Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e lo sviluppo della teologia nel XII secolo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) La vera questione morale - Mario Mauro venerdì 30 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
3) Le biotecnologie, “motore per uscire dalla crisi” ma con rischi etici - Luci e ombre della rivoluzione biotecnologia, secondo il Presidente dello IOR
4) "Il nastro bianco" di Michael Haneke, Palma d'oro a Cannes - Alla radice del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009
5) Un’altra possibile deriva verso la vita“artificiale” – Dallapiccola - Il genetista: in prospettiva si potrà arrivare alla riproduzione senza necessità di un uomo e di una donna. Ma saremo in grado di fermarci? - DA MILANO A NTONELLA M ARIANI – Avvenire, 30 ottobre 2009
6) Scola: «Unità dei saperi per il futuro della scuola» - DA V ENEZIA F RANCESCO D AL M AS – Avvenire, 30 ottobre 2009
7) Popper: sull’etica la scienza si fermi - Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800. E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro» - DI D ARIO A NTISERI – Avvenire, 30 ottobre 2009
Benedetto XVI e lo sviluppo della teologia nel XII secolo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nella sua catechesi, il Papa si è soffermato sullo sviluppo della teologia nel XII secolo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi mi soffermo su un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per una serie provvidenziale di coincidenze. Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente. All’interno della Chiesa si avvertivano i benefici della vasta azione nota come "riforma gregoriana", che, promossa vigorosamente nel secolo precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale, soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione. Inoltre si andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano una promettente ripresa.
Rifiorì anche la teologia acquisendo una più grande consapevolezza della propria natura: affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio. Due furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono una delle tipiche "invenzioni" del Medioevo cristiano. Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli di teologia: la "teologia monastica" e la "teologia scolastica". I rappresentanti della teologia monastica erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio. I rappresentanti della teologia scolastica erano uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.
Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la teologia biblica. I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una "lettura spirituale", condotta in docilità allo Spirito Santo. Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.
Il Sinodo dei Vescovi dell’anno scorso sulla "Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa" ha richiamato l’importanza dell’approccio spirituale alle Sacre Scritture. A tale scopo, è utile far tesoro della teologia monastica, un’ininterrotta esegesi biblica, come pure delle opere composte dai suoi rappresentanti, preziosi commentari ascetici ai libri della Bibbia. Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale. Era cioè consapevole che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità grammaticale e filologica. Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu (L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere, accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura. Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera, canto di lode e spinge a una sincera conversione. Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. E’ importante inoltre riservare un certo tempo ogni giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino quotidiano sulla terra.
La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli, per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato. Nel metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti. In tale dibattito appaiono da una parte gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio. Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è "per additionem" (cfr Commentaria in quatuor libros sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto "scolastico", della scuola, che concede fiducia alla ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la logica, cioè quella disciplina che studia il "funzionamento" del ragionamento umano, in modo che appaia evidente la verità di una proposizione. Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.
Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: "La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità". La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Preghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, ai componenti l’Associazione Regionale Cori d’Abruzzo, qui convenuti con l’Arcivescovo Mons. Carlo Ghidelli in occasione del decimo anniversario del "Meeting della coralità". Cari amici, auguro che la festosità del canto e della musica che voi recate in tanti ambiti, siano un costante invito per quanti vi ascoltano ad impegnarsi per costruire un futuro ricco di speranza. Saluto i rappresentanti del gruppo "Maranatha", di Pinerolo, accompagnati dal Vescovo Mons. Giorgio Debernardi, come pure gli esponenti dell’Ente Fiera, di Isola della Scala. Mentre invoco dalla Vergine ogni desiderato bene su tutti voi e sulle vostre famiglie, formulo fervidi voti che questo incontro con il Successore di Pietro susciti in ciascuno un rinnovato impegno di testimonianza cristiana.
Saluto, infine, i giovani, i malati, e gli sposi novelli. Oggi la liturgia ricorda i Santi Apostoli Simone e Giuda Taddeo. La loro testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nell'impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, a seguire sempre Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l'Amore di Dio e dei fratelli.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La vera questione morale - Mario Mauro venerdì 30 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Vorrei spendere anche io due parole sulle vicende che hanno colpito il governatore della regione Lazio in questi giorni; in tutto quello che è uscito sulla stampa non c’è stato nessun approccio cordiale al dramma di Marrazzo, nessuno sguardo pietoso verso le debolezze di una persona che ha visto non solo la propria dignità ma anche quella dei suoi familiari e delle persone vicine calpestate.
L’uomo ama e bestemmia, uccide e perdona. Non è perfetto. In lui convivono opere di infinita carità come pure di sconfinato egoismo. Questo vale per i potenti, per i religiosi, per la gente comune. Il problema allora non è scoprire e giudicare il peccato dell’altro ma una misura comune a tutti, talmente grande da saper abbracciare il nostro limite.
Penso che continui ad esserci un’enorme confusione tra peccato e reato senza capire che il problema del peccato esiste perché esiste il problema del senso della vita. Uno percepisce che la vita ha un senso, ma essendo spesso incapace di dare fino in fondo questo giudizio rischia di sprecare il proprio tempo. Che peccato!
Il problema del peccato ha dentro di sé, cioè, il tema del desiderio e del rapporto col potere. L’esercizio del potere corre il rischio di farci sentire onnipotenti e di poter surrogare attraverso la realizzazione di tutto quello che ci passa per la mente la consapevolezza di esser finiti, destinati alla vecchiaia e alla morte; insomma anche quando pensiamo che il potere sia tutto in realtà chiediamo altro.
È questo Altro che ci definisce completamente e che solo può essere la risposta al nostro bisogno. In quest’ottica esercitare il potere vuol dire anche accettare la sfida di comprendere che non siamo noi la risposta ultima ai bisogni dell’uomo, men che meno ai nostri bisogni.
Fare politica ha allora un senso? Sì, se guardiamo a quei fattori che tornano a farci comprendere il mistero dell’esistenza e del rapporto con gli altri uomini. Solo così è possibile guardare in modo più profondamente umano e vero anche al nostro peccato, e quello dei nostri simili, e per questo abbracciare con rispetto la nostra sproporzione.
Il mio auspicio è che gli scandali di questi mesi servano ad aprire un dibattito serio e costruttivo sulla “questione morale”, che vada oltre il gioco dei ricatti, un momento per riconoscere le nostre debolezze, e senza farci scudo di esse, innescare una tensione positiva soprattutto nella politica per ricondurla al suo senso originario: il bene del popolo.
Se insomma ci mettiamo in discussione di fronte a quello che è accaduto, non potremo non trattarci con maggior rispetto, certi di essere non migliori degli altri ma tesi al raggiungimento del bene comune.
Le biotecnologie, “motore per uscire dalla crisi” ma con rischi etici - Luci e ombre della rivoluzione biotecnologia, secondo il Presidente dello IOR
ROMA, giovedì, 29 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Con un editoriale pubblicato su L’Osservatore Romano del 28 ottobre, il Presidente dello IOR (Istituto per le Opere di Religione), Ettore Gotti Tedeschi, ha illustrato i rischi e le opportunità delle biotecnologie nel contesto mondiale.
In merito al futuro della civiltà, il noto economista ha indicato tre sfide: risolvere al più presto la crisi economica; cogliere le opportunità ma anche i rischi della rivoluzione biotecnologia; e infine la competizione tra le nazioni per la leadership tecnologica nel settore delle biotecnologie.
Dopo aver ribadito le vere origini della crisi economica e cioè “il crollo della natalità e lo sviluppo insostenibile”, Gotti Tedeschi ha spiegato che le biotecnologie possono essere “un elemento realmente rivoluzionario nelle relazioni economiche e morali”.
La biotecnologia infatti può essere “il motore per uscire dalla crisi economica, ma con il rischio di relativizzarne la dimensione etica”.
Il Presidente dello IOR ha fatto riferimento alle biotecnologie vegetali, animali e mediche, come motore dello sviluppo, e alle biotecnologie che vogliono clonare e manipolare l’embrione umano come minaccia alla dimensione etica.
Per Gotti Tedeschi è “evidente l'opportunità di sviluppare attività produttive, basate sulla biotecnologia, con prospettive di crescita enormi in vari settori economici legati alla soddisfazione di bisogni di base: cibo, energia, salute”.
In questo modo – ha detto – “una rivoluzione biotecnologica che può sviluppare una Silicon Valley fatta di centri tecnologici di scienza per la vita - utili all'uomo, all'ambiente e di conseguenza anche al prodotto interno lordo - accelerando pertanto la soluzione della crisi economica. E ciò potrebbe anche essere un bene”.
“Ma la rivoluzione biotecnologica - ha osservato l’economista -, oltre a produrre elementi e risorse altrimenti scarsi in natura - si pensi al petrolio - ha dimostrato di essere in grado di modificare la materia e la struttura genetica e di potere produrre sinteticamente organismi biologici. Con l'illusione di comprendere il segreto della vita, di poterla programmare e persino costruire”.
Il Presidente dello IOR ha quindi confessato di guardare con evidente preoccupazione alla possibilità “di selezione e modifica di organismi viventi per uso umano”.
“La capacità di trasferire geni da un organismo all'altro – ha scritto – e di produrre ogni cosa per sintesi potrebbe infine annullare la percezione della differenza tra l'intervento a favore della salute dell'uomo e quello volto alla creazione di vita artificiale. E questo sicuramente non sarebbe un bene”.
In questo contesto il Presidente dello IOR ha notato che “si sta avviando la competizione per la leadership mondiale nel nuovo assetto geopolitico generato dalla crisi”. “Una competizione – ha notato – che probabilmente si svilupperà proprio nella ricerca di affermazione nel settore biotecnologico”.
Se così fosse, verrebbero “relativizzati ancora di più i criteri morali di valutazione su cosa sia utile e giusto per l'uomo e, in alcune Nazioni, potrebbe perfino nascere la tentazione di correggere la Bibbia per dare giustificazione a queste scelte”.
Infine Gotti Tedeschi scrive che “è ormai chiaro che da questa crisi si uscirà anche attraverso la rivoluzione biotecnologia”, mettendo poi in guardia sul pericolo di limitarsi “alla prudente soddisfazione delle esigenze dell'uomo” e di spingersi a “confondere le verità sulla vita umana stessa” per “sete di potere”.
“Di fronte a questo rischio anche l'economista ha diritto all'obiezione di coscienza”, ha concluso.
"Il nastro bianco" di Michael Haneke, Palma d'oro a Cannes - Alla radice del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009
"Guarda bene queste immagini, guarda quella gente: è incapace di una rivoluzione, è troppo umiliata, ha troppa paura, è troppo frustrata. Ma, tra dieci anni, quelli che ora hanno dieci anni ne avranno venti, quelli che ne hanno quindici ne avranno venticinque. All'odio ereditato dai genitori aggiungeranno il loro idealismo e la loro impazienza. Si farà avanti qualcuno e trasformerà in parole i loro sentimenti inespressi". Chissà se il regista Michael Haneke aveva in mente questo passaggio tratto da L'uovo di serpente di Ingmar Bergman quando ha pensato di scrivere la sceneggiatura del film Il nastro bianco, Palma d'oro a Cannes, in uscita nelle sale italiane. Sta di fatto che tali parole sembrano adattarsi alla perfezione a questa pellicola di grande suggestione, il cui intento è mostrare almeno in parte la genesi di quello che è stato definito il male assoluto.
La storia si svolge in un villaggio protestante nel nord della Germania alla vigilia della prima guerra mondiale. La tranquilla vita quotidiana viene improvvisamente sconvolta da alcuni drammatici e misteriosi episodi di violenza: il medico viene fatto cadere da cavallo con una fune tesa tra due alberi e finisce in ospedale; una donna muore in uno strano incidente sul lavoro; il primogenito del barone locale viene malmenato a sangue; il figlio disabile della levatrice viene seviziato e rischia di perdere la vista. Nessuno sa chi possa essere stato. Ma il maestro - voce narrante che dopo molti decenni racconta quanto accaduto - finisce per sospettare dei bambini del villaggio. Quelle violenze inspiegabili e gratuite, si scoprirà, sono conseguenza delle vessazioni che subiscono da parte dei genitori.
Il nastro bianco è quello che il pastore del villaggio fa indossare ai suoi figli: deve essere il simbolo della loro purezza, richiamo a una vita segnata dalla virtù, che non cede alle tentazioni; ma anche un richiamo alle sue aspettative di padre, a una fiducia che non può essere tradita. Pena il castigo. Un castigo fatto di divieti, punizioni che diventano abusi, finanche sevizie. Tutto in nome di una religiosità malintesa, la quale induce a credere che ci si possa purificare dei peccati attraverso una pratica ipocrita e bigotta; una religiosità che pretende un'educazione autoritaria (ma non autorevole) basata sulla repressione e su una morale incapace di comprendere il male celato nella ricerca maniacale e irrazionale di un utopico bene. Al punto che quei bambini diventano oggetto di una ossessione educativa che finisce per minare la loro fragile psiche trasformandoli, attraverso quel processo perverso in cui le vittime diventano carnefici, in inconsapevoli mostri.
Violati nel corpo e nella mente, oppressi dai sensi di colpa, nel terribile sforzo di non deludere le assurde aspettative di incondizionata obbedienza degli adulti - i padri, perché le donne non hanno voce nelle questioni educative - i piccoli del villaggio trovano modo di scaricare le loro devastanti tensioni interiori, lasciandosi andare a comportamenti violenti della cui malvagità non sembrano rendersi conto. Una verità che gli adulti si rifiutano di accettare perché scomoda e compromettente.
In realtà non si tratta di una vendetta per ciò che subiscono. È molto peggio: pensano di agire per conto di Dio - non a caso il primo titolo scelto per il film era "la mano destra di Dio" - punendo quelli che non condividono i principi che loro sono costretti a seguire e ai quali finiscono per credere. Del resto, dopo il primo episodio di violenza, uno dei ragazzi oppresso dal senso di colpa mette a rischio deliberatamente la propria vita; e al maestro che gliene chiede conto risponde: "Ho voluto dare a Dio la possibilità di uccidermi. Non lo ha fatto. Dunque non è in collera con me".
L'occhio di Haneke, pur non mostrando esplicitamente nulla, non risparmia alcunché delle umane vicende che si consumano nel villaggio, dove serpeggiano stupidità, rancori e invidia e si nascondono torbide passioni. Con un bianco e nero freddo e di grande rigore stilistico, e con una fotografia d'altri tempi, in un formalismo che non trascura certo i contenuti, il regista - già apprezzato per La pianista - scandaglia con bravura la psicologia dei vari personaggi e, tramite questi, i meccanismi perversi attraverso i quali il seme del male si insinua nella società partendo dai suoi membri più giovani: quelli che una dozzina di anni dopo non avrebbero avuto difficoltà ad abbracciare l'aberrante ideologia nazista che avrebbe fatto della cieca obbedienza uno dei suoi pilastri. In tal senso Haneke presenta una lettura in qualche modo predittiva a posteriori, ma vuole anche mettere in guardia dai pericoli dell'autoritarismo ottuso, nutrito di ideali assoluti, facile preda del fondamentalismo. Con Il nastro bianco, film inquietante e interrogativo ma di grande suggestione, si va alla radice del male frutto di un ideale deviato.
(©L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009)
Un’altra possibile deriva verso la vita“artificiale” – Dallapiccola - Il genetista: in prospettiva si potrà arrivare alla riproduzione senza necessità di un uomo e di una donna. Ma saremo in grado di fermarci? - DA MILANO A NTONELLA M ARIANI – Avvenire, 30 ottobre 2009
C ellule germinali ottenute a partire da staminali embrionali umane e in grado potenzialmente di trasformarsi in spermatozoi e ovuli. Ufficialmente la tecnologia impiegata sarà applicata alla cura della sterilità, ma è anche un altro passo verso una riproduzione ' asessuata', dove l’uomo e la donna non sono più indispensabili per dare vita a un altro essere umano. Ne parliamo con Bruno Dallapiccola, docente di Genetica medica alla Sapienza di Roma, che innanzitutto invita alla prudenza. «Un risultato come quello ottenuto dai ricercatori della Stanford University non significa che esso sia effettivamente trasferibile in una terapia. Quali prove abbiamo che i gameti prodotti in questa maniera siano funzionalmente adatti?
».
E fin qui, professor Dallapiccola, parliamo di tecnica. Esistono però anche implicazioni etiche?
C’è senz’altro da chiedersi fino a che punto riteniamo che sia eticamente corretto costruire un embrione e poi distruggerlo per recuperare da esso cellule staminali da utilizzare per correggere l’infertilità, che è una patologia molto comune.
Esistono alternative all’utilizzo degli embrioni in questo filone di ricerca?
L’alternativa che si può proporre è l’utilizzo delle cellule IPS, le cellule adulte riprogrammate per diventare cellule staminali embrionali. In questo caso si evita il problema etico di creare un embrione per poi doverlo distruggere. Anche in questo caso, però, resterebbero dubbi sul reale funzionamento del genoma così ottenuto. Come la clonazione animale ha dimostrato negli ultimi 10 anni, tutto ciò che è riprogrammazione cellulare comporta un margine elevato di errori, insuccessi, patologie.
Lo studio pubblicato su 'Nature' segna un altro passo verso la realizzazione del sogno-incubo di una riproduzione della vita totalmente in laboratorio, senza la necessità di un uomo e di una donna.
Cosa ne pensa?
Penso che in una prospettiva lontana si può immaginare di arrivare anche a questo risultato. Ma restano alcune domande di fondo: perché, per chi, per quale finalità i ricercatori mettono a disposizione le loro energie? Dobbiamo fare davvero tutto ciò che si può fare? O siamo in grado a un certo punto di fermarci a riflettere su quello che stiamo facendo? Un bambino non viene al mondo per un capriccio della scienza, ma ha il diritto ad avere l’imprinting di un padre e di una madre. Mi pare che il buon senso che ha guidato per secoli la medicina stia venendo meno di fronte allo strapotere della scienza, che poi si mescola malamente con interessi economici. Inventarsi gravidanze che per vie naturali non potrebbero avvenire può aprire la strada a richieste in questo senso da parte di persone nei confronti dei quali una parte della politica e della società ha ancora delle riserve. Penso agli omosessuali. Ecco, questo futuro per ora è ipotetico, ma le ricerche degli scienziati lo stanno rendendo possibile.
Scola: «Unità dei saperi per il futuro della scuola» - DA V ENEZIA F RANCESCO D AL M AS – Avvenire, 30 ottobre 2009
All’inaugurazione dell’anno accademico del «Marcianum» il patriarca di Venezia invoca «innovazione ma anche educazione» Prolusione di Gotti Tedeschi
C ome perseguire l’eccellenza, dall’università all’impresa, passando per l’intero sistema scolastico? Di che cosa sostanziare l’innovazione, obiettivo della riforma universitaria, ma anche passaggio obbligato per uscire dalla crisi economica? Attraverso, ad esempio, l’unità dei saperi. Una risposta troppo semplice o troppo accademica? No, è l’esperienza quotidiana di uno dei principali poli del sapere, lo Studium Generale Marcianum di Venezia, che ieri ha celebrato il Dies Accademicus 2010, con il patriarca Angelo Scola, suo Gran Cancelliere, il rettore Brian Ferme, Gotti Tedeschi, economista e presidente dello Ior (Istituto per le Opere di Religione della Santa Sede), che ha tenuto la prolusione su “Il senso della vita e il senso dell’economia secondo l’Enciclica Caritas in Veritate”. Dopo l’erezione dell’Istituto di Diritto Canonico San Pio X a Facoltà, l’anno scorso, il Marcianum si è arricchito dell’Alta Scuola Società, Economia, Teologia (Asset). L’ambizione del Marcianum - spiega il cardinale Scola - è quella di far interagire fra loro saperi e discipline in un’indagine attenta della realtà tutta intera, avendo cura dell’unità del soggetto personale e comunitario. Unità che, nel caso del Marcianum trae origine dalla comunità di docenti e studenti, senza la quale, secondo il patriarca, nessuna autentica impresa culturale ed educativa, dalla scuola primaria fino alla ricerca post-universitaria, sarebbe possibile. Un’esperienza, quella veneziana, che certifica come la tensione ad una maggior unità del sapere, dal punto di vista dell’oggetto, non può avvenire a carico di una disciplina che subordini a sé tutte le altre attraverso l’elaborazione di sistemi comuni a tutte le scienze.
«Essa dovrà piuttosto far leva su quell’allargamento della ragione – così il patriarca – più volte richiamato da Benedetto XVI». Un possibile paradigma? È proprio quello della Caritas in Veritate, in cui il Papa «chiama il sapere teologico ad un dialogo necessario e fruttuoso con non pochi importanti saperi». In particolare, nel contesto della crisi economica e alla luce della necessità, per lo stesso mondo produttivo, di ripensare categorie come soggetto del lavoro, mercato, impresa e profitto «il Papa teologo ha efficacemente sostenuto che la carità nella verità non rappresenta un tocco cosmetico da aggiungere estrinsecamente alle teorie economiche per correggerne ex-post le distorsioni e gli squilibri, ma è un’esigenza della stessa ragione economica ». È un metodo, quello usato dal Pontefice, che, applicato ai diversi saperi, può rappresentare un potente stimolo per il lavoro delle istituzioni accademiche e culturali cui ancor più oggi tocca l’intrapresa dell’innovazione. Innovazione, frutto di una cultura dell’unità, che non può più essere concepita senza una organica paideia». La crisi, appunto. Per Ettore Gotti Tedeschi non ci sono dubbi: la sua origine non sta tanto nell’«avidità» di taluni banchieri, quanto nel fatto che per lunghi, troppi anni «si è negata la vita umana». E «se la crescita è zero – ha spiegato Gotti Tedeschi – aumentano i costi fissi», da quelli per le pensioni a quelli per la sanità, perché la popolazione invecchia. E le tasse, evidentemente, non si possono diminuire. Crolla il risparmio, le attività finanziarie vanno in difficoltà, la produttività non aumenta, lo sviluppo si ferma.
Popper: sull’etica la scienza si fermi - Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800. E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro» - DI D ARIO A NTISERI – Avvenire, 30 ottobre 2009
Le riflessioni contenute nel volume La società aperta , riguardanti il rapporto tra scienza e fede, sono un’eco della più ampia trattazione del problema sviluppato da Karl Popper nella conferenza su Scienza e religione. «Non molto tempo fa - leggiamo all’inizio del suo discorso - esisteva una notevole tensione fra scienza e religione. Questa tensione si accentuò durante il XIX secolo, in particolare a partire dalla polemica su Darwin e la teoria dell’evoluzione ». Ebbene, la tesi principale fatta propria da Popper è che «non ci può essere alcun disaccordo fra una scienza che non tenti di oltrepassare i suoi confini e una religione che non tenti di trattare argomenti che in realtà appartengono al campo della scienza». Il contrasto del XIX secolo fra scienza e religione - soggiunge Popper - trova la sua scaturigine in uno sconfinamento da entrambi i lati. «Entrambe le parti sono colpevoli, gli scienziati così come i difensori della fede: gli scienziati perché non si resero conto che il loro campo è interamente confinato al mondo dell’esperienza e perché lo straordinario sviluppo scientifico di cui erano testimoni li spinse a credere che non ci fosse niente nel nostro mondo che non sarebbe rientrato un giorno nel campo della scienza. I difensori della fede, dall’altro lato, sono colpevoli perché non si resero pienamente conto che la fede religiosa è fondamentalmente differente da quella che solitamente chiamiamo conoscenza scientifica e che non è compito della religione fare affermazioni su problemi che rientrano nel campo della scienza e che possono essere studiati con il metodo scientifico».
Né sostenibile, secondo Popper, è la posizione di coloro che affermano che la scienza o, meglio, gli sviluppi della scienza, supporterebbero la fede religiosa. Popper, al riguardo, assume un punto di vista completamente differente: «Ammettiamo - egli dice - che la scienza sia considerata come un qualcosa che supporti la religione; allora, se in una determinata fase del suo sviluppo risulta che essa è d’accordo con alcune dottrine religiose che noi abbracciamo per questa ragione, dovremmo anche accettare la confutazione di queste dottrine da parte della scienza, se in una certa altra fase del suo sviluppo la scienza dovesse giungere ad una concezione differente». E, in effetti, la scienza «non si sviluppa tramite l’accumulazione di conoscenze»; essa, piuttosto, «si sviluppa tramite rivoluzioni ». Legare la fede religiosa ad una teoria scientifica equivale a porla a livello delle ipotesi scientifiche. «Mi sembra però perfettamente chiaro insiste Popper - che questo non sia il significato della dottrina religiosa dell’esistenza di Dio. Una fede religiosa non si basa su ipotesi. Essa si situa a un livello completamente differente ». E qui sta «la ragione per cui scienza e fede non possono essere in conflitto reciproco, né supportarsi reciprocamente». Il livello in cui operano le fedi è soprattutto quello etico. E «il regno delle nostre azioni pratiche, dei nostri obiettivi pratici, e in particolare delle nostre decisioni morali, il modo in cui ci comportiamo nei confronti degli altri uomini e in cui tentiamo di condividere le nostre vite, tutte queste cose co- stituiscono un regno che in un certo senso non rientra nel campo della scienza». In ambito etico, laddove si deve scegliere quale comportamento assumere, «dobbiamo aderire a quell’insegnamento fondamentale che è anche quello del cristianesimo, ossia che la nostra coscienza è l’ultima corte d’appello. In tutte queste questioni, la scienza non può aiutarci. La scienza nel suo campo di ricerca specifico non può dirci che cosa dovremmo fare. Non interferisce nel campo morale e religioso ». E c’è un ulteriore problema affrontato da Popper: il problema del conflitto tra religione e irreligiosità; un problema considerato di grande rilevanza sia dai credenti in una o in un’altra delle religioni riconosciute, sia da quanti si sono considerati o si dichiarano atei o liberi pensatori o di non avere nessuna religione. «Penso anche qui - sottolinea Popper - che entrambe le parti abbiano torto. Lo credo più in particolare nel caso di quegli atei che hanno sostenuto con così tanta enfasi di non credere in nessuna religione specifica. Sostengo che queste persone erano indubbiamente religiose proprio nello stesso senso in cui diciamo che sono religiosi coloro i quali credono nelle tante differenti fedi. E sostengo che quanto più entusiasticamente dichiaravano la loro irreligiosità, tanto più chiaramente dimostravano, in realtà, di appartenere a una religione. La mia tesi è che, sebbene ci possano essere vari gradi di fede, sebbene la fede possa essere molto forte in alcuni e piuttosto debole in altri, non esiste probabilmente alcun uomo che ne sia totalmente privo. Di conseguenza, anziché contrapporre religione e irreligiosità, possiamo contrapporre soltanto i differenti generi e gradi di fede ». E tra le fedi «completamente disumane » Popper ha in mente «i vari tipi di totalitarismo e di razzismo»: «Questi sono movimenti che con una fervente fede tentano di distruggere la maggiore conquista del cristianesimo: la credenza che siamo tutti fratelli, che tutte le differenze fra noi non sono alla fine molto importanti; la credenza, in breve, nell’unità dell’umanità». Di fronte alle diverse fedi e ai differenti principi etici, non possiamo rivolgerci alla scienza per decidere a chi credere o che cosa credere e che cosa fare. Di fronte al pluralismo delle fedi e al politeismo dei valori siamo condannati ad essere liberi: «Dobbiamo aderire a quell’insegnamento fondamentale che è anche quello del cristianesimo, ossia che la nostra coscienza è l’ultima corte d’appello». Ed ecco come lo stesso Popper riassume il nucleo centrale della sua conferenza: «I regni della scienza e della religione non interferiscono reciprocamente. Ogni conflitto fra scienza e religione è dovuto a uno sconfinamento, da una parte o dall’altra. Ma i regni della religione e dei problemi morali in larghissima misura coincidono. Ciò non significa, tuttavia, che l’essere religioso renda morale un uomo. Esistono anche religioni del male e solo la nostra decisione, basata sulla nostra coscienza, può aiutarci a distinguere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato».
1) Benedetto XVI e lo sviluppo della teologia nel XII secolo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) La vera questione morale - Mario Mauro venerdì 30 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
3) Le biotecnologie, “motore per uscire dalla crisi” ma con rischi etici - Luci e ombre della rivoluzione biotecnologia, secondo il Presidente dello IOR
4) "Il nastro bianco" di Michael Haneke, Palma d'oro a Cannes - Alla radice del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009
5) Un’altra possibile deriva verso la vita“artificiale” – Dallapiccola - Il genetista: in prospettiva si potrà arrivare alla riproduzione senza necessità di un uomo e di una donna. Ma saremo in grado di fermarci? - DA MILANO A NTONELLA M ARIANI – Avvenire, 30 ottobre 2009
6) Scola: «Unità dei saperi per il futuro della scuola» - DA V ENEZIA F RANCESCO D AL M AS – Avvenire, 30 ottobre 2009
7) Popper: sull’etica la scienza si fermi - Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800. E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro» - DI D ARIO A NTISERI – Avvenire, 30 ottobre 2009
Benedetto XVI e lo sviluppo della teologia nel XII secolo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nella sua catechesi, il Papa si è soffermato sullo sviluppo della teologia nel XII secolo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi mi soffermo su un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per una serie provvidenziale di coincidenze. Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente. All’interno della Chiesa si avvertivano i benefici della vasta azione nota come "riforma gregoriana", che, promossa vigorosamente nel secolo precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale, soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione. Inoltre si andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano una promettente ripresa.
Rifiorì anche la teologia acquisendo una più grande consapevolezza della propria natura: affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio. Due furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono una delle tipiche "invenzioni" del Medioevo cristiano. Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli di teologia: la "teologia monastica" e la "teologia scolastica". I rappresentanti della teologia monastica erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio. I rappresentanti della teologia scolastica erano uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.
Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la teologia biblica. I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una "lettura spirituale", condotta in docilità allo Spirito Santo. Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.
Il Sinodo dei Vescovi dell’anno scorso sulla "Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa" ha richiamato l’importanza dell’approccio spirituale alle Sacre Scritture. A tale scopo, è utile far tesoro della teologia monastica, un’ininterrotta esegesi biblica, come pure delle opere composte dai suoi rappresentanti, preziosi commentari ascetici ai libri della Bibbia. Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale. Era cioè consapevole che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità grammaticale e filologica. Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu (L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere, accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura. Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera, canto di lode e spinge a una sincera conversione. Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. E’ importante inoltre riservare un certo tempo ogni giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino quotidiano sulla terra.
La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli, per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato. Nel metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti. In tale dibattito appaiono da una parte gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio. Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è "per additionem" (cfr Commentaria in quatuor libros sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto "scolastico", della scuola, che concede fiducia alla ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la logica, cioè quella disciplina che studia il "funzionamento" del ragionamento umano, in modo che appaia evidente la verità di una proposizione. Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.
Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: "La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità". La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Preghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, ai componenti l’Associazione Regionale Cori d’Abruzzo, qui convenuti con l’Arcivescovo Mons. Carlo Ghidelli in occasione del decimo anniversario del "Meeting della coralità". Cari amici, auguro che la festosità del canto e della musica che voi recate in tanti ambiti, siano un costante invito per quanti vi ascoltano ad impegnarsi per costruire un futuro ricco di speranza. Saluto i rappresentanti del gruppo "Maranatha", di Pinerolo, accompagnati dal Vescovo Mons. Giorgio Debernardi, come pure gli esponenti dell’Ente Fiera, di Isola della Scala. Mentre invoco dalla Vergine ogni desiderato bene su tutti voi e sulle vostre famiglie, formulo fervidi voti che questo incontro con il Successore di Pietro susciti in ciascuno un rinnovato impegno di testimonianza cristiana.
Saluto, infine, i giovani, i malati, e gli sposi novelli. Oggi la liturgia ricorda i Santi Apostoli Simone e Giuda Taddeo. La loro testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nell'impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, a seguire sempre Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l'Amore di Dio e dei fratelli.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La vera questione morale - Mario Mauro venerdì 30 ottobre 2009 – ilsussidiario.net
Vorrei spendere anche io due parole sulle vicende che hanno colpito il governatore della regione Lazio in questi giorni; in tutto quello che è uscito sulla stampa non c’è stato nessun approccio cordiale al dramma di Marrazzo, nessuno sguardo pietoso verso le debolezze di una persona che ha visto non solo la propria dignità ma anche quella dei suoi familiari e delle persone vicine calpestate.
L’uomo ama e bestemmia, uccide e perdona. Non è perfetto. In lui convivono opere di infinita carità come pure di sconfinato egoismo. Questo vale per i potenti, per i religiosi, per la gente comune. Il problema allora non è scoprire e giudicare il peccato dell’altro ma una misura comune a tutti, talmente grande da saper abbracciare il nostro limite.
Penso che continui ad esserci un’enorme confusione tra peccato e reato senza capire che il problema del peccato esiste perché esiste il problema del senso della vita. Uno percepisce che la vita ha un senso, ma essendo spesso incapace di dare fino in fondo questo giudizio rischia di sprecare il proprio tempo. Che peccato!
Il problema del peccato ha dentro di sé, cioè, il tema del desiderio e del rapporto col potere. L’esercizio del potere corre il rischio di farci sentire onnipotenti e di poter surrogare attraverso la realizzazione di tutto quello che ci passa per la mente la consapevolezza di esser finiti, destinati alla vecchiaia e alla morte; insomma anche quando pensiamo che il potere sia tutto in realtà chiediamo altro.
È questo Altro che ci definisce completamente e che solo può essere la risposta al nostro bisogno. In quest’ottica esercitare il potere vuol dire anche accettare la sfida di comprendere che non siamo noi la risposta ultima ai bisogni dell’uomo, men che meno ai nostri bisogni.
Fare politica ha allora un senso? Sì, se guardiamo a quei fattori che tornano a farci comprendere il mistero dell’esistenza e del rapporto con gli altri uomini. Solo così è possibile guardare in modo più profondamente umano e vero anche al nostro peccato, e quello dei nostri simili, e per questo abbracciare con rispetto la nostra sproporzione.
Il mio auspicio è che gli scandali di questi mesi servano ad aprire un dibattito serio e costruttivo sulla “questione morale”, che vada oltre il gioco dei ricatti, un momento per riconoscere le nostre debolezze, e senza farci scudo di esse, innescare una tensione positiva soprattutto nella politica per ricondurla al suo senso originario: il bene del popolo.
Se insomma ci mettiamo in discussione di fronte a quello che è accaduto, non potremo non trattarci con maggior rispetto, certi di essere non migliori degli altri ma tesi al raggiungimento del bene comune.
Le biotecnologie, “motore per uscire dalla crisi” ma con rischi etici - Luci e ombre della rivoluzione biotecnologia, secondo il Presidente dello IOR
ROMA, giovedì, 29 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Con un editoriale pubblicato su L’Osservatore Romano del 28 ottobre, il Presidente dello IOR (Istituto per le Opere di Religione), Ettore Gotti Tedeschi, ha illustrato i rischi e le opportunità delle biotecnologie nel contesto mondiale.
In merito al futuro della civiltà, il noto economista ha indicato tre sfide: risolvere al più presto la crisi economica; cogliere le opportunità ma anche i rischi della rivoluzione biotecnologia; e infine la competizione tra le nazioni per la leadership tecnologica nel settore delle biotecnologie.
Dopo aver ribadito le vere origini della crisi economica e cioè “il crollo della natalità e lo sviluppo insostenibile”, Gotti Tedeschi ha spiegato che le biotecnologie possono essere “un elemento realmente rivoluzionario nelle relazioni economiche e morali”.
La biotecnologia infatti può essere “il motore per uscire dalla crisi economica, ma con il rischio di relativizzarne la dimensione etica”.
Il Presidente dello IOR ha fatto riferimento alle biotecnologie vegetali, animali e mediche, come motore dello sviluppo, e alle biotecnologie che vogliono clonare e manipolare l’embrione umano come minaccia alla dimensione etica.
Per Gotti Tedeschi è “evidente l'opportunità di sviluppare attività produttive, basate sulla biotecnologia, con prospettive di crescita enormi in vari settori economici legati alla soddisfazione di bisogni di base: cibo, energia, salute”.
In questo modo – ha detto – “una rivoluzione biotecnologica che può sviluppare una Silicon Valley fatta di centri tecnologici di scienza per la vita - utili all'uomo, all'ambiente e di conseguenza anche al prodotto interno lordo - accelerando pertanto la soluzione della crisi economica. E ciò potrebbe anche essere un bene”.
“Ma la rivoluzione biotecnologica - ha osservato l’economista -, oltre a produrre elementi e risorse altrimenti scarsi in natura - si pensi al petrolio - ha dimostrato di essere in grado di modificare la materia e la struttura genetica e di potere produrre sinteticamente organismi biologici. Con l'illusione di comprendere il segreto della vita, di poterla programmare e persino costruire”.
Il Presidente dello IOR ha quindi confessato di guardare con evidente preoccupazione alla possibilità “di selezione e modifica di organismi viventi per uso umano”.
“La capacità di trasferire geni da un organismo all'altro – ha scritto – e di produrre ogni cosa per sintesi potrebbe infine annullare la percezione della differenza tra l'intervento a favore della salute dell'uomo e quello volto alla creazione di vita artificiale. E questo sicuramente non sarebbe un bene”.
In questo contesto il Presidente dello IOR ha notato che “si sta avviando la competizione per la leadership mondiale nel nuovo assetto geopolitico generato dalla crisi”. “Una competizione – ha notato – che probabilmente si svilupperà proprio nella ricerca di affermazione nel settore biotecnologico”.
Se così fosse, verrebbero “relativizzati ancora di più i criteri morali di valutazione su cosa sia utile e giusto per l'uomo e, in alcune Nazioni, potrebbe perfino nascere la tentazione di correggere la Bibbia per dare giustificazione a queste scelte”.
Infine Gotti Tedeschi scrive che “è ormai chiaro che da questa crisi si uscirà anche attraverso la rivoluzione biotecnologia”, mettendo poi in guardia sul pericolo di limitarsi “alla prudente soddisfazione delle esigenze dell'uomo” e di spingersi a “confondere le verità sulla vita umana stessa” per “sete di potere”.
“Di fronte a questo rischio anche l'economista ha diritto all'obiezione di coscienza”, ha concluso.
"Il nastro bianco" di Michael Haneke, Palma d'oro a Cannes - Alla radice del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009
"Guarda bene queste immagini, guarda quella gente: è incapace di una rivoluzione, è troppo umiliata, ha troppa paura, è troppo frustrata. Ma, tra dieci anni, quelli che ora hanno dieci anni ne avranno venti, quelli che ne hanno quindici ne avranno venticinque. All'odio ereditato dai genitori aggiungeranno il loro idealismo e la loro impazienza. Si farà avanti qualcuno e trasformerà in parole i loro sentimenti inespressi". Chissà se il regista Michael Haneke aveva in mente questo passaggio tratto da L'uovo di serpente di Ingmar Bergman quando ha pensato di scrivere la sceneggiatura del film Il nastro bianco, Palma d'oro a Cannes, in uscita nelle sale italiane. Sta di fatto che tali parole sembrano adattarsi alla perfezione a questa pellicola di grande suggestione, il cui intento è mostrare almeno in parte la genesi di quello che è stato definito il male assoluto.
La storia si svolge in un villaggio protestante nel nord della Germania alla vigilia della prima guerra mondiale. La tranquilla vita quotidiana viene improvvisamente sconvolta da alcuni drammatici e misteriosi episodi di violenza: il medico viene fatto cadere da cavallo con una fune tesa tra due alberi e finisce in ospedale; una donna muore in uno strano incidente sul lavoro; il primogenito del barone locale viene malmenato a sangue; il figlio disabile della levatrice viene seviziato e rischia di perdere la vista. Nessuno sa chi possa essere stato. Ma il maestro - voce narrante che dopo molti decenni racconta quanto accaduto - finisce per sospettare dei bambini del villaggio. Quelle violenze inspiegabili e gratuite, si scoprirà, sono conseguenza delle vessazioni che subiscono da parte dei genitori.
Il nastro bianco è quello che il pastore del villaggio fa indossare ai suoi figli: deve essere il simbolo della loro purezza, richiamo a una vita segnata dalla virtù, che non cede alle tentazioni; ma anche un richiamo alle sue aspettative di padre, a una fiducia che non può essere tradita. Pena il castigo. Un castigo fatto di divieti, punizioni che diventano abusi, finanche sevizie. Tutto in nome di una religiosità malintesa, la quale induce a credere che ci si possa purificare dei peccati attraverso una pratica ipocrita e bigotta; una religiosità che pretende un'educazione autoritaria (ma non autorevole) basata sulla repressione e su una morale incapace di comprendere il male celato nella ricerca maniacale e irrazionale di un utopico bene. Al punto che quei bambini diventano oggetto di una ossessione educativa che finisce per minare la loro fragile psiche trasformandoli, attraverso quel processo perverso in cui le vittime diventano carnefici, in inconsapevoli mostri.
Violati nel corpo e nella mente, oppressi dai sensi di colpa, nel terribile sforzo di non deludere le assurde aspettative di incondizionata obbedienza degli adulti - i padri, perché le donne non hanno voce nelle questioni educative - i piccoli del villaggio trovano modo di scaricare le loro devastanti tensioni interiori, lasciandosi andare a comportamenti violenti della cui malvagità non sembrano rendersi conto. Una verità che gli adulti si rifiutano di accettare perché scomoda e compromettente.
In realtà non si tratta di una vendetta per ciò che subiscono. È molto peggio: pensano di agire per conto di Dio - non a caso il primo titolo scelto per il film era "la mano destra di Dio" - punendo quelli che non condividono i principi che loro sono costretti a seguire e ai quali finiscono per credere. Del resto, dopo il primo episodio di violenza, uno dei ragazzi oppresso dal senso di colpa mette a rischio deliberatamente la propria vita; e al maestro che gliene chiede conto risponde: "Ho voluto dare a Dio la possibilità di uccidermi. Non lo ha fatto. Dunque non è in collera con me".
L'occhio di Haneke, pur non mostrando esplicitamente nulla, non risparmia alcunché delle umane vicende che si consumano nel villaggio, dove serpeggiano stupidità, rancori e invidia e si nascondono torbide passioni. Con un bianco e nero freddo e di grande rigore stilistico, e con una fotografia d'altri tempi, in un formalismo che non trascura certo i contenuti, il regista - già apprezzato per La pianista - scandaglia con bravura la psicologia dei vari personaggi e, tramite questi, i meccanismi perversi attraverso i quali il seme del male si insinua nella società partendo dai suoi membri più giovani: quelli che una dozzina di anni dopo non avrebbero avuto difficoltà ad abbracciare l'aberrante ideologia nazista che avrebbe fatto della cieca obbedienza uno dei suoi pilastri. In tal senso Haneke presenta una lettura in qualche modo predittiva a posteriori, ma vuole anche mettere in guardia dai pericoli dell'autoritarismo ottuso, nutrito di ideali assoluti, facile preda del fondamentalismo. Con Il nastro bianco, film inquietante e interrogativo ma di grande suggestione, si va alla radice del male frutto di un ideale deviato.
(©L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009)
Un’altra possibile deriva verso la vita“artificiale” – Dallapiccola - Il genetista: in prospettiva si potrà arrivare alla riproduzione senza necessità di un uomo e di una donna. Ma saremo in grado di fermarci? - DA MILANO A NTONELLA M ARIANI – Avvenire, 30 ottobre 2009
C ellule germinali ottenute a partire da staminali embrionali umane e in grado potenzialmente di trasformarsi in spermatozoi e ovuli. Ufficialmente la tecnologia impiegata sarà applicata alla cura della sterilità, ma è anche un altro passo verso una riproduzione ' asessuata', dove l’uomo e la donna non sono più indispensabili per dare vita a un altro essere umano. Ne parliamo con Bruno Dallapiccola, docente di Genetica medica alla Sapienza di Roma, che innanzitutto invita alla prudenza. «Un risultato come quello ottenuto dai ricercatori della Stanford University non significa che esso sia effettivamente trasferibile in una terapia. Quali prove abbiamo che i gameti prodotti in questa maniera siano funzionalmente adatti?
».
E fin qui, professor Dallapiccola, parliamo di tecnica. Esistono però anche implicazioni etiche?
C’è senz’altro da chiedersi fino a che punto riteniamo che sia eticamente corretto costruire un embrione e poi distruggerlo per recuperare da esso cellule staminali da utilizzare per correggere l’infertilità, che è una patologia molto comune.
Esistono alternative all’utilizzo degli embrioni in questo filone di ricerca?
L’alternativa che si può proporre è l’utilizzo delle cellule IPS, le cellule adulte riprogrammate per diventare cellule staminali embrionali. In questo caso si evita il problema etico di creare un embrione per poi doverlo distruggere. Anche in questo caso, però, resterebbero dubbi sul reale funzionamento del genoma così ottenuto. Come la clonazione animale ha dimostrato negli ultimi 10 anni, tutto ciò che è riprogrammazione cellulare comporta un margine elevato di errori, insuccessi, patologie.
Lo studio pubblicato su 'Nature' segna un altro passo verso la realizzazione del sogno-incubo di una riproduzione della vita totalmente in laboratorio, senza la necessità di un uomo e di una donna.
Cosa ne pensa?
Penso che in una prospettiva lontana si può immaginare di arrivare anche a questo risultato. Ma restano alcune domande di fondo: perché, per chi, per quale finalità i ricercatori mettono a disposizione le loro energie? Dobbiamo fare davvero tutto ciò che si può fare? O siamo in grado a un certo punto di fermarci a riflettere su quello che stiamo facendo? Un bambino non viene al mondo per un capriccio della scienza, ma ha il diritto ad avere l’imprinting di un padre e di una madre. Mi pare che il buon senso che ha guidato per secoli la medicina stia venendo meno di fronte allo strapotere della scienza, che poi si mescola malamente con interessi economici. Inventarsi gravidanze che per vie naturali non potrebbero avvenire può aprire la strada a richieste in questo senso da parte di persone nei confronti dei quali una parte della politica e della società ha ancora delle riserve. Penso agli omosessuali. Ecco, questo futuro per ora è ipotetico, ma le ricerche degli scienziati lo stanno rendendo possibile.
Scola: «Unità dei saperi per il futuro della scuola» - DA V ENEZIA F RANCESCO D AL M AS – Avvenire, 30 ottobre 2009
All’inaugurazione dell’anno accademico del «Marcianum» il patriarca di Venezia invoca «innovazione ma anche educazione» Prolusione di Gotti Tedeschi
C ome perseguire l’eccellenza, dall’università all’impresa, passando per l’intero sistema scolastico? Di che cosa sostanziare l’innovazione, obiettivo della riforma universitaria, ma anche passaggio obbligato per uscire dalla crisi economica? Attraverso, ad esempio, l’unità dei saperi. Una risposta troppo semplice o troppo accademica? No, è l’esperienza quotidiana di uno dei principali poli del sapere, lo Studium Generale Marcianum di Venezia, che ieri ha celebrato il Dies Accademicus 2010, con il patriarca Angelo Scola, suo Gran Cancelliere, il rettore Brian Ferme, Gotti Tedeschi, economista e presidente dello Ior (Istituto per le Opere di Religione della Santa Sede), che ha tenuto la prolusione su “Il senso della vita e il senso dell’economia secondo l’Enciclica Caritas in Veritate”. Dopo l’erezione dell’Istituto di Diritto Canonico San Pio X a Facoltà, l’anno scorso, il Marcianum si è arricchito dell’Alta Scuola Società, Economia, Teologia (Asset). L’ambizione del Marcianum - spiega il cardinale Scola - è quella di far interagire fra loro saperi e discipline in un’indagine attenta della realtà tutta intera, avendo cura dell’unità del soggetto personale e comunitario. Unità che, nel caso del Marcianum trae origine dalla comunità di docenti e studenti, senza la quale, secondo il patriarca, nessuna autentica impresa culturale ed educativa, dalla scuola primaria fino alla ricerca post-universitaria, sarebbe possibile. Un’esperienza, quella veneziana, che certifica come la tensione ad una maggior unità del sapere, dal punto di vista dell’oggetto, non può avvenire a carico di una disciplina che subordini a sé tutte le altre attraverso l’elaborazione di sistemi comuni a tutte le scienze.
«Essa dovrà piuttosto far leva su quell’allargamento della ragione – così il patriarca – più volte richiamato da Benedetto XVI». Un possibile paradigma? È proprio quello della Caritas in Veritate, in cui il Papa «chiama il sapere teologico ad un dialogo necessario e fruttuoso con non pochi importanti saperi». In particolare, nel contesto della crisi economica e alla luce della necessità, per lo stesso mondo produttivo, di ripensare categorie come soggetto del lavoro, mercato, impresa e profitto «il Papa teologo ha efficacemente sostenuto che la carità nella verità non rappresenta un tocco cosmetico da aggiungere estrinsecamente alle teorie economiche per correggerne ex-post le distorsioni e gli squilibri, ma è un’esigenza della stessa ragione economica ». È un metodo, quello usato dal Pontefice, che, applicato ai diversi saperi, può rappresentare un potente stimolo per il lavoro delle istituzioni accademiche e culturali cui ancor più oggi tocca l’intrapresa dell’innovazione. Innovazione, frutto di una cultura dell’unità, che non può più essere concepita senza una organica paideia». La crisi, appunto. Per Ettore Gotti Tedeschi non ci sono dubbi: la sua origine non sta tanto nell’«avidità» di taluni banchieri, quanto nel fatto che per lunghi, troppi anni «si è negata la vita umana». E «se la crescita è zero – ha spiegato Gotti Tedeschi – aumentano i costi fissi», da quelli per le pensioni a quelli per la sanità, perché la popolazione invecchia. E le tasse, evidentemente, non si possono diminuire. Crolla il risparmio, le attività finanziarie vanno in difficoltà, la produttività non aumenta, lo sviluppo si ferma.
Popper: sull’etica la scienza si fermi - Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800. E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro» - DI D ARIO A NTISERI – Avvenire, 30 ottobre 2009
Le riflessioni contenute nel volume La società aperta , riguardanti il rapporto tra scienza e fede, sono un’eco della più ampia trattazione del problema sviluppato da Karl Popper nella conferenza su Scienza e religione. «Non molto tempo fa - leggiamo all’inizio del suo discorso - esisteva una notevole tensione fra scienza e religione. Questa tensione si accentuò durante il XIX secolo, in particolare a partire dalla polemica su Darwin e la teoria dell’evoluzione ». Ebbene, la tesi principale fatta propria da Popper è che «non ci può essere alcun disaccordo fra una scienza che non tenti di oltrepassare i suoi confini e una religione che non tenti di trattare argomenti che in realtà appartengono al campo della scienza». Il contrasto del XIX secolo fra scienza e religione - soggiunge Popper - trova la sua scaturigine in uno sconfinamento da entrambi i lati. «Entrambe le parti sono colpevoli, gli scienziati così come i difensori della fede: gli scienziati perché non si resero conto che il loro campo è interamente confinato al mondo dell’esperienza e perché lo straordinario sviluppo scientifico di cui erano testimoni li spinse a credere che non ci fosse niente nel nostro mondo che non sarebbe rientrato un giorno nel campo della scienza. I difensori della fede, dall’altro lato, sono colpevoli perché non si resero pienamente conto che la fede religiosa è fondamentalmente differente da quella che solitamente chiamiamo conoscenza scientifica e che non è compito della religione fare affermazioni su problemi che rientrano nel campo della scienza e che possono essere studiati con il metodo scientifico».
Né sostenibile, secondo Popper, è la posizione di coloro che affermano che la scienza o, meglio, gli sviluppi della scienza, supporterebbero la fede religiosa. Popper, al riguardo, assume un punto di vista completamente differente: «Ammettiamo - egli dice - che la scienza sia considerata come un qualcosa che supporti la religione; allora, se in una determinata fase del suo sviluppo risulta che essa è d’accordo con alcune dottrine religiose che noi abbracciamo per questa ragione, dovremmo anche accettare la confutazione di queste dottrine da parte della scienza, se in una certa altra fase del suo sviluppo la scienza dovesse giungere ad una concezione differente». E, in effetti, la scienza «non si sviluppa tramite l’accumulazione di conoscenze»; essa, piuttosto, «si sviluppa tramite rivoluzioni ». Legare la fede religiosa ad una teoria scientifica equivale a porla a livello delle ipotesi scientifiche. «Mi sembra però perfettamente chiaro insiste Popper - che questo non sia il significato della dottrina religiosa dell’esistenza di Dio. Una fede religiosa non si basa su ipotesi. Essa si situa a un livello completamente differente ». E qui sta «la ragione per cui scienza e fede non possono essere in conflitto reciproco, né supportarsi reciprocamente». Il livello in cui operano le fedi è soprattutto quello etico. E «il regno delle nostre azioni pratiche, dei nostri obiettivi pratici, e in particolare delle nostre decisioni morali, il modo in cui ci comportiamo nei confronti degli altri uomini e in cui tentiamo di condividere le nostre vite, tutte queste cose co- stituiscono un regno che in un certo senso non rientra nel campo della scienza». In ambito etico, laddove si deve scegliere quale comportamento assumere, «dobbiamo aderire a quell’insegnamento fondamentale che è anche quello del cristianesimo, ossia che la nostra coscienza è l’ultima corte d’appello. In tutte queste questioni, la scienza non può aiutarci. La scienza nel suo campo di ricerca specifico non può dirci che cosa dovremmo fare. Non interferisce nel campo morale e religioso ». E c’è un ulteriore problema affrontato da Popper: il problema del conflitto tra religione e irreligiosità; un problema considerato di grande rilevanza sia dai credenti in una o in un’altra delle religioni riconosciute, sia da quanti si sono considerati o si dichiarano atei o liberi pensatori o di non avere nessuna religione. «Penso anche qui - sottolinea Popper - che entrambe le parti abbiano torto. Lo credo più in particolare nel caso di quegli atei che hanno sostenuto con così tanta enfasi di non credere in nessuna religione specifica. Sostengo che queste persone erano indubbiamente religiose proprio nello stesso senso in cui diciamo che sono religiosi coloro i quali credono nelle tante differenti fedi. E sostengo che quanto più entusiasticamente dichiaravano la loro irreligiosità, tanto più chiaramente dimostravano, in realtà, di appartenere a una religione. La mia tesi è che, sebbene ci possano essere vari gradi di fede, sebbene la fede possa essere molto forte in alcuni e piuttosto debole in altri, non esiste probabilmente alcun uomo che ne sia totalmente privo. Di conseguenza, anziché contrapporre religione e irreligiosità, possiamo contrapporre soltanto i differenti generi e gradi di fede ». E tra le fedi «completamente disumane » Popper ha in mente «i vari tipi di totalitarismo e di razzismo»: «Questi sono movimenti che con una fervente fede tentano di distruggere la maggiore conquista del cristianesimo: la credenza che siamo tutti fratelli, che tutte le differenze fra noi non sono alla fine molto importanti; la credenza, in breve, nell’unità dell’umanità». Di fronte alle diverse fedi e ai differenti principi etici, non possiamo rivolgerci alla scienza per decidere a chi credere o che cosa credere e che cosa fare. Di fronte al pluralismo delle fedi e al politeismo dei valori siamo condannati ad essere liberi: «Dobbiamo aderire a quell’insegnamento fondamentale che è anche quello del cristianesimo, ossia che la nostra coscienza è l’ultima corte d’appello». Ed ecco come lo stesso Popper riassume il nucleo centrale della sua conferenza: «I regni della scienza e della religione non interferiscono reciprocamente. Ogni conflitto fra scienza e religione è dovuto a uno sconfinamento, da una parte o dall’altra. Ma i regni della religione e dei problemi morali in larghissima misura coincidono. Ciò non significa, tuttavia, che l’essere religioso renda morale un uomo. Esistono anche religioni del male e solo la nostra decisione, basata sulla nostra coscienza, può aiutarci a distinguere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato».