mercoledì 24 febbraio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) DON GIUSSANI: MAESTRO DI VITA, AMICO E PADRE - Messa di suffragio celebrata dal Cardinale Dionigi Tettamanzi
2) Il quinto anniversario della morte del fondatore di Comunione e liberazione - Don Giussani maestro d'umanità e di vita cristiana - L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2010
3) La nuova laicità - Lorenzo Albacete - mercoledì 24 febbraio 2010 – ilsussidiario.net - Nel numero della scorsa settimana di Time Magazine, è apparso un articolo molto interessante di Peter Beinart, professore associato di giornalismo e scienze politiche alla City University di New York e Senior Fellow della New American Foundation.
4) IL CASO/ Sbai: Hina Saleem, il delitto di chi piega la religione alla violenza - Souad Sbai - mercoledì 24 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
5) Avvenire, 23 Febbraio 2010 - IL DOCUMENTO - La Congregazione per la dottrina della Fede: «Ma cibo e acqua non manchino ai vegetativi»
6) Avvenire, 23 Febbraio 2010 - FINE VITA - Biotestamento: se inefficace, stop alla nutrizione artificiale



DON GIUSSANI: MAESTRO DI VITA, AMICO E PADRE - Messa di suffragio celebrata dal Cardinale Dionigi Tettamanzi
ROMA, martedì, 23 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Don Luigi Giussani è stato “uomo, cristiano, sacerdote, insegnante, educatore, maestro di vita cristiana nella Chiesa e nella società, amico e padre”. Così lo ha ricordato lunedì nel duomo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi nel presiedere una messa di suffragio nel quinto anniversario della morte del fondatore di Comunione e Liberazione (Cl).
In questi giorni centinaia di messe sono state celebrate in Italia e nel mondo in memoria del sacerdote originario di Desio, un paesino nei pressi di Milano, e in occasione del ventottesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl, il cui primo nucleo nacque al liceo classico milanese “Berchet”.
Ieri sera, nella cattedrale ambrosiana erano circa diecimila i fedeli presenti.
Nella sua omelia l'Arcivescovo di Milano ha abbozzato i tratti salienti della spiritualità e dell'azione educativa di don Giussani, incentrati sul nucleo centrale e originale dell’avvenimento cristiano: quel “nucleo che sintetizza l’intero mistero di Cristo – il Verbo di Dio che si fa carne – e che insieme lo fa esplodere come evento di salvezza, ossia di liberazione dal male del peccato, per ciascuno di noi e per tutta l’umanità”.
Fu lo stesso don Giussani a dire in Piazza San Pietro il 30 maggio 1998 in occasione dell’incontro di Papa Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità: “Il Mistero come misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”.
Con i suoi insegnamenti, ha spiegato il Cardinale Tettamanzi, don Giussani ha voluto far capire che l'uomo trova la “sua piena verità, la sua autentica identità, la sua nuova dignità e grandezza” solo nel “rapporto personale estremamente concreto” con Cristo.
Infatti, ha continuato, “il cristianesimo non è semplice teoria, non generico moralismo, non tentativo di autorealizzazione umana, ma è l’incontro personale-personalissimo di Cristo con ciascuno di noi”.
E il contenuto della fede cristiana, ha continuato l'Arcivescovo di Milano, è “inscindibilmente alleata” alla ragione umana, è anzi l'incontro di “una ragione che ha l’audacia di giungere alle soglie del mistero sino a intuirlo come possibilità concreta” e di “una fede che, di fronte allo svelamento gratuito del mistero, esige la ragione, la onora, la conferma nelle sue capacità, la purifica, la esalta e la sospinge non solo sino alle soglie ma dentro il mistero stesso”.
Per questo , ha sottolineato, “la formazione della coscienza secondo la fede cristiana si pone come fondamento e forza di quell’impegno educativo che rappresenta senza alcun dubbio, come spesso ripete il Santo Padre, una delle attuali priorità pastorali della Chiesa”.
In quest'ottica, ha continuato il porporato, l’insegnamento, la vita, le opere di don Giussani hanno molto da offrire alle nostre comunità, perché “il discernimento cristiano sulla realtà sfocia per suo interiore dinamismo nell’agire, diviene appello ineludibile al dono più grande che Dio ci ha fatto, quello della libertà, chiamata responsabilmente a fruttificare in atteggiamenti e comportamenti, in stili di vita e gesti concreti, in iniziative e opere le più diverse ma sempre coerenti con lo stile operativo di Cristo”.
“Sì - ha concluso - , l’incontro con Cristo genera per grazia una nuova cultura e una nuova capacità di affrontare la storia e di forgiarla secondo il disegno di Dio e, proprio per questo, secondo le esigenze più vere e profonde del cuore di ogni uomo”.
Al termine della messa anche don Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Cl, ha voluto ricordare don Giussani: “Siamo pieni di gratitudine al Signore per la sua vita e perché questa realtà che da lui è nata è viva e ci impegna a immedesimarci sempre di più con il suo carisma”.
“Più passa il tempo, più ci rendiamo conto che è la risposta adeguata alle circostanze che stiamo vivendo – ha aggiunto il sacerdote –. Lo vedo quando visito le nostre comunità nel mondo e in Italia: è impressionante come lui continui a essere presente e continui ad accompagnarci con tutto quanto ci ha lasciato e con tutto ciò che opera in noi e per noi nel presente”.


Il quinto anniversario della morte del fondatore di Comunione e liberazione - Don Giussani maestro d'umanità e di vita cristiana - L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2010
Roma, 23. Un moderno testimone di umanità e un maestro di vita cristiana per la Chiesa e la società. Così, a cinque anni dalla morte (22 febbraio 2005) viene ricordato don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione (Cl). In questi giorni centinaia di messe vengono celebrate in Italia e nel mondo in memoria del sacerdote lombardo e in occasione del ventottesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl.
Ieri sera, in Duomo a Milano, in diecimila hanno partecipato alla celebrazione presieduta dal cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi. Grande partecipazione, sempre ieri sera, anche a Roma nella chiesa di Santa Sabina all'Aventino per la messa celebrata dal cardinale José Saraiva Martins. Mentre questa sera a Genova, nella chiesa di Santa Marta, la celebrazione eucaristica sarà presieduta dal cardinale arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana. Secondo l'indicazione di don Julián Carrón, il successore di don Giussani alla guida del movimento, tutte le messe vengono celebrate secondo la seguente intenzione: "Il Signore aiuti la Fraternità di Cl a realizzare il proprio scopo: mostrare a tutti, secondo il carisma di don Giussani, la pertinenza della fede alle esigenze della vita". L'attualità di don Giussani, "interprete straordinario del suo tempo e dello spirito del concilio Vaticano ii", è ricordata anche in un messaggio del presidente del Senato italiano, Renato Schifani.
Nella sua omelia il cardinale arcivescovo di Milano ha come prima cosa ringraziato il Signore "per i doni che, attraverso la vita e le opere di don Giussani, hanno arricchito e continuano ad arricchire la Chiesa e la società": il nostro "è un ricordo, un riandare con il cuore alla figura di don Giussani come uomo, cristiano, sacerdote, insegnante, educatore, maestro di vita cristiana nella Chiesa e nella società, amico e padre". Un riandare con il cuore - ha proseguito il porporato - "che si fa responsabilità e impegno: tocca a noi, e non solo, continuare nel tempo la fioritura e la maturazione del carisma ecclesiale di don Giussani, sia custodendo quanto egli ha detto, scritto e fatto, sia e soprattutto lasciandoci ispirare e stimolare, e in qualche modo rimodulare in rapporto alle nuove situazioni della Chiesa e della società, dalla viva eredità spirituale, pastorale, educativa e umana ch'egli ci ha lasciato".
Tettamanzi si è poi soffermato su alcuni punti qualificanti della spiritualità e dell'azione educativa di don Giussani: il mistero della misericordia divina, che "resta l'ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia", insieme a quelli dell'incarnazione e della resurrezione della carne. "Proprio su questa interpretazione del nucleo centrale dell'esperienza cristiana - ha detto il cardinale - si è sempre radicata e sviluppata in modo singolarmente lucido e forte la spiritualità che don Giussani ha vissuto e della quale ha contagiato i suoi discepoli e amici. Il cristianesimo non è semplice teoria, non generico moralismo, non tentativo di autorealizzazione umana, ma è "l'incontro personale-personalissimo" di Cristo con ciascuno di noi: incontro che diviene "presenza", "sguardo", "dialogo", "comunione" sino a diventare "unità": "una carne sola", nel senso più alto possibile". In questo senso, "in una incisiva espressione della prima enciclica di papa Benedetto XVI" si può rintracciare "quello che può definirsi il filo rosso della vita e della passione educativa di don Giussani e di Comunione e liberazione: "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (Deus caritas est, 1)".
Al termine della messa anche don Carrón ha voluto ricordare don Giussani: "Siamo pieni di gratitudine al Signore per la sua vita e perché questa realtà che da lui è nata è viva e ci impegna a immedesimarci sempre di più con il suo carisma. Più passa il tempo, più ci rendiamo conto che è la risposta adeguata alle circostanze che stiamo vivendo. È impressionante come lui continui a essere presente e continui ad accompagnarci con tutto quanto ci ha lasciato e con tutto ciò che opera in noi e per noi nel presente".
Un particolare ricordo di don Giussani è proposto anche da uno dei suoi primi discepoli, il cardinale patriarca di Venezia, Angelo Scola. Con un articolo pubblicato dal "Sussidiario.net", Scola sottolinea l'acutezza di giudizio di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia all'inizio degli anni Cinquanta. "Una situazione - sono parole di Giussani - che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro Paese". Così, "quando il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la società, Giussani percepisce con lucidità l'ondata di secolarizzazione che si sta per abbattere sull'Italia cattolica, i cui effetti saranno visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968".
Da dove poteva nascere, si domanda il patriarca di Venezia, un simile, profetico giudizio? "Dalla percezione - risponde - che tale presenza massiccia non era che l'eredità inerziale di un passato". Scola, infatti, ricorda anche queste parole di Giussani: "Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un'esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale". Ma questa dignità culturale "è impossibile se non a partire dall'esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all'uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo". Per il patriarca di Venezia, in definitiva, don Giussani volle dimostrare "la cum-venientia del fatto cristiano" con quell'"insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell'uomo coincide". E "per riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea".
(©L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2010)


La nuova laicità - Lorenzo Albacete - mercoledì 24 febbraio 2010 – ilsussidiario.net - Nel numero della scorsa settimana di Time Magazine, è apparso un articolo molto interessante di Peter Beinart, professore associato di giornalismo e scienze politiche alla City University di New York e Senior Fellow della New American Foundation.

Nel 2000, quando era direttore dell’influente rivista The New Republic, Beinart partecipò al Meeting di Rimini e scrisse un articolo per Tracce in cui affermava che un evento come il Meeting avrebbe avuto un grande impatto culturale negli Stati Uniti.

In questo articolo ("Perché Washington si è divisa in nodi"), Beinart offre un’analisi della pericolosa paralisi politica che affligge gli Stati Uniti in questo momento. Secondo Beinart, l’origine di questa paralisi risiede in ciò che lui chiama «la morte dei moderati». Questo Paese, dice, è preso in un «circolo vizioso» che ha le sue radici nella «grande riorganizzazione della politica americana avvenuta durante gli ultimi quarant’anni».

Fino al 1969, scrive, sia i Repubblicani che i Democratici, malgrado le differenze tra loro su concrete materie di interesse nazionale, costituivano un unico establishment politico che governava la nazione. Questa situazione ha iniziato a sfaldarsi con i cambiamenti sociali nei decenni ’60 e ’70. I Democratici liberal del Nord hanno iniziato a identificare la loro politica con cause quali i diritti civili, l’aborto, la protezione dell’ambiente, unendole a una politica estera meno aggressiva che minimizzava i pericoli del comunismo internazionale.


Come risultato, Democratici conservatori del Sud hanno cominciato a passare al Partito Repubblicano. Quando il Partito Repubblicano ha cominciato a sua volta a spostarsi verso destra, i suoi progressisti al Nord sono diventati Democratici.

A questo punto il conflitto è diventato tra partiti e regioni. Se un partito si spostava a sinistra trovava sempre più difficile rimanere il potere nelle regioni più conservatrici, e la stessa cosa succedeva nelle parti più progressiste del Paese per un partito che andasse verso destra.

Di conseguenza, «partito, regione e ideologia diventavano sempre più allineate». Le conseguenze di questo allineamento si sono immediatamente fatte sentire a Washington, «dove la politica divenne sempre meno una partita da cubo di Rubik e sempre più una partita di shirts vs. skins» (camicie contro pelli: il riferimento è a quelle partite informali dove i membri delle squadre si distinguono per il fatto di portare o meno la camicia).

Il primo presidente eletto in questa nuova situazione, il primo presidente “camicia e pelle” è stato Ronald Reagan, ideologicamente un conservatore. Tuttavia, è con l’elezione di Bill Clinton che il “circolo vizioso” inizia a fare effetto. Come scrive Beinart, in quel periodo «i Repubblicani nel congresso si resero conto che avrebbero potuto usare la radicalizzazione politica per contrastare il governo (utilizzando il filibustering come arma paralizzante) e gli errori del governo per vincere le elezioni. Così la politica del circolo vizioso ha cominciato a diventare una forma d’arte».
La chiave della politica del circolo vizioso è quindi: «Quando i partiti sono polarizzati, è facile impedire che qualcosa venga realizzato. Se non si fa niente, la gente si rivolta contro il governo. Se si è il partito non al governo, il partito che attacca il governo, si vince».

Nel suo articolo, Beinart avanza una serie di proposte per rompere il circolo vizioso e per sostituire il conflitto ideologico con una nuova forma del vecchio metodo basato sul compromesso pragmatico per risolvere i bisogni più urgenti del Paese. Non ho la competenza per giudicare le proposte di Beinart, ma mi chiedo: perché il vecchio metodo di compromessi moderati è andato a pezzi? È possibile che contenesse esso stesso i semi per la sua distruzione?

La politica è l’arte del compromesso, tanto più quando si tratta di governare un Paese così differenziato al suo interno come gli Stati Uniti. Tuttavia, su cosa si possono costruire questi compromessi?

Le cause che hanno iniziato a definire l’identità del Partito Democratico sono state portate avanti non come temi politici, ma come impegni etici assoluti. Alcune, come il diritto all’aborto, hanno rotto con la tradizione morale giudaico-cristiana, che sosteneva la politica americana del compromesso. Fino a quando una nuova tradizione morale non renderà possibili coalizioni in grado di resistere alle attuali divisioni ideologiche, la politica del circolo vizioso continuerà a tentare i partiti politici e i conflitti verranno considerati come uno scontro tra diritti inalienabili.

Su cosa potrebbe essere fondata una simile nuova tradizione morale? È il problema discusso nel famoso dialogo Ratzinger - Habermas (vedi Ragione e Fede in dialogo), ovvero la costruzione di una “nuova laicità”, come l’ha chiamata il Cardinale Angelo Scola, applicata agli Stati Uniti d’America.


IL CASO/ Sbai: Hina Saleem, il delitto di chi piega la religione alla violenza - Souad Sbai - mercoledì 24 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
Qualche giorno addietro Franco Rizzi, dalle pagine del sito Medarabnews, è tornato sulla vicenda di Hina Saleem all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna a 30 anni del padre aguzzino. Come tante altre voci che si sono affollate dopo il pronunciamento della suprema Corte, anche Rizzi si è affrettato a bollare le manifestazioni a favore della povera Hina come brodaglia annacquata di luoghi comuni sull’Islam e sull’islamofobia, parlando di “accanimento ideologico” da cui avrebbe preso piede la costruzione di «uno schema culturale secondo il quale con l’assassinio di Hina Saleem ci si trovava di fronte a un classico omicidio d’onore, maturato nell’incomprensione, nell’ignoranza e nell’islamismo radicale».

Credo allora, dato quello che ho letto sui giornali, che sia necessario fare alcune precisazioni sulla vicenda che rendano chiaro ciò che chiaro non sembra affatto. Di fatto la Corte di Cassazione ha accolto l’impianto accusatorio costruito dall’avvocato di parte civile, Loredana Gemelli, che nella fase istruttoria del processo aveva dimostrato una verità ben più sconcertante rispetto a quella del delitto di onore. Hina Saleem era infatti oggetto di violenza sessuale da parte del padre: ecco perché, secondo i giudici, «la motivazione assorbente dell’agire dell’imputato è scaturita da un patologico e distorto rapporto di "possesso parentale"».

Possesso-dominio, per essere più precisi. Quella stessa devianza che si ingenera in condizioni di particolare sottomissione della donna. Quella devianza le cui distorsioni avevano condotto Hina a sporgere una prima denuncia (e a essere successivamente allontanata dalla famiglia con provvedimento d'urgenza dal Tribunale per i Minori) per violenze e molestie paterne, poi ritrattata sotto la promessa di una mai concessa libertà: quella di andare a vivere con il suo ragazzo.

Hina dunque è stata vittima di un omicidio premeditato il cui movente è stato diluito nel brodo di usanze tribali primordiali al fine di aggirare il corso della giustizia puntando ad ottenere in sede processuale uno sconto di pena dovuto al rituale perpetrarsi della catena «donna-musulmana-innamorata-di-un-occidentale-disonore-della-famiglia». Una catena che avrebbe puntato a e ottenuto un ammorbidimento della sentenza in base all’assunto secondo il quale: “Sono musulmani, sono le loro tradizioni, sono abituati così».


Ecco allora che questo efferato omicidio, per di più compiuto da un padre su una figlia, diventa ancora più infame. Un delitto giustificato di fronte alla comunità pakistana, adducendo quelle stesse motivazioni cultural-religiose richiamate anche dal rito di sepoltura della ragazza, trovata decapitata, avvolta in un lenzuolo bianco e con la testa rivolta verso La Mecca, rivela una volta di più l’uso distorto, contorto e pusillanime che viene fatto della religione, prostrata al cospetto di furori umani. Troppo umani. Solo umani.

Quello che di positivo io ravviso nella sentenza della Cassazione è stato il fatto che i giudici, attenendosi agli atti, non hanno vacillato di fronte alla possibilità di prevedere uno sconto di pena rispetto ai 30 anni inflitti al padre, così come invece è accaduto per gli altri maschi coinvolti.
Una giustificazione odiosa pari a quella concessa dal famoso giudice di Hannover, della civilissima Germania, che ha concesso al condannato uno sconto di due dei sei anni inflitti per aver seviziato la propria fidanzata, riconoscendo le attenuanti generiche e culturali, derivanti dalla sua origine sarda.

Inoltre il processo per la morte della povera Hina ha messo in evidenza la premeditazione perpetrata nel condurre il crimine: un abile gioco preparato nel dettaglio e che condotto il padre Mohammed a fare espatriare il resto della famiglia in Pakistan, a vendere la propria casa e a cercare di fuggire egli stesso, questa volta senza successo. Ed è oltremodo singolare l’atteggiamento che la madre della ragazza ha tenuto al processo: essa ha giustificato il marito ribadendo che fosse stata la figlia la macchiata di ignominia e che, se certe cose accadevano in famiglia, bisognava subire e tacere. Per di più inveendo contro l’avvocato di parte civile. Quasi questo fosse il destino delle donne.


Mi sembra allora che la vicenda di Hina sia molto più complessa di quanto dipinta dai giornali o di quanto alcuni giornalisti e studiosi si siano affrettati ora ad affermare, ora a spergiurare di fronte all’opinione pubblica, dimostrando di non conoscere alcun atto processuale. Si tratta di una vicenda consumata in un contesto di degrado, dove la religione e la cultura sono state piegate alle perversioni di un padre e sventolate come cartina di tornasole di fronte alla comunità. Questo è il vero dramma di questa storia e questo deve servirci da monito affinché brutalità di tal fatta non possano più accadere.

È allora necessario affermare una volta di più che non vi sarà spazio nel nostro ordinamento per l’introduzione, seppure alla chetichella, o sotto mentite spoglie, della Sharia. Ma che al contrario bisognerà lavorare sodo per fare in modo che i diritti individuali, la dignità e l’integrità della persona vengano garantite al di la di qualsiasi giustificazione, culturale o religiosa che sia. Bisognerà valutare l’opportunità di considerare che ciò che oggi è interpretato come attenuante culturale venga invece trasformata in una vera e propria aggravante. Con tutte le conseguenze sul piano sanzionatorio.


Avvenire, 23 Febbraio 2010 - IL DOCUMENTO - La Congregazione per la dottrina della Fede: «Ma cibo e acqua non manchino ai vegetativi»
Sulle condizioni dei pazienti in stato vegetativo, sulla necessità che siano garantite loro alimentazione e idratazione e sull'accanimento terapeutico si era espressa in maniera identica a come oggi ha fatto la Camera la Congregazione per la dottrina della fede. Vale la pena rileggere le risposte fornite, in quell'occasione ai vescovi americani, che alla Congregazione avevano posto alcuni quesiti dopo la triste vicenda di Terri Schiavo. La Congregazione era stata chiamata a esprimere il suo parere da due quesiti: nel primo si chiedeva se fosse moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua ai pazienti in stato vegetativo, mentre nel secondo se questi trattamenti potessero essere interrotti nel caso fosse accertata l'irreversibilità della condizione. Pubblichiamo la nota di commento della Congregazione circa l'alimentazione e l'idratazione artificiali, resa nota il 14 settembre del 2007.

La Congregazione per la dottrina della fede ha formulato la risposta a due quesiti, presentati da S.E. Mons. William S. Skylstad, presidente della Conferenza episcopale statunitense, con lettera dell'11 luglio 2005, riguardanti l'alimentazione e l'idratazione dei pazienti che versano nella condizione comunemente denominata «stato vegetativo». L'oggetto delle domande è se l'alimentazione e l'idratazione di questi pazienti, soprattutto se somministrate per vie artificiali, non costituiscano un onere eccessivamente pesante per loro, per i parenti o per il sistema sanitario, fino al punto da poter essere considerate, anche alla luce della dottrina morale della Chiesa, un mezzo straordinario o sproporzionato, e quindi non moralmente obbligatorio.

In favore della possibilità di rinunciare all'alimentazione e all'idratazione di questi pazienti si invoca spesso il Discorso di Papa Pio XII ad un Congresso di anestesiologia del 24 novembre 1957. In esso il Pontefice ribadiva due principi etici generali. Da una parte, la ragione naturale e la morale cristiana insegnano che, in caso di malattia grave, il paziente e coloro che lo curano hanno il diritto e il dovere di mettere in atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita. D'altra parte, tale dovere comprende generalmente solo l'utilizzo dei mezzi che, considerate tutte le circostanze, sono ordinari, che non impongono cioè un onere straordinario per il paziente o per gli altri. Un obbligo più severo sarebbe troppo pesante per la maggioranza delle persone e renderebbe troppo difficile il raggiungimento di beni più importanti. La vita, la salute e tutte le attività temporali sono subordinate ai fini spirituali. Naturalmente ciò non vieta di fare più di quanto sia strettamente obbligatorio per conservare la vita e la salute, a condizione di non venir meno al rispetto di doveri più gravi.

Si deve notare, innanzitutto, che le risposte date da Pio XII si riferivano all'utilizzo e all'interruzione delle tecniche di rianimazione. Ma il caso allo studio nulla ha a che vedere con tali tecniche. I pazienti in «stato vegetativo» respirano spontaneamente, digeriscono naturalmente gli alimenti, svolgono altre funzioni metaboliche, e si trovano in una situazione stabile. Non riescono, però, ad alimentarsi da soli. Se non vengono loro somministrati artificialmente il cibo e i liquidi muoiono, e la causa della loro morte non è una malattia o lo «stato vegetativo», ma unicamente l'inanizione e la disidratazione. D'altra parte la somministrazione artificiale di acqua e cibo generalmente non impone un onere pesante né al paziente né ai parenti. Non comporta costi eccessivi, è alla portata di qualsiasi sistema sanitario di tipo medio, non richiede di per sé il ricovero, ed è proporzionata a raggiungere il suo scopo: impedire che il paziente muoia a causa dell'inanizione e della disidratazione. Non è né intende essere una terapia risolutiva, ma una cura ordinaria per la conservazione della vita.

Ciò che, invece, può costituire un onere notevole è il fatto di avere un parente in «stato vegetativo», se tale stato si prolunga nel tempo. È un onere simile a quello di curare un tetraplegico, un malato mentale grave, un Alzheimer avanzato, ecc. Sono persone che hanno bisogno di un'assistenza continua per mesi o addirittura per anni. Ma il principio formulato da Pio XII non può essere interpretato, per ragioni ovvie, nel senso che allora è lecito abbandonare a se stessi i pazienti, la cui cura ordinaria impone un onere consistente per la loro famiglia, lasciandoli quindi morire. Non è questo il senso in cui Pio XII parlava di mezzi straordinari.

Tutto fa pensare che ai pazienti in «stato vegetativo» debba essere applicata la prima parte del principio formulato da Pio XII: in caso di malattia grave, c'è il diritto e il dovere di mettere in atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita. Lo sviluppo del Magistero della Chiesa, che ha seguito da vicino i progressi della medicina e i dubbi che essi suscitano, lo conferma pienamente.

La Dichiarazione sull'eutanasia, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 5 maggio 1980, espose la distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati, e quella fra trattamenti terapeutici e cure normali dovute all'ammalato: «Nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi» (parte IV). Meno ancora possono essere interrotte le cure ordinarie per i pazienti che non si trovano di fronte ad una morte imminente, come è generalmente il caso di coloro che versano nello «stato vegetativo», per i quali sarebbe proprio l'interruzione delle cure ordinarie a causare la morte.

Il 27 giugno 1981 il Pontificio Consiglio Cor Unum pubblicò un documento dal titolo Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, nel quale, tra l'altro, si affermava: «Rimane, invece, l'obbligo stretto di proseguire ad ogni costo l'applicazione dei mezzi cosiddetti "minimali", di quelli cioè che normalmente e nelle condizioni abituali sono destinati a mantenere la vita (alimentazione, trasfusioni di sangue, iniezioni, ecc.). Interromperne la somministrazione significherebbe in pratica voler porre fine ai giorni del paziente» (n. 2.4.4).

In un Discorso rivolto ai partecipanti ad un Corso internazionale di aggiornamento sulle preleucemie umane, del 15 novembre 1985, Papa Giovanni Paolo II, richiamandosi alla Dichiarazione sull'eutanasia, affermò chiaramente che, in virtù del principio della proporzionalità delle cure, non ci si può dispensare «dall'impegno terapeutico valido a sostenere la vita né dall'assistenza con mezzi normali di sostegno vitale», tra i quali sta certamente la somministrazione di cibo e liquidi, e avverte che non sono lecite le omissioni che hanno lo scopo «di abbreviare la vita per risparmiare la sofferenza, al paziente o ai parenti».

Nel 1995 venne pubblicata dal Pontificio Consiglio per la pastorale degli operatori sanitari la Carta degli operatori sanitari. Nel n. 120 si afferma esplicitamente: «L'alimentazione e l'idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all'ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia».È del tutto esplicito il Discorso di Giovanni Paolo II ad un gruppo di vescovi degli Stati Uniti d'America in visita ad limina del 2 ottobre 1998: l'alimentazione e l'idratazione vengono considerate cure normali e mezzi ordinari per la conservazione della vita. È inaccettabile interromperle o non somministrarle se da tale decisione consegue la morte del paziente. Saremmo davanti ad un'eutanasia per omissione (cf. n. 4).

Nel Discorso del 20 marzo 2004, rivolto ai partecipanti ad un Congresso Internazionale su «I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici», Giovanni Paolo II confermò in termini molto chiari quanto era emerso nei documenti prima citati, offrendone anche l'adeguata interpretazione. Il Pontefice mise in risalto i seguenti punti:

1) «Per indicare la condizione di coloro il cui "stato vegetativo" si prolunga per oltre un anno, è stato coniato il termine di stato vegetativo permanente. In realtà, a tale definizione non corrisponde una diversa diagnosi, ma solo un giudizio di previsione convenzionale, relativo al fatto che la ripresa del paziente è, statisticamente parlando, sempre più difficile quanto più la condizione di stato vegetativo si prolunga nel tempo» (n. 2). 1

2) Di fronte a coloro che mettono in dubbio la stessa «qualità umana» dei pazienti in «stato vegetativo permanente», occorre riaffermare «che il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della sua vita. Un uomo, anche se gravemente malato od impedito nell'esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai diventerà un "vegetale" o un "animale"» (n. 3).

3) «L'ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.), ed alla prevenzione delle complicazioni legate all'allettamento. Egli ha diritto anche ad un intervento riabilitativo mirato ed al monitoraggio dei segni clinici di eventuale ripresa. In particolare, vorrei sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze» (n. 4).

4) I documenti precedenti vengono assunti e interpretati nel senso suddetto: «L'obbligo di non far mancare "le cure normali dovute all'ammalato in simili casi" (Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull'eutanasia, parte IV) comprende, infatti, anche l'impiego dell'alimentazione e idratazione (cf. Pontificio Consiglio Cor unum, Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, n. 2.4.4; Pontificio Consiglio per la pastorale degli operatori sanitari, Carta degli operatori sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l'abbandono o l'interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l'unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione» (n. 4).

Pertanto le Risposte che ora dà la Congregazione per la dottrina della fede si collocano nella linea dei documenti della Santa Sede appena citati e, in particolare, del Discorso di Giovanni Paolo II del 20 marzo 2004. Due sono i contenuti fondamentali. Si afferma, in primo luogo, che la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita per i pazienti in «stato vegetativo»: «Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l'idratazione e il nutrimento del paziente». Si precisa, in secondo luogo, che tale mezzo ordinario di sostegno vitale va assicurato anche a coloro che versano nello «stato vegetativo permanente», in quanto si tratta di persone, con la loro dignità umana fondamentale.

Nell'affermare che la somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio, la Congregazione per la dottrina della fede non esclude che in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l'alimentazione e l'idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo tenetur, sussistendo però l'obbligo di offrire le cure minimali disponibili e di procurarsi, se possibile, i mezzi necessari per un adeguato sostegno vitale. Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l'alimentazione e l'idratazione artificiali possano comportare per il paziente un'eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell'uso di ausili strumentali.

Questi casi eccezionali nulla tolgono però al criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo «stato vegetativo» si prolunghi.


Avvenire, 23 Febbraio 2010 - FINE VITA - Biotestamento: se inefficace, stop alla nutrizione artificiale
Alimentazione e idratazione "devono essere mantenute fino al termine della vita ad eccezione dei casi in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche esenziali del corpo". La commissione Affari sociali della Camera ha approvato a maggioranza, (23sì, compreso il voto di Paola Binetti, contro i 13 no dell'opposizione) l'emendamento del relatore Domenico Di Virgilio che modifica il comma 5 dell'articolo 3 della legge sul biotestamento.

"Il mio emendamento - ha spiegato il relatore Di Virgilio - è la conseguenza di un altro fatto che è stato sottovalutato dalle opposizioni. Mentre la legge Calabròriguardava solo i casi in stato vegetativo, qui intendiamo ampliare la platea per cui le dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) sono valide per tutti coloro che sitroveranno incapaci di intendere e di volere. Per lo stato vegetativo non avrei presentato nessun emendamento perché nutrizione e alimentazione non sono trattamenti medici e non vanno sospesi, ma diverso è il caso di pazienti in coma traumatico, ischemico che hanno fatto le dat per i quali il medico valuterà se ci sono le condizioni di continuare idratazione e alimentazione. Si tratta dunque - ha concluso -di un punto di partenza diverso, cosa che non tutti hanno compreso".