martedì 3 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: “quanto è bella e consolante la comunione dei santi!” - Discorso all'Angelus nella Solennità di Tutti i Santi
2) Ovociti e spermatozoi da cellule staminali - di Chiara Mantovani* - ROMA, lunedì, 2 novembre 2009 (ZENIT.org).- Sempre più spesso siamo investiti da notizie clamorose sulle ultime scoperte scientifiche, il più delle volte capaci di suscitare speranze per la cura di malattie. L’ultima, di pochi giorni orsono, sembra offrire una nuova possibilità di ottenere ovociti e spermatozoi partendo da cellule staminali.
3) La teologia che piace al papa teologo - È quella dei monasteri e delle cattedrali dei secoli d'oro del Medioevo. Benedetto XVI ne ha svelato le meraviglie ai pellegrini accorsi all'udienza generale. Ma così ha voluto dare una lezione anche ai teologi d'oggi - di Sandro Magister
4) Guardare il mondo dal capezzale di Caterina - 30 ottobre 2009 - Antonio Socci
5) POESIA/ Alda Merini, l’amore umano non basta - Maddalena Bertolini Fanton martedì 3 novembre 2009 – ilsussidiario.net
6) Alda Merini da “La volpe e il sipario” - Il crocefisso e la battaglia della mamma finlandese – LaStampa, 3 novembre 2009


Benedetto XVI: “quanto è bella e consolante la comunione dei santi!” - Discorso all'Angelus nella Solennità di Tutti i Santi
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 2 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica, Solennità di Tutti i Santi, da Benedetto XVI prima della preghiera l’Angelus recitata con i fedeli e i pellegrini convenuti in piazza San Pietro.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

L’odierna domenica coincide con la solennità di Tutti i Santi, che invita la Chiesa pellegrina sulla terra a pregustare la festa senza fine della Comunità celeste, e a ravvivare la speranza nella vita eterna. Ricorrono quest’anno 14 secoli da quando il Pantheon – uno dei più antichi e celebri monumenti romani – fu destinato al culto cristiano e intitolato alla Vergine Maria e a tutti i Martiri: "Sancta Maria ad Martyres". Il tempio di tutte le divinità pagane veniva così convertito alla memoria di coloro che, come dice il Libro dell’Apocalisse, "vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello" (Ap 7,14). Successivamente, la celebrazione di tutti i martiri è stata estesa a tutti i santi, "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua" (Ap 7,9) – come si esprime ancora san Giovanni. In questo Anno Sacerdotale, mi piace ricordare con speciale venerazione i santi sacerdoti, sia quelli che la Chiesa ha canonizzato, proponendoli come esempio di virtù spirituali e pastorali; sia quelli – ben più numerosi – che sono noti al Signore. Ognuno di noi conserva la grata memoria di qualcuno di essi, che ci ha aiutato a crescere nella fede e ci ha fatto sentire la bontà e la vicinanza di Dio.

Domani, poi, ci attende l’annuale Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Vorrei invitare a vivere questa ricorrenza secondo l’autentico spirito cristiano, cioè nella luce che proviene dal Mistero pasquale. Cristo è morto e risorto e ci ha aperto il passaggio alla casa del Padre, il Regno della vita e della pace. Chi segue Gesù in questa vita è accolto dove Lui ci ha preceduto. Mentre dunque facciamo visita ai cimiteri, ricordiamoci che lì, nelle tombe, riposano solo le spoglie mortali dei nostri cari in attesa della risurrezione finale. Le loro anime – come dice la Scrittura – già "sono nelle mani di Dio" (Sap 3,1). Pertanto, il modo più proprio ed efficace di onorarli è pregare per loro, offrendo atti di fede, di speranza e di carità. In unione al Sacrificio eucaristico, possiamo intercedere per la loro salvezza eterna, e sperimentare la più profonda comunione, in attesa di ritrovarci insieme, a godere per sempre dell’Amore che ci ha creati e redenti.

Cari amici, quanto è bella e consolante la comunione dei santi! E’ una realtà che infonde una dimensione diversa a tutta la nostra vita. Non siamo mai soli! Facciamo parte di una "compagnia" spirituale in cui regna una profonda solidarietà: il bene di ciascuno va a vantaggio di tutti e, viceversa, la felicità comune si irradia sui singoli. E’ un mistero che, in qualche misura, possiamo già sperimentare in questo mondo, nella famiglia, nell’amicizia, specialmente nella comunità spirituale della Chiesa. Ci aiuti Maria Santissima a camminare spediti sulla via della santità, e si mostri Madre di misericordia per le anime dei defunti.





[DOPO L’ANGELUS]

Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando alti rappresentanti della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa cattolica, il 31 ottobre 1999, ad Augsburg, firmarono la Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione. Ad essa aderì poi, nel 2006, anche il Consiglio Metodista Mondiale. Quel documento attestò un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali della dottrina della giustificazione, verità che ci conducono al cuore stesso del Vangelo e a questioni essenziali della nostra vita. Da Dio siamo accolti e redenti; la nostra esistenza si iscrive nell’orizzonte della grazia, è guidata da un Dio misericordioso, che perdona il nostro peccato e ci chiama ad una nuova vita nella sequela del suo Figlio; viviamo della grazia di Dio e siamo chiamati a rispondere al suo dono; tutto questo ci libera dalla paura e ci infonde speranza e coraggio in un mondo pieno di incertezza, inquietudine, sofferenza. Nel giorno della firma della Dichiarazione Congiunta, il Servo di Dio Giovanni Paolo II la definì "una pietra miliare sulla non facile strada della ricomposizione della piena unità tra i cristiani" (Angelus, 31 ottobre 1999). Questo anniversario è dunque un’occasione per ricordare la verità sulla giustificazione dell’uomo, testimoniata insieme, per riunirci in celebrazioni ecumeniche e per approfondire ulteriormente tale tematica e le altre che sono oggetto del dialogo ecumenico. Spero di cuore che questa importante ricorrenza contribuisca a far progredire il cammino verso l’unità piena e visibile di tutti i discepoli di Cristo.





[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai partecipanti alla "Corsa dei Santi", iniziativa che unisce lo sport e l’impegno umanitario. Saluto inoltre i ragazzi di Modena che hanno ricevuto la Cresima, con i genitori e i catechisti, come pure la Fondazione Ente Cassa di Faetano, della Repubblica di San Marino. Il mio pensiero va anche ai fedeli radunati a Paderno Dugnano, presso Milano, per la conclusione della peregrinatio della statua della Madonna di Fatima, nel 50° della consacrazione dell’Italia al Cuore Immacolato di Maria. A tutti auguro una buona domenica, nella gioia di far parte della grande famiglia dei Santi.

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Ovociti e spermatozoi da cellule staminali - di Chiara Mantovani* - ROMA, lunedì, 2 novembre 2009 (ZENIT.org).- Sempre più spesso siamo investiti da notizie clamorose sulle ultime scoperte scientifiche, il più delle volte capaci di suscitare speranze per la cura di malattie. L’ultima, di pochi giorni orsono, sembra offrire una nuova possibilità di ottenere ovociti e spermatozoi partendo da cellule staminali.

Cerco di capire, dai lanci di agenzia e dalle notizie giornalistiche, i fatti e di distinguerli dalle aspettative. Con molta prudenza, perché il linguaggio giornalistico ha caratteristiche diverse dal linguaggio scientifico e non è facile trarre indicazioni utili ad esprimere giudizi attendibili a partire dalle notizie pubblicate.

Dunque la rivista scientifica Nature ha annunciato che una équipe della Stanford University School of Medicine, diretta da Renee Reijo Pera, ha trattato cellule staminali embrionali con proteine note per stimolare la formazione germinale. Ovvero ha “convinto” alcune di quelle cellule a specializzarsi in ovociti (cellule uovo) e/o spermatozoi.

Solo un 5% delle cellule così trattate si sono trasformate in cellule germinali e per loro è stato possibile studiare come e tramite quali geni, e – immagino - altri fattori, questo sia accaduto. La ricerca avrebbe contribuito a chiarire il meccanismo di differenziazione delle cellule riproduttive nell'uomo, finora studiato solo nei topi.

Primo commento: tutti i lanci di agenzia sono concordi nel dichiarare che la sperimentazione è stata fatta con cellule staminali embrionali. E così si apre il primo e più rilevante problema. Se sono state usate cellule embrionali, un embrione è stato “smontato” e le sue cellule usate. Non mi sembra irrilevante ricordare che di un embrione allo stadio di blastocisti, quello in cui si prelevano le staminali, non si vedono altro che cellule. Non posso cioè dire “gli ho prelevato un po’ di cellule”. Tutto quello che lui è si manifesta attraverso cellule, tutta la sua corporeità è fatta da un mucchietto di cellule per noi assolutamente indistinguibili. Ognuna ha un suo preciso destino e progettualità, ma noi non siamo in grado di riconoscerlo. E questo non significa che non ci sia (anzi, siamo assolutamente certi che c’è, poiché se lo lasciamo in pace risulterà evidente anche solo con un’occhiata che è un bambino), ma solo che noi “pesiamo gli atomi con la stadera”, ovvero non abbiamo capacità di indagine sufficientemente accurata.

La prima valutazione è dunque di ordine etico? A dire il vero, no. Accantono temporaneamente il giudizio etico sulle tecniche di fecondazione artificiale, negativo poiché non condivido la loro intrinseca prospettiva meccanicistica e l’antropologia che le giustifica.

Lascio il campo ad alcuni dubbi soprattutto di natura metodologica, scientifica. Perché usare staminali embrionali, quando altri studi, seri e certi, hanno già mostrato la potenzialità di molte cellule somatiche ad essere “riprogrammate” ad uno stadio più indifferenziato? Non si poteva partire da lì a tentare di ottenere spermatozoi e ovociti? I commenti italiani alla ricerca pubblicata enfatizzano che sia un passo decisivo contro la sterilità. Ma che se ne fa un soggetto sterile di un embrione da cui ricavare gameti? Se vuole ovociti e spermatozoi suoi (e dunque figli biologicamente suoi, in seguito) deve utilizzare cellule proprie: l’alternativa più logica resta quella della fecondazione eterologa. Un embrione riprogrammato non può essere “suo”, perché se fosse stato possibile ottenerne almeno uno sarebbe meglio impiantare quello! E se la ricerca aveva come unico scopo quello di studiare i meccanismi che intervengono nella maturazione delle cellule germinali, perché mai distruggere embrioni umani? Forse perché quelli degli animali (le grandi scimmie antropomorfe, ad esempio, in Spagna) hanno visto riconoscersi ultimamente alcuni diritti umani – tra cui quello alla vita – che però non si riconoscono a tutti gli umani?

Continuano i dubbi: che si voglia provare ad avere un qualche primo microscopico “successo” con queste tanto elogiate, ma finora inutili e pericolose, cellule staminali embrionali? Visto che finora non c’è al mondo un protocollo serio e valido di uso delle embrionali; visto che la scorsa settimana Hwang Woo-suk, il biologo sudcoreano che ha preso in giro mezzo mondo (non solo scientifico) con la falsa clonazione umana, è stato definitivamente condannato per truffa; visto che la bufala coreana fu pubblicata anche dalla stessa rivista Nature (cfr. http://www.nature.com/news/2004/040212/full/news040209-12.html), vuoi vedere che si è sparsa un’ansia di novità e una smania di riscatto?

Poi mi assale un altro pensierino, molto poco bioetico. La Standfort University è tra le maggiori università private degli Stati Uniti; si trova vicino a Palo Alto, California, nel cuore della Silicon Valley. La California è stata la maggiore finanziatrice della campagna elettorale del presidente Obama, che come primo atto (o quasi) ha sbloccato i finanziamenti federali, cioè statali, alla ricerca sulle staminali embrionali. Magari, con l’aria di crisi che c’è e anche a causa degli insuccessi fin qui ottenuti, anche i privati hanno rallentato il flusso di dollari ai ricercatori della seconda università al mondo, voluta da Jane e Leland Stanford per ricordare il loro figliolo, morto di tifo a Firenze. Magari, bisogna mostrare che con i nuovi soldi arrivati non si è stati con le mani in mano.

A parte gli entusiasmi di copione, a che cosa è servita questa individuazione di alcuni dei geni implicati nella specializzazione di staminali embrionali in ovociti e spermatozoi? Dice il prof. Flamigni: nel futuro si potrà far produrre gameti alle cellule del corpo della persona infeconda. Oso sussurrare: allora perché abbiamo cominciato dalle staminali embrionali?

Ma lo studio è importante anche per capire come si fa a convincere una cellula non a raddoppiare i propri cromosomi e poi dividersi in due cellule (come fanno normalmente tutte tranne, appunto, le staminali che restano tali e i gameti), bensì a dimezzare i propri geni e diventare così quella metà di materiale genetico che serve per unirsi all’altro gamete e ricominciare la vita! Verissimo. Laicisticamente parlando, quanti embrioni siamo disposti a dichiarare sacrificabili per questa travolgente possibilità di manipolare la procreazione? La domanda non è accademica e ripropone il dilemma dell’utilizzo delle conoscenze e delle possibilità tecniche. Quanti abitanti di Tuskegee, Alabama, sono serviti per imparare tutto del decorso della sifilide non curata? Anche agli afroamericani è occorso parecchio tempo per vedersi riconosciuto lo status di persone umane. Non sarei felice se tra qualche decennio un Presidente dovesse chiedere scusa agli embrioni umani per come sono stati utilizzati in laboratorio. Clinton ha chiesto scusa per Tuskegee nel 1997, ma aveva davanti a sé, durante il suo discorso, pochi sopravvissuti dei protagonisti: gli altri non lo potevano ascoltare, erano morti da anni.

Allora è ritornato impellente l’argomento etico. E di nuovo mi accorgo che la sfida è antropologica.

Chi è l’embrione?

Sono passati molti anni di dibattiti bioetici, ma da qui non ci siamo ancora mossi: tutto dipende da chi pensiamo di essere, da piccoli e da grandi. Comunque ha quasi ragione il prof. Flamigni: “La Chiesa condanna certamente questa tecnica in quanto usa cellule embrionali. Ma condannerà anche l’uso di cellule mature, ma per un’altra ragione, perché si offende la dignità della procreazione, ossia nella mancata coincidenza tra vita sessuale e riproduzione”. Le argomentazioni sono appropriate, il “quasi” sta nel senso che non è la Chiesa a condannare. Basta il senso dell’umano e il senso di una ricerca scientifica che ha coscienza dei limiti della propria competenza.



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*La dott.ssa Chiara Mantovani è vicepresidente dell’AMCI (Associazione Medici cattolici Italiani) e membro del Consiglio Direttivo di Scienza & Vita.


La teologia che piace al papa teologo - È quella dei monasteri e delle cattedrali dei secoli d'oro del Medioevo. Benedetto XVI ne ha svelato le meraviglie ai pellegrini accorsi all'udienza generale. Ma così ha voluto dare una lezione anche ai teologi d'oggi - di Sandro Magister
ROMA, 2 novembre 2009 – Nell'udienza generale dello scorso mercoledì, Benedetto XVI ha fatto uno strappo. Non ha tratteggiato la figura di un Padre della Chiesa o di un grande autore cristiano medievale, come fa da molto tempo in modo sistematico. L'altro mercoledì, ad esempio, aveva parlato di san Bernardo di Chiaravalle, e il mercoledì precedente di Pietro il Venerabile, grande abate di Cluny.

No. Questa volta papa Joseph Ratzinger ha trasformato la sua catechesi in una lezione di storia della teologia. L'ha tutta dedicata a descrivere la teologia latina del secolo XII, quella che fioriva nelle abbazie e nelle cattedrali, quella che avrà il suo frutto maturo nel secolo successivo con i capolavori di san Tommaso d'Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio.

Come è prassi, la traccia scritta delle catechesi papali del mercoledì è preparata da esperti di fiducia, competenti nel ramo. Benedetto XVI vede in anticipo il testo, lo chiosa, lo taglia, lo integra. Insomma, lo fa suo. E quando infine lo legge ai fedeli, spesso ancora se ne discosta, improvvisando. Due inverni fa www.chiesa ha riprodotto le cinque catechesi dedicate dal papa a sant'Agostino sottolineandone i numerosi passaggi nei quali egli s'era staccato dal testo scritto.

Per questo periodo l'esperto principale è Inos Biffi, studioso della teologia medievale di rara profondità e di nitida scrittura, come si può constatare dall'imponente sua bibliografia che l'editrice Jaca Book sta pubblicando integralmente in splendidi volumi. Con lui, capita più di raro che Benedetto XVI si discosti dal testo scritto, quando predica ai fedeli. L'impressione è che vi sia una forte consonanza tra il papa e il suo attuale "ghostwriter", sia nel pensiero che nel modo di esporre.

Nella catechesi di mercoledì scorso sulla fioritura teologica del XII secolo, c'è stata una citazione particolarmente rivelatrice.

È la citazione di un saggio dello studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq, dedicato alla teologia medievale monastica e così intitolato: "L’amour des lettres et le désir de Dieu [L'amore delle parole e il desiderio di Dio]".

Questo libro è carissimo a Ratzinger teologo. Da papa l'aveva già citato in una precedente occasione, in uno dei discorsi più importanti del suo pontificato, quello pronunciato il 12 settembre 2008 a Parigi al Collège des Bernardins, rivolgendosi al mondo della cultura.

La grandezza della teologia monastica medievale, nell'interpretazione che ne danno Leclercq, Biffi e Ratzinger, è nel suo legare la ricerca di Dio alle scienze della parola, della lingua, delle lettere. Ricerca di Dio e cultura della parola fanno tutt'uno, non solo nella teologia ma anche nell'elevazione spirituale. E fondano la civiltà europea.

Ma accanto alla teologia monastica, nel XII secolo è fiorita anche la teologia scolastica, quella delle scuole delle cattedrali. Con un'impronta potentemente razionale, di dialogo fruttuoso tra "fides et ratio", tra fede e ragione.

Con questa lezione sulla grande teologia medievale, è come se Benedetto XVI abbia voluto tracciare una linea maestra per la teologia d'oggi. Da papa teologo qual è.


Guardare il mondo dal capezzale di Caterina - 30 ottobre 2009 - Antonio Socci
Due considerazioni. La prima è sul Vangelo di ieri. Un bravo sacerdote nota (lo riprendo da una mail):

“L’immagine che Gesù dà di sé, paragonandosi a una chioccia, è la più umile e la più bella di tutte. Richiama le parole di Dio del Salmo 91,4: ‘Ti coprirà con le sue penne, sotto le Sue ali troverai rifugio’. Esprime la forza della sua tenerezza: l’aquila potente che salva (Dt 32,11) qui si fa chioccia. L’amore materno di Dio è tanto forte da renderlo debole, tanto sapiente da renderlo stolto, fino a dare la vita per noi”.

Ma noi sappiamo che la “debolezza” di Dio sono i suoi figli, come lo sono per una madre e un padre. E le loro lacrime e le loro implorazioni Gli sciolgono letteralmente il Cuore…

Questo spiega – ed è la seconda considerazione – quanto sono vere le parole del Servo di Dio padre Dolindo Ruotolo:

“La preghiera è l’unica forza dell’uomo ed è l’unica debolezza di Dio. L’Onnipotente è vinto dalla preghiera, dona a chi prega, conforta chi prega”.

E dice ancora:

“l’insistenza della preghiera orienta l’anima a Dio, accresce il senso dell’umiltà, accende l’amore. Se non ti vedi esaudito non cedere alla tentazione di lasciare la preghiera: insisti con profonda umiltà, con vera fede, con forte amore”, “Tu non sei smarrito nella vita perché preghi”.

Vi assicuro che Caterina sta letteralmente vivendo per le vostre preghiere…

E’ strano – dovendo continuare a scrivere, a lavorare - guardare gli eventi del mondo con il pensiero di Caterina…. L’altroieri “Libero” mi ha chiesto una riflessione – a margine del dramma del presidente della Regione Lazio – sul suo desiderio di ritirarsi per un periodo in convento. Ecco qua il mio articolo…



Il solo rifugio, fra le Sue braccia



Con qualche perfidia ieri La Repubblica ha titolato “la giornata da incubo di Piero Marrazzo” con queste parole: “vorrei scappare”. La moglie: “Serve un taglio netto”. Poi, anche su questo giornale, c’è la notizia del giorno: “La corsa all’eremo”.

Tutti i quotidiani hanno strologato su questa “fuga” dell’ex governatore del Lazio all’abbazia benedettina di Montecassino (e sulla ricerca, nel Pd, di un candidato alternativo per la Regione che, guarda caso, vanno a cercare fra le file cattoliche). Nessuno si sorprende che nello smarrimento e nell’angoscia si cerchi rifugio in un monastero.

Nessuno però sembra riflettere su quello che significa la Chiesa per tutti noi, anche per chi si professa laico e magari tuona contro i preti. I giornali sembrano aver paura di guardare in faccia la bellezza e la misericordia della Chiesa.

Temono forse di restarne incantati, affascinati. Questo spiega il loro immotivato anticlericalismo. Sparano a zero sulla Chiesa perché non riescono ad esserne indifferenti, mentre magari tentano di tirarla dalla propria parte. La odiano spesso perché sanno che – se si lasciassero andare – rischierebbero di amarla.

La Repubblica, sempre ieri, infatti, lanciava in prima pagina un logorroico sfogo antipapale di Hans Kung, il quale confonde papa Leone XIII con Leone XII (c’è mezzo secolo di distanza fra i due) e se la prende con papa Benedetto XVI perché perdona e accoglie nella Chiesa come il padre misericordioso del “figliol prodigo”.

Attaccano la Chiesa, ma poi tutti sanno che è il solo luogo del mondo dove loro stessi sempre saranno attesi a braccia aperte, anche nell’ultimo istante della vita, da qualunque parte vengano, chiunque siano, qualunque cosa abbiano fatto (pur continuando sempre – la Chiesa – a chiamare Bene il Bene e Male il Male, pur non rinunciando mai alla verità).

La Chiesa spalanca le sue braccia perfino ai suoi persecutori (si pensi a Napoleone). E’ davvero, letteralmente, una cosa dell’altro mondo in questo mondo. Perché agisce come Gesù ed è la presenza nella storia di Gesù stesso.

Infatti ogni uomo che sia provato dal dolore o dal bisogno, anche se cresciuto lontano dalla tradizione cristiana – penso a quegli immigrati di altre religioni che arrivano in Italia in condizioni penose – sa che qui c’è sempre un luogo dove tutti possono ricevere una minestra calda e un abbraccio fraterno, senza nulla chiedere, senza nessuna condizione: è la Chiesa.

Tutti sanno che questo è il luogo della misericordia. Perché tutte le desolazioni del mondo, tutte le afflizioni e le solitudini, tutte le miserie del mondo e tutti i miseri (specialmente i peccatori che sono i più poveri), trovano riparo sotto i rami di questa grande quercia, dentro l’abbraccio di questa tenera madre.

Compresa – come vediamo oggi – la disperazione di un uomo politico che per suoi “errori personali” (come dice lui), errori e debolezze che appartengono a tanti, che purtroppo si respirano nell’aria, si trova in una condizione di “troppa sofferenza” e desidera sparire e così trova rifugio nel silenzio di un chiostro benedettino.

Sì. C’è un luogo del mondo dove sarai sempre accolto. Come scrive il grande Péguy, parlando di Notre Dame di Chartres, quindi parlando della Madonna, figura perfetta della Chiesa:

“il solo asilo nel cavo della vostra mano/

E il giardino dove l’anima si schiude”.

Quando – dentro la tormenta della vita – si prende la via della Chiesa e si entra nella sua pace e si accetta il suo perdono, ci si sente lavati, purificati e perfino rifatti: si rinasce nuove creature. E’ il solo luogo del mondo dove si è amati così come si è. E dove si è perdonati di tutto. E difesi sempre.

Noi cristiani siamo tutti dei perdonati. Come Jean Valjean, il galeotto protagonista dei “Miserabili”, viene difeso dal vescovo di Digne, monsignor Myrel, per il furto commesso ai suoi stessi danni.

La Chiesa, come la Madonna, difende sempre i peccatori (non il peccato, ma i peccatori) e così li purifica e dona loro il tesoro più grande: il perdono di Dio, la carezza del Nazareno.

Péguy scrive ancora:

“Noi ci siamo lavati da una così grande amarezza,/

Stella del mare e degli scogli,/

Noi ci siamo lavati da una così bassa schiuma,/

Stella della barca e delle reti./

Abbiamo lavato le nostre teste infelici/

da un tal mucchio di sporcizia e di ragionamenti…/

Ce ne han dette tante, o regina degli apostoli,/

Abbiamo perso il gusto per i discorsi./

Non abbiamo più altari se non i vostri,/

Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice”.

Quando un uomo arriva ad aver nausea dei discorsi del mondo e a non sapere “nient’altro che una preghiera semplice”, in ginocchio davanti alla “fanciulla di Nazaret”, significa che è già in salvo.

Antonio Socci - Da “Libero”, 29 ottobre 2009


POESIA/ Alda Merini, l’amore umano non basta - Maddalena Bertolini Fanton martedì 3 novembre 2009 – ilsussidiario.net


È morta il primo autunno novembrino, si potrebbe dire, parafrasando il suo noto endecasillabo: «sono nata il ventuno a primavera» Alda Merini la poetessa con cui ogni italiano di questo tempo dovrebbe fare i conti. Grande donna, grande madre, quattro figli partoriti attraverso i suoi numerosi ricoveri in diversi ospedali psichiatrici; vedova, risposata, sempre innamorata, sempre amante e non altrettanto materna. Feconda e prolissa, le sue poesie le dettava a chi le stava vicino, come fiabe o ninne-nanne per i figli a cui aveva fatto conoscere il sapore dell’abbandono e della lontananza, lo stesso sapore che lei aveva conosciuto così bene e sempre ricordato nei suoi testi, che le dava la spinta per un’infinita ricerca religiosa e umana.

Di lei si annoverano moltissime pubblicazioni, la sua prima raccolta “La presenza di Orfeo” (ed. Shwartz) uscì che aveva appena sedici anni e di lì con Scheiwiller subito altre due prima di sposarsi e manifestare i primi segni della malattia mentale.

Ebbe in sorte anni durissimi, conobbe le condizioni più abbiette in cui versavano i manicomi italiani (una delle sue poesie ricorda lo stupro che subì allora) e paradossalmente la meravigliosa dedizione degli angeli umani che vi si dedicavano tanto che intitolò quella raccolta “La Terra Santa” (Sheiwiller 1984). Se si dovessero elencare tutte le sue opere in poesia e in prosa, aforismi, canzoni, non ci basterebbero due pagine oltre al quelle musicate per lei da Giovanni Nuti e cantate da Milva, le opere teatrali e ultimamente alcuni testi cantati da Roberto Vecchioni.

Quello che vale ricordare e di cui meno si parla, di sicuro non in TV quando fu intervistata da Fazio o invitata da Chiambretti, è la sua produzione cosiddetta “mistica”: la trilogia introdotta da Mons. G. Ravasi (Corpo d’amore, Poema della croce, Francesco, Canto di una creatura) preceduto dal “Magnificat, incontro con Maria” . Altri testi a seguire, sugli angeli e sul Vangelo tutti curati da Arnoldo Mondatori tra il 2000 e il 2008.

Il “suo” Dio è assolutamente carnale, è onnipotente e invadente, ha fattezze umane e altrettante golosità; è geloso degli uomini, li ama alla follia, li fa folli per essere amato. È una specie di gigante Polifemo, quasi pagano nella sua intemperanza, nell’esercizio dell’assoluto.
La Merini invoca un Dio materno e plurimo , afferma «ogni cosa bella diventa peritura nelle mani degli uomini, ma ogni cosa bella baciata da Dio diventa una rosa rossa piena di sangue» (da Corpo d’amore). Questo padre, distante e imperante, è tuttavia amoroso in quanto ha mandato un Uomo, Cristo, ad amarci con le mani e lo spiro. Perché Gesù è soprattutto uomo, il suo divino si scrive con la minuscola, lui ama sua mamma con un amore d’amante, lui dona il suo sangue e la sua carne dolorosamente, il sacrificio è prevalente, il dolore è grande, la comunione cioè il suo corpo-pane si spezza sanguinando; e la sua magnifica madre, la donna amata, è cieca e muta davanti a Dio che per questo la possiede, la usa, la feconda.

Certo, non è facile assaporare questa poesia, almeno per quel cristiano che di Cristo conosce il lato felice, anzi, per colui che nella Comunione è assimilato all’Amore e alla Vita Eterna; per chi guarda alla Madre di Dio come immacolata e Prescelta, come colei il cui assenso ha dato senso al mondo; ecco, questo credo sia il limite della poetica mistica della Merini, lei si è fermata sulla soglia del Mistero e sbirciando dentro, ha visto il sangue e il dolore; cose che conosceva bene, che ha prontamente riscattato. Ha visto un Dio che si fa carne ma è rimasta alla carezza, alla mano, non è andata oltre, al Tabor: come se uno si interessasse a uno spettacolo teatrale, ne pagasse il biglietto ma non restasse fino alla fine, fino al compimento, al lieto evento. Perché c’è una misura umana della gioia e quella se la fa bastare. Ma la gioia può essere immensa, quanto la misericordia, più di quella che può stare nel cuore e nel corpo di un uomo, di una donna.

Questa mistica umana si riflette anche nelle sue numerosissime e famose poesie d’amore; erotica, la definiscono, ma no, romantica forse, perché l’eros è ben altro di carezze e carne, l’eros è il piacere che pervade tutto, soprattutto il pensiero e il destino. L’eros non ha limiti, è totale e felice, non colmo di nostalgia e rimpianto, come spesso il suo: è dono totale, disfarsi nella fiducia dell’Altro e è fecondo. La Merini ama la madre, più della maternità, l’amante più dell’amore.

E così si fa amare, parzialmente, numerosamente, ma mai completamente, non si fa mai colmare. Quello che la colma è la poesia, in un invasamento lirico e delirante, a volte; a volte invece lucido e allora umano, terribilmente: il tentativo di uno che basta a sé con il sentore dell’inevitabile perdita.

Piace la Merini in questa poesia, in questo tempo, da questa cultura che va sui mass-media: è adatta e adattabile, è musicabile, è sempre smentibile, povera pazza amante.

Ma a me piace il suo tormento, la sua madre mancante, che sente la dismisura dell’amore.
La mia poesia è alacre come il fuoco

trascorre tra le mie dita come un rosario.

Non prego perché sono un poeta della sventura

Che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,

sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,

sono il poeta che canta e non trova parole,

sono la paglia arida su cui batte il suono,

sono la ninnananna che fa piangere i figli

sono la vanagloria che si lascia cadere,

il manto di metallo di una lunga preghiera

del passato cordoglio che non vede la luce.



Alda Merini da “La volpe e il sipario” - Il crocefisso e la battaglia della mamma finlandese – LaStampa, 3 novembre 2009

A sollevare la vicenda Soila Lautsi,
«offesa» dal simbolo religioso nella
scuola di Padova frequentata dai figli
ROMA
La vicenda che ha portato alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule ha per protagonista Soila Lautsi, una casalinga di origine finlandese. Nel 2001 la donna si sentì offesa dalla presenza del simbolo del cristianesimo nelle aule dell’istituto comprensivo Vittorio da Feltre di Abano Terme frequentato dai suoi figli di 11 e 13 anni.

Secondo la donna la presenza del crocifisso era contraria ai principi di laicità nei quali voleva educare i figli e per questo chiese alla scuola di toglierlo facendo riferimento a una sentenza del 2000 con cui la Cassazione ordinava di rimuovere il simbolo religioso dai seggi elettorali. Nel maggio del 2002 la scuola decise di lasciare il crocifisso nelle aule e il ministero dell’Istruzione trasformò la disposizione in una sua direttiva inoltrandola a tutti gli istituti. Due mesi più tardi la signora Lautsi fece appello di fronte al Tar che inoltrò la questione alla Corte Costituzionale che a sua volta si dichiarò non competente e restituì tutto al tribunale amministrativo del Veneto.

Nel marzo del 2005 il Tar stabilì che il crocifisso è un simbolo della storia, della cultura e dell’identità italiana e respinse il ricorso della casalinga finlandese. Un anno dopo anche il Consiglio di stato le diede torto, sancendo che la croce è diventata uno dei valori secolari della Costituzione italiana e rappresenta i valori della vita civile. Da qui la decisione di fare ricorso alla Corte di Strasburgo.


3 Novembre 2009
IL CASO
La Corte Europea dice no
ai crocifissi in aula
La presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche costituisce «una violazione dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione alla «libertà di religione degli alunni». È quanto ha stabilito oggi la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo nella sentenza su un ricorso presentato da una cittadina italiana.

Il ricorso. Il ricorso a Strasburgo era stato presentato il 27 luglio del 2006 da Solie Lautsi, moglie finlandese di un cittadino italiano e madre di Dataico e Sami Albertin, rispettivamente 11 e 13 anni, che nel 2001-2002 frequentavano l'Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre, ad Abno Terme. Secondo la donna, l'esposizione del crocifisso sul muro è contraria ai principi del secolarismo cui voleva fossero educati i suoi figli. Dopo aver informato la scuola della sua posizione, la Lautsi, nel luglio del 2002, si è rivolta al Tar del Veneto, che nel gennaio del 2004 ha consentito che il ricorso presentato dalla donna venisse inviato alla Corte Costituzionale, i cui giudici hanno stabilito di non avere la giurisdizione sul caso. Il fascicolo è quindi tornato alTribunale amministrativo regionale, che il 17 marzo del 2005 non ha accolto il ricorso della Lautsi, sostenendo che il crocifisso è il simbolo della storia e della cultura italiana, e di conseguenza dell'identità del Paese, ed è il simbolo dei principi di eguaglianza, libertà e tolleranza e del secolarismo dello Stato. Nel febbraio del 2006, il Consiglio di Stato ha confermato questa posizione. Di qui la decisione della donna di ricorrere alla Corte europea di Strasburgo.

I danni morali. La sentenza prevede che il governo italiano dovrà pagare alla donna un risarcimento di cinquemila euro per danni morali. La sentenza, rende noto l'ufficio stampa della Corte, è la prima in assoluto in materia di esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche.

La posizione della Corte di Strasburgo. "La presenza del crocifisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastische - si legge nella sentenza dei giudici di Strasburgo - potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso, che avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione". Tutto questo, proseguono, "potrebbe essere incoraggiante per gli studenti religiosi, ma fastidioso per i ragazzi che praticano altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose, o che sono atei".

Ancora, la Corte "non è in grado di comprendere come l'esposizione, nelle classi delle scuole statali, di un simbolo che può essere ragionevolmente associato con il cattolicesimo, possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una società democratica così come è stata concepita dalla Convenzione (europea dei diritti umani, ndr), un pluralismo che è riconosciuto dalla Corte costituzionale italiana". "L'esposizione obbligatoria di un simbolo di una dataconfessione in luoghi che sono utilizzati dalle autorità pubbliche, e specialmente in classe, limita il diritto dei genitori di educare i loro figli in conformità con le proprie convinzioni - concludono i giudici della Corte europea dei diritti umani - e il diritto dei bambini di credere o non credere. La Corte, all'unanimità, ha stabilito che c'è stata una violazione dell'articolo 2 del Protocollo 1 insieme all'articolo 9 della Convenzione".

I giudici (tra cui l'italiano Zagrebelsky). I sette giudici autori della sentenza sono: Francoise Tulkens (Belgio, presidente), Vladimiro Zagrebelsky (Italia), Ireneu Cabral Barreto (Portogallo), Danute Jociene (Lituania), Dragoljub Popovic (Serbia), Andras Sajò (Ungheria), e Isil Karakas (Turchia).