domenica 13 settembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 13/09/2009 12.03.32 - L'Angelus del Papa: non basta credere in Dio, occorre amare i fratelli e una vita purissima seguendo Gesù sulla via della croce – Radio Vaticana
2) Colpirne 10 per educarne 100 - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 12 settembre 2009
3) Più conoscenza storica e meno ideologia - All'inizio dell'anno scolastico, il prof. Viglione chiede manuali non conformisti - di Antonio Gaspari
4) 07 Sett. 2009 - Dal Discorso di: Sua Santità Papa Benedetto XVI ai Vescovi Brasiliani – sulla secolarizzazione nei decenni successivi al Concilio Vaticano II
5) Non saremo come acciughe in un barile - Il paradiso, il purgatorio, l'inferno e lo scandalo della libertà… - Card. Giacomo Biffi - L'Osservatore Romano - 6 settembre 2009
6) “C’est Fini !”: Galli, Mieli e la Chiesa - Fonte: “Libero” © 11 settembre 2009 – Antonio Socci - Voci insistenti sussurrano: “il Cavaliere è convinto che dietro i discorsi di Fini ci sia Paolo Mieli” (ieri un quotidiano lo ha anche scritto). Ma finora è rimasta in ombra la parte ecclesiastica di questo “progetto”. Provo a svelarla.
7) FINE VITA : I NODI , I PUNTI FERMI , LE CITAZIONI - La ragione non sbaglia se non la si inganna - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 13 settembre 2009


13/09/2009 12.03.32 - L'Angelus del Papa: non basta credere in Dio, occorre amare i fratelli e una vita purissima seguendo Gesù sulla via della croce – Radio Vaticana

Non è un vero credente chi dice di avere fede ma non ama in modo concreto i fratelli e non segue Gesù sulla via della croce: è questo in sintesi quanto ha detto il Papa oggi all’Angelus a Castel Gandolfo. Benedetto XVI ha ribadito che il Signore non è venuto a insegnarci una filosofia ma la via che conduce alla vita. Ce ne parla Sergio Centofanti.

Il Papa, commentando le letture della 24.ma Domenica del Tempo Ordinario, esorta i fedeli a rispondere a due questioni cruciali: “Chi è per te Gesù di Nazaret?”. E poi: “La tua fede si traduce in opere oppure no?”. Alla prima domanda Pietro dà una risposta netta e immediata: “Tu sei il Cristo”, cioè il Messia, il consacrato di Dio mandato a salvare il suo popolo. “Pietro e gli altri apostoli, dunque – afferma il Papa - a differenza della maggior parte della gente, credono che Gesù non sia solo un grande maestro, o un profeta, ma molto di più. Hanno fede: credono che in Lui è presente e opera Dio”:

“Subito dopo questa professione di fede, però, quando Gesù per la prima volta annuncia apertamente che dovrà patire ed essere ucciso, lo stesso Pietro si oppone alla prospettiva di sofferenza e di morte. Gesù allora deve rimproverarlo con forza, per fargli capire che non basta credere che Lui è Dio, ma spinti dalla carità bisogna seguirlo sulla sua stessa strada, quella della croce (cfr Mc 8,31-33). Gesù non è venuto a insegnarci una filosofia, ma a mostrarci una via, anzi, la via che conduce alla vita”.

“Questa via – ha aggiunto - è l’amore, che è l’espressione della vera fede”:

“Se uno ama il prossimo con cuore puro e generoso, vuol dire che conosce veramente Dio. Se invece uno dice di avere fede, ma non ama i fratelli, non è un vero credente. Dio non abita in lui. Lo afferma chiaramente san Giacomo nella seconda lettura della Messa di questa Domenica: ‘Se non è seguita dalle opere, [la fede] in se stessa è morta’”(Gc 2,17).

A questo proposito, il Papa cita uno scritto di San Giovanni Crisostomo, uno dei grandi Padri della Chiesa, che il calendario liturgico invita a ricordare oggi:

“Proprio commentando il passo citato della Lettera di Giacomo egli scrive: ‘Uno può anche avere una retta fede nel Padre e nel Figlio, così come nello Spirito Santo, ma se non ha una retta vita, la sua fede non gli servirà per la salvezza. Quando dunque leggi nel Vangelo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio» (Gv 17,3), non pensare che questo verso basti a salvarci: sono necessari una vita e un comportamento purissimi’” (cit. in J.A. Cramer, Catenae graecorum Patrum in N.T., vol. VIII: In Epist. Cath. et Apoc., Oxford 1844).

Infine, il Papa ricorda che domani la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce e il giorno seguente la Madonna Addolorata:

“La Vergine Maria, che credette alla Parola del Signore, non perse la sua fede in Dio quando vide il suo Figlio respinto, oltraggiato e messo in croce. Rimase piuttosto accanto a Gesù, soffrendo e pregando, fino alla fine. E vide l’alba radiosa della sua Risurrezione. Impariamo da Lei a testimoniare la nostra fede con una vita di umile servizio, pronti a pagare di persona per rimanere fedeli al Vangelo della carità e della verità, certi che nulla va perso di quanto facciamo”.

“La croce di Cristo – ha concluso il Papa salutando i fedeli polacchi – non è per noi motivo di scandalo, ma di vanto” perché è il “segno dell’infinito amore di Dio, in cui si è compiuta la nostra salvezza”.


Colpirne 10 per educarne 100 - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 12 settembre 2009
Ma non facciamo ridere!
Di fronte alla vicenda di Eluana Englaro si è mossa l’Italia, e non solo i cattolici. Quanti si sono ribellati all’idea di far morire di fame e sete una persona, ancorché in “stato vegetativo persistente”! Forse i toni sono stati aspri, ma come essere “educati” quando si tratta di difendere una vita innocente?
Ebbene, che cosa è accaduto? Non solo si è fatta morire Eluana, ma ora, con una iniziativa che ha dell’incredibile, si vogliono perseguire coloro che hanno definito questa azione “omicidio”, sia pure legalizzato. E sono partite le denunce a 30 (trenta) (più o meno) siti che hanno usato questo termine. L’Italia si muove, e 30 siti vengono incriminati? Forse Beppino o i suoi Legali sono rimasti ai tempi delle Brigate Rosse: colpiscine uno per educarne cento! Beh, sono finiti, speriamo, quei tempi e credo che chiunque abbia a cuore la difesa della vita dirà: «C’ero anch’io».
Beppino, abbi il coraggio di guardare la realtà, non spaventarti se in molti, in Italia e nel mondo, (certo più di 30 siti) hanno giudicato il tuo gesto. Del resto la tua presenza continua sui vari mezzi di comunicazione ha voluto significare “parliamone!” (spero non solo “datemi ragione”, ma anche “datemi le ragioni”).
Ora, se chi ha cercato di dare delle ragioni, diverse o discordi dalle tue, deve “pagare” questo affronto, allora mi pare che si sia perso il senso del dialogare tra uomini.
Sono cattolico e sacerdote: e so per esperienza che mostrare la faccia ed esprimere le proprie opinioni va incontro a incomprensioni e giudizi (a volte anche malevoli): ma per questo non ho mai preteso di chiedere alla giustizia di “fare giustizia”. Preferisco, da sempre, la “forza delle ragioni” alle “ragioni della forza”. E questo mi ha fatto incontrare molti uomini, anche su posizioni diverse dalle mie.
Coraggio, guardiamo la realtà!


Più conoscenza storica e meno ideologia - All'inizio dell'anno scolastico, il prof. Viglione chiede manuali non conformisti - di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 11 settembre 2009 (ZENIT.org).- Giovedì 10 settembre è ripresa la scuola per centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze. Tra i tanti problemi che affliggono l'insegnamento, ce n'è è uno che tocca la qualità e l'impostazione a volte ideologica dei testi scolastici, in particolare quelli di storia.

Per cercare di approfondire un tema a volte trascurato dai mezzi di comunicazione di massa ma urgente per genitori e insegnanti, ZENIT ha intervistato il prof. Massimo Viglione, docente di Storia Moderna e di Storia del Risorgimento all'Università Europea di Roma e ricercatore dell'Istituto di Storia dell'Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Il prof. Viglione è autore di diversi saggi e libri ed è noto in particolare per i suoi studi sul Risorgimento e sul fenomeno delle insorgenze antigiacobine in Italia.

Sono sempre di più i genitori che lamentano la bassa qualità dei libri scolastici. In particolare, soprattutto nel campo storico sembra prevalere una lettura ideologica. Il ruolo dei Pontefici e della Chiesa cattolica, per esempio, è sempre indicato come negativo o assente. Qual è il suo parere in proposito?

Viglione: Negli ultimi 20-25 anni la consapevolezza della storia nazionale ed europea degli italiani in genere è andata progressivamente modificandosi, sebbene in maniera tutt'altro che omogenea, naturalmente.

Ciò è avvenuto per varie ragioni (il ruolo dei mass media nella diffusione della conoscenza storica e politica, l'accadere di grandi e a volte sconvolgenti eventi storici - basti pensare al 1989 -, le continue trasmissioni a carattere storico), ma, soprattutto, per l'affermazione di nuove correnti storiografiche molto più disposte a raccontare la verità fattuale in quanto meno legate alle ideologie dominanti nel XX secolo.

Il cambiamento consiste non tanto in una maggiore conoscenza nozionistica (tutti sappiamo il bassissimo livello culturale e l'altissimo grado di ideologizzazione di molti docenti della scuola), quanto appunto in una maggiore consapevolezza della verità storica.

Sono sempre più numerosi quei settori di persone con cultura medio-alta ai quali riesce oggi più difficile continuare stancamente a propinare gli usuali "miti" della nostra storiografia del dopoguerra ("crocio-gramsciana", come argutamente la definì Augusto Del Noce): il "buio Medioevo", la "sfortuna" per l'Italia di non aver avuto il Protestantesimo, il "progresso" illuminista, la "bontà" della Rivoluzione Francese, e, soprattutto, la vulgata risorgimentale e l'"immacolatezza" della guerra partigiana.

Oggi di tutto questo e altro ancora si cominciano a conoscere sempre più i reali risvolti.

Più difficile è invece smitizzare gli assunti specificamente anticattolici (crociate, inquisizione, controriforma, brigantaggio, Pio IX e Pio XII, ecc.), e questo a causa del sempre forte movimento di laicizzazione della nostra società. Ma anche in questo campo sono più fiducioso, molto inizia ormai a cambiare (il caso Pio XII è eclatante in tal senso).

Su alcuni periodi storici come il Risorgimento, la Resistenza, il regime dei Paesi comunisti, per molti anni sono state raccontate bugie e ogni tentativo di ricercare la verità è stato ridicolizzato o demonizzato. Oggi sappiamo invece che la storia è ben diversa da come è stata raccontata. Quando i libri di storia delle elementari e delle scuole medie racconteranno la verità su queste scomode verità?

Viglione: Oggi, come detto, siamo solo nella fase iniziale di questo processo di liberazione ideologica e culturale dal "crocio-gramscismo". Occorre ancora parecchio tempo perché si possa arrivare al punto (che dovrebbe essere scontato) che le case editrici affidino i manuali a storici onesti e sereni, non legati ai doveri ideologici di veri e presunti "intellettuali organici". In alcuni manuali qualche miglioramento inizia a vedersi, ma più a livello liceale che elementare.

Del resto, gli editori di parte sanno bene che ciò che viene appreso nei primi anni d'infanzia ci segna molto più profondamente di quanto poi si apprende da adulti, magari quando si è mossi solo dall'ambizione del voto o della carriera. Il bambino crede a tutto ciò che gli si dice, il ragazzo molto meno. Per questo i manuali delle elementari sono senz'altro i peggiori, riassumono in pochi concetti semplici tutti i "topici" dell'ideologismo anticattolico. E inoltre in genere sono anche i meno controllati.

Lei è autore insieme al professor Roberto de Mattei e ad Enrico Nistri di un testo scolastico per le scuole medie. Può illustrarci in che cosa è diverso dagli altri?

Viglione: In "Alle radici del domani" (AGEDI-Ghisetti & Corvi, oggi rilevata dalla De Agostini) abbiamo cercato di rispettare i presupposti di onestà intellettuale e serenità di giudizio di cui si diceva prima, cercando anche di fornire al discente una chiave interpretativa della storia italiana, europea e mondiale dalla caduta dell'Impero Romano a oggi. Inoltre, abbiamo ripristinato i tradizionali criteri di ripartizione della storia (un volume al Medioevo, uno all'età moderna, uno - sebbene piuttosto grande - all'età contemporanea), proprio per evitare di ricommettere gli errori della riforma Berlinguer, che pretendeva di dare importanza soprattutto al Novecento. Come se la nostra storia, anche quella del Novecento, non fosse conseguenza dei secoli precedenti.

Per questo si è voluto descrivere con correttezza e serenità il ruolo di capitale importanza per la nostra civiltà svolto dalla Chiesa nel corso dei secoli, si sono affrontati seriamente tematiche complesse (e sistematicamente mistificate) come il feudalesimo e il Sacro Romano Impero, l'islam, la cavalleria, le crociate, l'inquisizione, il Protestantesimo, la rivoluzione scientifica, la controriforma, l'illuminismo, la Rivoluzione francese, le insorgenze (a cui è stato dato quel giusto spazio sempre finora negato), il Risorgimento, Pio IX, il cosiddetto "brigantaggio" meridionale, i totalitarismi e i loro genocidi, ecc.

Il ragazzo che si forma su questo manuale (come l'adulto che lo legge per propria cultura) riesce ad avere un quadro della storia europea e occidentale non "inquinato" dagli ideologismi ereditati dalla manualistica del secondo dopoguerra.

Che cosa consiglierebbe ai professori di storia per migliorare e allargare il campo dell'insegnamento?

Viglione: Purtroppo, molto spesso, il problema sta nell'ideologia che influenza i professori di Storia... Ricordo un episodio avvenuto una decina di anni fa, quando ancora insegnavo nelle scuole superiori: una collega, docente di Storia, venne a chiedere il mio aiuto confessandomi la sua ignoranza riguardo un argomento su cui i ragazzi le avevano chiesto informazioni: non si ricordava neanche il nome esatto dell'argomento.

Dopo alcuni tentativi, compresi che si trattava delle foibe... Allora le spiegai che cosa erano e cosa era avvenuto, ma fui interrotto a un certo punto da un altro collega, che si portò via la professoressa (che nel frattempo si era incuriosita per quanto le stavo raccontando) dicendo che non devono essere i ragazzi a stabilire cosa insegnare o meno.

Ecco, vede qual è il risultato di 50 anni di crocio-gramscismo? La rovina dei docenti: o per una diffusa poca consocenza (almeno parzialmente scusabile), o, molto peggio, per fanatismo ideologico.

Cosa consigliare ai professori? Beh, io posso consigliare solo a coloro che sono più liberi dai condizionamenti dell'ideologia, e il consiglio può essere solo uno: quello di continuare a formarsi leggendo libri e studi che non appartengano alle correnti ideologiche dominanti, ma che al contrario ristabiliscano la verità storica senza remore di alcun genere, specie sugli argomenti più delicati o "intoccabili" (es: il Risorgimento).

Oggi ormai esistono tanti buoni studi, su ogni argomento delicato. Si aprano alla verità senza remore, anche a costo di dover ammettere a se stessi la propria ignoranza o, magari, anche la propria precedente dinsiformazione. Perché sbagliare è umano... non perseverare... E' giunto il momento di prendersi la responsabilità di dire la verità ai nostri ragazzi, e a se stessi.

Che cosa possono fare i genitori per sollecitare le case editrici e il Ministero della Pubblica Istruzione a migliorare i libri di testo? Come possono collaborare con gli insegnanti nella scelta dei libri di testo?

Viglione: Ciò che ho detto per i docenti vale in gran parte anche per i genitori. Quei genitori che sono ormai consapevoli della mitologia storiografica dominante dovrebbero chiedere con insistenza ai presidi e ai docenti di adottare manuali non conformisti.

Più la richiesta di opere obiettive e serie sarà alta, maggiore diventerà l'offerta. E anche migliore nella qualità. È vero che molte case editrici sono mosse dall'ideologia, ma è anzitutto vero che per sopravvivere devono vendere. E il mercato, si sa, segue la richiesta... Quando capiranno che una buona parte della società italiana non è più disposta a bersi - che so, tanto per fare degli esempi - che il Medioevo era incivile, o che i rivoluzionari francesi erano eroi della libertà e fraternità, o che Pio IX era un cattivo che odiava l'Italia, o magari Pio XII un seminazista... allora vedremo che anche i libri di testo inizieranno a cambiare. In fondo, dipende molto da noi


07 Sett. 2009 - Dal Discorso di: Sua Santità Papa Benedetto XVI ai Vescovi Brasiliani – sulla secolarizzazione nei decenni successivi al Concilio Vaticano II
[…] Amati Fratelli, nei decenni successivi al Concilio Vaticano II, alcuni hanno interpretato l'apertura al mondo non come un'esigenza dell'ardore missionario del Cuore di Cristo, ma come un passaggio alla secolarizzazione, scorgendo in essa alcuni valori di grande spessore cristiano, come l'uguaglianza, la libertà e la solidarietà, e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di cooperazione.

Si è così assistito a interventi di alcuni responsabili ecclesiali in dibattiti etici, in risposta alle aspettative dell'opinione pubblica, ma si è smesso di parlare di certe verità fondamentali della fede, come il peccato, la grazia, la vita teologale e i novissimi.


Inconsciamente si è caduti nell'autosecolarizzazione di molte comunità ecclesiali; queste, sperando di compiacere quanti erano lontani, hanno visto andare via, defraudati e disillusi, coloro che già vi partecipavano: i nostri contemporanei, quando s'incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun'altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto.


Attualmente c'è una nuova generazione nata in questo ambiente ecclesiale secolarizzato che, invece di registrare apertura e consensi, vede allargarsi sempre più nella società il baratro delle differenze e delle contrapposizioni al Magistero della Chiesa, soprattutto in campo etico. In questo deserto di Dio, la nuova generazione prova una grande sete di trascendenza.


Sono i giovani di questa nuova generazione a bussare oggi alla porta del seminario e ad aver bisogno di trovarvi formatori che siano veri uomini di Dio, sacerdoti totalmente dediti alla formazione, che testimonino il dono di sé alla Chiesa, attraverso il celibato e una vita austera, secondo il modello di Cristo Buon Pastore. Così questi giovani impareranno a essere sensibili all'incontro con il Signore, nella partecipazione quotidiana all'Eucaristia, amando il silenzio e la preghiera e cercando, in primo luogo, la gloria di Dio e la salvezza delle anime. […]


Non saremo come acciughe in un barile - Il paradiso, il purgatorio, l'inferno e lo scandalo della libertà… - Card. Giacomo Biffi - L'Osservatore Romano - 6 settembre 2009

Il 9 settembre esce il quarto numero del 2009 della rivista del bimestrale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero". Anticipiamo la riflessione che l'arcivescovo emerito di Bologna, cardinale del titolo dei Santi Giovanni Evangelista e Petronio ha dedicato al tema del giudizio finale e dell'aldilà.

Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso comune nella prima comunità. È riportata negli Atti (10, 42). La troviamo usata nella prima lettera di Pietro: "Dovranno rendere conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti" (1 Pietro, 4, 5), e nella lettera seconda a Timoteo: "Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti..." (II Timoteo, 4, 4. Per gli scritti postapostolici, cfr. Barnaba, 7, 2; Policarpo, Epistola, 2, 1; 2 Clemente, 1, 1). Che significa questa espressione?

Il significato vero è quello letterale: si vuol dire che Gesù sottoporrà al suo giudizio non solo quelli che troverà in vita alla sua venuta, ma anche tutti gli uomini del passato, che hanno già incontrato la morte. Più semplicemente si vuol dire - attraverso l'uso semitico del binomio di totalità, che indica l'intero mediante la distinta elencazione delle parti (per esempio "il cielo e la terra", per dire "tutto") - che sarà giudicata tutta l'umanità, senza alcuna eccezione.
Oltre l'universalità delle persone, la Rivelazione ci parla di una universalità dei fatti umani: niente di ciò che è umano sfuggirà alla valutazione del giudice. Non si dovranno offrire vuote frasi adulatrici (Matteo, 21-23), ma si dovrà presentare la totalità delle opere compiute (Matteo, 16, 27; Romani, 2, 6; II Corinzi, 5, 10); e non appena sulle opere saremo giudicati, ma anche sulle parole (Matteo, 12, 36), sulle omissioni (Matteo, 25, 35-46), sui pensieri segreti (1 Corinzi, 4, 5).
Nelle pagine della Bibbia troviamo ricordati alcuni elementi che entrano a comporre la scenografia del giudizio, in un quadro che ha sempre eccitato la fantasia, ma che chiede piuttosto di essere letto, anche nei particolari pittoreschi, secondo il suo vero significato concettuale. Il profeta Gioele colloca il giudizio in una misteriosa "Valle di Giosafat" (Gioele, 4, 2), solo tardivamente - a partire dal IV secolo dopo Cristo - identificata con la valle del Cedron, a sud-est della spianata del tempio. Ancora oggi arabi ed ebrei ambiscono essere seppelliti sull'uno e sull'altro versante dell'avvallamento, per essere più pronti a rispondere all'ultimo appuntamento.
In realtà il nome ci rivela con molta chiarezza nella sua composizione la sua natura simbolica: Giosafat significa Jahvè giudica. Del resto, poco più avanti lo stesso profeta usa un altro nome, ugualmente significativo: "Valle della Decisione" (Gioele, 4, 14). Daniele delinea davanti a noi una vera e propria azione processuale con un giudice, una corte, i libri degli atti (Deuteronomio, 7, 9-10). L'immagine del processo si conserva fino alla predicazione di Gesù, anche se si sovrappongono altre raffigurazioni, come quella del pastore che alla sera esamina attentamente il suo gregge (Matteo, 25, 31-46). Ma, di là dai particolari fantastici, è possibile appurare come avverrà concretamente il nostro giudizio? Pensiamo di sì.
Il nostro mondo è caratterizzato da una quasi totale discordanza tra i valori reali e la loro esterna apparenza, sicché non è di solito possibile assegnare agli uomini e alle cose il giusto prezzo che hanno in faccia a Dio. Questa discordanza ha raggiunto il grado sommo - e ne è stata condannata - al momento dell'uccisione del Figlio di Dio, quando colui che era la nostra stessa "giustizia, santità, redenzione" (1 Corinzi, 1, 30), "è stato annoverato tra i malfattori" (Isaia, 53, 12). L'esecuzione di Gesù fuori della porta di Gerusalemme, cioè "fuori della vigna" che era la sua eredità (cfr. Marco, 12, 8), raffigura e avvera la sconfitta di Dio, che oggi appare come estromesso dal mondo che è suo. Dio è sconfitto, e non tanto dall'uomo che pecca, quanto dall'uomo che, peccando, appare bello, forte, felice, soddisfatto; mentre colui che, tentando di conformarsi alla volontà del Padre, incontra la derisione, la sofferenza, la morte, è associato al mistero della sconfitta del suo Creatore. Il momento del giudizio è appunto la fine di questo stato irrazionale e blasfemo.
Esso perciò consisterà essenzialmente nella brusca lacerazione del velo della esteriorità, così che tutta la creazione appaia "nuda e aperta" agli occhi di tutti, come è nuda e aperta da sempre agli occhi di Dio (Ebrei, 4, 13). Il suono della tromba finale - particolare del quadro che significativamente ritorna sempre nelle descrizioni bibliche della fine (Matteo, 24, 31; 1 Corinzi, 15, 22; 1 Tessalonicesi, 4, 15; Atti degli apostoli, 11, 15) - farà crollare la scena di questo mondo come le trombe di Giosuè squassarono, lasciandole diroccate, le mura di Gerico (Giosuè, 6, 20), e ciascuno sarà visto con la sua interiore ricchezza o con la sua interiore miseria.
Il primo che sarà "manifestato" sarà il Cristo, capo dell'universo e centro della storia umana, fino allora nascosto e quasi sopraffatto dalla futilità del mondo. E ogni essere, improvvisamente privato della maschera che impediva ogni autentico esame, apparirà nella sua vicinanza a lui o nella sua lontananza: questo sarà il giudizio. Gesù sarà dunque l'unico punto di riferimento dal quale tutto sarà misurato: per questo egli sarà il "giudice". Allora finalmente sarà rovesciato il ricamo della nostra storia, e si potranno contemplare nella loro piena evidenza la bontà, l'armonia, la saggezza del disegno condotto a compimento da Dio, che senza una fede robusta ci è così difficile ravvisare oggi nei casi della storia mondana.
Che cosa determina nella realtà la vicinanza o la lontananza da Cristo? In altre parole, su quale legge saremo giudicati? Certo, saremo giudicati sulla nostra fedeltà alla legge di Dio, perché Gesù non ha abrogato il decalogo, il quale resta per gli uomini di tutti i tempi il codice di comportamento. Ma, poiché il Signore stesso ha chiarito che la legge di Dio ha come compendio, come anima, come significato sostanziale l'amore di Dio sopra ogni altro amore e l'amore del prossimo, come inveramento concreto dell'amore di Dio, possiamo ben dire che "all'ultimo dei giorni - come si esprime san Giovanni della Croce - saremo giudicati sull'amore" (cfr. Matteo, 25, 31-46).
"Tutti risorgeranno - dice il concilio Lateranense quarto - con i loro propri corpi, gli stessi che possiedono ora". È un'affermazione categorica, ma in fondo non è che l'insegnamento della Sacra Scrittura: "Da Dio ho ricevuto queste membra; queste per le sue leggi disprezzo; queste da lui spero di avere di nuovo", dice il terzo dei fratelli prima del martirio, nella narrazione del secondo libro dei Maccabei (7, 11). E Paolo: "È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità" (1 Corinzi, 15, 53).
Cristo stesso - archetipo degli uomini che rinascono dalla morte - riprende dal sepolcro lo stesso corpo che è stato spento sul Calvario. Del resto, l'ipotesi di una risurrezione con un corpo diverso rivela una concezione dell'uomo che neppure sul piano di un'antropologia puramente razionale possiamo accettare. Tale ipotesi suppone infatti che l'anima stia nel corpo come una spada nel fodero; e che, come la spada, possa tranquillamente cambiare di fodero senza per questo mutare essa stessa. Ci sembra di dover ammettere con san Tommaso che l'anima intellettiva è l'unica "forma sostanziale" dell'uomo, sicché l'ipotesi fatta ci appare non solo teologicamente errata, ma anche filosoficamente assurda: non solo risorgeremo con il nostro identico corpo, ma neppure possiamo risorgere con un corpo diverso. Se il fatto della identità è fuori discussione, si discute molto sul modo di concepirla. La soluzione più semplice sta forse nel capire che lo stesso principio spirituale che anima il composto umano è la vera ragione della identità corporea. Poiché è la "forma sostanziale" dell'uomo, l'anima informando qualunque materia dà sempre origine allo stesso corpo, tanto che l'identità del nostro corpo è sempre salvata lungo l'arco della nostra vita, nonostante il continuo fluire degli elementi materiali. Intesa così - e forse non è possibile intenderla diversamente - la dottrina della identità scioglie immediatamente tutte le difficoltà che a prima vista essa stessa sembrerebbe provocare.
Un altro interrogativo, suscitato dall'argomento che stiamo trattando, si riferisce alla condizione dei corpi risorti, che certo non potrà ripetere lo stato di miseria proprio del corpo terrestre. Da parte mia, non credo che saremo tutti come le acciughe nel barile. Io credo che effettivamente i rapporti umani ci saranno. Anche l'amicizia ci sarà.
Non è il caso di anticipare con la fantasia una conoscenza che ci è stata riservata per quel giorno. Né ci sentiamo di seguire con animo tranquillo quei teologi che dal testo di san Paolo prima citato si pensano autorizzati a precisare le prerogative del corpo glorioso nei loro particolari. Tuttavia la Sacra Scrittura ci offre un principio e un modello, come dati sicuri per una riflessione sulla sorte che attende le nostre membra. Il principio è enunciato da san Paolo, quando ci parla di corpo "spiritualizzato" (1 Corinzi, 15, 44). Nel linguaggio dell'apostolo questo significa che la nostra carne, che ci appare così spesso ribelle alla volontà di Dio, sarà docilmente sottoposta all'azione dello Spirito Santo, che tutto trasforma e assimila a sé.
In altre parole, quella trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera fin da adesso nel mondo interiore dell'uomo, si estenderà a tutto il nostro essere, così che anche esteriormente riesca visibile la nostra rinnovazione.
Il modello poi è lo stesso Gesù risorto, che dalle testimonianze apostoliche sappiamo sovranamente libero nella sua azione, senza che le cose materiali o le forze della natura gli diano impaccio alcuno, e senza che i dolori o la morte gli possano più recare alcun danno. A lui già ci siamo interiormente conformati, quando siamo passati dalla vita di colpa a quella di grazia. E a lui ci conformeremo totalmente (Filippesi, 3, 21), quando anche il nostro corpo, dopo la purificazione di una morte cristiana, obbedirà alla sua vocazione di gloria.
Come già s'è detto, l'idea di un "giudizio" porta implicita l'idea di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e senza appello, l'idea di una discriminazione definitiva. La riflessione sulla glorificazione dell'uomo non può non coinvolgere dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell'uomo. Difatti la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche di un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con beneficio d'inventario; o l'accettiamo o la rifiutiamo in blocco. Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata dell'escatologia cristiana.
Gesù per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al concetto di esclusione: "La porta fu chiusa" (parabola delle vergini: Matteo, 25, 10); "gettatelo fuori" (parabola dei talenti: Matteo, 25, 30); "via lontani da me, maledetti" (Matteo, 25, 41) (cfr. anche Apocalisse, 22, 15). Paolo dà una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo all'immagine della "squalifica" (1 Corinzi, 9, 27). Occorre però capire bene quanto spaventevole sia questo "star fuori" dalla Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.
Noi riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui continuamente l'alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti, anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e natura, qualche legame con il Verbo incarnato: tutti infatti o sono inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono in qualche modo raggiunti dalla sua grazia. All'inferno, l'uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua a essere creato a immagine del Salvatore e a glorificare con il suo stesso essere colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere un'assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene avulso nel suo odio ostinato.
E poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere veramente uniti tra noi, colui che è all'inferno è disperatamente solo. Mentre la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una comunione soprannaturale - perché la vocazione di Dio è senza pentimenti e rimane anche su chi l'ha rifiutata - è tagliato fuori da qualunque convivenza d'amore, da qualunque amicizia. Anche per questo aspetto il dannato è una natura che si contraddice.
Ma questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l'unica ragione di sofferenza nell'inferno, anche se è la principale. La Scrittura - in parte già l'abbiamo visto - parla frequentemente di "fuoco". È possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre? La cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto improbabile. In primo luogo non abbiamo notizia dell'uso di una tale metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in particolare (cfr. Matteo, 25, 41, dove il fuoco è detto "preparato" per i cattivi; Matteo, 13, 40-42, dove il fuoco è l'unico elemento parabolico conservato anche nella spiegazione).
Ovviamente non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa natura del nostro. Sarà sufficiente pensare a esso come a un elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca tormentosamente sul dannato. Il destino umano sembra governato dal principio della "trasnaturazione": come lo spirito del giusto è divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la risurrezione, così la dannazione proietta l'uomo in opposta direzione, materializzandone per così dire lo spirito e sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della materia.
Non è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere l'esistenza dell'inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia effettivamente qualcuno? La dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia affermare che l'inferno sia perfettamente vuoto è asserzione infondata, incauta e superficiale.

In primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni possa essere sostenuta. Non avendo nessun argomento "a posteriori" - per il quale, in mancanza di una Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta - è fatale che un simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su argomenti "a priori" (come la misericordia di Dio, l'impossibilità di compiere un vero peccato mortale e così via.). Ora gli argomenti "a priori", se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina rivelata.
In secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una condizione così crudele. E dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l'idea del castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia, senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi, non hanno fondamento.
Non dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza dell'inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore e compassione per gli uomini. Certo la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. "Sarà soltanto quando saremo passati dall'altra parte che si risolveranno gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo "scandalo", che la bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere. Finché vivremo, il pensiero dell'inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l'apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Galati, 6, 7)" (Charles Journet, Il male: saggio teologico, Torino, Borla, 1963, pagine 246).
L'inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l'esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani.
La risurrezione corporea è l'aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell'umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l'ambito puramente creaturale. Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Giovanni, 20, 17). L'elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione con il Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione.
Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.
In che cosa consisterà questa intimità con il Padre? Sarà senza dubbio una unione d'amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti - che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre - è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed è ciò che ci consente di essere già adesso nella "vita eterna", secondo l'insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: "La carità non avrà mai fine" (1 Corinzi, 13, 8). La differenza sta nel fatto che l'amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall'atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale. Invece l'amore dell'uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l'insegnamento biblico, è l'Invisibile e l'Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari: "La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l'ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto" (1 Corinzi, 13, 9-12). La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità.
E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza "ecclesiali", così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una "città santa", di un "popolo nuovo", della "Chiesa escatologica", insomma: "Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Apocalisse, 21, 2-4). Vedremo dunque Dio "a faccia a faccia" e sarà una conoscenza ben diversa da quella che oggi ci è consentita. Quanto al purgatorio, è una cosa, da un certo punto di vista, molto semplice. Nel disegno di Dio bisogna purificarsi, non basta dire: io ho sbagliato. Sono però da considerarsi errate le tendenze della pietà popolare e di una certa teologia che ha interpretato il purgatorio come un piccolo inferno. Il clima del purgatorio è la serenità. Le anime sono in grazia di Dio. Il cardinale Schuster diceva che il purgatorio è come un corso di esercizi spirituali: uno riflette, pensa, vede le cose sbagliate che ha fatto, gli dispiace, si purifica. Mi piace pensare che il nostro purgatorio, il purgatorio di ciascuno, sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita. Mi è congeniale in questo senso la descrizione dantesca delle anime "che vanno a farsi belle".
Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l'ultimo giorno parlano tutte di uno sconvolgimento cosmico terrificante. Citiamo per esempio la seconda lettera di Pietro: "Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta" (ii Pietro, 3, 10, cfr. anche Matteo, 24, 29; Apocalisse, 6, 12-14). Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni, che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera.
Quanto alla data, è sempre stata oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana. San Paolo aveva già bisogno di ammonire severamente su questo punto la comunità di Tessalonica, che nella convinzione della imminente fine aveva a buon conto smesso di lavorare. In particolare, l'apostolo raccomanda - e non solo ai Tessalonicesi, visto che anche ai nostri tempi ogni tanto questo stato d'animo rinasce - che non ci si debba attenere a rivelazioni private o ad annunci divini o a lettere apostoliche che dichiarano prossimo il giorno del Signore (II Tessalonicesi, 2, 2).
Se c'è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data: il Padre se l'è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina: "Quanto a quel giorno o a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre" (Marco, 14, 32).
Resta da vedere se la Rivelazione ci indichi chiaramente dei segni premonitori della fine. Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l'apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo (1 Giovanni, 2, 18) e che san Paolo qualifica come l'Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l'Avversario, l'Iniquo (II Tessalonicesi, 2, 3-10). Egli si manifesterà negli ultimi tempi e sarà distrutto dall'alito della bocca del Signore e dallo splendore della sua venuta (II Tessalonicesi, 2, 8).
Ma se la comparsa di questo misterioso personaggio è certa, la sua natura è discussa, e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo. Già san Giovanni, dicendo che "gli anticristi sono molti" (1 Giovanni, 2, 18), pone le premesse per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione. In connessione con l'"Uomo di iniquità", san Paolo parla anche di "apostasia" che dovrà colpire i cristiani, senza offrirci però nessuna notizia particolare (II Tessalonicesi, 2, 1).
Nel discorso escatologico, poi, Gesù ha preannunciato l'universale predicazione del vangelo in tutto il mondo abitato, e solo dopo, ha detto, "verrà la fine" (Matteo, 24, 14). Ma poiché il contesto sembra riferirsi piuttosto alla distruzione di Gerusalemme, anche questa profezia deve considerarsi compiuta con la missione apostolica in tutto il mondo greco-romano. Infine san Paolo predice in termini abbastanza espliciti la conversione della nazione giudaica, che avrebbe dovuto essere la prima a entrare nel Regno e che invece sarà l'ultima, secondo un oscuro e sapiente piano di provvidenza (Romani, 11, 25-36). Ma non ci dice nulla sulla vera natura e sulle modalità di questo ritorno.
Come si vede, nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di "sorpresa", così ripetutamente attribuito dal libro sacro all'ultimo giorno della nostra storia.
L'Osservatore Romano - 6 settembre 2009


“C’est Fini !”: Galli, Mieli e la Chiesa - Fonte: “Libero” © 11 settembre 2009 – Antonio Socci - Voci insistenti sussurrano: “il Cavaliere è convinto che dietro i discorsi di Fini ci sia Paolo Mieli” (ieri un quotidiano lo ha anche scritto). Ma finora è rimasta in ombra la parte ecclesiastica di questo “progetto”. Provo a svelarla.

Che gli intellettuali della generazione sessantottina abbiano sempre aspirato a “dare la linea”, a etero-dirigere i leader politici e il Paese, magari grazie a una corazzata come il Corriere della sera, è risaputo. Ci provarono con Bettino Craxi e andò male perché li liquidò bruscamente come “intellettuali dei miei stivali”. Con Berlusconi il tentativo era impossibile per la sua atavica diffidenza verso quei cenacoli. Con Fini tutto è diverso. La sua ansia di legittimazione e il vuoto culturale che ha alle spalle si presta ad essere riempito (e così legittimato) da queste teste pensanti.

Ecco il senso della campagna di Galli della Loggia e del Corriere sui festeggiamenti per l’Unità d’Italia e sulla mancanza di un vero spirito nazionale nelle classi dirigenti. Costituisce una prima tappezzeria ideologica su cui può essere proiettata l’entrata in scena di Fini come nuovo leader di un centrodestra liberalnazionale (tipo Destra storica), in sostituzione di un Berlusconi che La Repubblica (e ora anche il Corriere) tentano di logorare quotidianamente e infine di affondare.

Una nuova “Destra storica” – questa di Galli e Fini – che ha, come la vecchia, un suo spirito ghibellino e Fini lo ha esibito negli ultimi quattro anni. Tanto è vero che l’altro strano editoriale recente di Galli sul Corriere era dedicato – guarda caso – all’abolizione del Concordato, idea bislacca per cui Galli si è inventato pure un’improbabile legittimazione cattolica, ma che di fatto entusiasma solo i radicali, sempre blanditi da Mieli e oggi tifosi dell’ex leader missino.

Il “trait d’union” intellettuale fra Galli della Loggia e il presidente della Camera pare sia Alessandro Campi, docente all’università di Perugia, collega e amico di Galli nonché “ghost writer” di Fini, forse ideatore pure della sparata che proclamava l’Italia “erede del politeismo” (quello di Nerone).

Ma c’è un altro vuoto che questo circolo intellettuale pensa di riempire per inglobare la Chiesa in quel progetto politico “gallofiniano”: è appunto il vuoto creatosi nella leadership cattolica dopo il pensionamento di Ruini e la defenestrazione di Boffo.


In realtà l’area Mieli-Galli ha avuto un buon rapporto con Ruini, ma per quei temi che riguardano l’identità giudaico-cristiana del’Occidente, per arginare – nel clima dell’11 settembre – quel cattoprogressismo terzomondista che strizza l’occhio all’Islam e detesta Stati Uniti e Israele. Invece il dissenso sui “valori non negoziabili” di Ruini è stato profondo, tanto che il Corriere di Mieli (schieratissimo) fu il vero sconfitto del referendum sulla legge 40 che nel 2005 vide vincitore Ruini.

Un nuovo orizzonte per questi circoli intellettuali e per Fini si apre con la fine dell’epoca Ruini. C’è un antefatto. Quando Bertone è diventato segretario di Stato vaticano ha reclamato il diritto di gestire in prima persona, dal Vaticano, il rapporto della Chiesa con la politica italiana, fino ad allora tenuto in esclusiva dal cardinale Ruini. Si è creato un certo conflitto con la Cei e alla fine ha vinto Bertone grazie al pensionamento di Ruini.

Ma il colpo di grazia è venuto con il “pensionamento” traumatico di Dino Boffo dalla direzione di “Avvenire”, perché Boffo era molto di più del direttore del giornale della Cei. Era lo stratega del ruinismo che puntava a fare dell’Italia il modello del cattolicesimo europeo.

Allora diventa significativo che ad assestare il colpo del ko a Boffo sia stato il direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian, parlando quasi come portavoce ufficioso di Bertone, proprio nelle ore successive all’attacco del “Giornale”. Con una intervista al Corriere della sera – pur esprimendo solidarietà umana per l’attacco di Feltri – ha sparato a zero sulla linea di Avvenire.

L’antagonismo fra le due linee si era evidenziata anche sui “valori non negoziabili” durante il caso di Eluana, quando le posizioni della Cei e di Bertone apparvero assai distanti, quanto quelle dell’Osservatore e dell’Avvenire.

In questi giorni altri segnali emergono con chiarezza. Ieri, per esempio, sulla pagina culturale di Avvenire, si poteva leggere che ad un convegno a Milano con Ruini e Galli della Loggia, è intervenuto Vian il quale, commentando le scelte di Ruini dopo la fine della Dc, ha testualmente definito “una sorta di araba fenice il Progetto Culturale di cui ora si incomincia a intravedere qualcosa”.

Qualunque giudizio si dia sul “Progetto Culturale” che ha connotato l’epoca Ruini alla presidenza della Cei, non si era mai visto un direttore dell’Osservatore romano attaccare così, esplicitamente e frontalmente, colui che è stato finora il leader della Chiesa italiana.

E’ solo un episodio? No. Per capire l’ “aria nuova” che tira, anche sui “valori non negoziabili”, basta vedere l’Osservatore del 9 settembre dove è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia intitolato “Qual è la vita che difendiamo?”, il cui svolgimento è confuso, ma chiaro nella conclusione, obiettivamente assai critica verso la “cultura della vita” dell’epoca Wojtyla-Ruini.

Citando infatti Ivan Illich, la Scaraffia scrive: “Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich: i cattolici devono essere capaci di trasmettere l’amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili”.

Wojtyla è sistemato. Qualcuno potrebbe credere che – per quanto sia singolare leggere questi argomenti sull’Osservatore – si tratti di idee di una singola editorialista. Sennonché la Scaraffia – che, guarda caso, è pure la moglie di Galli Della Loggia – nell’epoca Vian (talvolta con gaffe e scivoloni) esprime un po’ la linea del giornale, come lo stesso Vian ha fatto capire nell’intervista al Corriere.

Di certo questo “nuovo approccio” è molto più compatibile con le posizioni laiciste di Fini rispetto a quello di Ruini. Infatti, emblematicamente, nel pieno del “caso Boffo”, Fini ha tentato una sortita in campo cattolico – a lui precluso da tempo – e al convegno delle Acli ha parlato, come un politico di centrosinistra, sul tema dei diritti politici degli immigrati. Proprio nei giorni in cui Berlusconi era in crisi con la Chiesa, con l’ambizione di soppiantarlo.

A questo punto non stupirà che sempre sull’Osservatore, il 13 agosto scorso, sia apparso un articolo di un intellettuale, di “area Galli”, che fa un monumento a Galli della Loggia stesso per la sua campagna sulle “celebrazioni per l’unità d’Italia” e suona una fanfara risorgimentale un po’ buffa sull’Osservatore, soprattutto laddove dice che “i fattori coesivi della nostra identità” sono “la lingua e il patrimonio letterario”.

Dimenticando la religione che poteva menzionare anche solo citando un risorgimentale cattolico come Manzoni, il quale cantava l’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor” (l’altare – almeno sull’Osservatore – vogliamo mettercelo?).

Tutto questo somiglia alla predisposizione di un retroterra ideologico di un nuovo centrodestra post-berlusconiano (che magari torna a inglobare l’Udc): potrebbe andare da Montezemolo alla Scaraffia, con Casini (Fiat Lucetta invece che Fiat lux). E magari Fini al Quirinale. Un disegno ambizioso. Probabilmente velleitario. Che però spiega bene il senso delle parole di Mieli, l’altroieri, al convegno di Milano, dove ha “consigliato” alla Chiesa di “dedicarsi ai laici in dialogo perché il soccombere di questa posizione provoca danni a tutti”.

Dunque se affonda “Papi”, avremo “Mieli Papa” ?



Fonte: “Libero” © 11 settembre 2009

Post scriptum

Lasciando da parte, per un momento, le questioni politiche, quello che più conta è la Chiesa. Dove c’è una certezza: Benedetto XVI. Che certo non si fa “influenzare” e il cui magistero è sempre più luminoso. Penso che i cattolici debbano sentire l’urgenza di pregare per lui, perché Dio lo conservi a lungo alla guida della Chiesa e lo riempia della Sua Sapienza.

A.S


FINE VITA : I NODI , I PUNTI FERMI , LE CITAZIONI - La ragione non sbaglia se non la si inganna - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 13 settembre 2009
Che si debba ricordare come «dall’embrione umano nasce un uomo, non un maialino» – l’ha fatto ieri il presidente dell’Accademia pontificia per la vita, monsignor Rino Fisichella – è il segno più eloquente del tempo che attraversiamo. Tempo nel quale nulla, purtroppo, va dato per già condiviso, specie quando di mezzo c’è una realtà che invece andrebbe per sua natura sottratta a soggettivismi e interpretazioni, ovvero la vita umana. Non c’è dato più solare della consequenzialità senza cesure tra un embrione e l’essere umano frutto del suo sviluppo. Ma contro questa evidenza abbiamo visto schierarsi forze politiche e culturali che intendono trasformare l’embrione in un’entità biologica subalterna, vita umana di seconda scelta, aggregato di materia che si può selezionare, congelare, scartare. Un 'non uomo', concetto di nuovo conio che fa compagnia a quello di 'non vita' grottescamente teorizzato al capezzale di persone prive di piena coscienza, ma non della dignità umana comune a tutti. La riduzione della vita alla sua fisiologia è il lasciapassare per rendere presentabili campagne congegnate allo scopo di legittimare ciò che la ragione, non ingannata da sofisticate manomissioni di ciò che le è sempre risultato innegabile, continuerebbe a riconoscere e chiamare con il suo nome. Se la lasciamo fare, essa ci dice che la vita umana è vita, da subito e sino all’ultimo. Ma se si autorizza la sola lettura utilitarista allora tutto si fa lecito. Il collasso della ragione di fronte a ciò che non ha mai esitato a riconoscere come intangibile è il frutto di un complesso fenomeno culturale che il cardinale Carlo Caffarra ha ieri definito «sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica»: un tragico abbaglio che porta sempre più fuori strada l’umanità indotta a tanta mistificazione. Non è in gioco il rapporto tra laici e cattolici, ma molto di più: a una ragione umiliata dall’individualismo e costretta a esplorare solo ciò che è utile rinunciando a ogni pretesa etica – è sempre l’analisi dell’arcivescovo di Bologna – «non resta che studiare il modo con cui realizzare i desideri, e rispondere ai bisogni». È il «paradigma utilitarista come interpretazione esclusiva dell’agire umano», che impone una raggelante neutralità etica: tutto è uguale e indifferente, non esiste alcun bene umano meritevole di scelta salvo la volontà di ciascuno, e la ragione non s’azzardi a fare luce su altro al di fuori delle vie più spicce per assecondarla. Anche se in gioco c’è la vita stessa. Al cospetto di questo decisivo valico culturale che stiamo attraversando, richiamare sul fine vita le parole del Catechismo, come ha fatto sempre ieri il presidente della Camera Gianfranco Fini, è una buona idea. Purché la citazione sia presa nel suo senso letterale e non venga isolata dai paragrafi precedenti e successivi, così come dalle spiegazioni che ne danno il costante magistero di Benedetto XVI e la Congregazione per la dottrina della fede.
Insomma, il Catechismo non è un prontuario di massime citabili fuori contesto: e quando parla di «interruzione di procedure mediche onerose» che «può essere legittima» intende «la rinuncia all’'accanimento terapeutico'», punto sul quale – per stare alle cose italiane – il disegno di legge uscito dal Senato detta già regole nitide. È quando (articolo 1, sesto comma) «garantisce che in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente il medico debba astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente». Se «si accetta» – come scrive il Catechismo – di non poter impedire la morte è perché essa è a un passo, ma non va causata tagliando il nutrimento. La morte, dice la Chiesa, mai si deve «procurare». Su questo la ragione non si sbaglia, se non la si vuole ingannare.