domenica 22 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 22/11/2009 – VATICANO - Papa: Scegliere Cristo Re non garantisce il successo, ma pace e gioia fino al martirio - Benedetto XVI spiega che il “potere” di Cristo è diverso da quello dei “grandi di questo mondo”, ma ha la forza di “sconfiggere il dominio della morte”, e “sa ricavare il bene dal male”. Un ricordo per la beatificazione a Nazaret di sr. Marie-Alphonsine Danil Ghattas, conforto per i cattolici della Terra Santa, e per le contemplative di clausura.
2) "Cari artisti, voi siete custodi della bellezza" - Il testo integrale del discorso rivolto dal papa il 21 novembre 2009, nella Cappella Sistina, a esponenti di tutte le arti: pittori, scultori, architetti, romanzieri, poeti, musicisti, cantanti, uomini di cinema, teatro, danza, fotografia di Benedetto XVI
3) Domenica a Nazaret la beatificazione di Marie-Alphonsine Danil Ghattas - Ha restituito dignità alla donna in Terra Santa - di Angelo Amato Arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi - L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009
4) LA CHIESA E L’ARTE - NON TEORIA MA UN’OFFERTA DI AMICIZIA - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 22 novembre 2009
5) Una rete per vincere - Compagnia delle Opere. Il presidente Scholz: formazione e innovazione per battere insieme la crisi - DI G IORGIO P AOLUCCI – Avvenire, 22 novembre 2009

22/11/2009 – VATICANO - Papa: Scegliere Cristo Re non garantisce il successo, ma pace e gioia fino al martirio - Benedetto XVI spiega che il “potere” di Cristo è diverso da quello dei “grandi di questo mondo”, ma ha la forza di “sconfiggere il dominio della morte”, e “sa ricavare il bene dal male”. Un ricordo per la beatificazione a Nazaret di sr. Marie-Alphonsine Danil Ghattas, conforto per i cattolici della Terra Santa, e per le contemplative di clausura.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “Scegliere per Cristo non garantisce il successo secondo i criteri del mondo, ma assicura quella pace e quella gioia che solo Lui può dare. Lo dimostra, in ogni epoca, l’esperienza di tanti uomini e donne che, in nome di Cristo, in nome della verità e della giustizia, hanno saputo opporsi alle lusinghe dei poteri terreni con le loro diverse maschere, sino a sigillare con il martirio questa loro fedeltà”. Così Benedetto XVI ha presentato al solennità di Cristo Re dell’universo alle decine di migliaia di pellegrini presenti sulla piazza san Pietro.

Introducendo la sua riflessione prima dell’Angelus, il papa ha detto che questa è “una festa di istituzione relativamente recente, che però ha profonde radici bibliche e teologiche”; “si parte dall’espressione ‘re dei Giudei’ e si giunge a quella di re universale, Signore del cosmo e della storia, dunque molto al di là delle attese dello stesso popolo ebraico”.

“Ma in che cosa consiste – spiega il papa - il ‘potere’ regale di Gesù? Non è quello dei re e dei grandi di questo mondo; è il potere divino di dare la vita eterna, di liberare dal male, di sconfiggere il dominio della morte. È il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, portare pace nel conflitto più aspro, accendere la speranza nel buio più fitto. Questo Regno della Grazia non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà. Cristo è venuto a ‘rendere testimonianza alla verità’ (Gv 18,37) – come dichiarò di fronte a Pilato –: chi accoglie la sua testimonianza, si pone sotto la sua ‘bandiera’, secondo l’immagine cara a sant’Ignazio di Loyola”.

“Ad ogni coscienza, conclude il pontefice, si rende necessaria una scelta: chi voglio seguire? Dio o il maligno? La verità o la menzogna? Scegliere per Cristo non garantisce il successo secondo i criteri del mondo, ma assicura quella pace e quella gioia che solo Lui può dare”.

Dopo la preghiera mariana. Benedetto XVI ha annunciato che a Nazaret si è svolta oggi la beatificazione di Suor Marie-Alphonsine Danil Ghattas, alla presenza del patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal e di mons. Angelo Amato, prefetto per la Congregazione dei santi.

Sr Marie-Alphonsine, dice il papa, era “nata a Gerusalemme nel 1843 in una famiglia cristiana, che comprendeva ben diciannove figli. Scoprì ben presto la vocazione alla vita religiosa, a cui si appassionò, nonostante le iniziali difficoltà poste dalla famiglia. A lei va il merito di fondare una Congregazione formata solo da donne del posto, con lo scopo dell’insegnamento religioso, per vincere l’analfabetismo ed elevare le condizioni della donna di quel tempo nella terra dove Gesù stesso ne esaltò la dignità. Punto centrale della spiritualità di questa nuova Beata è l’intensa devozione alla Vergine Maria, modello luminoso di vita interamente consacrata a Dio: il Santo Rosario era la sua preghiera continua, la sua ancora di salvezza, la sua fonte di grazie. La beatificazione di questa così significativa figura di donna è di particolare conforto per la Comunità cattolica in Terra Santa ed è un invito ad affidarsi sempre, con ferma speranza, alla Divina Provvidenza e alla materna protezione di Maria”.

Prima di concludere con i saluti nelle varie lingue, Benedetto XVI ha ricordato la Giornata pro orantibus, dedicata alle comunità religiose di clausura, celebrata ieri, nel giorno della memoria della Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio. “Colgo volentieri l’occasione – ha aggiunto il pontefice - per rivolgere ad esse il mio cordiale saluto, rinnovando a tutti l’invito a sostenerle nelle loro necessità. Sono lieto anche, in questa circostanza, di ringraziare pubblicamente le monache che si sono avvicendate nel piccolo Monastero in Vaticano: Clarisse, Carmelitane, Benedettine e, da poco, Visitandine. La vostra preghiera, care sorelle, è molto preziosa per il mio ministero”.


"Cari artisti, voi siete custodi della bellezza" - Il testo integrale del discorso rivolto dal papa il 21 novembre 2009, nella Cappella Sistina, a esponenti di tutte le arti: pittori, scultori, architetti, romanzieri, poeti, musicisti, cantanti, uomini di cinema, teatro, danza, fotografia di Benedetto XVI

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Artisti,
Signore e Signori!
Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra "quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza". Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. "Noi abbiamo bisogno di voi - egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità" (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: "E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte" (Ibid., 314). In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di "ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti", e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica "rinascita" dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel "faccia a faccia", in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: "A voi tutti - egli proclamò solennemente - la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!" (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo" (Ibid.).

Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: "L’umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui". Gli fa eco il pittore Georges Braque: "L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere" (n. 3). E più avanti aggiunge: "In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione" (n. 10). E nella conclusione afferma: "La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente" (n. 16).

Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di "figure" – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

Si parla, in proposito, di una "via pulchritudinis", una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata "Gloria. Un’estetica teologica" con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare". La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: "In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa". Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio". Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte" (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: "L’arte ha bisogno della Chiesa?", sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel "grande codice" che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando "ante litteram" la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: "Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza" (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!


Domenica a Nazaret la beatificazione di Marie-Alphonsine Danil Ghattas - Ha restituito dignità alla donna in Terra Santa - di Angelo Amato Arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi - L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009
Suor Marie-Alphonsine Danil Ghattas è nata a Gerusalemme, il 4 ottobre 1843, in una famiglia cristiana che contava diciannove figli, dei quali undici morti in tenerissima età. Al battesimo - 19 novembre 1843 - ricevette i nomi di Soultaneh (Sovrana) e Maria. La piccola fu fortunata, perché proprio in quel periodo il primo Patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Valerga, per vincere l'analfabetismo delle bambine, chiamò in Palestina le suore di san Giuseppe. Appena aperta, la loro scuola registrò un successo straordinario accogliendo più di cento bambine, e tra queste anche la piccola Maria Soultaneh. Affascinata dalle suore, la bambina manifestò il desiderio di consacrarsi al Signore. Ma il padre bloccò sul nascere questa sua aspirazione, per il fatto che era inconcepibile lo stato verginale per una giovane. Ma una grazia ricevuta dalla Madonna, che lo fece guarire da gravissime scottature, gli fece cambiare opinione. Però si fece promettere che la figlia non sarebbe stata formata in Francia.
Così, nel 1858, la piccola è postulante presso le suore di san Giuseppe dell'Apparizione. La congregazione era stata fondata, qualche anno prima, in Francia da santa Emilie de Vialar. Era la prima congregazione religiosa femminile a installarsi in Palestina dal tempo delle crociate. Il 30 giugno 1860, quasi a diciassette anni, la ragazza ricevette l'abito religioso e il nome di suor Marie-Alphonsine, e tre anni dopo emise la professione religiosa. Fu subito incaricata dell'insegnamento del catechismo in lingua araba. Dalla sua ansia apostolica e dal suo dono di parlare alle anime con entusiasmo e convinzione, nacquero la confraternita dell'Immacolata Concezione e l'associazione delle madri cristiane. Poco dopo è a Betlemme, dove continua la sua opera di catechista.
A partire dall'epifania del 1874 la sua vita fu condizionata dalla presenza mistica della Beata Vergine, la quale la condurrà a poco a poco a gettare le basi della futura fondazione della congregazione delle suore del rosario. Però suor Marie-Alphonsine non si sentiva in grado di fare ciò sia per non abbandonare le amate consorelle sia perché si riteneva inadatta a tale compito. Si reca, per consiglio, a Gerusalemme dal Patriarca Vincenzo Bracco. Ma Maria le apparve di nuovo, sollecitando la fondazione. Intanto, la Vergine le indicò anche il direttore spirituale don Tannous, prete colto e pio. Nel 1880, sotto le guida di don Tannous le prime sette giovani si riunirono in una casa, la prima del nascente istituto. Suor Marie-Alphonsine, però, non ne fece subito parte, ma solo dopo tre anni. Ottenuta dal Papa la dispensa dal voto di obbedienza il 12 settembre 1880, visse per tre anni ritirata nella casa del padre. Le prime consacrate presero l'abito - vestito blu con mantello nero, colletto bianco e una corona del rosario - il 15 dicembre 1881 dalle mani del Patriarca Bracco. Era un vero miracolo, dal momento che le famiglie cristiane stesse ritenevano una follia fondare una congregazione interamente araba. La congregazione ebbe l'approvazione pontificia il 4 agosto 1959.
Suor Marie-Alphonsine fu poi inviata a Naplus, a Zababdeh, a Betlemme, dove fu superiora della casa per quindici anni, dal 1893 al 1908. Dopo, la troviamo a Gerusalemme, per riposo. Ma, nel 1917, a settantaquattro anni, fu incaricata di fondare e di dirigere un orfanotrofio nella casa che era dei suoi genitori ad Ein-Karem. Questi ultimi anni furono contrassegnati da un intenso fervore religioso. Per presentarsi pura davanti al Signore si confessava tutti i giorni. Morì ad Ain Karem, il 25 marzo 1927, il giorno dell'Annunciazione, all'età di 84 anni, mentre recitava il rosario e con le parole dell'Ave Maria sulla bocca.
Ci sono due elementi significativi da tener presente nella figura di suor Marie-Alphonsine. Il primo è l'assoluto silenzio che mantenne a proposito delle apparizioni della Vergine. Ne scrisse su ordine di don Tannous, ma il suo diario - iniziato nel 1879 - fu da lei tenuto segreto e fu conosciuto soltanto dopo la morte. In secondo luogo è da rilevare la sua profonda umiltà, pur nella consapevolezza di essere uno strumento di bene nelle mani di Maria.
Tra le testimonianze sulla sua santità, la più convincente è quella delle sue consorelle, che ripetevano spesso: "Ci sentivamo così felici di vivere in sua compagnia. Era una santa. Praticava l'obbedienza, il rispetto dell'autorità e la povertà a un altissimo grado. Pregava incessantemente. Tutta la sua vita si riassume in lavoro e preghiera". Le sue memorie furono importanti perché finalmente si venne a sapere che la vera "fondatrice" della nuova congregazione era stata la Vergine Maria, che la serva di Dio ne era stato il tramite e lo strumento docile, e che, infine, don Tannous, era stato di aiuto all'inizio, quando la beata era ancora legata alle suore di san Giuseppe.
Due sono le caratteristiche della figura della beata Marie-Alphonsine: la sua "marianità" e la preghiera del rosario. La marianità era il fulcro della sua spiritualità. Per le sue visioni mariane è una specie di Bernadette Soubirous araba. La Madonna era tutto nella vita di questa figlia prediletta e fedele. Suor Marie-Alphonsine irradiava e donava Maria con tutto il suo essere femminile. All'iniziativa di Maria suor Marie-Alphonsine corrispondeva con la sua docilità filiale. Maria era onnipresente nella sua esistenza. Era per lei la vocazione e la regola vivente della donna e della consacrata, in particolare.
Questa marianità si esplicitava in concreto in una devozione intensissima al rosario, che era la sua preghiera continua, la sua àncora di salvezza e la fonte di ogni grazia celeste. Il rosario è la nota distintiva della sua santità. Si osserva in suor Marie-Alphonsine una sintesi spirituale tra Occidente e Oriente. La devozione all'Eucaristia è una caratteristica saliente della sua spiritualità latina: "Ella assiste talvolta a 15 o 20 messe al giorno, in occasione delle feste, ciò che costituisce un tratto essenzialmente latino, giacché questa pratica non esiste nell'Oriente cristiano".
Di tipo orientale è, invece, la sua particolare devozione per la festa dell'Epifania. Oltre al fatto che tale ricorrenza le ricordava il suo nome - Ghattas significa "Epifania" - proprio in questa solennità ella ricevette speciali visioni mariane. Grande merito di suor Marie-Alphonsine fu quello di aver elevato le condizioni della donna in Palestina, sia con l'istruzione e l'insegnamento, sia anche fondando un istituto religioso composto solo di donne del posto e con lo scopo dell'insegnamento religioso, per vincere l'analfabetismo delle donne. Non è esagerato affermare che, mediante l'esempio e l'opera di suor Marie-Alphonsine, la Vergine abbia restituito alle donne della Terra Santa la dignità e la nobiltà che spetta loro nel piano di Dio. Di qui l'universalità della figura di suor Marie-Alphonsine, che considerava Maria come la vocazione e la misura della femminilità e il modello etico-spirituale della donna in genere e della consacrata in particolare.
Una caratteristica precisa della sua santità è data dalla sua profonda umiltà. Nonostante la sua familiarità con la Beata Vergine, nemmeno con la sorella, madre Hanné, parlò delle visioni e dei segreti del suo cuore. La sua umiltà fu impreziosita dal sopportare serenamente il disprezzo altrui e l'ingiustizia. Anche all'interno della sua congregazione, ricevette umiliazione ed emarginazione. Suor Madeleine, la cuciniera della casa di Gerusalemme, non aveva mai amato suor Marie-Alphonsine durante la vita. La trattava con rudezza estrema. Ma, alla domanda se credeva a quello che la suora aveva scritto nel suo diario rispose: "una santa".
La testimonianza di suor Roseline El-Qisar è esemplare a proposito della santità eroica della nostra beata: "Io la considero una vera santa a motivo della sua particolare pazienza, sopportazione, per esempio col parroco di Betlemme, suo direttore, del segreto che ha sempre tenuto con tutti circa le apparizioni, perfino con la sua stessa sorella, mère Hanneh. Noi se facciamo un sogno di notte, lo raccontiamo subito a tutte il giorno dopo, e lei, con tutte le apparizioni non disse mai nulla. Ancora per la sua ubbidienza, perché veniva cambiata continuamente da una missione all'altra, senza mai lamentarsi. Noi, oggi, anche le suore più giovani, non accetteremmo senza lamentele cambiamenti così continui. L'esempio di ubbidienza di suor Marie-Alphonsine, nei cambiamenti, mi aiutò ad accettare volentieri quando venivo mandata nelle missioni più difficili e lontane, come Ismakiyeh, ove rimasi per dieci anni, ed accettare di essere cambiata di sovente nelle altre missioni". La santità di suor Marie-Alphonsine mostra il radicamento esistenziale del Vangelo nella terra di Gesù e di Maria. La sua è la prima e finora l'unica congregazione palestinese nella Chiesa.
Il miracolo della sua beatificazione è stato il salvataggio di una ragazza precipitata in un pozzo nero e rimasta per alcuni minuti senza aver riportato alcun danno. La mamma di questa giovane al mattino aveva raccomandato a suor Marie-Alphonsine la protezione della giovane. Suor Marie-Alphonsine aveva un attaccamento e un amore speciale per la sua terra, la terra santa di Gesù e di Maria. È un amore discreto ma profondo. La Sacra Famiglia di Nazareth costituiva per lei la sua famiglia, e Maria era la sua mamma celeste. La beatificazione è di particolare conforto per la comunità cattolica in Terra Santa. Essa è anche motivo di speranza a continuare ad affidarsi alla divina Provvidenza e alla protezione materna di Maria.
(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009)


LA CHIESA E L’ARTE - NON TEORIA MA UN’OFFERTA DI AMICIZIA - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 22 novembre 2009
Il Papa ha parlato agli artisti che da tutto il mondo hanno accet­tato il suo invito. Lo ha fatto in un modo fortissimo. Ha detto: «La bel­lezza ferisce». Ha ripetuto che tra arte e fede c’è «affinità». E che nul­la del genio di un artista è tolto o mortificato dalla fede. È stata una cosa intensa. E sobria. Alta e sobria. Sì, è vero c’era lo sfarzo magnifico della Cappella Sistina. C’era la de­licata, violenta bellezza della infi­nita serie di sale dei musei vatica­ni. C’era l’aria bambinesca di tan­ti di noi che ci aggiravamo tra quei tesori. C’era il cantore in veste di pizzo che dice all’amico: «Ahò, ma c’è Venditti! » C’erano il buffet e quelli che si complimentavano per l’opera dell’altro. E c’erano quelli che dicevano d’essersi visti l’ulti­ma volta negli anni Settanta. In­somma, c’era tutto quel che non può non esserci in ogni genere di ri­trovo tra artisti. Ma soprattutto c’è stato l’invito sobrio e alto di papa Benedetto. L’invito ribadito a una «amicizia», cioè a tendere insieme alla bellezza. E alla visione. A ser­vire con l’opera dell’artista non la «seducente», «ipocrita», «vana» bel­lezza che viene spacciata per tale e che alimenta solo la «brama». Ma quella che rivela i tesori dello spi­rito, che lancia segnali e ponti tra l’umano che siamo e l’infinito a cui tendiamo.
L’invito essenziale, potente del Pa­pa, calibrato su tanti testi prece­denti, su citazioni dei suoi prede­cessori Paolo VI e Giovanni Paolo II e alcuni pensatori tra cui Von Balthasar, è stato rivolto a una pla­tea di artisti di ogni genere. Nomi più o meno noti al grande pubbli­co. Protagonisti d’ogni genere di ar­te: dalla danza alla poesia, dall’ar­chitettura alla musica. Si era lì in tanti eppure in un numero neces­sariamente esiguo ma, per così di­re, era l’occasione d’ascoltare una parola in realtà rivolta a tutti colo­ro che lo desiderano. E il Papa non ha voluto cavarsela con qualche frase di circostanza. Ha affrontato il cuore del proble­ma dell’arte. Che si chiama «bel­lezza ». Nonostante il pensiero del­la nostra epoca, ha ricordato Be­nedetto, sia spesso guidato o in­fluenzato da persone che alla pa­rola reagiscono con un 'sorrisetto' di compatimento, il problema del­­l’artista riguarda il significato del­la parola bellezza e la sua espe­rienza. Più volte il Papa ha richia­mato che questo gesto di artisti sta­va avvenendo nella cornice di una sala che è luogo privilegiato del­l’arte e della storia della Chiesa. Lì si eleggono i papi, e di quei dipin­ti Giovanni Paolo II ha detto che in un certo senso la Bibbia attendeva Michelangelo per farsi visibile. U­na sintesi di arte e fede.
Benedetto non ha perso tempo a delineare una «teoria sull’arte». Ha ripetuto quel che gli artisti per e­sperienza sanno: l’arte è una fine­stra sul mistero della vita. Nem­meno ha dato qualche consiglio morale agli artisti. Ha chiesto solo di stare dalla parte della speranza, che è vera figlia della bellezza. E ha fatto vedere la storia d’arte che la Chiesa ha mosso e ospitato nei se­coli, invitando a farne parte. Tutti, fedeli o no, santi o peccatori. Lon­tani che si credono vicini, o vicini che si credono lontani. Non ha chiesto di aderire a una teoria, ha offerto un’amicizia. E oggi, tra i tan­ti che sull’arte speculano, chiac­chierano, tessono inganni, o muli­nano aria fritta, chi davvero offre una cosa chiamata amicizia agli ar­tisti e al loro lavoro? Per questo in tanti, di ogni genere, abbiamo accettato l’invito di Papa Benedetto.


Una rete per vincere - Compagnia delle Opere. Il presidente Scholz: formazione e innovazione per battere insieme la crisi - DI G IORGIO P AOLUCCI – Avvenire, 22 novembre 2009
Presidente Scholz, in questi giorni si moltiplicano valutazioni ottimistiche che parlano di uscita dalla crisi.
Dall’osservatorio della Compagnia delle opere, formato da 34mila piccole e medie imprese, cosa vede all’orizzonte?
Bilanci aziendali in sofferenza e situazioni occupazionali difficili, quindi i motivi di preoccupazione sono fondati. Ma non mancano segnali incoraggianti, soprattutto se valutati in un’ottica di medio e lungo periodo. Molti imprenditori hanno imparato dalla crisi che è necessario condividere conoscenze e competenze, cercare nuove forme di cooperazione. In questi mesi ho visto tanti che si sono impegnati con grandi sacrifici per portare avanti le loro attività tra mille turbolenze, anche per aiutare chi ha perso il lavoro.
Quindi non basta la logica del 'si salvi chi può'?
La crisi ha dimostrato che la massimizzazione del profitto a breve termine crea valori fittizi, che prima o poi si sgonfiano. Oggi più che mai devono prevalere le logiche della costruzione a lungo termine e della rete tra imprese, che peraltro sono all’origine della storia di Cdo e ne descrivono il metodo associativo e di lavoro. La rete lascia l’autonomia alla singola impresa ma la rafforza mettendola in contatto con altre che operano nello stesso settore o le sono complementari. Il successo di Matching, un evento che è nato proprio per favorire le relazioni tra imprenditori, lo conferma: quest’anno, alla quinta edizione che comincia lunedì, partecipano 2200 imprese (si veda l’articolo in basso) . In questa situazione ci auguriamo anche che si metta mano a una riforma delle Camere di Commercio che vada in tre direzioni: più sussidiarietà, più autonomia, più valorizzazione del ruolo delle associazioni.
Quindi muoversi 'in rete' è una questione di convenienza...
È anzitutto una questione di ragionevolezza. Se gestisco un’impresa solo per spremere profitto e non creo le premesse per uno sviluppo duraturo, non rispetto la natura stessa dell’impresa, che richiede una 'cura lungimirante'. Solo chi investe in formazione e innovazione, chi osserva con attenzione i mercati, è in grado di rispondere alle sfide dei mercati e rispetta le finalità primarie del fare impresa attraverso la produzione di beni e servizi reali e sostenibili, e favorendo l’occupazione. Abbiamo esempi commoventi di imprenditori o manager che fanno l’impossibile per non dover licenziare. Queste dinamiche solidali sono ancora radicate nel tessuto economico italiano, ma c’è il rischio che vengano progressivamente abbandonate. Per questo abbiamo lanciato una 'provocazione'.
Quale?
Dal 2004 promuoviamo le scuole d’impresa, in collaborazione con la Fondazione per la sussidiarietà: un’attività di formazione che aiuta a comprendere la natura di un’azienda e delle sue attività a partire dalla propria esperienza imprenditoriale, sia nel settore profit sia nel non profit. Si tratta soprattutto di implementare una metodologia che permette la massima valorizzazione dei talenti e il miglioramento dei processi di produzione e dei servizi.
La Cdo è un portavoce significativo, anche se non istituzionale, di quel tessuto di Pmi che rappresenta la spina dorsale dell’economia italiana. Cosa chiedete alla politica e alla pubblica amministrazione? Vi senti­te traditi rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale e all’inizio della legislatura?
Più che un tradimento c’è stato un rallentamento, che in parte può essere attribuito alla crisi. Per quanto riguarda le imprese chiediamo di eliminare il più possibile il peso delle burocrazie che soffocano lo sviluppo, la riforma del processo civile, l’alleggerimento del peso fiscale.
Qualcosa è stato fatto, ma servono interventi più significativi.
Nell’immediato è molto importante che si dia continuità agli ammortizzatori sociali per far fronte agli effetti della crisi. Occorre anche intervenire con nuovi strumenti sul fronte dei pagamenti della pubblica amministrazione: ci sono esperienze positive in Lazio e Lombardia. E poi nella collaborazione tra banche e imprese è importante un’attenta valutazione degli asset intangibili come la capacità imprenditoriale e innovativa, oltre a decisioni in tempi più rapidi.
Siete stati tra i primi, negli anni Novanta, a lanciare nel dibattito culturale e politico la parola 'sussidiarietà'. A che punto siamo con la sua effettiva applicazione?
L’introduzione del federalismo fiscale e il 'cinque per mille' sono due segnali forti che qualcosa si muove.
Nel welfare occorre una reale valorizzazione delle iniziative profit e non profit che svolgono un servizio pubblico. In una impostazione che si basa sull’accreditamento e la valutazione, cioè la responsabilizzazione del privato che svolge un servizio pubblico e il rispetto di standard prestabiliti. In alcune regioni come la Lombardia abbiamo già pratiche molto valide. La sussidiarietà si basa su un’osservazione basilare: il bene comune si sviluppa tanto meglio quanto più viene generato dalle iniziative che provengono dalla società. Abbiamo molto apprezzato iniziative che arrivano dalla politica come lo Small Business Act a livello europeo e il progetto di legge sullo Statuto delle imprese in Italia.
Ambedue dimostrano una crescente consapevolezza della necessità di intervenire in favore delle piccole imprese.
Quali indicazioni vengono al vostro lavoro dalla recente enciclica papale?
Con la Caritas in veritate Benedetto XVI sottolinea che ogni persona nella sua unicità contribuisce e partecipa al bene comune, ricorda che tutto è dono e che riconoscendo il dono si diventa capaci di esercitare una reale responsabilità in campo sociale ed economico. Se l’uomo s’illude di essere padrone della realtà, non riuscirà mai a creare un bene duraturo. Questa è la sfida con cui ci misuriamo ogni giorno e che lanciamo a tutto il mondo dell’impresa.
«Molti imprenditori hanno imparato che vanno condivise competenze e conoscenze cercando forme di cooperazione» «Il Papa ci ricorda che riconoscendo il dono si diventa capaci di esercitare una reale responsabilità in campo sociale ed economico»