Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: la speranza di cui ha bisogno il mondo è Cristo - Nel suo discorso introduttivo all'Angelus domenicale in piazza San Pietro
2) Ru486: i fatti, semplicemente – di Giorgio Razeto
3) RU 486: sempre un omicidio ma a domicilio - Incontro organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
4) RU 486: c’è ancora molto da fare - di Renzo Puccetti*
5) L’amore per la vita offre più certezze della scienza - di Cristián Borgoño, L.C.*
6) CARRON/ 1. Sapelli: solo il sacrificio vince l’individualismo - Giulio Sapelli lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
7) SINDONE/ Barbara Frale (Archivio Vaticano): una nuova prova dell’autenticità - INT. Barbara Frale lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
8) La vera bellezza non ha padroni - Pigi Colognesi lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Il Papa: la speranza di cui ha bisogno il mondo è Cristo - Nel suo discorso introduttivo all'Angelus domenicale in piazza San Pietro
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- Il mondo contemporaneo ha bisogno soprattutto di speranza e questa si trova solo in Gesù Cristo. E’ quanto ha affermato Benedetto XVI all'Angelus di domenica, che ha aperto il periodo di Avvento, il tempo di preparazione al Natale del Signore, ed ha dato inizio a un nuovo Anno liturgico.
“Il mondo contemporaneo – ha detto il Papa – ha bisogno soprattutto di speranza: ne hanno bisogno i popoli in via di sviluppo, ma anche quelli economicamente evoluti. Sempre più ci accorgiamo che ci troviamo su un’unica barca e dobbiamo salvarci tutti insieme".
Ci rendiamo conto – ha aggiunto – che, “vedendo crollare tante false sicurezze, abbiamo bisogno di una speranza affidabile”, una speranza che si trova solo in Cristo.
“Il Signore Gesù è venuto in passato, viene nel presente, e verrà nel futuro – ha continuato –. Egli abbraccia tutte le dimensioni del tempo, perché è morto e risorto, è ‘il Vivente’ e, mentre condivide la nostra precarietà umana, rimane per sempre e ci offre la stabilità stessa di Dio. E’ ‘carne’ come noi ed è ‘roccia’ come Dio”.
“Chiunque anela alla libertà, alla giustizia e alla pace – ha osserva il Papa – può risollevarsi e alzare il capo, perché in Cristo la liberazione è vicina”.
“Gesù Cristo non riguarda solo i cristiani, o solo i credenti, ma tutti gli uomini, perché Egli, che è il centro della fede, è anche il fondamento della speranza. E della speranza ogni essere umano ha costantemente bisogno”.
Infine, il Papa ha invitato i fedeli a mettersi alla scuola della Vergine Maria, che “incarna pienamente l’umanità che vive nella speranza basata sulla fede nel Dio vivente. Lei è la Vergine dell’Avvento: è ben piantata nel presente, nell’"oggi" della salvezza; nel suo cuore raccoglie tutte le promesse passate; ed è protesa al compimento futuro”.
Ru486: i fatti, semplicemente – di Giorgio Razeto
Che cosa c’è di più semplice di un fatto? Eppure mai come oggi sembra impossibile guardare in faccia la realtà. Sembra che tutto debba ridursi ad opinione, a mera contrapposizione di opposte ideologie. In questo modo, però, non è possibile nessun dialogo né progresso sulla via della verità, pure così indispensabile quando ci sono in gioco la vita e la morte.
Occorre un cambiamento di metodo: tornare alla nudità dei fatti, ad uno sguardo leale sulla realtà, alla fiducia nella ragione, impegnata ad investigare e scoprire il vero là dove si manifesta.
Su queste premesse veniamo alla Ru486.
Giovedì 26 novembre, la Commissione Sanità del Senato ha varato il documento finale dell'indagine conoscitiva sulla pillola abortiva Ru486, nel quale si chiede di fermare la procedura di immissione in commercio della pillola abortiva in attesa di un parere tecnico del ministero della Salute circa la compatibilità tra la legge 194 e la Ru486.
Vi erano ragioni valide per assumere una tale decisione?
Sì. Perché?
Perché l’art. 4 della Direttiva CE 2001/83 sui medicinali per uso umano dispone: “la presente direttiva non osta all’applicazione delle legislazioni nazionali che vietano o limitano la vendita, la fornitura o l’uso di medicinali a fini contraccettivi o abortivi”.
Non vi è dubbio quindi che lo Stato membro ha l’obbligo di verificare la compatibilità con la legislazione nazionale, prima di riconoscere l’autorizzazione al commercio di un farmaco abortivo.
Neppure si può ragionevolmente discutere sul fatto che la Ru486 rientri nell’ambito di applicazione della norma. Per quanto, con il consueto linguaggio eufemistico, si usi il termine «pillola» è chiaro che la Ru486 non è una medicina ma un veleno: ha il solo scopo di procurare un aborto e quindi uccidere.
In conclusione, deve considerarsi vietata la commercializzazione di un prodotto abortivo in assenza della preventiva valutazione di compatibilità con la legislazione nazionale e quindi, in particolare, con la legge 194/1978.
Non è questione di opinione ma di fatti giuridici di cui è necessario tenere conto.
Ru486 e legge 194 sono incompatibili?
La Ru486 impedisce un’adeguata riflessione. Le pillole vengono consegnate alle donne in tempi necessariamente brevi, dovendosi assumere entro i primi 49 giorni della gravidanza per essere efficaci e pertanto, in contrasto con quanto previsto dalla legge 194/78 (cfr. art. 5), impediscono, di fatto, una sufficiente valutazione, la proposta di possibili alternative e aiuti che la donna, a termini di legge, può ricevere. La Ru486 mette fretta e si propone come una “soluzione” rapida: non voglio il bimbo – prendo la pillola.
Inoltre, la Ru486 è in contrasto con la legge 194/1978 perché trasforma l’aborto in fatto privato. La nostra legge impone il controllo medico nell’ambito di strutture ospedaliere mentre la donna che assume la pillola, al contrario, può abortire privatamente. In altre parole la Ru486 costringe la donna alla solitudine.
Neppure sono da sottovalutare i rischi dell’aborto farmacologico.
La Ru486, infatti, è dannosa per l’integrità fisica e psichica. Non solo l’aborto chimico provoca un maggior numero di decessi e complicazioni rispetto a quello chirurgico, secondo uno studio della Società medico-scientifica “Promed Galileo” la pillola è 10 volte più rischiosa, ma è lesiva della salute psichica della donna, considerando l’aumento di stress cui viene sottoposta: la donna vive in prima persona l’uccisione del figlio e viene lasciata sola sia nello svolgimento di quell’evento (l’espulsione del feto spesso avviene a casa) sia nelle ripercussioni psicologiche di quest’ultimo.
Inoltre, dopo 24 ore dalla prima “pillola”, occorre assumerne una seconda che aiuta la definitiva espulsione del feto. Tale evento può verificarsi in un periodo di tempo variabile da tre a 15 giorni, con dolori intensi e protratti dovuti al mini travaglio. Occorrerà, successivamente comunque un controllo medico per verificare che l’utero sia “pulito” e non siano presenti condizioni di pericolo per la salute della donna, che comporterebbero ulteriori interventi invasivi.
La Ru486, infine, non sempre è efficace e se il feto sopravvive, il più delle volte ha gravi danni nello sviluppo e gravi handicap. Per questa ragione, in Francia, le donne firmano modulo che le impegna a ricorrere all’aborto chirurgico se è la “pillola” non dovesse fare effetto completamente.
La verità è che la Ru486 non è altro che l’ennesimo prodotto chimico abortivo (la prima ricetta abortiva conosciuta a base di mercurio risale addirittura alla Cina del 3000 a.C.) per il quale è lecito domandarsi se costituisca un “progresso” rispetto agli altri abortivi che hanno funestato secoli di aborto clandestino.
Sussistono, pertanto, numerose e valide ragioni per impedire la commercializzazione della Ru486 in Italia.
La questione di fondo, tuttavia, come ha anche sottolineato il presidente del Movimento per la Vita, Carlo Casini, non è il metodo usato per provocare l’interruzione della gravidanza e neppure la legge 194 ma la consapevolezza che i soggetti coinvolti nell’aborto sono almeno due, la donna e il bambino, e che quest’ultimo, in nessun caso, può essere sacrificato, tanto meno, aggiungo, in nome di un malinteso principio di “autodeterminazione” e di libertà.
Tali concetti di enorme rilievo, pensiamo ai diritti di libertà costituzionalmente garantiti, sono pur sempre in funzione e a tutela della persona. Pertanto, è paradossale che in bioetica (concepimento, testamento biologico, eutanasia, ecc.) siano concepiti in modo assoluto ed indipendente, fino a giustificare l’eliminazione dello stesso soggetto titolare, la persona.
RU 486: sempre un omicidio ma a domicilio - Incontro organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Lo scopo principale per cui si vuole introdurre la pillola RU 486 in Italia è quello di passare dall’aborto in ospedale a quello a casa”. E' quanto ha sostenuto Assuntina Morresi, consulente del Ministero del Welfare, nell’incontro pubblico: “Pillola abortiva RU 486: l’azione della società civile per le donne e i bambini”, organizzato il 27 novembre a Modena dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.
Intervenendo all'evento, cui hanno aderito altre 11 associazioni del territorio, la Morresi ha spiegato che l'altro scopo “è quello aggirare la crescente obiezione di coscienza dei medici”.
“Con l’aborto chirurgico si ammazza una vita, con l’aborto chimico anche”, ha sostenuto Annibale Volpe, primario di Ginecologia e ostetrica al Policlinico di Modena, secondo cui oggi solo una bassissima percentuale di donne abortisce con questa metodica.
La vera ragione dell’introduzione della pillola, ha spiegato, è il profitto che ne ricaverà la casa farmaceutica, mentre per le donne rappresenta “un calvario”.
“La Legge 194 prevede che l’aborto debba avvenire interamente in ospedale”, ha evidenziato Claudia Navarini, dell’Università Europea di Roma, che ha illustrato la storia della pillola e le problematiche legali e bioetiche connesse.
Lo stesso Ministero del Welfare, infatti, ha comunicato che la pillola è compatibile con la legge 194 solo se l’aborto avviene con questa modalità.
“Ma se nei fatti questo non avverrà perché le donne vanno tutte a casa, allora per il governo vuol dire che la legge è violata”, ha evidenziato la Morresi.
La Comunità Papa Giovanni XXIII per bocca di Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale, e di Andrea Mazzi, membro dell’associazione, ha ribadito che la pillola non cambia la natura dell’aborto, e ha denunciato come sulla pillola in tanti facciano forme di ‘pubblicità ingannevole’, non presentandone la sua vera natura e i rischi. Come esempio è stato citato un opuscolo prodotto dalle aziende USL e Policlinico di Modena.
Infine, si è parlato dei seri rischi di diffusione clandestina del prodotto.
RU 486: c’è ancora molto da fare - di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La commissione sanità del Senato della Repubblica ha concluso la propria indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU 486, approvando a maggioranza un documento estremamente stimolante per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione bioetica.[1]
In via preliminare si può affrontare il tema dell’opportunità di una discussione politica riguardo alla questione di un farmaco abortivo (etimologicamente il termine farmaco riconosce la duplice accezione di lenimento e di veleno; dal momento che la gravidanza, desiderata o meno, non costituisce di per sé un elemento patologico, per qualsiasi prodotto abortivo è difficile individuarne la valenza curativa).
Vi sono quanti sostengono che la decisione sull’aborto chimico sia di mera spettanza medico-scientifica. Nel caso italiano questa prospettiva individua nell’approvazione del prodotto da parte del CdA dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), e prima ancora da parte del suo comitato tecnico-scientifico, il punto di svolta oltre il quale ogni ulteriore discussione rappresenta un’indebita intromissione nella relazione sanitaria tra donna e medico.
In termini generali possiamo facilmente comprendere come tale impostazione sia estremamente debole. La bioetica ha tra le sue radici principali la evidenza che la conoscenza tecnologica è divenuta così potente nella sua capacità manipolatoria della vita umana, da rendersi necessario sottrarre l’esclusiva gestione delle decisioni all’ambito tecnico-scientifico.
A tal proposito si possono citare le parole della commissione che interruppe il Tuskegee Syphilis Study: «La società non può più permettere che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla comunità scientifica».
L’aborto costituisce un intervento che, laddove legalizzato o depenalizzato, per la particolarità e rilevanza pubblica dei beni in gioco, viene comunque sempre normato in modo specifico attraverso leggi e regolamenti. Nel nostro paese la legge 194 definisce i criteri di non punibilità dell’aborto, ma non vi sono leggi che regolano in maniera distinta il taglio cesario, l’estrazione dentaria, o la polipectomia endoscopica.
L’indagine del parlamento italiano non può essere indicata come una bizzarra intromissione politica rinvenibile solo nel nostro paese, se non dimostrando scarsa conoscenza della questione. Le “relazioni pericolose” tra politica ed RU 486 costellano la storia del prodotto sin dagli esordi.
Come dimenticare le pressioni esercitate dal ministro della sanità francese Claude Evin sull’azienda Roussel Uclaf che aveva deciso di ritirare dal mercato la RU 486? Come tralasciare l’attivo coinvolgimento del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nell’esortare l’azienda francese produttrice della pillola abortiva ad estenderne il commercio sul territorio americano?
Come omettere la commissione d’indagine parlamentare presieduta dal deputato Mark Sauder che negli USA ha prodotto un rapporto assai critico nei confronti dell’operato dell’ente americano per la sorveglianza dei farmaci? Ed il serrato dibattito nel parlamento australiano? E il concomitante impegno politico di alcuni medici coinvolti nella promozione della RU 486 nel nostro paese?
Alla luce di queste considerazioni l’interessamento dell’organo di rappresentanza del popolo italiano nell’affare RU 486 è da ritenersi non solo lecito, ma addirittura doveroso. È pertanto ridicolo accusare d’incompetenza una commissione parlamentare che al suo interno racchiude numerose e qualificate competenze, per di più presieduta dal senatore Tomassini, medico, già primario di ginecologia ed ostetricia, difficilmente accusabile di non possedere i requisiti per comprendere certi elementi di matrice tecnico-sanitaria.
Come peraltro già evidenziato attraverso un’ampia revisione scientifica dal Gruppo di Studio per l’Aborto Medico (GISAM), la commissione non ha potuto che prendere atto della presenza di elementi di criticità all’interno della procedura abortiva farmacologica con diversi articoli della legge 194.
L’indicazione che l’intera procedura abortiva si svolga all’interno delle strutture sanitarie individuate nella legge espressa nel documento approvato dalla commissione parlamentare deriva dalla preoccupazione che anche nel nostro paese si possano verificare casi tragici come quello di Rebecca Tell Berg, morta a 16 anni per emorragia secondaria ad aborto chimico gestito a domicilio, evitando inoltre che gli aborti avvengano in autobus, come è stato descritto nella letteratura scientifica.
La proposta della commissione senatoriale di un’analisi più approfondita della letteratura medica riguardo al profilo di sicurezza ed efficacia della procedura abortiva farmacologica nasce dalla consapevolezza che la legge italiana prevede il ricorso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza"; si tratta di qualità spesso attribuite alla pillola abortiva senza il necessario, metodologicamente rigoroso, supporto scientifico.
La supposta minore dolorabilità associata alla metodica di aborto chimico trova disconferma dall’intero corpo delle sperimentazioni cliniche, compresa quella appena pubblicata di Health Technology Assessment.
Non deve inoltre sfuggire la preoccupazione espressa dal prof. Casavola, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, delle “ricadute nell'immaginario collettivo di ogni prodotto del progresso scientifico, potrebbe apparire più invogliante l'assunzione di una pillola rispetto alla complessità derivante dalla metodica dell'aborto chirurgico”.
Si tratta di una valutazione già empiricamente in parte esplorata dallo studio GISAM già ricordato. Adesso la palla è nelle mani dell’esecutivo. Qui preme identificare almeno altri due punti che sono da puntualizzare in maniera ulteriore.
Il primo riguarda una prassi tutt’altro che astratta, essendo stata adottata in Toscana dove, seppure il protocollo regionale preveda il ricovero ordinario di tre giorni per le donne che abortiscono con la RU 486, di fatto la quasi totalità abortisce anche fuori dalla struttura ospedaliera attraverso il ricorso alle dimissioni volontarie.
Si tratta di un comportamento che, per la sua vastità, per la coincidenza con le risultanze di un’estesa indagine giornalistica e per la dissonanza rispetto agli studi che indicano una preferenza delle donne a completare l’aborto in ospedale, non può non suscitare viva preoccupazione.
È da ritenere che una prospettiva tecnica di soluzione sia individuabile nel documento GISAM che la società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo ha provveduto ad inviare anche agli organi competenti dell’esecutivo.
Sarebbe infatti paradossale che in nome della salute della donna si dovesse assistere a comportamenti su larga scala difficilmente inquadrabili come espressione di tutela della salute delle stesse donne che per giunta, proprio a causa dell’assunzione di responsabilità derivante dalla dimissione volontaria, non potrebbero neppure adire ai percorsi di tutela risarcitoria per eventuali danni alla salute derivanti da un accudimento sanitario insufficiente.
Il secondo aspetto che merita una riflessione ulteriore è quello dell’obiezione di coscienza. Rispetto a quello chirurgico il processo di aborto chimico è enormemente dilatato nel tempo. La inevitabile turnazione del personale sanitario non può andare a ledere il diritto del personale obiettore ad essere esonerato “dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza”.
Dal momento che col metodo farmacologico non esistono criteri standardizzati per definire l’avvenuta interruzione della gravidanza, devono essere date adeguate garanzie al medico obiettore il cui intervento non fosse “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” attraverso una codifica dei compiti e delle responsabilità nell’assistenza sanitaria delle donne che abortiscono col metodo chimico di cui il ministero deve farsi promotore e garante.
Data la complessità e la delicatezza di tali questioni è da temere che le modalità che il ministero del welfare ha adottato per dare seguito alle raccomandazioni della commissione d’indagine parlamentare[2] siano così vaghe da risultare insufficienti ad assicurare gli obiettivi annunciati.
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Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
L’amore per la vita offre più certezze della scienza - di Cristián Borgoño, L.C.*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Rom Houben non può non echeggiare quella a noi più nota in Italia: il caso Eluana Englaro. Troppe le analogie, troppe le somiglianze, troppi anche i luoghi comuni. «Signora, suo figlio è come un vegetale, non sente nulla, non pensa nulla. Di suo figlio non è rimasta più traccia», si è sentita dire la mamma di Rom. Non è questo ciò che ci dicevano di Eluana? C’era una differenza, però. Quella che intercorre tra chi vuole mettere fine a una vita ritenuta “non degna di essere vissuta” e chi sa che, malgrado le apparenze, quella vita è degna perché è di suo figlio, ovvero di un essere umano come noi. Eluana è uno di noi, diceva uno dei tanti titoli scritti a proposito della drammatica vicenda della donna morta a febbraio scorso.
Oltre a questa grandissima testimonianza di umanità, il caso di Rom Houben, il ragazzo belga la cui diagnosi di stato vegetativo persistente (SVP) è risultata errata, ci costringe a rivedere alcune delle certezze scientifiche ed anche etiche che il caso Englaro, e anche il caso di Terri Schiavo, sembravano dare come scontate. La prima di esse è la difficoltà della diagnosi dello SVP. Infatti il quotidiano Avvenire riportava alcune mesi fa che nel Convegno della Società Europea di Neurologia tenutosi a Milano era stato comunicato che le diagnosi errate “sfioravano il 40%”. A simili conclusioni arrivava anche uno studio dell’Università di Tubinga e un altro svolto da ricercatori belgi pubblicato recentemente in BMC Neurology. Nel caso Houben, peraltro, la scoperta della diagnosi sbagliata è stato rivelata dall’uso delle tecniche di risonanza magnetica funzionale (RMNf) che consentiva di “vedere” come le diverse aree del cervello di Rom comunicavano in modo quasi identico a quelle di un soggetto normale. In un convegno alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo “Regina Apostolorum” nel mese di settembre sono stati presentati da Andrea Soddu, membro del Coma Study Gruop di Liegi, incoraggianti risultati sull’uso della RMNf per la diagnosi differenziale degli stati di coscienza alterata. Infatti, dal punto di vista clinico è estremamente difficile distinguere lo SVP da altri stati quali soprattutto lo Stato di Coscienza Minima e la sindrome del “Locked-in” o del “Chiavistello”, che era appunto la situazione di Rom Houben scoperta grazie alla RMNf. Sembra quanto meno problematico prendere decisioni di vita o morte, come la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, in casi di così grande incertezza sulla vera situazione del paziente. E se Eluana potesse aver capito e sentito tutto? Può esistere una forma più crudele e raffinata di tortura? Non si vede come possa essere ragionevole il disporre o rigettare in anticipo determinate misure tramite un testamento biologico quando neanche si è certo della diagnosi.
Ma la stessa vicenda di Houben mette in crisi anche il nostro atteggiamento davanti a questi pazienti. Ci sembra che è molto difficile ritenere che l’alimentazione e l’idratazione possano costituire accanimento terapeutico in casi di questo genere. Infatti, come si sa, non esistono parametri scientificamente collaudati che possano parlale dell’irreversibilità dello SVP, anche a distanza di molto tempo. Cioè, davanti a questi pazienti non solo non abbiamo certezza della diagnosi ma ancor di più della prognosi. Come può essere ritenuto sproporzionato fornire loro ciò di cui ogni persona ha bisogno? Poi, non si tratta di staccare nessuna “spina”, semplicemente di frullare il cibo normale per renderlo abbastanza fluido per essere ingerito tramite una sonda. Infatti, come ci ricordava poco tempo fa il presidente dell’Associazione Risveglio, Francesco Napolitano: “Io stesso e mia moglie, per 3 anni e mezzo, abbiamo dato da mangiare e da bere a casa a nostro figlio cibi naturali (carne, pesce, verdure, frutta, ecc.), cioè esattamente i cibi che mangiamo noi, solo portandoli allo stato quasi liquido attraverso un normalissimo elettrodomestico, con grande semplicità quotidiana”. L’unica spina da staccare, in questo caso, è quella della frullatrice, una volta che ha fatto il suo compito. Può questa essere considerata una terapia medica? Come diceva Marina Corradi mercoledì 25 sull’Avvenire, occorre umiltà per non spacciare per certo ciò che non si conosce bene e tenacia per stare accanto a questi malati, attenti ai segnali più minimi di coscienza. In realtà, la storia di Rom è la storia di una donna, sua mamma, che non ha voluto ridurre e cambiare il suo amore materno per le certezze di una scienza fredda, disincarnata e sicura di sé, come alcuni, pochi fortunatamente, concepiscono la medicina odierna.
Come dice ora Rom: “Mi chiamo Rom. Non sono morto. E devo la vita alla mia famiglia”. La certezza di una madre che vale una vita. Non credo che nessuno abbia il diritto di contraddire questa verità che va ben al di là della scienza.
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* Padre Cristián Borgoño è docente stabile alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”. Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università Cattolica del Cile è stato coordinatore accademico del Corso estivo di Bioetica “Etica alla fine della vita. Tra morte degna e dignità del morente” presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”.
CARRON/ 1. Sapelli: solo il sacrificio vince l’individualismo - Giulio Sapelli lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Come si può affrontare la perdita di senso che caratterizza l’esserci nel mondo in questi tempi, senza sforzarsi ogni giorno, a partire dal lavoro, dalla professione, di ritrovare un cammino di verità che illumini la vita? Le parole di don Julián Carrón mi invitano a rendere manifesto questo progetto che è e diviene sempre più motivo di resistenza, e motivo di resilienza dinanzi al torcersi della vita umana associata nel, e contro, il nulla della reificazione. La crisi economica mondiale non ha avvicinato l’umano all’essenza dell’essere. Ne era di già troppo lontano, dimentico del logos che lo aveva fondato alla luce nei primordi.
La chiave di volta del mutamento è planetaria e risiede nell’avvento dispiegato della reificazione, non tanto del mercato quanto della sua assolutizzazione e della sua presenza totalitaria su tutto l’essere. È il paradigma filosofico neoclassico (irriflessivo e misconosciuto nella follia ideologica riduzionistica dagli stessi predicatori matematizzanti del nulla) a trionfare in ogni dove.
La razionalità, per i predicatori del nulla glorificati dal successo economico e mediatico di una società pornografico-mercantile, è e deve essere la sola caratteristica dell’umana vita ed essa, per costoro, se non si dispiega nel paradigma costo-beneficio, non val la pena né di essere vissuta, né di essere venduta. Sì, perchè anche la vendita della vita è assunta come valore positivo nella reificazione. Si pensi all’acquisto della vita a ore dei giovani e dei lavoratori in genere e al disastro che ciò determina: come si può procreare nell’amore se l’incertezza non solo è frutto del dominio, ma deve essere accettata dai dominati come condizione migliore in assoluto dell’esserci nel mondo? Se la natalità scende non solo si è dinanzi a un valore positivo, per i dominatori, nell’ignoranza delle tendenze di lungo periodo della crescita, ma s’instaura in tal modo su scala di massa un paradigma egoistico che dovrebbe regolare e divenire prototipo della vita buona nella reificazione. Vita buona perché efficiente, vita buona perché economicamente produttiva e generatrice di successo individualistico.
I disastri dell’individualismo metodologico son divenuti disastri morali e cataclismi esistenziali. Per questo bisogna avere il coraggio di affermare, senza “rispetto umano”, che la verità, oggi più di ieri, non può essere relativismo, ma solo obbligazione morale all’ente che è Dio e che per il cristiano è il sacrificio salvifico di Gesù. Il sacrificio che abbatte tutte le reificazioni, che pone con i piedi per terra tutte le superfetazioni economicistiche e le arrovescia, che fonda il paradigma del dono senza obbligazione a rendere, ma invece con la morale obbligazione a credere.
La sintesi paolina tra ebraismo ed ellenismo trova nell’ unità di fede e ragione il nuovo paradigma comunitario di una resistenza al dilagare del nichilismo. E questo perché il soggetto è irriducibile al mercato dispiegato e all’assenza di Dio. Il Dio nascosto il soggetto lo ricerca continuamente, spasmodicamente e senza tregua ed è questa ricerca che colpisce, che ci sottrae alla resa a cui troppo spesso vogliamo rassegnarci. La parola evangelica per cui occorre tutto lasciare per rispondere alla chiamata non rifulge solo per la scelta sacerdotale, ma anche per la chiamata associativa, comunitaria, che è esercizio di affermazione del sé nella libertà, riattualizzando la tradizione della fede.
Il dono è l’essenza del vivere associato; non lo è il paradigma economicistico. L’ economico che irrora l’umano ne realizza l’utopia ed è, invece, sempre sostenuto dal dono, dall’affermazione dell’umano in ogni sua manifestazione, nel trionfo dell’altruismo e dell’attenzione che fonda la reciprocità, e nell’affermazione del rispetto con cui si costruisce lo stare insieme. Sono le virtù penultime che danno agli ultimi la dignità, oggi sempre conculcata laddove la verità non fonda la carità. Sono le virtù penultime per gli ultimi e per tutti noi, che ci donano la speranza di cui sempre abbiamo bisogno.
SINDONE/ Barbara Frale (Archivio Vaticano): una nuova prova dell’autenticità - INT. Barbara Frale lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Sulla Sindone, è certo, non si finirà mai di discutere. Dopo la pesante affermazione di qualche settimana fa da parte del CICAP e dell’UAAR relativa alla presunta scoperta del metodo per realizzare lenzuola in tutto e per tutto simili al lino sacro, puntualmente smentite da più esperti su queste pagine, oltre che su altri giornali, ecco adesso una prova a favore dell’autenticità della reliquia più famosa al mondo. Si tratta questa volta della decifrazione di alcune scritte presenti sul tessuto del sudario. Una grafia che, a detta degli esperti, risale inconfutabilmente al I secolo, ossia in quel periodo di tempo che va dallo 0 d.C al 100 d.C. A decifrare l’arcano, la dottoressa Barbara Frale, già nota per alcune pubblicazioni di rilievo sui templari, che abbiamo intervistato
Dottoressa Frale, dai Templari alla Sindone, qual è stata la causa di questo “salto”?
Per quanto riguarda la mia formazione nessuna, nel senso che io sono un’archeologa specializzata nelle ricerche sul mondo antico e medievale. Ho passato diversi anni a studiare i documenti risalenti al Medioevo e le mie pubblicazioni più famose sono quelle relative ai templari. Ma questo non significa che in realtà mi sia messa a studiare da poco il mondo antico, anzi. Sono anni che mi occupo di archeologia grecoromana. Diciamo che noi storici siamo piuttosto noti per gli argomenti che piacciono al pubblico. Per fare un esempio: sono anni che i miei studi si concentrano su documenti relativi ai papi del Medioevo. Non abbiamo idea della miniera di risvolti interessantissimi che toccano la storia della Chiesa. Ho provato più volte a proporre alcune indagini all’attenzione di diversi editori. La risposta è sempre stata: «non ha qualcosa sui templari?». Piuttosto avvilente, ma è quello che piace al pubblico, è una “moda”. Quindi mi sono rassegnata a pubblicare solo le mie ricerche sui templari.
Adesso però è arrivata alla Sacra Sindone, in un certo senso di “moda” anche questa
In realtà tutto il materiale, sia i templari sia la Sindone, fa parte di una ricerca che ho svolto per il dottorato in storia all’Università di Venezia. Sono già dieci anni che contemplo entrambi gli argomenti. In effetti occorre lungo tempo per realizzare studi di confronto fra i diversi papiri con i quali ho a che fare.
Anni spesi bene a quanto pare. Lei è infatti giunta a una scoperta eccezionale, ce ne vuole parlare?
Bisogna essere precisi. Io non ho “scoperto” niente nel senso stretto della parola. Capisco che si possa fare confusione su questioni come la Sindone perché si sono ammassati in molti anni argomenti su argomenti. Ma qui occorre risalire a trent’anni fa. Era infatti il 1978 quando il professor Aldo Marastoni, insigne latinista dell’Università Cattolica di Milano, scoprì sul lenzuolo, a occhio nudo, tracce di scrittura in latino reputando che fossero risalenti al primo secolo. Un occhio esperto di scritture antiche come quello di Marastoni non ci mise molto a tirare le somme. Il tutto passò però quasi totalmente sotto silenzio. Poi la questione venne riaffrontata nel 1994 dal punto di vista tecnologico. Un’equipe di studiosi francesi, capeggiata dal professor André Marion del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) ha messo in “chiaro” tutte le scritte presenti.
Io arrivo “tardi”, in realtà il mio lavoro è stato quello di spiegare che cosa significassero le parole contenute in questi segni.
Nel senso che fino al suo arrivo nessuno se ne è mai occupato?
Il fatto è che le avevano scoperte, ma non spiegate. Ovvio che gente del calibro di Marastoni avesse inteso il significato letterale, ma non quello “circostanziale”. Per capire che cosa significhino quei segni bisogna fare migliaia e migliaia di confronti con le epigrafi. Marastoni abbandonò il lavoro. Probabilmente si era un po’ scoraggiato a seguito degli esiti del famoso esame del Carbonio 14. Anche se aveva visto bene: le scritture risalgono a tutti gli effetti al primo secolo.
E gli esperti francesi?
Si sono resi conto che finché si trattava di visualizzare con l’aiuto informatico le scritte tutto andava bene però ci voleva un esperto di scritture antiche. Loro sono matematici e fisici. Le fecero esaminare ad alcuni esperti della Sorbona che individuarono il periodo storico delle scritte fra il primo e il terzo secolo dopo Cristo. La loro analisi si fermò però soltanto alla collocazione storica Credo che il motivo fosse lo stesso di Marastoni. Siccome occorre una lunghissima e molto faticosa ricerca per questo tipo di indagini perché doversi impelagare su un documento che all’epoca era considerato, con un assurdo pregiudizio, di dubbia autenticità?
Poi è arrivata lei, ci dica in che cosa dunque consistono queste scritte?
In un certificato di sepoltura. Quello che noi possiamo vedere ha tutte le caratteristiche di un certificato di sepoltura. Anche se può sembrare strano che ai tempi dell’impero romano si facessero certificati di sepoltura. E invece è tutto il contrario, ci sono numerosissime testimonianze di questi certificati in antichità. E non solo dei Romani. Anche per quel che riguarda l’Antico Egitto, per esempio, disponiamo di una notevole mole di simili documenti. I sacerdoti curavano la mummificazione e stilavano il certificato di morte. Praticamente svolgevano l’esercizio delle odierne pompe funebri.
Questa scritta insomma rafforzerebbe l’idea che la Sindone appartenga al primo secolo?
Molto più che “rafforzarla”. Si può dire con certezza scientifica che l’autore di queste scritte, che ha lasciato queste tracce, è senz’altro un uomo vissuto nel primo secolo dopo Cristo. Il che rende molto difficile che l’intero oggetto archeologico in esame sia più tardo.
Quindi nessun fantomatico realizzatore? Leonardo da Vinci? Un anonimo medievale?
Queste scritte recano con sé dei dettagli che sarebbe impossibile dedurre perfino dagli stessi Vangeli. Sono documenti del tutto “inediti”. Noi oggi siamo in grado di riconoscerli perché a partire dai primi anni del ’900 un mare di papiri scoperti ci ha aiutato a capire come andavano le pratiche di sepoltura nell’epoca presa in considerazione. Nemmeno un genio come Leonardo avrebbe potuto inventarsi una simile falsificazione. Faccio un esempio: nel Rinascimento non si aveva idea di quanto tempo il cadavere di un condannato a morte dovesse restare lontano dalle altre tombe. E via dicendo. Un falsificatore avrebbe usato parole di tutt’altro avviso. Mentre queste scritte sono paragonabili a nuovissime ricerche su questo terreno. Da dove diamine poteva trarre ispirazione il fantomatico anonimo medievale o Leonardo per inventarsele?
Come giudica, le chiediamo un parere da scienziata e archeologa, il fatto che le pubblicazioni “piccanti” sulla Sacra Sindone siano in così grande abbondanza?
Io credo che sia una pura speculazione commerciale volta a far parlare di sé. Oppure per sponsorizzare le proprie posizioni. Prendiamo il ridicolo esperimento del CICAP. In primo luogo la ricerca era pagata dall’UAAR il che non sorprende visti i risultati. Poi la modalità con la quale si è preteso di ricavare una copia della Sindone è davvero risibile. Per intenderci la può fare chiunque abbia un lino e della tempera. Le cose però, analizzando la colorazione autentica del lino, sono un po’ più complesse. Non ci riescono i fisici nucleari figuriamoci gli “esperti” del CICAP. Credo francamente che per loro sia stato un autogol perché se è questa la serietà scientifica con la quale affrontano le questioni misteriose di questo mondo stiamo freschi.
Le sue ricerche sulla Sindone proseguiranno o il mistero del lenzuolo è stato svelato del tutto?
Sicuramente proseguiranno. Non ho pubblicato tutto quello su cui ho raccolto materiale perché mi piace avere moltissimi documenti e prove a disposizione prima di uscire con pubblicazioni scientifiche. C’è ancora tanto da fare e da studiare sulla Sindone e sulla storia in generale. Mi piace considerare il mio studio solo come il passaggio di un testimone in una grande staffetta. Se non fosse stato per gli studiosi che mi hanno preceduto io non avrei scoperto proprio un bel niente. Quindi spero che la mole di materiale da me raccolto possa servire anche per i ricercatori in futuro. Quando si sente dire che qualcuno ha scoperto qualcosa da “solo” il mio personale consiglio è quello di diffidare. Certo può capitare, come è successo per la penicillina, ma si tratta di momenti di “grazia” rarissimi e isolati nella storia della ricerca scientifica. Per lo più tutti noi dipendiamo da chi ci ha preceduto nel tempo.
(Raffaele Castagna)
La vera bellezza non ha padroni - Pigi Colognesi lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Non so se il mio amico pittore Bill Congdon - sia quando era all’apice della notorietà a New York, sia quando viveva gli ultimi fecondissimi anni della sua parabola artistica ritirato nella bassa milanese - sarebbe andato all’incontro degli artisti col Papa nella cappella Sistina. Era molto schivo. Il discorso di Benedetto XVI però sono sicuro che lo avrebbe letto con devota attenzione. Immagino di entrare nel suo studio proprio nel momento in cui ha finito di meditarlo. Mi legge questo passaggio: «Una funzione essenziale della vera bellezza consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, spingendolo verso l’alto».
Proprio mentre sto per chiedergli come mai questa frase lo abbia così colpito, Bill mi anticipa e dice: «Questa immagine della freccia che ferisce è proprio giusta. Troppi oggi, sia tra coloro che si credono artisti sia tra quelli che l’arte la guardano, l’ascoltano, la leggono, pensano che la bellezza sia una cosetta semplice semplice, un giochino scaltro, una consolazione a buon mercato. Io, invece, l’ho sempre vissuta come uno squassamento». Squassamento? «Ma sì, la bellezza è una cosa che non ti lascia in pace, è come uno strattone che ti tira fuori dalla banalità in cui ti rifugi per non pensare. È un taglio che rivela l’immensità del tuo desiderio. È la ferita di domande grandiose: Cosa sono, veramente, le cose? E dove vanno a finire? Nel nulla? Oppure ogni piccolo aspetto di ciò che esiste è una finestra che spalanca su un oltre? È una vita che tengo aperta questa ferita. Ogni quadro è accettare la sfida di andare oltre l’apparenza per cogliere la verità di quel che c’è».
Ma perché chiami questo “squassamento”? «Perché io non sono il padrone della realtà. Nessun uomo è il padrone della realtà. Semplicemente la riceviamo in dono. Quando ce ne dimentichiamo, accade quello che ha detto il Papa: la bellezza diventa “ipocrita”, pura maschera di una “volontà di potere”. Per non strozzare tutto dobbiamo tirare indietro le mani. E questo ti squassa».
L’immagine della bellezza che ferisce - e ferisce chiunque, non solo l’artista come Congdon - è costante nel pensiero di Ratzinger. Nel suo messaggio per il Meeting di Rimini del 2002 aveva scritto: «La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo». E, celebrandone i funerali, ha descritto don Giussani come «toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza». Sempre quel verbo: ferire. Sembra un accento negativo, ma è l’unica possibilità per evitare di ridurre la bellezza ad estetismo, che fugge dal tanto brutto che c’è nella vita. Infatti, scriveva ancora Ratzinger al Meeting, «un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente»; ciò di cui abbiamo bisogno è la paradossale bellezza di Chi, nello stesso tempo, ha un volto «sfigurato dal dolore» ed è «il più bello tra i figli dell’uomo».
1) Il Papa: la speranza di cui ha bisogno il mondo è Cristo - Nel suo discorso introduttivo all'Angelus domenicale in piazza San Pietro
2) Ru486: i fatti, semplicemente – di Giorgio Razeto
3) RU 486: sempre un omicidio ma a domicilio - Incontro organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
4) RU 486: c’è ancora molto da fare - di Renzo Puccetti*
5) L’amore per la vita offre più certezze della scienza - di Cristián Borgoño, L.C.*
6) CARRON/ 1. Sapelli: solo il sacrificio vince l’individualismo - Giulio Sapelli lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
7) SINDONE/ Barbara Frale (Archivio Vaticano): una nuova prova dell’autenticità - INT. Barbara Frale lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
8) La vera bellezza non ha padroni - Pigi Colognesi lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Il Papa: la speranza di cui ha bisogno il mondo è Cristo - Nel suo discorso introduttivo all'Angelus domenicale in piazza San Pietro
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- Il mondo contemporaneo ha bisogno soprattutto di speranza e questa si trova solo in Gesù Cristo. E’ quanto ha affermato Benedetto XVI all'Angelus di domenica, che ha aperto il periodo di Avvento, il tempo di preparazione al Natale del Signore, ed ha dato inizio a un nuovo Anno liturgico.
“Il mondo contemporaneo – ha detto il Papa – ha bisogno soprattutto di speranza: ne hanno bisogno i popoli in via di sviluppo, ma anche quelli economicamente evoluti. Sempre più ci accorgiamo che ci troviamo su un’unica barca e dobbiamo salvarci tutti insieme".
Ci rendiamo conto – ha aggiunto – che, “vedendo crollare tante false sicurezze, abbiamo bisogno di una speranza affidabile”, una speranza che si trova solo in Cristo.
“Il Signore Gesù è venuto in passato, viene nel presente, e verrà nel futuro – ha continuato –. Egli abbraccia tutte le dimensioni del tempo, perché è morto e risorto, è ‘il Vivente’ e, mentre condivide la nostra precarietà umana, rimane per sempre e ci offre la stabilità stessa di Dio. E’ ‘carne’ come noi ed è ‘roccia’ come Dio”.
“Chiunque anela alla libertà, alla giustizia e alla pace – ha osserva il Papa – può risollevarsi e alzare il capo, perché in Cristo la liberazione è vicina”.
“Gesù Cristo non riguarda solo i cristiani, o solo i credenti, ma tutti gli uomini, perché Egli, che è il centro della fede, è anche il fondamento della speranza. E della speranza ogni essere umano ha costantemente bisogno”.
Infine, il Papa ha invitato i fedeli a mettersi alla scuola della Vergine Maria, che “incarna pienamente l’umanità che vive nella speranza basata sulla fede nel Dio vivente. Lei è la Vergine dell’Avvento: è ben piantata nel presente, nell’"oggi" della salvezza; nel suo cuore raccoglie tutte le promesse passate; ed è protesa al compimento futuro”.
Ru486: i fatti, semplicemente – di Giorgio Razeto
Che cosa c’è di più semplice di un fatto? Eppure mai come oggi sembra impossibile guardare in faccia la realtà. Sembra che tutto debba ridursi ad opinione, a mera contrapposizione di opposte ideologie. In questo modo, però, non è possibile nessun dialogo né progresso sulla via della verità, pure così indispensabile quando ci sono in gioco la vita e la morte.
Occorre un cambiamento di metodo: tornare alla nudità dei fatti, ad uno sguardo leale sulla realtà, alla fiducia nella ragione, impegnata ad investigare e scoprire il vero là dove si manifesta.
Su queste premesse veniamo alla Ru486.
Giovedì 26 novembre, la Commissione Sanità del Senato ha varato il documento finale dell'indagine conoscitiva sulla pillola abortiva Ru486, nel quale si chiede di fermare la procedura di immissione in commercio della pillola abortiva in attesa di un parere tecnico del ministero della Salute circa la compatibilità tra la legge 194 e la Ru486.
Vi erano ragioni valide per assumere una tale decisione?
Sì. Perché?
Perché l’art. 4 della Direttiva CE 2001/83 sui medicinali per uso umano dispone: “la presente direttiva non osta all’applicazione delle legislazioni nazionali che vietano o limitano la vendita, la fornitura o l’uso di medicinali a fini contraccettivi o abortivi”.
Non vi è dubbio quindi che lo Stato membro ha l’obbligo di verificare la compatibilità con la legislazione nazionale, prima di riconoscere l’autorizzazione al commercio di un farmaco abortivo.
Neppure si può ragionevolmente discutere sul fatto che la Ru486 rientri nell’ambito di applicazione della norma. Per quanto, con il consueto linguaggio eufemistico, si usi il termine «pillola» è chiaro che la Ru486 non è una medicina ma un veleno: ha il solo scopo di procurare un aborto e quindi uccidere.
In conclusione, deve considerarsi vietata la commercializzazione di un prodotto abortivo in assenza della preventiva valutazione di compatibilità con la legislazione nazionale e quindi, in particolare, con la legge 194/1978.
Non è questione di opinione ma di fatti giuridici di cui è necessario tenere conto.
Ru486 e legge 194 sono incompatibili?
La Ru486 impedisce un’adeguata riflessione. Le pillole vengono consegnate alle donne in tempi necessariamente brevi, dovendosi assumere entro i primi 49 giorni della gravidanza per essere efficaci e pertanto, in contrasto con quanto previsto dalla legge 194/78 (cfr. art. 5), impediscono, di fatto, una sufficiente valutazione, la proposta di possibili alternative e aiuti che la donna, a termini di legge, può ricevere. La Ru486 mette fretta e si propone come una “soluzione” rapida: non voglio il bimbo – prendo la pillola.
Inoltre, la Ru486 è in contrasto con la legge 194/1978 perché trasforma l’aborto in fatto privato. La nostra legge impone il controllo medico nell’ambito di strutture ospedaliere mentre la donna che assume la pillola, al contrario, può abortire privatamente. In altre parole la Ru486 costringe la donna alla solitudine.
Neppure sono da sottovalutare i rischi dell’aborto farmacologico.
La Ru486, infatti, è dannosa per l’integrità fisica e psichica. Non solo l’aborto chimico provoca un maggior numero di decessi e complicazioni rispetto a quello chirurgico, secondo uno studio della Società medico-scientifica “Promed Galileo” la pillola è 10 volte più rischiosa, ma è lesiva della salute psichica della donna, considerando l’aumento di stress cui viene sottoposta: la donna vive in prima persona l’uccisione del figlio e viene lasciata sola sia nello svolgimento di quell’evento (l’espulsione del feto spesso avviene a casa) sia nelle ripercussioni psicologiche di quest’ultimo.
Inoltre, dopo 24 ore dalla prima “pillola”, occorre assumerne una seconda che aiuta la definitiva espulsione del feto. Tale evento può verificarsi in un periodo di tempo variabile da tre a 15 giorni, con dolori intensi e protratti dovuti al mini travaglio. Occorrerà, successivamente comunque un controllo medico per verificare che l’utero sia “pulito” e non siano presenti condizioni di pericolo per la salute della donna, che comporterebbero ulteriori interventi invasivi.
La Ru486, infine, non sempre è efficace e se il feto sopravvive, il più delle volte ha gravi danni nello sviluppo e gravi handicap. Per questa ragione, in Francia, le donne firmano modulo che le impegna a ricorrere all’aborto chirurgico se è la “pillola” non dovesse fare effetto completamente.
La verità è che la Ru486 non è altro che l’ennesimo prodotto chimico abortivo (la prima ricetta abortiva conosciuta a base di mercurio risale addirittura alla Cina del 3000 a.C.) per il quale è lecito domandarsi se costituisca un “progresso” rispetto agli altri abortivi che hanno funestato secoli di aborto clandestino.
Sussistono, pertanto, numerose e valide ragioni per impedire la commercializzazione della Ru486 in Italia.
La questione di fondo, tuttavia, come ha anche sottolineato il presidente del Movimento per la Vita, Carlo Casini, non è il metodo usato per provocare l’interruzione della gravidanza e neppure la legge 194 ma la consapevolezza che i soggetti coinvolti nell’aborto sono almeno due, la donna e il bambino, e che quest’ultimo, in nessun caso, può essere sacrificato, tanto meno, aggiungo, in nome di un malinteso principio di “autodeterminazione” e di libertà.
Tali concetti di enorme rilievo, pensiamo ai diritti di libertà costituzionalmente garantiti, sono pur sempre in funzione e a tutela della persona. Pertanto, è paradossale che in bioetica (concepimento, testamento biologico, eutanasia, ecc.) siano concepiti in modo assoluto ed indipendente, fino a giustificare l’eliminazione dello stesso soggetto titolare, la persona.
RU 486: sempre un omicidio ma a domicilio - Incontro organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Lo scopo principale per cui si vuole introdurre la pillola RU 486 in Italia è quello di passare dall’aborto in ospedale a quello a casa”. E' quanto ha sostenuto Assuntina Morresi, consulente del Ministero del Welfare, nell’incontro pubblico: “Pillola abortiva RU 486: l’azione della società civile per le donne e i bambini”, organizzato il 27 novembre a Modena dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.
Intervenendo all'evento, cui hanno aderito altre 11 associazioni del territorio, la Morresi ha spiegato che l'altro scopo “è quello aggirare la crescente obiezione di coscienza dei medici”.
“Con l’aborto chirurgico si ammazza una vita, con l’aborto chimico anche”, ha sostenuto Annibale Volpe, primario di Ginecologia e ostetrica al Policlinico di Modena, secondo cui oggi solo una bassissima percentuale di donne abortisce con questa metodica.
La vera ragione dell’introduzione della pillola, ha spiegato, è il profitto che ne ricaverà la casa farmaceutica, mentre per le donne rappresenta “un calvario”.
“La Legge 194 prevede che l’aborto debba avvenire interamente in ospedale”, ha evidenziato Claudia Navarini, dell’Università Europea di Roma, che ha illustrato la storia della pillola e le problematiche legali e bioetiche connesse.
Lo stesso Ministero del Welfare, infatti, ha comunicato che la pillola è compatibile con la legge 194 solo se l’aborto avviene con questa modalità.
“Ma se nei fatti questo non avverrà perché le donne vanno tutte a casa, allora per il governo vuol dire che la legge è violata”, ha evidenziato la Morresi.
La Comunità Papa Giovanni XXIII per bocca di Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale, e di Andrea Mazzi, membro dell’associazione, ha ribadito che la pillola non cambia la natura dell’aborto, e ha denunciato come sulla pillola in tanti facciano forme di ‘pubblicità ingannevole’, non presentandone la sua vera natura e i rischi. Come esempio è stato citato un opuscolo prodotto dalle aziende USL e Policlinico di Modena.
Infine, si è parlato dei seri rischi di diffusione clandestina del prodotto.
RU 486: c’è ancora molto da fare - di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La commissione sanità del Senato della Repubblica ha concluso la propria indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU 486, approvando a maggioranza un documento estremamente stimolante per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione bioetica.[1]
In via preliminare si può affrontare il tema dell’opportunità di una discussione politica riguardo alla questione di un farmaco abortivo (etimologicamente il termine farmaco riconosce la duplice accezione di lenimento e di veleno; dal momento che la gravidanza, desiderata o meno, non costituisce di per sé un elemento patologico, per qualsiasi prodotto abortivo è difficile individuarne la valenza curativa).
Vi sono quanti sostengono che la decisione sull’aborto chimico sia di mera spettanza medico-scientifica. Nel caso italiano questa prospettiva individua nell’approvazione del prodotto da parte del CdA dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), e prima ancora da parte del suo comitato tecnico-scientifico, il punto di svolta oltre il quale ogni ulteriore discussione rappresenta un’indebita intromissione nella relazione sanitaria tra donna e medico.
In termini generali possiamo facilmente comprendere come tale impostazione sia estremamente debole. La bioetica ha tra le sue radici principali la evidenza che la conoscenza tecnologica è divenuta così potente nella sua capacità manipolatoria della vita umana, da rendersi necessario sottrarre l’esclusiva gestione delle decisioni all’ambito tecnico-scientifico.
A tal proposito si possono citare le parole della commissione che interruppe il Tuskegee Syphilis Study: «La società non può più permettere che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla comunità scientifica».
L’aborto costituisce un intervento che, laddove legalizzato o depenalizzato, per la particolarità e rilevanza pubblica dei beni in gioco, viene comunque sempre normato in modo specifico attraverso leggi e regolamenti. Nel nostro paese la legge 194 definisce i criteri di non punibilità dell’aborto, ma non vi sono leggi che regolano in maniera distinta il taglio cesario, l’estrazione dentaria, o la polipectomia endoscopica.
L’indagine del parlamento italiano non può essere indicata come una bizzarra intromissione politica rinvenibile solo nel nostro paese, se non dimostrando scarsa conoscenza della questione. Le “relazioni pericolose” tra politica ed RU 486 costellano la storia del prodotto sin dagli esordi.
Come dimenticare le pressioni esercitate dal ministro della sanità francese Claude Evin sull’azienda Roussel Uclaf che aveva deciso di ritirare dal mercato la RU 486? Come tralasciare l’attivo coinvolgimento del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nell’esortare l’azienda francese produttrice della pillola abortiva ad estenderne il commercio sul territorio americano?
Come omettere la commissione d’indagine parlamentare presieduta dal deputato Mark Sauder che negli USA ha prodotto un rapporto assai critico nei confronti dell’operato dell’ente americano per la sorveglianza dei farmaci? Ed il serrato dibattito nel parlamento australiano? E il concomitante impegno politico di alcuni medici coinvolti nella promozione della RU 486 nel nostro paese?
Alla luce di queste considerazioni l’interessamento dell’organo di rappresentanza del popolo italiano nell’affare RU 486 è da ritenersi non solo lecito, ma addirittura doveroso. È pertanto ridicolo accusare d’incompetenza una commissione parlamentare che al suo interno racchiude numerose e qualificate competenze, per di più presieduta dal senatore Tomassini, medico, già primario di ginecologia ed ostetricia, difficilmente accusabile di non possedere i requisiti per comprendere certi elementi di matrice tecnico-sanitaria.
Come peraltro già evidenziato attraverso un’ampia revisione scientifica dal Gruppo di Studio per l’Aborto Medico (GISAM), la commissione non ha potuto che prendere atto della presenza di elementi di criticità all’interno della procedura abortiva farmacologica con diversi articoli della legge 194.
L’indicazione che l’intera procedura abortiva si svolga all’interno delle strutture sanitarie individuate nella legge espressa nel documento approvato dalla commissione parlamentare deriva dalla preoccupazione che anche nel nostro paese si possano verificare casi tragici come quello di Rebecca Tell Berg, morta a 16 anni per emorragia secondaria ad aborto chimico gestito a domicilio, evitando inoltre che gli aborti avvengano in autobus, come è stato descritto nella letteratura scientifica.
La proposta della commissione senatoriale di un’analisi più approfondita della letteratura medica riguardo al profilo di sicurezza ed efficacia della procedura abortiva farmacologica nasce dalla consapevolezza che la legge italiana prevede il ricorso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza"; si tratta di qualità spesso attribuite alla pillola abortiva senza il necessario, metodologicamente rigoroso, supporto scientifico.
La supposta minore dolorabilità associata alla metodica di aborto chimico trova disconferma dall’intero corpo delle sperimentazioni cliniche, compresa quella appena pubblicata di Health Technology Assessment.
Non deve inoltre sfuggire la preoccupazione espressa dal prof. Casavola, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, delle “ricadute nell'immaginario collettivo di ogni prodotto del progresso scientifico, potrebbe apparire più invogliante l'assunzione di una pillola rispetto alla complessità derivante dalla metodica dell'aborto chirurgico”.
Si tratta di una valutazione già empiricamente in parte esplorata dallo studio GISAM già ricordato. Adesso la palla è nelle mani dell’esecutivo. Qui preme identificare almeno altri due punti che sono da puntualizzare in maniera ulteriore.
Il primo riguarda una prassi tutt’altro che astratta, essendo stata adottata in Toscana dove, seppure il protocollo regionale preveda il ricovero ordinario di tre giorni per le donne che abortiscono con la RU 486, di fatto la quasi totalità abortisce anche fuori dalla struttura ospedaliera attraverso il ricorso alle dimissioni volontarie.
Si tratta di un comportamento che, per la sua vastità, per la coincidenza con le risultanze di un’estesa indagine giornalistica e per la dissonanza rispetto agli studi che indicano una preferenza delle donne a completare l’aborto in ospedale, non può non suscitare viva preoccupazione.
È da ritenere che una prospettiva tecnica di soluzione sia individuabile nel documento GISAM che la società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo ha provveduto ad inviare anche agli organi competenti dell’esecutivo.
Sarebbe infatti paradossale che in nome della salute della donna si dovesse assistere a comportamenti su larga scala difficilmente inquadrabili come espressione di tutela della salute delle stesse donne che per giunta, proprio a causa dell’assunzione di responsabilità derivante dalla dimissione volontaria, non potrebbero neppure adire ai percorsi di tutela risarcitoria per eventuali danni alla salute derivanti da un accudimento sanitario insufficiente.
Il secondo aspetto che merita una riflessione ulteriore è quello dell’obiezione di coscienza. Rispetto a quello chirurgico il processo di aborto chimico è enormemente dilatato nel tempo. La inevitabile turnazione del personale sanitario non può andare a ledere il diritto del personale obiettore ad essere esonerato “dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza”.
Dal momento che col metodo farmacologico non esistono criteri standardizzati per definire l’avvenuta interruzione della gravidanza, devono essere date adeguate garanzie al medico obiettore il cui intervento non fosse “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” attraverso una codifica dei compiti e delle responsabilità nell’assistenza sanitaria delle donne che abortiscono col metodo chimico di cui il ministero deve farsi promotore e garante.
Data la complessità e la delicatezza di tali questioni è da temere che le modalità che il ministero del welfare ha adottato per dare seguito alle raccomandazioni della commissione d’indagine parlamentare[2] siano così vaghe da risultare insufficienti ad assicurare gli obiettivi annunciati.
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Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
L’amore per la vita offre più certezze della scienza - di Cristián Borgoño, L.C.*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Rom Houben non può non echeggiare quella a noi più nota in Italia: il caso Eluana Englaro. Troppe le analogie, troppe le somiglianze, troppi anche i luoghi comuni. «Signora, suo figlio è come un vegetale, non sente nulla, non pensa nulla. Di suo figlio non è rimasta più traccia», si è sentita dire la mamma di Rom. Non è questo ciò che ci dicevano di Eluana? C’era una differenza, però. Quella che intercorre tra chi vuole mettere fine a una vita ritenuta “non degna di essere vissuta” e chi sa che, malgrado le apparenze, quella vita è degna perché è di suo figlio, ovvero di un essere umano come noi. Eluana è uno di noi, diceva uno dei tanti titoli scritti a proposito della drammatica vicenda della donna morta a febbraio scorso.
Oltre a questa grandissima testimonianza di umanità, il caso di Rom Houben, il ragazzo belga la cui diagnosi di stato vegetativo persistente (SVP) è risultata errata, ci costringe a rivedere alcune delle certezze scientifiche ed anche etiche che il caso Englaro, e anche il caso di Terri Schiavo, sembravano dare come scontate. La prima di esse è la difficoltà della diagnosi dello SVP. Infatti il quotidiano Avvenire riportava alcune mesi fa che nel Convegno della Società Europea di Neurologia tenutosi a Milano era stato comunicato che le diagnosi errate “sfioravano il 40%”. A simili conclusioni arrivava anche uno studio dell’Università di Tubinga e un altro svolto da ricercatori belgi pubblicato recentemente in BMC Neurology. Nel caso Houben, peraltro, la scoperta della diagnosi sbagliata è stato rivelata dall’uso delle tecniche di risonanza magnetica funzionale (RMNf) che consentiva di “vedere” come le diverse aree del cervello di Rom comunicavano in modo quasi identico a quelle di un soggetto normale. In un convegno alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo “Regina Apostolorum” nel mese di settembre sono stati presentati da Andrea Soddu, membro del Coma Study Gruop di Liegi, incoraggianti risultati sull’uso della RMNf per la diagnosi differenziale degli stati di coscienza alterata. Infatti, dal punto di vista clinico è estremamente difficile distinguere lo SVP da altri stati quali soprattutto lo Stato di Coscienza Minima e la sindrome del “Locked-in” o del “Chiavistello”, che era appunto la situazione di Rom Houben scoperta grazie alla RMNf. Sembra quanto meno problematico prendere decisioni di vita o morte, come la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, in casi di così grande incertezza sulla vera situazione del paziente. E se Eluana potesse aver capito e sentito tutto? Può esistere una forma più crudele e raffinata di tortura? Non si vede come possa essere ragionevole il disporre o rigettare in anticipo determinate misure tramite un testamento biologico quando neanche si è certo della diagnosi.
Ma la stessa vicenda di Houben mette in crisi anche il nostro atteggiamento davanti a questi pazienti. Ci sembra che è molto difficile ritenere che l’alimentazione e l’idratazione possano costituire accanimento terapeutico in casi di questo genere. Infatti, come si sa, non esistono parametri scientificamente collaudati che possano parlale dell’irreversibilità dello SVP, anche a distanza di molto tempo. Cioè, davanti a questi pazienti non solo non abbiamo certezza della diagnosi ma ancor di più della prognosi. Come può essere ritenuto sproporzionato fornire loro ciò di cui ogni persona ha bisogno? Poi, non si tratta di staccare nessuna “spina”, semplicemente di frullare il cibo normale per renderlo abbastanza fluido per essere ingerito tramite una sonda. Infatti, come ci ricordava poco tempo fa il presidente dell’Associazione Risveglio, Francesco Napolitano: “Io stesso e mia moglie, per 3 anni e mezzo, abbiamo dato da mangiare e da bere a casa a nostro figlio cibi naturali (carne, pesce, verdure, frutta, ecc.), cioè esattamente i cibi che mangiamo noi, solo portandoli allo stato quasi liquido attraverso un normalissimo elettrodomestico, con grande semplicità quotidiana”. L’unica spina da staccare, in questo caso, è quella della frullatrice, una volta che ha fatto il suo compito. Può questa essere considerata una terapia medica? Come diceva Marina Corradi mercoledì 25 sull’Avvenire, occorre umiltà per non spacciare per certo ciò che non si conosce bene e tenacia per stare accanto a questi malati, attenti ai segnali più minimi di coscienza. In realtà, la storia di Rom è la storia di una donna, sua mamma, che non ha voluto ridurre e cambiare il suo amore materno per le certezze di una scienza fredda, disincarnata e sicura di sé, come alcuni, pochi fortunatamente, concepiscono la medicina odierna.
Come dice ora Rom: “Mi chiamo Rom. Non sono morto. E devo la vita alla mia famiglia”. La certezza di una madre che vale una vita. Non credo che nessuno abbia il diritto di contraddire questa verità che va ben al di là della scienza.
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* Padre Cristián Borgoño è docente stabile alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”. Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università Cattolica del Cile è stato coordinatore accademico del Corso estivo di Bioetica “Etica alla fine della vita. Tra morte degna e dignità del morente” presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”.
CARRON/ 1. Sapelli: solo il sacrificio vince l’individualismo - Giulio Sapelli lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Come si può affrontare la perdita di senso che caratterizza l’esserci nel mondo in questi tempi, senza sforzarsi ogni giorno, a partire dal lavoro, dalla professione, di ritrovare un cammino di verità che illumini la vita? Le parole di don Julián Carrón mi invitano a rendere manifesto questo progetto che è e diviene sempre più motivo di resistenza, e motivo di resilienza dinanzi al torcersi della vita umana associata nel, e contro, il nulla della reificazione. La crisi economica mondiale non ha avvicinato l’umano all’essenza dell’essere. Ne era di già troppo lontano, dimentico del logos che lo aveva fondato alla luce nei primordi.
La chiave di volta del mutamento è planetaria e risiede nell’avvento dispiegato della reificazione, non tanto del mercato quanto della sua assolutizzazione e della sua presenza totalitaria su tutto l’essere. È il paradigma filosofico neoclassico (irriflessivo e misconosciuto nella follia ideologica riduzionistica dagli stessi predicatori matematizzanti del nulla) a trionfare in ogni dove.
La razionalità, per i predicatori del nulla glorificati dal successo economico e mediatico di una società pornografico-mercantile, è e deve essere la sola caratteristica dell’umana vita ed essa, per costoro, se non si dispiega nel paradigma costo-beneficio, non val la pena né di essere vissuta, né di essere venduta. Sì, perchè anche la vendita della vita è assunta come valore positivo nella reificazione. Si pensi all’acquisto della vita a ore dei giovani e dei lavoratori in genere e al disastro che ciò determina: come si può procreare nell’amore se l’incertezza non solo è frutto del dominio, ma deve essere accettata dai dominati come condizione migliore in assoluto dell’esserci nel mondo? Se la natalità scende non solo si è dinanzi a un valore positivo, per i dominatori, nell’ignoranza delle tendenze di lungo periodo della crescita, ma s’instaura in tal modo su scala di massa un paradigma egoistico che dovrebbe regolare e divenire prototipo della vita buona nella reificazione. Vita buona perché efficiente, vita buona perché economicamente produttiva e generatrice di successo individualistico.
I disastri dell’individualismo metodologico son divenuti disastri morali e cataclismi esistenziali. Per questo bisogna avere il coraggio di affermare, senza “rispetto umano”, che la verità, oggi più di ieri, non può essere relativismo, ma solo obbligazione morale all’ente che è Dio e che per il cristiano è il sacrificio salvifico di Gesù. Il sacrificio che abbatte tutte le reificazioni, che pone con i piedi per terra tutte le superfetazioni economicistiche e le arrovescia, che fonda il paradigma del dono senza obbligazione a rendere, ma invece con la morale obbligazione a credere.
La sintesi paolina tra ebraismo ed ellenismo trova nell’ unità di fede e ragione il nuovo paradigma comunitario di una resistenza al dilagare del nichilismo. E questo perché il soggetto è irriducibile al mercato dispiegato e all’assenza di Dio. Il Dio nascosto il soggetto lo ricerca continuamente, spasmodicamente e senza tregua ed è questa ricerca che colpisce, che ci sottrae alla resa a cui troppo spesso vogliamo rassegnarci. La parola evangelica per cui occorre tutto lasciare per rispondere alla chiamata non rifulge solo per la scelta sacerdotale, ma anche per la chiamata associativa, comunitaria, che è esercizio di affermazione del sé nella libertà, riattualizzando la tradizione della fede.
Il dono è l’essenza del vivere associato; non lo è il paradigma economicistico. L’ economico che irrora l’umano ne realizza l’utopia ed è, invece, sempre sostenuto dal dono, dall’affermazione dell’umano in ogni sua manifestazione, nel trionfo dell’altruismo e dell’attenzione che fonda la reciprocità, e nell’affermazione del rispetto con cui si costruisce lo stare insieme. Sono le virtù penultime che danno agli ultimi la dignità, oggi sempre conculcata laddove la verità non fonda la carità. Sono le virtù penultime per gli ultimi e per tutti noi, che ci donano la speranza di cui sempre abbiamo bisogno.
SINDONE/ Barbara Frale (Archivio Vaticano): una nuova prova dell’autenticità - INT. Barbara Frale lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Sulla Sindone, è certo, non si finirà mai di discutere. Dopo la pesante affermazione di qualche settimana fa da parte del CICAP e dell’UAAR relativa alla presunta scoperta del metodo per realizzare lenzuola in tutto e per tutto simili al lino sacro, puntualmente smentite da più esperti su queste pagine, oltre che su altri giornali, ecco adesso una prova a favore dell’autenticità della reliquia più famosa al mondo. Si tratta questa volta della decifrazione di alcune scritte presenti sul tessuto del sudario. Una grafia che, a detta degli esperti, risale inconfutabilmente al I secolo, ossia in quel periodo di tempo che va dallo 0 d.C al 100 d.C. A decifrare l’arcano, la dottoressa Barbara Frale, già nota per alcune pubblicazioni di rilievo sui templari, che abbiamo intervistato
Dottoressa Frale, dai Templari alla Sindone, qual è stata la causa di questo “salto”?
Per quanto riguarda la mia formazione nessuna, nel senso che io sono un’archeologa specializzata nelle ricerche sul mondo antico e medievale. Ho passato diversi anni a studiare i documenti risalenti al Medioevo e le mie pubblicazioni più famose sono quelle relative ai templari. Ma questo non significa che in realtà mi sia messa a studiare da poco il mondo antico, anzi. Sono anni che mi occupo di archeologia grecoromana. Diciamo che noi storici siamo piuttosto noti per gli argomenti che piacciono al pubblico. Per fare un esempio: sono anni che i miei studi si concentrano su documenti relativi ai papi del Medioevo. Non abbiamo idea della miniera di risvolti interessantissimi che toccano la storia della Chiesa. Ho provato più volte a proporre alcune indagini all’attenzione di diversi editori. La risposta è sempre stata: «non ha qualcosa sui templari?». Piuttosto avvilente, ma è quello che piace al pubblico, è una “moda”. Quindi mi sono rassegnata a pubblicare solo le mie ricerche sui templari.
Adesso però è arrivata alla Sacra Sindone, in un certo senso di “moda” anche questa
In realtà tutto il materiale, sia i templari sia la Sindone, fa parte di una ricerca che ho svolto per il dottorato in storia all’Università di Venezia. Sono già dieci anni che contemplo entrambi gli argomenti. In effetti occorre lungo tempo per realizzare studi di confronto fra i diversi papiri con i quali ho a che fare.
Anni spesi bene a quanto pare. Lei è infatti giunta a una scoperta eccezionale, ce ne vuole parlare?
Bisogna essere precisi. Io non ho “scoperto” niente nel senso stretto della parola. Capisco che si possa fare confusione su questioni come la Sindone perché si sono ammassati in molti anni argomenti su argomenti. Ma qui occorre risalire a trent’anni fa. Era infatti il 1978 quando il professor Aldo Marastoni, insigne latinista dell’Università Cattolica di Milano, scoprì sul lenzuolo, a occhio nudo, tracce di scrittura in latino reputando che fossero risalenti al primo secolo. Un occhio esperto di scritture antiche come quello di Marastoni non ci mise molto a tirare le somme. Il tutto passò però quasi totalmente sotto silenzio. Poi la questione venne riaffrontata nel 1994 dal punto di vista tecnologico. Un’equipe di studiosi francesi, capeggiata dal professor André Marion del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) ha messo in “chiaro” tutte le scritte presenti.
Io arrivo “tardi”, in realtà il mio lavoro è stato quello di spiegare che cosa significassero le parole contenute in questi segni.
Nel senso che fino al suo arrivo nessuno se ne è mai occupato?
Il fatto è che le avevano scoperte, ma non spiegate. Ovvio che gente del calibro di Marastoni avesse inteso il significato letterale, ma non quello “circostanziale”. Per capire che cosa significhino quei segni bisogna fare migliaia e migliaia di confronti con le epigrafi. Marastoni abbandonò il lavoro. Probabilmente si era un po’ scoraggiato a seguito degli esiti del famoso esame del Carbonio 14. Anche se aveva visto bene: le scritture risalgono a tutti gli effetti al primo secolo.
E gli esperti francesi?
Si sono resi conto che finché si trattava di visualizzare con l’aiuto informatico le scritte tutto andava bene però ci voleva un esperto di scritture antiche. Loro sono matematici e fisici. Le fecero esaminare ad alcuni esperti della Sorbona che individuarono il periodo storico delle scritte fra il primo e il terzo secolo dopo Cristo. La loro analisi si fermò però soltanto alla collocazione storica Credo che il motivo fosse lo stesso di Marastoni. Siccome occorre una lunghissima e molto faticosa ricerca per questo tipo di indagini perché doversi impelagare su un documento che all’epoca era considerato, con un assurdo pregiudizio, di dubbia autenticità?
Poi è arrivata lei, ci dica in che cosa dunque consistono queste scritte?
In un certificato di sepoltura. Quello che noi possiamo vedere ha tutte le caratteristiche di un certificato di sepoltura. Anche se può sembrare strano che ai tempi dell’impero romano si facessero certificati di sepoltura. E invece è tutto il contrario, ci sono numerosissime testimonianze di questi certificati in antichità. E non solo dei Romani. Anche per quel che riguarda l’Antico Egitto, per esempio, disponiamo di una notevole mole di simili documenti. I sacerdoti curavano la mummificazione e stilavano il certificato di morte. Praticamente svolgevano l’esercizio delle odierne pompe funebri.
Questa scritta insomma rafforzerebbe l’idea che la Sindone appartenga al primo secolo?
Molto più che “rafforzarla”. Si può dire con certezza scientifica che l’autore di queste scritte, che ha lasciato queste tracce, è senz’altro un uomo vissuto nel primo secolo dopo Cristo. Il che rende molto difficile che l’intero oggetto archeologico in esame sia più tardo.
Quindi nessun fantomatico realizzatore? Leonardo da Vinci? Un anonimo medievale?
Queste scritte recano con sé dei dettagli che sarebbe impossibile dedurre perfino dagli stessi Vangeli. Sono documenti del tutto “inediti”. Noi oggi siamo in grado di riconoscerli perché a partire dai primi anni del ’900 un mare di papiri scoperti ci ha aiutato a capire come andavano le pratiche di sepoltura nell’epoca presa in considerazione. Nemmeno un genio come Leonardo avrebbe potuto inventarsi una simile falsificazione. Faccio un esempio: nel Rinascimento non si aveva idea di quanto tempo il cadavere di un condannato a morte dovesse restare lontano dalle altre tombe. E via dicendo. Un falsificatore avrebbe usato parole di tutt’altro avviso. Mentre queste scritte sono paragonabili a nuovissime ricerche su questo terreno. Da dove diamine poteva trarre ispirazione il fantomatico anonimo medievale o Leonardo per inventarsele?
Come giudica, le chiediamo un parere da scienziata e archeologa, il fatto che le pubblicazioni “piccanti” sulla Sacra Sindone siano in così grande abbondanza?
Io credo che sia una pura speculazione commerciale volta a far parlare di sé. Oppure per sponsorizzare le proprie posizioni. Prendiamo il ridicolo esperimento del CICAP. In primo luogo la ricerca era pagata dall’UAAR il che non sorprende visti i risultati. Poi la modalità con la quale si è preteso di ricavare una copia della Sindone è davvero risibile. Per intenderci la può fare chiunque abbia un lino e della tempera. Le cose però, analizzando la colorazione autentica del lino, sono un po’ più complesse. Non ci riescono i fisici nucleari figuriamoci gli “esperti” del CICAP. Credo francamente che per loro sia stato un autogol perché se è questa la serietà scientifica con la quale affrontano le questioni misteriose di questo mondo stiamo freschi.
Le sue ricerche sulla Sindone proseguiranno o il mistero del lenzuolo è stato svelato del tutto?
Sicuramente proseguiranno. Non ho pubblicato tutto quello su cui ho raccolto materiale perché mi piace avere moltissimi documenti e prove a disposizione prima di uscire con pubblicazioni scientifiche. C’è ancora tanto da fare e da studiare sulla Sindone e sulla storia in generale. Mi piace considerare il mio studio solo come il passaggio di un testimone in una grande staffetta. Se non fosse stato per gli studiosi che mi hanno preceduto io non avrei scoperto proprio un bel niente. Quindi spero che la mole di materiale da me raccolto possa servire anche per i ricercatori in futuro. Quando si sente dire che qualcuno ha scoperto qualcosa da “solo” il mio personale consiglio è quello di diffidare. Certo può capitare, come è successo per la penicillina, ma si tratta di momenti di “grazia” rarissimi e isolati nella storia della ricerca scientifica. Per lo più tutti noi dipendiamo da chi ci ha preceduto nel tempo.
(Raffaele Castagna)
La vera bellezza non ha padroni - Pigi Colognesi lunedì 30 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Non so se il mio amico pittore Bill Congdon - sia quando era all’apice della notorietà a New York, sia quando viveva gli ultimi fecondissimi anni della sua parabola artistica ritirato nella bassa milanese - sarebbe andato all’incontro degli artisti col Papa nella cappella Sistina. Era molto schivo. Il discorso di Benedetto XVI però sono sicuro che lo avrebbe letto con devota attenzione. Immagino di entrare nel suo studio proprio nel momento in cui ha finito di meditarlo. Mi legge questo passaggio: «Una funzione essenziale della vera bellezza consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, spingendolo verso l’alto».
Proprio mentre sto per chiedergli come mai questa frase lo abbia così colpito, Bill mi anticipa e dice: «Questa immagine della freccia che ferisce è proprio giusta. Troppi oggi, sia tra coloro che si credono artisti sia tra quelli che l’arte la guardano, l’ascoltano, la leggono, pensano che la bellezza sia una cosetta semplice semplice, un giochino scaltro, una consolazione a buon mercato. Io, invece, l’ho sempre vissuta come uno squassamento». Squassamento? «Ma sì, la bellezza è una cosa che non ti lascia in pace, è come uno strattone che ti tira fuori dalla banalità in cui ti rifugi per non pensare. È un taglio che rivela l’immensità del tuo desiderio. È la ferita di domande grandiose: Cosa sono, veramente, le cose? E dove vanno a finire? Nel nulla? Oppure ogni piccolo aspetto di ciò che esiste è una finestra che spalanca su un oltre? È una vita che tengo aperta questa ferita. Ogni quadro è accettare la sfida di andare oltre l’apparenza per cogliere la verità di quel che c’è».
Ma perché chiami questo “squassamento”? «Perché io non sono il padrone della realtà. Nessun uomo è il padrone della realtà. Semplicemente la riceviamo in dono. Quando ce ne dimentichiamo, accade quello che ha detto il Papa: la bellezza diventa “ipocrita”, pura maschera di una “volontà di potere”. Per non strozzare tutto dobbiamo tirare indietro le mani. E questo ti squassa».
L’immagine della bellezza che ferisce - e ferisce chiunque, non solo l’artista come Congdon - è costante nel pensiero di Ratzinger. Nel suo messaggio per il Meeting di Rimini del 2002 aveva scritto: «La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo». E, celebrandone i funerali, ha descritto don Giussani come «toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza». Sempre quel verbo: ferire. Sembra un accento negativo, ma è l’unica possibilità per evitare di ridurre la bellezza ad estetismo, che fugge dal tanto brutto che c’è nella vita. Infatti, scriveva ancora Ratzinger al Meeting, «un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente»; ciò di cui abbiamo bisogno è la paradossale bellezza di Chi, nello stesso tempo, ha un volto «sfigurato dal dolore» ed è «il più bello tra i figli dell’uomo».