoltosi a Bose, dal 9 al 12 settembre, dedicato al tema della lotta spirituale nella tradizione ortodossa.
7) Basta con un Cristianesimo ridotto! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 15 settembre 2009 - Non siamo più servi di una legge morale ma amici della Verità e dell’Amore in persona
8) «Cattolici e ortodossi, mai così vicini all'unità» - L' arcivescovo di Mosca: il primato del Papa è un ostacolo superabile - Aldo Cazzullo, Il Corriere della sera 14/09/09
9) Obama vs. l’ideologia di Manhattan - Lorenzo Albacete mercoledì 16 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
10) Convivere al plurale - Scola: «Il bene di una società è la ricerca dell’etica comune» - DA V ENEZIA FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 16 settembre 2009

L’ AUGURIO DI UN PADRE (PSICOLOGO ) PER SUO FIGLIO . E PER TUTTI I FIGLI - Qualcuno accenda il desiderio a questi ragazzi che tornano a scuola - STEFANO GHENO – Avvenire, 16 settembre 2009
C osa possiamo augurare ai nostri figli in questi giorni di ripresa delle scuole? Le risposte a questa domanda possono essere molteplici, influenzate dal contesto in cui si vive, dalle attese della famiglia, dall’atteggiamento già sperimentato dai ragazzi e dai loro insegnanti. Che possano andare a scuola in un ambiente di rinnovato rigore oppure che non sia troppo esigente nei suoi confronti ('poverino!'), che possano trovarsi in uno stimolante e cosmopolita ambiente multiculturale oppure che non siano gli unici della classe a parlare l’italiano. E ancora: che possano avere un insegnante non incattivito dalla precarietà della propria condizione oppure che trovino un posto in classe, magari col doposcuola (aumentato o diminuito, chissà). E naturalmente che scampino la micidiale influenza A (e magari anche i meno micidiali ma fastidiosi pidocchi che ogni anno funestano la partecipazione scolastica). Sono solo alcuni esempi di quanto in questi giorni i media, ma anche le chiacchiere tra genitori, ci propongono come esempi di speranze espresse dalle famiglie, dai ragazzi, dagli addetti ai lavori.
Anche mio figlio riprende la scuola. Il mio augurio per lui è che in questo nuovo anno possa aprire sempre di più il suo cuore e la sua mente a quell’indispensabile funzione dell’io che chiamiamo comunemente desiderio. La scuola può infatti essere un formidabile attivatore del desiderio, ma anche un luogo che disabitua le persone a esercitarlo. E senza desiderio non c’è sviluppo.
Il desiderio infatti è quell’aspetto del nostro limite, del nostro bisogno, che si tramuta in domanda. Invece che portarci a una passività rassegnata, come talvolta accade nella constatazione della mancanza, il desiderio ci spinge all’azione, ci spinge verso la risposta alla nostra domanda. Magari solo in modo parziale, iniziale, timido, ma comunque all’azione, all’intrapresa e, quindi, alla crescita e alla generatività.
Viviamo in un tempo che spesso congiura a spegnere il desiderio, a ridimensionarlo, a svuotarlo del suo potenziale energetico: 'l’epoca delle passioni tristi', dicevano Benasayag e Schmit. E talvolta la scuola è terribile in questo senso, confondendo il diventare grandi con l’abbandonare la baldanza desiderosa che è propria del fanciullo. Invece il desiderio è indispensabile per dirigere lo sviluppo del ragazzo verso la meta di una condizione adulta capace di generare.
Il desiderio non è qualcosa che si impara, è un dato strutturale all’essere umano, ma va educato, cioè 'tirato fuori' e messo nelle condizioni di agire. Per farlo ci vogliono maestri che non abbiano paura di giocare i propri desideri nel lavoro, nella scuola.
Portare la testimonianza del proprio desiderare è la modalità più efficace per stimolare il giovane a riconoscere il suo e a farlo emergere.
Il desiderio non va confuso col bisogno, pena la degenerazione in quella che che Ferrara definiva 'la dittatura dei desideri', per cui ciò che voglio diventa mio diritto. È necessario invece educare il giovane a prendere sul serio il proprio desiderio, anche quando comporta fatica e sacrificio.
Oggi più che mai sono necessari maestri che aiutino i ragazzi a distinguere tra i desideri, perchè non tutto è equivalente. Ci sono desideri di bello, di buono e di giusto che hanno portato a erigere maestose cattedrali, a fondare ospedali e università, a costruire forme sociali eque e accoglienti, e altri che hanno portato solo l’affermazione violenta di sé e del proprio pensiero.
L’augurio, per mio figlio, e per tutti i figli, è di una scuola che educhi al desiderio e il desiderio.


I cristiani di Terra Santa, vittime di continue oppressioni - Il Patriarca Twal: senza l'aiuto esterno, la Chiesa è a rischio
KÖNIGSTEIN, martedì, 15 settembre 2009 (ZENIT.org).- Il Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ha avvertito che il futuro della Chiesa in Terra Santa è a rischio. Per questo motivo, ha chiesto ai cristiani di tutto il mondo di unire i propri sforzi per aiutare i fedeli della terra di Gesù.

Durante un discorso pronunciato l'8 settembre nella Cattedrale di Westminster, a Londra, il Patriarca ha sottolineato che l'emigrazione ha ridotto drasticamente il numero dei cristiani sia in Israele che in Palestina.

Secondo il presule, ricorda l'associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), che ha organizzato l'incontro londinese, si pensa che i fedeli di Gerusalemme diminuiranno dai 10.000 attuali a poco più di 5.000 nel 2016.

In tutta la Terra Santa, ha aggiunto, i cristiani sono scesi dal 10 al 2% in 60 anni, anche se altre prove mostrano che il declino potrebbe essere superiore.

Oppressione e muro di separazione

Il Patriarca ha confessato che fino ad ora il pellegrinaggio svolto da Benedetto XVI in Terra Santa a maggio non ha portato a una minore oppressione delle minoranze e che “la continua discriminazione in Israele minaccia sia i cristiani che i musulmani”.

“Tra la limitazione degli spostamenti e la noncuranza per le necessità abitative, le tasse e la violazione dei diritti di residenza, i cristiani palestinesi non sanno da che parte voltarsi”.

Il Patriarca Twal ha condannato in particolare il muro eretto da Israele intorno alla West Bank, affermando che oltre a ostacolare la libertà di movimento “ha chiuso molti palestinesi in zone-ghetto in cui l'accesso al lavoro, all'assistenza medica, all'istruzione e ad altri servizi di base è stato gravemente compromesso”.

“Abbiamo una nuova generazione di cristiani che non può visitare i Luoghi Santi della sua fede anche se distano solo pochi chilometri dal luogo in cui risiede”, ha denunciato.

“Senza di voi, che ne sarà del nostro futuro?”

Alla presenza della coordinatrice per i progetti in Medio Oriente di ACS, Marie-Ange Siebrecht, il Patriarca Twal ha anche ringraziato l'opera dell'associazione, che sostiene seminaristi e suore a Betlemme, famiglie che costruiscono oggetti devozionali in legno d'ulivo e iniziative che promuovono la cooperazione interreligiosa.

Nell'omelia della Messa che ha celebrato nella Cattedrale di Westminster prima dell'incontro, ha espresso la propria riconoscenza affermando: “Contiamo sul vostro affetto e sul vostro sostegno. Senza di voi, che ne sarà del nostro futuro?”.

Il presule ha poi sottolineato l'importanza delle cinque “P”: preghiera, pellegrinaggio, pressione, progetti, che portano tutti alla quinta “P”, quella della pace.

“Se in 61 anni non siamo riusciti a ottenere la pace, vuol dire che i metodi che abbiamo usato erano sbagliati”, ha commentato parlando della necessità di raggiungere una soluzione definitiva nella regione.

“Sembra che i politici siano più preoccupati della pace che della guerra e preferiscano gestire il conflitto piuttosto che risolverlo”.

Nei Territori Occupati, ha aggiunto, la gente “è completamente alla mercé dell'Esercito israeliano, e al momento la Striscia di Gaza vive sotto un assedio imposto da Israele, che ha provocato una drammatica crisi umanitaria”.

Nonostante tutto, il presule si dice “cautamente ottimista” per “il cambiamento di tono dell'Amministrazione americana guidata dal Presidente Obama”, osservando che il nuovo Capo di Stato “sembra molto più consapevole dei suoi predecessori degli errori fondamentali dell'Amministrazione nell'atteggiamento verso il conflitto”.

Durante la sua visita a Londra, il Patriarca ha anche incontrato i Vescovi di Inghilterra e Galles e rappresentanti di organizzazioni come i Cavalieri del Santo Sepolcro e Missio.


I cattolici in Kuwait - Intervista al Vicario Apostolico monsignor Camillo Ballin - di Alessandra Nucci
ROMA, martedì, 15 settembre 2009 (ZENIT.org).- La storia della fede in Kuwait è la storia di una Chiesa giovane e dinamica ma senza futuro, perché fatta di lavoratori stranieri cui è vietato mettere radici nel Paese.

I kuwaitiani sono un milione, gli stranieri sono il doppio, e di questi circa 400mila sono cristiani di diverse provenienze. Anche se dovessero restare in Kuwait per tutta la vita, non otterrebbero mai il permesso di comprare casa, tantomeno di farsi raggiungere dalla famiglia.

Per questo le chiese scoppiano, ma non vi si trova un anziano, perché i fedeli che vi convergono vivono una vita provvisoria, in attesa di andare altrove.

Ce ne ha parlato il Vicario Apostolico, mons. Camillo Ballin, sacerdote comboniano nativo del Veneto, che ha trascorso quasi tutti i suoi anni di sacerdozio nei paesi arabi: 2 anni in Siria e Libia per imparare l’arabo, 24 anni in Egitto, 10 anni in Sudan. In Kuwait c’è dal 2005.

I cristiani sono soggetti a restrizioni in Kuwait?

Ballin: Come in tutti gli altri paesi arabi, anche se meno che in Arabia Saudita. Io esco sempre con veste e crocifisso, ma è proibito tenere le celebrazioni liturgiche fuori dalle tre chiese esistenti. Così, il problema numero uno è lo spazio. A fronte di 350mila fedeli provenienti da Filippine, India, Sri Lanka, Bangladesh e Pakistan, più 6000 cattolici arabi, disponiamo di 16 sacerdoti (un filippino, un egiziano, uno dello Sri Lanka e gli altri dall’India) e solo tre chiese.

Come riescono allora ad andare a Messa, almeno la domenica, tutti i fedeli?

Ballin: Celebriamo messe in nove lingue diverse, in vari riti che la Santa Sede ha voluto unificare sotto il Vescovo latino, che sono io: siro-malabar, siro-malancar, siro-maronita, copto-cattolico e naturalmente latino. Solo in cattedrale ci sono 22 corali. Ma tutto questo non basta, avremmo bisogno di almeno un’altra chiesa grande, ma non ci concedono il terreno, e se anche trovassimo i soldi per comprarlo da privati, non ci darebbero il permesso di farci una chiesa. Se un giorno per qualche motivo ci fosse un panico durante la Messa, avremmo centinaia di morti per accalcamento. Chi non riesce ad entrare rimane fuori. Dentro non c’è un centimetro per muoversi.

Come fate a distribuire la Comunione?

Ballin: La prendono nell’uscire, senza cioè tentare di tornare al posto.

E durante la settimana?

Ballin: In cattedrale di giorno c’è l’adorazione continua, c’è sempre gente che prega sia in cattedrale, sia alla cappella dell’adorazione, sia alla grotta della Madonna - che si trovano tutti sullo stesso terreno - sia nelle altre due parrocchie.

Speranze per il futuro?

Ballin: Non c’è un futuro sicuro, in quanto non ci sono fedeli locali e quindi neanche preti locali. In verità ci sono 4 piccole famiglie cattoliche kuwaitiane e circa 200 cristiani protestanti, ma non potranno che essere assorbite dall’emigrazione e dai matrimoni.

Quando si pensa ai paesi musulmani, viene da domandarsi se ci sono mai delle conversioni…

Ballin: In 40 anni non ho mai accettato una conversione. Primo, perché sono quasi sempre spie del governo, secondo perché lo fanno quasi sempre solo per avere il visto per l’estero.

Secondo lei è possibile chiedere reciprocità rispetto a come vengono accolti i musulmani in Occidente?

Ballin: I paesi occidentali sono paesi atei, a cui i diritti umani non interessano. L’Italia ha 660 moschee: qualcuno ha mai pensato di chiedere facilitazioni per i cristiani nei paesi arabi? Nessuno. Eppure noi non chiediamo privilegi, solo di poter pregare senza pericoli gravi derivanti dall’accalcamento.


Lo Studium Generale Marcianum presenta Asset, un'alta scuola post-universitaria su società, economia e teologia - Dove ci portano la scienza e la tecnica? - L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009
Chi siamo e verso dove la tecnica e la scienza ci stanno conducendo? Su che basi si può e deve fondare la convivenza in società ormai sempre più "mescolate"? Che ruolo gioca nella piazza pubblica la fede?
Sono diverse e incalzanti le domande che oggi animano il dibattito comune e che, non più riservate ai laboratori degli specialisti, esigono delle risposte nuove, adeguate al profilo "plurale" della società di oggi. È sulla sollecitazione di tali questioni brucianti che lo Studium Generale Marcianum (www.marcianum.it), il polo pedagogico-accademico del Patriarcato di Venezia - fondato nel 2004 e che lavora per promuovere l'unità del sapere - ha ideato e avviato una nuova proposta accademica: si chiama Asset, è una nuova Alta scuola post-universitaria, che viene lanciata ufficialmente da un convegno internazionale sul tema "La società plurale" che si è aperto il 15 settembre nella città d'acqua e si chiuderà il 17.
Asset, acronimo per Alta Scuola Società Economia Teologia, si propone come nuova "risorsa" (asset appunto) per conoscere la società plurale di oggi a partire dallo studio e dalla ricerca nel campo della filosofia, della teologia, del diritto, dell'economia e delle scienze sociali.
La sua offerta è flessibile e si articola in una serie di attività diverse quali seminari, workshop, corsi estivi, e così via, che di fatto permettono a chi è interessato sia di seguire il percorso annuale completo, sia di iscriversi a una singola iniziativa compatibilmente con altre attività professionali.
Sono due infatti le tipologie di destinatari della nuova proposta radicata a Venezia, ma aperta al mondo: da un lato con le sue attività di ricerca si rivolge a dottorandi, dottori di ricerca, assegnisti di ricerca e docenti; dall'altro con la sua proposta di alta formazione post-universitaria si offre a persone del mondo associativo, personale di Ong, funzionari pubblici e parlamentari europei. In entrambi i casi con un taglio e metodo particolare: far interagire le diverse discipline, costringerle a un confronto reciproco e serrato sui contenuti e sul metodo: l'economia, per esempio, si lascerà investire dalle domande che la filosofia investiga, così come la teologia e la dottrina sociale della Chiesa parteciperanno al dibattito comune confrontandosi a tutto campo con gli oggetti di studio e con le metodologie di ricerca propri di altre scienze.
Ma Asset non nasce dal nulla perché eredita il percorso sperimentale di un progetto triennale di ricerca (chiamato "Uomo Polis Economia") che ha coinvolto un gruppo di giovani ricercatori, laureati o dottori di ricerca, di età compresa tra i 25 e i 35 anni, in un lavoro interdisciplinare di studio della filosofia, della bioetica, dell'economia e dei beni culturali.
Un'esperienza che si traduce ora in offerta stabile grazie a una rete internazionale di docenti del calibro di Robert Spaemann dell'università di Monaco, di Margaret Archer, dell'università di Warwick e di Angelika Nussberger dell'università di Colonia, solo per citarne alcuni.
Il calendario dell'Alta scuola - sostenuta economica dalla Fondazione di Venezia - per il suo primo anno accademico 2009-2010 prevede nel dettaglio: un laboratorio di orientamento alla ricerca con i membri del Comitato scientifico internazionale; un ciclo di laboratori di ricerca animati da gruppi di ricercatori guidati da un docente senior che porteranno avanti un progetto con esiti teorici e pratici (comprese pubblicazioni di libri e articoli); dodici appuntamenti seminariali di livello post-universitario aperti al pubblico; tre laboratori di ricerca trasversali, ai quali sono chiamati a partecipare docenti e ricercatori appartenenti ai diversi ambiti di studio e la Summer school del settembre 2010 che sarà - con la conferenza annuale del prossimo autunno di Robert Spaemann - il momento di sintesi delle attività di ricerca e formazione condotte durante l'anno.
(©L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009)


Il pluralismo è necessario ma non sufficiente - Si è aperto il 15 settembre a Venezia il convegno internazionale "La società plurale", organizzato dallo Studium Generale Marcianum per presentare il progetto Asset. Pubblichiamo un estratto dell'intervento del direttore della Forschungsstelle Politische Philosophie, Philosophisches Seminar dell'università di Tubinga, nella traduzione dal tedesco di Carlo Carniato. - di Otfried Höffe - L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009
Il pluralismo non è incontestato. La critica del concetto di pluralismo si indirizza in parte contro il suo contenuto empirico e in parte contro quello normativo; la critica normativa, a sua volta, concerne il pluralismo dei valori o il pluralismo politico.
Il pluralismo valoriale diviene più evidente nella forma dello Stato ideologicamente neutrale. Lo si rimprovera di relativismo, addirittura di nichilismo, poiché non riconoscerebbe mai valori fondamentali obbligatori, e sarebbe perciò corresponsabile delle crisi di senso e di orientamento che minacciano le società industriali contemporanee. Spinto all'estremo, lo Stato ideologicamente neutrale sopprimerebbe addirittura se stesso, perché non in grado di legittimare la cornice al cui interno le forze plurali possono liberamente svilupparsi.
La più importante critica al pluralismo politico proviene da Carl Schmitt e dai suoi allievi; essi temono le tendenze centrifughe, "anarchiche", del pluralismo. L'apertura e l'incertezza della democrazia pluralistica paralizzerebbero la forza decisionale dello Stato (leggi: ingovernabilità); inoltre i risultati compromissori non corrisponderebbero né agli ideali morali né a quelli tecnici ed economici di una buona politica.
I rappresentanti della teoria critica considerano desiderabile il pluralismo, ma contestano che siano dati i presupposti empirici della sua realizzazione. Essi indicano i socialmente svantaggiati, che sarebbero di fatto esclusi, o quantomeno chiaramente sfavoriti rispetto a organizzazioni più potenti, dalla partecipazione al processo di compensazione degli interessi. L'idea normativa di un'uguaglianza giuridica di tutti i gruppi sarebbe perciò un postulato più che una verità sociale. Altri critici affermano una "standardizzazione dei soggetti", che non sarebbero dotati di autonoma definizione dei propri interessi né, pertanto, di una differenziazione autenticamente pluralistica. In luogo di un libero concerto dei gruppi d'interesse sarebbero subentrati apparati burocratici il cui sviluppo autonomo dominerebbe la scena politica.
Il pluralismo politico presuppone come date due condizioni. Da un lato tutti gli interessi e i gruppi rappresentativi devono avere parità di diritti nella discussione pubblica e nel processo formativo della volontà politica; dall'altro il bene comune deve realizzarsi tramite la lotta degli interessi di gruppi giuridicamente pari. Anche nelle democrazie progredite le due condizioni sono soddisfatte tutt'al più solo approssimativamente. Ciò perché nella società pluralistica i cittadini, con i loro interessi e le loro convinzioni, non hanno accesso diretto alla politica, ma solo indiretto, per il tramite di associazioni, unioni e partiti. Pertanto gli interessi e i convincimenti ottengono sì forza politica, ma con diversa intensità. E questo giacché l'organizzazione degli interessi e delle convinzioni conduce abbastanza spesso a una sensibile deformazione della loro influenza. Già a motivo delle concrete condizioni collaterali storico-sociali alcuni interessi e convincimenti sono rappresentati in maniera molto più forte di altri: per esempio perché le relative formazioni sono organizzate in maniera più stretta o sono appoggiate da finanziatori più facoltosi, perché dispongono di media attraenti o hanno un miglior rapporto coi mezzi di comunicazione di massa. Perciò la parità di diritti non si realizza per il solo fatto che - diversamente dalla precedente società feudale, dei ceti o dei notabili - sono aboliti i privilegi giuridici e tutti i cittadini sono democraticamente e formalmente uguali davanti alla legge. Il pluralismo non descrive semplicemente la nostra realtà sociale e politica. Esso è in gran parte soltanto un postulato, in conformità a cui le situazioni empiriche sarebbero ancora da trasformare.
La trasformazione - e qui è un'ulteriore difficoltà - è possibile solo nell'immanenza del pluralismo. Perché in primo luogo i gruppi più potenti non rinunciano volontariamente alla loro supremazia. In secondo luogo è sociologicamente dimostrato che taluni interessi sono più facilmente organizzabili di altri, la qual cosa porta, per esempio, a una prevalenza dei gruppi economici (datori e prestatori di lavoro). Inoltre vi sono movimenti di concentrazione e tendenze intraorganizzative all'oligarchizzazione attraverso i quali il senso del pluralismo, la libertà dei cittadini, è messo in pericolo: la dipendenza dallo Stato cede alla dipendenza dalla burocrazia dei gruppi e dai loro funzionari. Infine, la stessa lotta corretta fra i gruppi d'interesse pluralistici non porta di per sé al concreto benessere comune. Ciò in quanto, di regola, gli interessi a lungo termine soccombono rispetto a quelli a breve termine e gli interessi generali vengono sacrificati a quelli particolari, per cui ad esempio la protezione dell'ambiente e il monito verso il crescente indebitamento statale sono così facilmente soppiantati.
Se si tengono presenti assieme tutti questi argomenti, non serve aderire a una teoria cospirativa né a una critica radicale del capitalismo per mantenere nei confronti dell'affermazione empirica del pluralismo un resto di scetticismo. Conseguentemente, è pur vero che la molteplicità dei gruppi intermedi è senza dubbio un sostegno della libertà e una società pluralistica è senz'altro meglio di una non pluralistica e il pluralismo è un importante "elemento strutturale della democrazia liberale dello Stato di diritto". Ma ciononostante il pluralismo da solo non è in grado di garantire il proprio senso; è solo un'utile, ma niente affatto sufficiente, forma organizzativa della libertà e della giustizia.
Contro la parificazione fra pluralismo e democrazia liberale vi è anche la riserva costituita dal fatto che il concetto di pluralismo pone in risalto soltanto la molteplicità e la concorrenza, ma non gli elementi complementari di comunanza e cooperazione. Ma una democrazia liberale non consiste solo nell'accostamento e nello scontro dei molteplici gruppi intermedi, bensì anche nella loro regolazione. La regolamentazione fonda una collaborazione: la comunanza dei problemi che si devono risolvere e soprattutto quel fondamentale consenso (conforme a costituzione) che definisce il contenuto normativo e le regole del gioco del pluralismo. Inoltre non dobbiamo trascurare, al di là di ogni molteplicità, alcuni tratti comuni storici e sociali. Il pluralismo si dimostra, prima di ogni desiderabilità personale e pubblica, come un concetto unilaterale, adialettico, che sottolinea la molteplicità in contrasto con l'unità, la concorrenza in contrasto con la cooperazione e anche la astoricità in contrasto con la storia comune. Esso è una categoria critica di mediazione con limitata funzione esplicativa e legittimativa, che non può essere in alcun modo assolutizzata e che soprattutto non deve perdere di vista il proprio senso, cioè il servizio alla libertà e alla giustizia.
(©L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009)


Concluso il convegno al monastero di Bose - Sei aspetti della lotta spirituale - L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009 - Apprezzamento per il lavoro del movimento ecumenico e della Chiesa cattolica è stato espresso dall'arcivescovo ortodosso russo Zosima di Elista e Kalmykija nel corso del convegno ecumenico internazionale svoltosi a Bose, dal 9 al 12 settembre, dedicato al tema della lotta spirituale nella tradizione ortodossa. - di Kallistos Ware
"A suo tempo il movimento ecumenico aiutò la Chiesa russa a sopravvivere, e noi siamo molto riconoscenti al nostro metropolita Nikodim e alla Chiesa cattolica che fecero molto per salvare la nostra Chiesa", ha detto Zosima. Il presule, dopo aver ricordato le incomprensioni con la Chiesa cattolica verificatesi a partire dai primi anni Novanta, ha poi anche riconosciuto i sostanziali passi avanti dell'ultimo periodo. "In questi ultimi anni - ha detto - anche grazie al lavoro di monsignor Mennini, abbiamo incominciato a guardarci negli occhi l'un l'altro con i cattolici, lavoriamo per risolvere i nostri problemi". In questo modo - ha concluso - "le grandi tradizioni della Chiesa cattolica e di quella ortodossa si arricchiscono a vicenda". Da parte sua, il nunzio Antonio Mennini, rappresentante della Santa Sede presso la Federazione Russa, ha ricordato - citando il teologo ortodosso Olivier Clément - come il tema del combattimento spirituale sia solo apparentemente lontano dalla mentalità e dalle priorità dell'uomo contemporaneo, sia occidentale che orientale. È, invece, "un appello alla libertà dell'uomo", alla "capacità della persona", un'opportunità "per uscire dalla condizione di sonnambulismo quotidiano in cui ci troviamo a vivere".
Sul tema del convegno pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del metropolita di Diokleia, del Patriarcato ecumenico, e una parte del saluto del vice decano del Collegio cardinalizio.

Vorrei selezionare sei aspetti della lotta spirituale nel mondo contemporaneo. (...) Tre degli aspetti che ho scelto hanno a prima vista un carattere cupo, tre invece riflettono uno spirito più luminoso; ma tutti e sei non sono in fin dei conti negativi ma piuttosto eminentemente positivi.
L'inferno può essere considerato come l'assenza di Dio, come il luogo in cui Dio non c'è (è tuttavia vero che l'inferno, considerato in maniera più precisa, non è vuoto di Dio, dal momento che - come Isacco il Siro insiste - l'amore di Dio è dovunque). Non è sorprendente che i cristiani nel ventesimo secolo, dimorando in un mondo segnato dal senso dell'assenza di Dio, abbiano interpretato la loro vocazione come un descensus ad inferos. Paul Evdokimov sviluppa questa idea in relazione con il sacramento del battesimo, che costituisce peraltro il fondamento della lotta spirituale del cristiano. "Parlando della cerimonia dell'immersione al momento del battesimo", osserva Evdokimov, "san Giovanni Crisostomo annota: "L'azione di scendere nell'acqua e poi risalirne di nuovo simbolizza la discesa di Cristo agli inferi e il suo ritorno da quel luogo". Ricevere il battesimo, quindi, significa non soltanto morire e risorgere con Cristo; significa anche che noi scendiamo all'inferno, che portiamo le stigmate di Cristo sacerdote, la sua premura sacerdotale, la sua ansia apostolica per le sorti di coloro che hanno scelto l'inferno". Il pensiero di Evdokimov ha molto in comune con le idee di Hans Urs von Balthasar, ma non bisogna dimenticare che, come l'arcivescovo Hilarion Alfeev ha dimostrato in un suo libro recente, la discesa di Cristo agli inferi è soprattutto un'azione di vittoria.
Un santo ortodosso del ventesimo secolo che ha particolarmente enfatizzato la discesa agli inferi è Silvano dell'Athos: "Mantieni il tuo spirito agli inferi e non disperare", insegna, aggiungendo che questa è la via per acquisire l'umiltà. Il suo discepolo padre Sofronio insiste che "egli si riferiva a una reale esperienza dell'inferno". Nelle sue meditazioni, Silvano ricorda il calzolaio di Alessandria, visitato da Antonio, che era solito dire: "Tutti saranno salvati; soltanto io perirò". Silvano applica queste parole a sé: "Presto io morirò e prenderò dimora nell'oscura prigione dell'inferno, e soltanto io brucerò in quel luogo".
Tuttavia sarebbe errato interpretare la posizione di Silvano in termini puramente negativi e tetri; bisogna attribuire il giusto peso a entrambi le parti della sua affermazioni: non dice soltanto "mantieni il tuo spirito agli inferi", ma aggiunge subito dopo "e non disperare". Altrove egli afferma che la certezza della propria dannazione è una tentazione del demonio. Ci sono, dice, due pensieri che provengono dal nemico: "Tu sei un santo" e "non ti salverai". San Silvano era profondamente influenzato dagli insegnamenti di Isacco il Siro sul carattere irriducibile dell'amore divino: "Se l'amore non è presente", egli dice, "allora tutto si fa difficile"; al contrario, quando l'amore è presente, tutto è possibile. (...)
La forma particolare che la discesa agli inferi ha assunto durante il ventesimo secolo nella lotta spirituale dei cristiani ortodossi è stata l'esperienza della persecuzione e del martirio. Il secolo scorso è davvero stato per l'oriente cristiano un secolo di martirio per eccellenza. Si ricordi inoltre che, sebbene il comunismo è caduto in Russia e nell'Europa orientale, vi sono ancora molti luoghi nel mondo in cui i cristiani - sia ortodossi che non ortodossi - continuano a soffrire persecuzioni. Secondo le parole di un prete russo della diaspora, padre Alexander Elchadimov, che morì nel 1934, "il mondo è deforme e Dio lo raddrizza. Questo è il motivo per cui Cristo ha sofferto - e soffre - così come hanno sofferto i martiri, i confessori della fede e i santi; e anche noi, che amiamo Cristo, non possiamo che soffrire altrettanto". Come indica Silvano, il martirio può essere interiore o esteriore: "Pregare per la gente", dice, "significa versare il sangue". Allo stesso tempo, come nel suo apoftegma "mantieni il tuo spirito agli inferi e non disperare", egli insiste sul reciproco concorrere di tenebra e luce, di disperazione e speranza. Così la sofferenza dei martiri è anche una fonte di gioia: come afferma Silvano, "la sofferenza estrema è alleata con la beatitudine estrema".
Un martire la cui lotta spirituale ha particolarmente catturato l'immaginazione ortodossa negli ultimi sessant'anni è Maria Skobtsova, morta in una camera a gas di Ravensbrück il 13 marzo 1945, offrendosi probabilmente al posto di un altro prigioniero. Se così avvenne, ciò indica come il martire - allo stesso modo di Cristo stesso, il protomartire - svolge un ruolo vicario, morendo al posto di altri, morendo perché altri possano vivere. Il martire adempie, in modo definitivo e finale, il comando di san Paolo: "portate i pesi gli uni degli altri" (Lettera ai Galati, 6, 2); questo era anche un tema che madre Maria ha sottolineato nei suoi scritti. (...)
Strettamente legato ai due elementi di cui abbiamo appena parlato - la discesa gli inferi e il martirio - ve n'è un terzo, la kenosis o autosvuotamento. Colui che s'impegna nella lotta spirituale s'identifica con il Cristo umiliato. Prima d'essere imprigionata, Maria Skobtsova dimostrò il suo spirito kenotico in maniera impressionante, mostrando grande solidarietà con gli indigenti, gli emarginati, e tutti i reietti dalla società, e anche - quando scoppiò la seconda guerra mondiale - con gli ebrei. "I corpi dei nostri fratelli in umanità", scriveva, "devono essere trattati con maggior cura rispetto ai nostri. L'amore cristiano c'insegna non soltanto a fare doni spirituali ai nostri fratelli, ma anche doni materiali. Perfino la nostra ultima camicia, il nostro ultimo pezzo di pane deve essere donato loro. L'elemosina individuale e ogni tipo possibile di opera sociale sono allo stesso modo legittimi e necessari".
Un santo della tradizione ellenica che ha mostrato questo spirito kenotico in un modo considerevole è Nectario di Pentapoli, morto nel 1920. Le storie circa la sua umiltà abbondano. Giovane vescovo di Alessandria, qualora veniva attaccato, rifiutava ogni misura di ritorsione e di difesa contro i calunniatori. Quando più tardi era direttore della scuola teologica Rizareion di Alessandria, avvenne che l'addetto alle pulizie si ammalò; per impedire che il posto andasse a qualche altro Nectario per molti giorni s'alzò prestissimo al mattino per spazzare i corridoi e pulire le latrine, finché l'uomo non fu di nuovo in grado di tornare al suo lavoro. (...) In questo e in diversi altri modi Nectario obbedì alle parole di san Paolo: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli ... svuotò se stesso" (Lettera ai Filippesi, 2, 5-7).
(...) Bilanciamo ora questi tre elementi cupi della lotta spirituale con tre elementi più gioiosi che sono di particolare importanza nel mondo contemporaneo.
(...) Il mistero della trasfigurazione ha un valore particolare per noi nel tempo presente. La nostra lotta spirituale deve certamente coinvolgere elementi quali la rinuncia, lo sforzo ascetico, il sudore, il sangue e le lacrime, il martirio interiore e forse anche esteriore; ma il reale valore di tutto ciò viene perduto se esso non viene eliminato dalla luce increata del Tabor. A questo proposito, non è certo una coincidenza che il santo più influente nella vita e nell'esperienza dell'ortodossia del ventesimo secolo sia stato Serafino di Sarov, che è proprio un santo della trasfigurazione. Quando visitai la Grecia per la prima volta, cinquantacinque anni fa, san Serafino era praticamente sconosciuto; mentre ora, ogni volta che vado sul suolo ellenico, vedo la sua icona nelle chiese e nelle case, e nei monasteri frequentemente incontro monaci e monache che si chiamano Serafino o Serafina in onore del santo di Sarov. (...)
Nello stesso tempo non facciamo del sentimentalismo nei riguardi del santo di Sarov né semplifichiamo troppo la sua lotta spirituale. Facciamo bene a ricordare che egli si vestiva in bianco e non in nero, come la tradizione monastica voleva; che chiamava i suoi visitatori "mia gioia" e li salutava durante tutto l'anno con il saluto pasquale "Cristo è risorto"; che il suo volto risplendeva di gloria in presenza del suo discepolo Nicola Motovilov. Ma non dimentichiamo gli assalti demoniaci che Serafino ha dovuto sostenere mentre pregava sulla roccia accanto al suo eremo e sentiva le fiamme dell'inferno crepitare intorno a lui; non dimentichiamo il dolore fisico che soffriva dopo essere stato azzoppato dall'assalto di tre ladri nel bosco; non dimentichiamo le incomprensioni che dovette sopportare da parte del suo stesso abate e le calunnie che lo perseguitarono fino alla morte. Davvero egli comprese ciò che san Paolo intendeva quando diceva: "afflitti, ma sempre lieti". Nella lotta spirituale la trasfigurazione e il portare la croce sono due elementi inseparabili.
Il battesimo costituisce il fondamento della lotta spirituale del cristiano. Tuttavia non può essere separato dalla santa comunione, e di conseguenza anche l'eucaristia gioca un ruolo basilare nel nostro combattimento spirituale. È vero che nel primo periodo patristico molti autori ascetici quali Giovanni Climaco e Isacco il Siro facevano poco o nessun riferimento all'eucaristia, ma nella nostra lotta spirituale oggi la dimensione eucaristica deve essere esplicitata e posta in primo piano. È significativo che questo è esattamente quello che è stato fatto da una grande figura di prete all'inizio del ventesimo secolo, Giovanni di Kronstadt. "L'eucaristia è un miracolo continuo", era solito dire; ed egli entrò appieno in questo "miracolo continuo" celebrando quotidianamente la divina liturgia. L'intensità della sua celebrazione eucaristica sbalordiva i suoi contemporanei: san Silvano, per esempio, parla della "forza della sua preghiera" e aggiunge: "In tutto il suo essere [era] una fiamma d'amore". Giovanni insisteva che tutti i presenti alla liturgia dovevano ricevere la comunione. Per sua influenza e per l'influenza di altri, la prassi di ricevere la comunione è di fatto divenuta più frequente nella Chiesa ortodossa del ventesimo secolo; eppure vi sono ancora molti luoghi in cui i fedeli si accostano al sacramento soltanto tre o quattro volte l'anno: ciò è certamente deplorevole. Nel mondo contemporaneo la nostra lotta spirituale deve essere, nel modo più pieno possibile, una lotta eucaristica.
Al centro della divina liturgia, immediatamente prima dell'epiclesi dello Spirito santo, il diacono eleva le sante offerte mentre il prete recita: "Offriamo ciò che è tuo prendendolo da ciò che è tuo, in ogni cosa e per ogni cosa". Questo ci porta a considerare un aspetto della liturgia che ha una rilevanza particolare per la nostra lotta spirituale nel mondo contemporaneo: la dimensione cosmica dell'eucaristia. È significativo che nell'eucaristia offriamo i doni non soltanto "per tutti gli esseri umani" (dia pantas), ma anche "per tutte le cose" (dia panta). L'oblazione eucaristica abbraccia in tutta quanta la sua ampiezza non soltanto l'umanità ma l'intero regno della natura, abbraccia ogni cosa; ne consegue che l'eucaristia c'investe di una responsabilità ecologica; ci impegna a proteggere e ad amare non soltanto i nostri fratelli in umanità ma tutte le cose viventi, e non soltanto queste, ma anche a proteggere e ad amare l'erba, gli alberi, le rocce, l'acqua e l'aria. Celebrando l'eucaristia con piena consapevolezza noi guardiamo il mondo intero come un sacramento.
La nostra lotta spirituale, pertanto, non è meramente antropocentrica: noi siamo salvati non dal mondo ma con il mondo, e pertanto lottiamo per santificare e per ridonare a Dio non soltanto noi stessi ma l'intera creazione. Questa portata ecologica della nostra lotta spirituale è stata particolarmente enfatizzata dal Patriarcato ecumenico negli ultimi due decenni. Il Patriarca Dimitrios e il suo successore, l'attuale Patriarca Bartolomeo, hanno stabilito l'1 settembre, giorno di apertura dell'anno ecclesiastico, come "giorno per la salvaguardia dell'ambiente", da osservarsi - così ci si auspica - non soltanto da parte degli ortodossi ma anche da parte degli altri cristiani. (...)
Per quanto importante siano gli aspetti eucaristici e liturgici della lotta spirituale, nello stesso tempo è necessario dare enfasi anche alla lotta per la preghiera interiore. Nella lotta spirituale del ventesimo secolo, la preghiera interiore ha significato, per gli ortodossi, preminentemente ma non esclusivamente la preghiera di Gesù. L'importanza dell'invocazione del nome santo è giunta a essere molto apprezzata negli ultimi cento anni grazie soprattutto all'influenza di due libri: Il racconto di un pellegrino e la Filocalia; entrambi i volumi hanno riscosso un successo inatteso in occidente. Probabilmente la preghiera di Gesù viene oggi praticata quotidianamente da molta più gente che in passato: il nostro tempo non è soltanto un tempo di secolarizzazione!
Ecco dunque alcuni elementi della lotta spirituale nel mondo contemporaneo: da una parte la discesa agli inferi, il martirio e la kenosis; dall'altra la trasfigurazione, l'eucaristia e la preghiera del cuore. Le due triadi non devono essere contrapposte bensì combinate insieme, come ha fatto Giovanni Climaco coniando il termine charmolype, "gioiosa afflizione", e parlando di charopoion penthos, "dolore che crea la gioia". Questi due aspetti complementari della lotta spirituale sono ben riassunti in due brevi affermazioni di Serafino di Sarov che cerco di tenere sempre in mente: "Dove non c'è dolore non c'è salvezza" e "Lo Spirito Santo riempie di gioia tutto ciò che tocca".
(©L'Osservatore Romano - 16 settembre 2009)


Basta con un Cristianesimo ridotto! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 15 settembre 2009 - Non siamo più servi di una legge morale ma amici della Verità e dell’Amore in persona

«L’esegesi liberale dice che in questo Vangelo (Mc 7, 1-8.14-15.21-23) si rivelerebbe il fatto che Gesù avrebbe sostituito il culto con la morale. Egli avrebbe accantonato il culto con tutte le sue pratiche inutili. Il rapporto tra l’uomo e Dio si baserebbe ora unicamente sulla morale (servi della Legge). Se ciò fosse vero significherebbe che il cristianesimo, nella sua essenza è moralità – che cioè noi stessi ci rediamo puri e buoni mediante il nostro agire morale… questa non può essere la risposta completa di Gesù… dobbiamo leggere interamente i Vangeli, tutto il Nuovo Testamento e l’Antico insieme con esso… “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Colui al quale è rivelato tutto, appartiene alla famiglia; non è più servo, ma libero perché appunto fa parte egli stesso della casa. Una simile, iniziale introduzione nel pensiero di Dio stesso è avvenuta già in Israele presso il monte Sinai. E’ avvenuta poi in modo definitivo e grande nel Cenacolo e, in genere, mediante l’opera, la vita, la passione e la risurrezione di Gesù; in Lui Dio ci ha detto tutto, si è manifestato completamente. Non siamo più servi, ma amici. E la Legge non è più una prescrizione per persone non libere, ma è il contatto con l’amore di Dio – l’essere introdotti a far parte della famiglia, atto che ci rende liberi e “perfetti”… Il Signore ci ha generati per mezzo della sua Parola, che Egli ha piantato la sua parola nel nostro intimo come forza di vita. Qui (Gc 1,17-18.21b.22.27) si parla anche della “religione pura” che consiste nell’amore verso il prossimo – particolarmente verso gli orfani e le vedove, verso coloro che hanno più bisogno di noi – e nella libertà di fronte alle mode di questo mondo, che ci contaminano. La Legge, come parola dell’amore, non è una contraddizione alla libertà, ma un rinnovamento dal di dentro mediante l’amicizia con Dio. Qualcosa di simile si manifesta quando Gesù, nel discorso della vita, dice ai discepoli: “Voi siete puri, a causa della parola che vi ho annunciato” (Gv 15,3). E un’altra volta appare la stessa cosa nella Preghiera sacerdotale: Voi siete consacrati nella verità (Gv 17,17-19). Così troviamo ora la giusta struttura del processo di purificazione e di purezza: non siamo noi a creare ciò che è buono – questo sarebbe un semplice moralismo -, ma la Verità ci viene incontro. Egli stesso è la Verità, la Verità in persona. La purezza è un avvenimento dialogico. Essa inizia col fatto che Egli ci viene incontro – Egli, che è la Verità e l’Amore –, riprende per mano, compenetra il nostro essere. Nella misura in cui (sacramentalmente, nella via umana) ci lasciamo toccare da Lui, in cui l’incontro diventa amicizia e amore, diventiamo noi stessi, a partire dalla sua purezza, persone pure e poi persone che amano con il suo amore, persone che introducono altri nella sua purezza e nel suo amore» [Benedetto XVI, Omelia ai suoi ex alunni, 30 agosto 2009].

Esiste tra noi la gioia per il fatto della vicinanza liturgica di Dio, per il dono della sua Parola e del suo Amore, di poter conoscere la sua volontà e di ricevere in dono la sapienza che ci guarisce dall’oscuramento della coscienza, sapienza che non possiamo trovare da soli? Chi solo azzarda mostrare una tale gioia sarebbe ben presto accusato di trionfalismo. Ma, appunto, non è la nostra abilità ad indicarci la vera volontà di Dio. E’ un dono immeritato attraverso la mediazione sacramentale che ci rende allo stesso tempo umili e lieti. Se riflettiamo sulla perplessità del mondo di fronte alle grandi questioni del presente e del futuro, allora anche dentro di noi dovrebbe sbocciare nuovamente la gioia per il fatto che Dio ci ha mostrato gratuitamente il suo volto, la sua volontà, se stesso. Se questa gioia riemergerà in noi nel tentare e ritentare di osservare la sua volontà, essa toccherà anche il cuore dei non credenti. Senza questa gioia noi non siamo convincenti. Dove, però, tale gioia è presente, essa – anche senza volerlo – possiede una forza missionaria. Suscita, infatti, negli uomini la domanda se non si trovi forse veramente qui la via – se questa gioia anche in un presente faticoso non guidi forse effettivamente sulle tracce di Dio stesso cioè sulla via verso il futuro.


«Cattolici e ortodossi, mai così vicini all'unità» - L' arcivescovo di Mosca: il primato del Papa è un ostacolo superabile - Aldo Cazzullo, Il Corriere della sera 14/09/09
«Il miracolo è possibile, anzi non è mai stato così vicino». La riunificazione tra cattolici e ortodossi, la fine dello storico scisma, la comunione spirituale della cristianità «potrebbe accadere presto, anche nel giro di qualche mese. In fondo siamo stati uniti per mille anni. Poi per altri mille siamo stati divisi. Ora il cammino di riavvicinamento è al culmine: il terzo millennio della Chiesa potrebbe cominciare all' insegna dell' unità. Ormai non ci sono più ostacoli formali; tutto dipende dal reale desiderio di comunione. Da parte nostra, della Chiesa cattolica, il desiderio è vivissimo». C' è un arcivescovo, a Mosca, che non dà interviste, non va in tv, non partecipa a polemiche. Svolge in silenzio una missione importante. «Ho una diocesi grande sette volte l' Italia, da Murmansk, a nord del circolo polare artico, all' enclave baltica di Kaliningrad» sorride. Figlio del sindacalista dei facchini del porto di Ravenna. Cresciuto al fianco di don Giussani. Missionario in Siberia dopo il crollo del comunismo. Uomo di Ratzinger. È Paolo Pezzi, 49 anni, «arcivescovo metropolita della Madre di Dio a Mosca» (le quattro diocesi cattoliche russe prendono il nome dalle chiese e non dalle città, per non urtare la sensibilità degli ortodossi). La «Madre di Dio» è la cattedrale cattolica di Mosca, un' imponente chiesa neogotica di mattoni rossi. Dietro l' abside, dove c' era un' officina, oggi c' è l' arcivescovado. Vi fanno capo sacerdoti polacchi, slovacchi, tedeschi, ucraini, bielorussi, spagnoli, argentini, nordamericani, olandesi, francesi, portoghesi: un' avamposto della Chiesa di Roma. Poi ci sono otto italiani. E c'è lui, l' arcivescovo. Incaricato di vegliare su un milione e mezzo di cattolici russi, sparsi su un territorio sterminato. E di riannodare i rapporti con gli ortodossi. Che stanno conoscendo un' evoluzione inaspettata, per certi versi straordinaria. Due mondi che si erano ignorati per secoli, racconta l' arcivescovo, sono stati avvicinati dalla storia. «Sotto il comunismo, ortodossi e cattolici hanno conosciuto gli stessi gulag, lo stesso destino». Paolo VI incontrò il patriarca di Costantinopoli Atenagora. Il Papa polacco aveva attenzione e passione per i rapporti con Mosca, dove però si avvertiva ancora il retaggio di antiche rivalità nazionali; tanto più che l' arcivescovo cattolico era un bielorusso di origine polacche, Tadeusz Kondrusiewicz, nominato da Benedetto XVI arcivescovo di Minsk al posto del leggendario cardinale quasi centenario Kazimierz Swiatek, una vita nei campi di Stalin. Ora a Mosca c' è un italiano; e per prima cosa monsignor Pezzi ha chiarito che la sua missione non è il proselitismo. Dall' altra parte, dopo la morte del patriarca Aleksej II, è stato eletto Kyrill. Cirillo, come il padre del cristianesimo russo. Già capo dipartimento del patriarcato di Mosca per i rapporti con l' esterno, ha incontrato più volte Ratzinger, conosce bene il Vaticano e il cattolicesimo. Oggi, dice monsignor Pezzi, «non ci sono più ostacoli reali sul cammino verso la piena comunione», verso il ricongiungimento tra le due confessioni. Sui temi della modernità, cattolici e ortodossi la pensano allo stesso modo. «Nulla ci divide su bioetica, famiglia, tutela della vita, limiti alla procreazione assistita». Ma anche la dottrina, spiega l' arcivescovo, è sostanzialmente la stessa. «C' è il punto dei tre dogmi proclamati dopo la separazione. Ma per due, l' Immacolata Concezione e l' Assunzione al cielo della Vergine, il problema è la formulazione, non il contenuto di fede. Resta la questione del primato del Papa. Se ne occuperà il prossimo incontro della commissione cattolici-ortodossi. E non mi pare impossibile arrivare a un' intesa». La storia di monsignor Pezzi è nel nome del paese romagnolo dov' è nato: Russi. Il padre fondò la Cisl di Ravenna, organizzando i lavoratori del porto; melomane, a casa ha una grande collezione di dischi di musica classica. La madre è insegnante. Lui studia da perito tecnico, ha già un lavoro alla Telecom quando incontra Cl, e don Giussani. «Avvertii tre forme di vocazione: a essere vergine, sacerdote e missionario».
Entra nella fraternità San Carlo, fondata da un altro sacerdote ciellino, Massimo Camisasca, che dopo la laurea in teologia e il dottorato alla Lateranense manda il giovane Pezzi in Russia. «Arrivai
a Novosibirsk, Siberia, nel ' 93. Ho incontrato i superstiti dei cattolici tedeschi deportati da Stalin negli Anni Trenta, e i loro discendenti. Uomini e donne che per decenni non avevano incontrato un prete se non qualche fuggiasco, non avevano avuto chiese, non potevano fare la comunione né sposarsi se non segretamente; eppure avevano conservato la fede. Le babushke, le nonne, mi mostravano i quaderni su cui avevano scritto le preghiere da insegnare alle figlie e alle nipoti. Lì compresi che il cristianesimo è come una pianta che cresce pure nelle zone più impervie e non può essere sradicata. Ebbi la conferma che con Gesù si vive meglio». Benedetto XVI l' ha voluto rettore del seminario cattolico di San Pietroburgo, l' unico in tutta la Russia, e dal 2007 arcivescovo a Mosca. Ogni anno monsignor Pezzi è invitato alle celebrazioni di Natale e Pasqua: «L' ultima è durata quattro ore e mezza». Chissà che noia. «Al contrario. Il rito ortodosso è pieno di fascino, anche perché non ha nulla di statico, si è sempre in movimento. E alla fine, nella notte, si cena alla stessa mensa». Ha incontrato Putin - «non solo autoritarismo; anche autorità» - e il nuovo presidente Medvedev: «Putin sembra fare affidamento sulla forza, in particolare su Difesa e Interni, esercito e servizi segreti. Medvedev viene dagli studi di diritto e dalla pratica del business, e pare più attento all' Economia. Ma non ci sono reali divergenze tra i due». Però l' incontro che l' ha segnato di più è stato con una babushka siberiana. «Stalin le aveva ammazzato due figli. Le chiesi cosa pensasse di lui. Mi rispose: "Pensare? Cosa vuole che pensi? Stalin l' ho perdonato. Altrimenti non avrei potuto vivere". Io ero fermo all' idea, quella donna mi parlava della vita. Noi rischiamo di fermarci al pensiero, mentre le storie del cattolicesimo russo parlano al nostro cuore. E ci raccontano l' esperienza del martirio, del perdono, e ora la grande speranza della comunione di tutti i cristiani».


Obama vs. l’ideologia di Manhattan - Lorenzo Albacete mercoledì 16 settembre 2009 – Ilsussidiario.net
Un amico mi ha mandato recentemente un editoriale di Leon Wieseltier, redattore letterario di The New Republic, il settimanale considerato la voce più autorevole del progressismo americano (del pensiero di sinistra). Wieseltier è un pensatore ebreo americano che, come molti altri intellettuali ebrei americani, sta cercando di comprendere meglio l’importanza della propria identità ebraica, dopo una vita di pensiero secolarista. Nell’editoriale citato, Wieseltier descrive la “ideologia politica di Manhattan”, come viene chiamata da chi vi aderisce.


Wieseltier parte dalla descrizione fatta dal direttore di The New York Times Magazine dell’ideologia della rivista: “Chiamiamola pure ‘moderno urbano’. Penso che non rifletta una ideologia politica di destra o sinistra, ma piuttosto una di tipo geografico, la mentalità del posto dove è stata creata, la Manhattan del ventunesimo secolo… un posto dove le donne hanno ambizioni professionali, dove gli immigrati sono i benvenuti e dove gay e lesbiche possono essere se stessi (a parte, per ora, lo sposarsi)… un posto dove essere ricchi non è una brutta cosa, la moda non è segno di superficialità e dove l’individualismo è ben accolto. Qui, il discutere non è cattiva educazione. Qui, il modo principale di amare la tua città natale è di criticarla, per esempio perché non fa abbastanza per i più deboli (bambini, poveri, senzatetto). Qui, dell’arte non si parla mai in termini morali e della maggior parte degli aspetti della vita di ogni giorno - il mangiare, il bere, i sanitari - si discute essenzialmente in termini estetici… e sono soprattutto quelli che vogliosi vengono da fuori a far di questo posto ciò che è. Più in generale, siamo il riflesso di un luogo dove il cambiamento non è una minaccia, dove il dubbio e la complessità sono più veri della certezza e dove viene tollerato quasi tutto ciò che non è criminale, tranne un cattivo taglio dei capelli”.



Qui di seguito alcune delle osservazioni che Wieseltier fa a questa ideologia culturale di Manhattan: questo modo di pensare non dà nessun spazio a “dissenso e serietà.” Questo “gioiello antropologico… rappresenta invece una fuga da entrambi. Moderno urbano? Questa non è ideologia, è interior design, progettazione di interni… quanto viene qui celebrato è l’ideologia della non ideologia, l’ascesa di una (della) visione del mondo che può essere succintamente descritta come ‘mangiare, bere e sanitari’. Ciò che muove di più un cuore simile (a parte bambini, poveri e senzatetto) sono amenità e banalità, l’attribuzione di importanza a ciò che importante non è: segno di decadenza, di deviazione cognitiva in persone che vivono “soprattutto in termini estetici”, poiché si sono garantiti materialmente - o così vogliono credere - contro filosofia e dolore. Vivono per la leggerezza e la distrazione, il ridere è per loro segno di fortuna, si assolvono dai loro obblighi intellettuali con le opinioni…”.



Credo che Wieseltier abbia ragione in questa sua descrizione dell’ideologia di Manhattan e dovrebbe essere tenuta presente dai nostri lettori fuori dagli Usa quando gli viene detto che questo è il pensiero attuale degli intellettuali americani (di sinistra). Si notino le parole chiave del giudizio di Wieseltier: una “ideologia della non ideologia”, una “dissonanza cognitiva”. Si tratta di una conoscenza della realtà nella quale “l’opinione” sostituisce la lotta per la “certezza”.



Tutto ciò è diverso da quanto ho definito una ricerca di Obama per la certezza dentro il relativismo stesso. Qui vi è speranza di poter sfuggire alla riduzione della ragione, mentre non vi è nessun punto di fuga “nell’ideologia di Manhattan”, descritta dal direttore di The New York Times Magazine e compresa così brillantemente da Wieseltier.


Convivere al plurale - Scola: «Il bene di una società è la ricerca dell’etica comune» - DA V ENEZIA FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 16 settembre 2009
I n una società tecnicamente sempre più plurale plurale, qual è il contributo dei cristia­ni? «La convinzione dell’assolu­tezza del Bene morale – risponde il cardinale Angelo Scola, patriar­ca di Venezia – spinge i cristiani, consapevoli del valore del vivere insieme come bene politico pri­mario, a proporre la common mo­rality
». Di che cosa si tratta? «È la base – spiega il cardinale – su cui si può, di volta in volta, cercare il compromesso no­bile su beni speci­fici di carattere eti­co, sociale, cultu­rale, economico e politico con tutti gli altri abitanti della società plura­le ». Ma il compromesso è sempre possibile? Evidentemente no.
«Quando questo compromesso ri­sultasse tecnicamente impossibi­le su principi sostanziali – rispon­de Scola – i cristiani dovranno fare ricorso all’obiezione di coscien­za ». Un’esperienza già verificatasi con l’aborto e che, secondo il pa­triarca, «si ripeterà con le forme e­stensive dell’aborto, a cui stiamo assistendo in questi tempi». Ma, attenzione – mette in guardia Sco­la –, l’obiezione di coscienza non va letta come fuga dalla necessità di una continua narrazione e di un continuo confronto che sia proposta in vista di un mutamen­to, di un cambiamento. Se sono convinto che la famiglia – esem­plifica il cardinale –, come unione stabile di un uomo e di una don­na, è fattore di progresso fonda­mentale, continuerò ad agire per­ché la famiglia così concepita sia promossa. In altre parole, «tutte le volte che c’è in gioco, per me, un bene fondamentale, irrinunciabi­le, continuo la narrazione e mi ga­rantisco attraverso l’obiezione di coscienza». Un concetto, comun­que, da meglio definire, in base al­la interpretazione che oggi si dà di coscienza. Scola, guardando poi al cristianesimo dal profilo inter­no, ribadisce ancora una volta che la sua incarnazione postula «una insuperabile circolarità tra fede e cultura».
«La fede, offrendo all’uomo un’i­potesi interpretativa del reale, produce cultura/e; la/e cultura/e, esercitandosi, interpreta(no) la fe­de stessa. Nel tempo storico, una tale dinamica è insuperabile». Ma come interpretare 'correttamen­te' il circolo fede-cultura/e? Non ci sono dubbi per il patriarca: la soluzione va cercata nella propo­sta di tutti i Misteri cristiani, ben s’intende nella loro articolata u­nità, «così come sgorga dall’avve­nimento di Gesù Cristo». I Misteri, incarnati nella storia del soggetto personale e comu­nitario che li vive – spiega Scola – «in­cidono sul modo di concepirsi come uomini, come so­cietà, sul rapporto con il creato e so­no esposti, a loro volta, alle inevita­bili interpretazioni culturali che que­sto soggetto pratica». L’impegno del cristiano con la persona, con la società, con il cosmo «non è – puntualizza il patriarca – una conseguenza dei Misteri che vive» e, tuttavia, «non è immediata­mente coincidente con i Misteri cristiani come tali: è implicato in essi». «I Misteri cristiani non sono dati una volta per tutte nella for­ma di un pacchetto di dogmi da cui tirare le opportune conse­guenze; essi sono dimensioni dell’evento di Gesù Cristo che continuamente si ripropone alla libertà, sempre storicamente si­tuata, dell’uomo. Non esigono meccaniche applicazioni, né e­strinseche giustapposizioni, ma dinamiche implicazioni». Ai cri­stiani, dunque, è chiesto di an­nunciare l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza, giungendo quindi a mostrarne tutte le implicazioni.
«Il compromesso nasce dal valore del vivere comune Ma senza deroghe verso i principi fondamentali»