giovedì 11 febbraio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI - Mercoledì, 10 febbraio 2010 - Sant'Antonio di Padova
2) BENEDETTO XVI AFFIDA A MARIA LA PROTEZIONE DEI MALATI - Alla vigilia della Giornata Mondiale del Malato
3) Uno sguardo buono sulla vita - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 10 febbraio 2010
4) 11/02/2010 – CINA - Pechino rigetta l’appello per Liu Xiaobo - Rimane confermata la sentenza a 11 anni di prigione per “sovversione contro il potere dello Stato”. L’autore di Carta 08 aveva chiesto il rispetto dei diritti umani e la fine del partito unico, causa di corruzioni e ingiustizie. Stati Uniti, Ue, ong e Premi Nobel hanno domandato a più riprese la sua liberazione.
5) Una voce nel confronto tra fede e scienza - L'infinito vivo di Pavel Florenskij - di Marco Tibaldi - L'Osservatore Romano - 11 febbraio 2010
6) Avvenire, 11 Febbraio 2010 - La fiction tv su Franco Basaglia - Amare i matti: loro come noi, noi come loro
7) Macché «vitalismo»: è rispetto per la persona - di Michele Aramini – Al dogmatismo pro-autonomia nelle scelte di fine vita affermato da Maurizio Mori, presidente della Consulta (radicale) di bioetica, si contrappone una visione di libertà che non prescinde dal valore in sé della persona.Avvenire, 11 febbraio 2010
8) «Aborto più facile»: da Strasburgo la solita lezione – Avvenire, 11 febbraio 2010


BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI - Mercoledì, 10 febbraio 2010 - Sant'Antonio di Padova

Cari fratelli e sorelle,

due settimane fa ho presentato la figura di san Francesco di Assisi. Questa mattina vorrei parlare di un altro santo appartenente alla prima generazione dei Frati Minori: Antonio di Padova o, come viene anche chiamato, da Lisbona, riferendosi alla sua città natale. Si tratta di uno dei santi più popolari in tutta la Chiesa Cattolica, venerato non solo a Padova, dove è stata innalzata una splendida Basilica che raccoglie le sue spoglie mortali, ma in tutto il mondo. Sono care ai fedeli le immagini e le statue che lo rappresentano con il giglio, simbolo della sua purezza, o con il Bambino Gesù tra le braccia, a ricordo di una miracolosa apparizione menzionata da alcune fonti letterarie.

Antonio ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della spiritualità francescana, con le sue spiccate doti di intelligenza, di equilibrio, di zelo apostolico e, principalmente, di fervore mistico.

Nacque a Lisbona da una nobile famiglia, intorno al 1195, e fu battezzato con il nome di Fernando. Entrò fra i Canonici che seguivano la regola monastica di sant’Agostino, dapprima nel monastero di San Vincenzo a Lisbona e, successivamente, in quello della Santa Croce a Coimbra, rinomato centro culturale del Portogallo. Si dedicò con interesse e sollecitudine allo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa, acquisendo quella scienza teologica che mise a frutto nell’attività di insegnamento e di predicazione. A Coimbra avvenne l’episodio che impresse una svolta decisiva nella sua vita: qui, nel 1220 furono esposte le reliquie dei primi cinque missionari francescani, che si erano recati in Marocco, dove avevano incontrato il martirio. La loro vicenda fece nascere nel giovane Fernando il desiderio di imitarli e di avanzare nel cammino della perfezione cristiana: egli chiese allora di lasciare i Canonici agostiniani e di diventare Frate Minore. La sua domanda fu accolta e, preso il nome di Antonio, anch’egli partì per il Marocco, ma la Provvidenza divina dispose altrimenti. In seguito a una malattia, fu costretto a rientrare in Italia e, nel 1221, partecipò al famoso “Capitolo delle stuoie” ad Assisi, dove incontrò anche san Francesco. Successivamente, visse per qualche tempo nel totale nascondimento in un convento presso Forlì, nel nord dell’Italia, dove il Signore lo chiamò a un’altra missione. Invitato, per circostanze del tutto casuali, a predicare in occasione di un’ordinazione sacerdotale, mostrò di essere dotato di tale scienza ed eloquenza, che i Superiori lo destinarono alla predicazione. Iniziò così in Italia e in Francia, un’attività apostolica tanto intensa ed efficace da indurre non poche persone che si erano staccate dalla Chiesa a ritornare sui propri passi. Antonio fu anche tra i primi maestri di teologia dei Frati Minori, se non proprio il primo. Iniziò il suo insegnamento a Bologna, con la benedizione di san Francesco, il quale, riconoscendo le virtù di Antonio, gli inviò una breve lettera, che si apriva con queste parole: “Mi piace che insegni teologia ai frati”. Antonio pose le basi della teologia francescana che, coltivata da altre insigni figure di pensatori, avrebbe conosciuto il suo apice con san Bonaventura da Bagnoregio e il beato Duns Scoto.

Diventato Superiore provinciale dei Frati Minori dell’Italia settentrionale, continuò il ministero della predicazione, alternandolo con le mansioni di governo. Concluso l’incarico di Provinciale, si ritirò vicino a Padova, dove già altre volte si era recato. Dopo appena un anno, morì alle porte della Città, il 13 giugno 1231. Padova, che lo aveva accolto con affetto e venerazione in vita, gli tributò per sempre onore e devozione. Lo stesso Papa Gregorio IX, che dopo averlo ascoltato predicare lo aveva definito “Arca del Testamento”, lo canonizzò solo un anno dopo la morte nel 1232, anche in seguito ai miracoli avvenuti per la sua intercessione.

Nell’ultimo periodo di vita, Antonio mise per iscritto due cicli di “Sermoni”, intitolati rispettivamente “Sermoni domenicali” e “Sermoni sui Santi”, destinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell’Ordine francescano. In questi Sermoni egli commenta i testi della Scrittura presentati dalla Liturgia, utilizzando l’interpretazione patristico-medievale dei quattro sensi, quello letterale o storico, quello allegorico o cristologico, quello tropologico o morale, e quello anagogico, che orienta verso la vita eterna. Oggi si riscopre che questi sensi sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura e che è giusto interpretare la Sacra Scrittura cercando le quattro dimensioni della sua parola. Questi Sermoni di sant’Antonio sono testi teologico-omiletici, che riecheggiano la predicazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cristiana. È tanta la ricchezza di insegnamenti spirituali contenuta nei “Sermoni”, che il Venerabile Papa Pio XII, nel 1946, proclamò Antonio Dottore della Chiesa, attribuendogli il titolo di “Dottore evangelico”, perché da tali scritti emerge la freschezza e la bellezza del Vangelo; ancora oggi li possiamo leggere con grande profitto spirituale.

In questi Sermoni sant’Antonio parla della preghiera come di un rapporto di amore, che spinge l’uomo a colloquiare dolcemente con il Signore, creando una gioia ineffabile, che soavemente avvolge l’anima in orazione. Antonio ci ricorda che la preghiera ha bisogno di un’atmosfera di silenzio che non coincide con il distacco dal rumore esterno, ma è esperienza interiore, che mira a rimuovere le distrazioni provocate dalle preoccupazioni dell’anima, creando il silenzio nell’anima stessa. Secondo l’insegnamento di questo insigne Dottore francescano, la preghiera è articolata in quattro atteggiamenti, indispensabili, che, nel latino di Antonio, sono definiti così: obsecratio, oratio, postulatio, gratiarum actio. Potremmo tradurli nel modo seguente: aprire fiduciosamente il proprio cuore a Dio; questo è il primo passo del pregare, non semplicemente cogliere una parola, ma aprire il cuore alla presenza di Dio; poi colloquiare affettuosamente con Lui, vedendolo presente con me; e poi – cosa molto naturale - presentargli i nostri bisogni; infine lodarlo e ringraziarlo.

In questo insegnamento di sant’Antonio sulla preghiera cogliamo uno dei tratti specifici della teologia francescana, di cui egli è stato l’iniziatore, cioè il ruolo assegnato all’amore divino, che entra nella sfera degli affetti, della volontà, del cuore, e che è anche la sorgente da cui sgorga una conoscenza spirituale, che sorpassa ogni conoscenza. Infatti, amando, conosciamo.

Scrive ancora Antonio: “La carità è l’anima della fede, la rende viva; senza l’amore, la fede muore” (Sermones Dominicales et Festivi II, Messaggero, Padova 1979, p. 37).

Soltanto un’anima che prega può compiere progressi nella vita spirituale: è questo l’oggetto privilegiato della predicazione di sant’Antonio. Egli conosce bene i difetti della natura umana, la nostra tendenza a cadere nel peccato, per cui esorta continuamente a combattere l’inclinazione all’avidità, all’orgoglio, all’impurità, e a praticare invece le virtù della povertà e della generosità, dell’umiltà e dell’obbedienza, della castità e della purezza. Agli inizi del XIII secolo, nel contesto della rinascita delle città e del fiorire del commercio, cresceva il numero di persone insensibili alle necessità dei poveri. Per tale motivo, Antonio più volte invita i fedeli a pensare alla vera ricchezza, quella del cuore, che rendendo buoni e misericordiosi, fa accumulare tesori per il Cielo. “O ricchi - così egli esorta - fatevi amici… i poveri, accoglieteli nelle vostre case: saranno poi essi, i poveri, ad accogliervi negli eterni tabernacoli, dove c’è la bellezza della pace, la fiducia della sicurezza, e l’opulenta quiete dell’eterna sazietà” (Ibid., p. 29).

Non è forse questo, cari amici, un insegnamento molto importante anche oggi, quando la crisi finanziaria e i gravi squilibri economici impoveriscono non poche persone, e creano condizioni di miseria? Nella mia Enciclica Caritas in veritate ricordo: “L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona” (n. 45).

Antonio, alla scuola di Francesco, mette sempre Cristo al centro della vita e del pensiero, dell’azione e della predicazione. È questo un altro tratto tipico della teologia francescana: il cristocentrismo. Volentieri essa contempla, e invita a contemplare, i misteri dell’umanità del Signore, l’uomo Gesù, in modo particolare, il mistero della Natività, Dio che si è fatto Bambino, si è dato nelle nostre mani: un mistero che suscita sentimenti di amore e di gratitudine verso la bontà divina.

Da una parte la Natività, un punto centrale dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche la visione del Crocifisso ispira ad Antonio pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana, così che tutti, credenti e non credenti, possano trovare nel Crocifisso e nella sua immagine un significato che arricchisce la vita. Scrive sant’Antonio: “Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio. Lì potrai conoscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità umana e il tuo valore... In nessun altro luogo l’uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce” (Sermones Dominicales et Festivi III, pp. 213-214).

Meditando queste parole possiamo capire meglio l'importanza dell'immagine del Crocifisso per la nostra cultura, per il nostro umanesimo nato dalla fede cristiana. Proprio guardando il Crocifisso vediamo, come dice sant'Antonio, quanto grande è la dignità umana e il valore dell'uomo. In nessun altro punto si può capire quanto valga l'uomo, proprio perché Dio ci rende così importanti, ci vede così importanti, da essere, per Lui, degni della sua sofferenza; così tutta la dignità umana appare nello specchio del Crocifisso e lo sguardo verso di Lui è sempre fonte del riconoscimento della dignità umana.

Cari amici, possa Antonio di Padova, tanto venerato dai fedeli, intercedere per la Chiesa intera, e soprattutto per coloro che si dedicano alla predicazione; preghiamo il Signore affinché ci aiuti ad imparare un poco di questa arte da sant’Antonio. I predicatori, traendo ispirazione dal suo esempio, abbiano cura di unire solida e sana dottrina, pietà sincera e fervorosa, incisività nella comunicazione. In quest’anno sacerdotale, preghiamo perché i sacerdoti e i diaconi svolgano con sollecitudine questo ministero di annuncio e di attualizzazione della Parola di Dio ai fedeli, soprattutto attraverso le omelie liturgiche. Siano esse una presentazione efficace dell’eterna bellezza di Cristo, proprio come Antonio raccomandava: “Se predichi Gesù, egli scioglie i cuori duri; se lo invochi, addolcisci le amare tentazioni; se lo pensi, ti illumina il cuore; se lo leggi, egli ti sazia la mente” (Sermones Dominicales et Festivi III, p. 59).


BENEDETTO XVI AFFIDA A MARIA LA PROTEZIONE DEI MALATI - Alla vigilia della Giornata Mondiale del Malato

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Alla vigilia della Giornata Mondiale del Malato, che si celebra l'11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine di Lourdes, Benedetto XVI ha affidato proprio alla Madre di Cristo tutti i malati del mondo.
Nei suoi saluti dopo la catechesi ai fedeli e ai pellegrini che gremivano l'Aula Paolo VI del Vaticano per l'Udienza generale di questo mercoledì, il Pontefice ha voluto consegnare alla tenerezza materna della Vergine tutti coloro che vivono un'esperienza di sofferenza, sul proprio corpo o perché aiutano chi soffre.
"Alla protezione della Madonna affidiamo tutti i malati e quanti recano loro sollievo nella sofferenza", ha infatti affermato nel suo saluto ai pellegrini polacchi.
"I nostri fratelli che portano la croce dell'infermità e della sofferenza trovino il conforto nella Croce di Cristo", ha aggiunto, ricordando che prega per loro.
Il Papa si è poi rivolto, com'è abitudine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli.
"Maria Immacolata vi aiuti, cari giovani, a conservarvi sempre fedeli nell'impegno di seguire Cristo", ha affermato.
"Rivolga il suo sguardo pieno di amore e di tenerezza su voi, cari malati, e vi sostenga nel portare con serenità la vostra croce, in unione a quella di Cristo", ha aggiunto.
"Illumini voi, cari sposi novelli, nel cammino familiare che avete da poco iniziato, e lo renda ricco di bene e aperto alla vita, dono del Signore", ha concluso.


Uno sguardo buono sulla vita - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 10 febbraio 2010

L’anniversario della morte di Eluana Englaro ha riacceso il dibattito sulla problematica del fine vita. Le posizioni emerse un anno fa sono ugualmente perseguite con tenacia oggi. Non tutto però è come prima. Ora sono disponibili informazioni nuove che possono far cambiare opinione a coloro che non sono pregiudizialmente a favore o contro la vita. È notizia di questi giorni che in Belgio un uomo si è risvegliato dopo 23 anni e un altro, grazie a una nuova tecnica di risonanza magnetica, ha manifestato segni di facoltà psichica, arrivando a “dialogare” con i medici attraverso il cervello. Questo fatto dimostra la possibilità di verificare l’attività cerebrale di chi che si trova in “stato vegetativo”. Il passare del tempo rende pertanto inequivocabile che la scelta, a favore della vita o della morte di fronte a situazioni estreme e umanamente drammatiche come quella di Eluana, non dipende in ultima analisi dalle indicazioni dei dati scientifici piuttosto che dal sentimento di pietà, quanto dalla concezione antropologica che ci distingue. La lettura del libro di L. Bellaspiga e P. Ciociola, Eluana. I fatti, rende chiaro il problema. La decisione che prenderemo potrà essere anche suffragata dalla scienza, ma dipenderà dalla concezione che abbiamo della dignità della persona e dalla possibilità che la sofferenza abbia un senso. Se questo ci fosse abbastanza chiaro usciremmo facilmente dal problema di difendere o accusare un padre, per concentrarci invece sulla necessità di promuovere una nuova antropologia che, come espresso da mons. Fisichella, “dia maggiore spazio alla razionalità e trovi fondamento (come accadeva già prima che ci fosse il Cristianesimo) nella legge naturale”. A lato, poi, ci sta la questione, tutt’altro che marginale, della correttezza dell’informazione. Su Eluana sono state dette molte scorrettezze. Anche questo ha un peso non indifferente e non favorisce un affronto corretto. L’inviolabilità e l’indisponibilità della vita sono il fondamento di questa antropologia che propone una visione integrale della vita e della persona. Se, invece, la visone della vita porterà a ritenere “non degna di essere vissuta” una condizione di handicap grave, o “uno stato vegetativo persistente” o altro ancora, la scienza non avrà nulla da dire a favore della vita, perché i suoi dati sono filtrati dalla nostra coscienza cui la scienza non può togliere la libertà di riconoscere o negare. Per questo è importante l’educazione e per questo la fede non è in contrasto con la scienza, perché apre a una categoria di possibilità in più che salva la razionalità stessa. “In dubio pro vita”, viene da dire sulla riga di un antico principio. L’esordio della Caritas in veritate offre una riflessione interessante. “La carità nella verità di cui Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto con la sua morte e resurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo della persona e dell’umanità intera. L’amore – caritas - è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità…” Quello che ci serve per vivere.


11/02/2010 – CINA - Pechino rigetta l’appello per Liu Xiaobo - Rimane confermata la sentenza a 11 anni di prigione per “sovversione contro il potere dello Stato”. L’autore di Carta 08 aveva chiesto il rispetto dei diritti umani e la fine del partito unico, causa di corruzioni e ingiustizie. Stati Uniti, Ue, ong e Premi Nobel hanno domandato a più riprese la sua liberazione.


Pechino (AsiaNews/Agenzie) – L’Alta corte del popolo di Pechino ha confermato oggi la sentenza di 11 anni di prigione per Liu Xiaobo.
Lo scrittore e attivista democratico è stato condannato il giorno di Natale scorso a 11 anni di prigione per “incitazione alla sovversione contro il potere dello Stato”. Liu Xiaobo è uno degli estensori della Carta 08, un documento che domanda alla Cina di basare tutto lo sviluppo economico attuale sul rispetto dei diritti umani, compresa la libertà religiosa; di distinguere i poteri giudiziario, esecutivo e legislativo (attualmente tutti sotto l’egida del Partito comunista); di aprire a una società multipartitica, terminando l’epoca del Partito unico, fonte di corruzione e ingiustizie.

Il tribunale ha accusato Liu di aver cercato sostenitori nel firmare il documento. In effetti non appena pubblicato su internet – prima di essere oscurato dalla censura – Carta 08 ha ricevuto il sostegno di 300 persone. Nei mesi seguenti le firme sono giunte a circa 10 mila.

Liu si è difeso affermando che la libertà di opinione è garantita dalla costituzione cinese.

Prima e dopo la sentenza di Natale, 200 personalità della Cina hanno chiesto di essere processate e condannate perché condividono l’opinione di Liu Xiaobo.

Premi Nobel, organizzazioni non governative, governi di Usa e Unione europea hanno chiesto a più riprese la scarcerazione per Liu, ma Pechino ha sempre risposto in modo aspro rivendicando la questione come “un affare interno” al Paese.

Il direttore della Commissione Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha definito la sentenza su Liu “una ignominiosa ombra” sull’impegno di Pechino nel voler proteggere i diritti umani.


Una voce nel confronto tra fede e scienza - L'infinito vivo di Pavel Florenskij - di Marco Tibaldi - L'Osservatore Romano - 11 febbraio 2010
Una delle fratture più tragiche che si sono consumate lungo la modernità è quella tra fede e scienza. Nonostante tra i protagonisti di questa stagione della civiltà occidentale ci siano eminenti figure di credenti, ciò che è prevalso è il senso di reciproca estraneità, se non di vera e propria lotta e contrapposizione. Tra i portati della sensibilità postmoderna si registra un progressivo processo di riavvicinamento, cui ha contribuito non poco l'attività degli ultimi Pontefici. Cessate le polemiche, ricompresi i confini e gli ambiti propri ai diversi campi del sapere si assiste al tentativo di riprendere un dialogo che necessita come di un nuovo alfabeto.
Tra i protagonisti di questa nuova stagione occorre annoverare una delle figure più significative del secolo scorso, Pavel Aleksandrovic Florenskij, la cui poliedrica opera comincia solo ora a essere apprezzata in pieno e conosciuta per quello che vale. Finora, infatti, si tendeva ad associare, con pieno fondamento, al nome del martire ortodosso prevalentemente la sua attività teologica e filosofica. Lo si conosce meno come protagonista delle scienze e soprattutto come interprete del significato che queste, matematica in testa, assolvono all'interno della Rivelazione.
È proprio dalla sua genialità in campo matematico che vengono le sollecitazioni più interessanti per offrire una lettura sapienziale della scienza, che ha nella matematica la sua grammatica generativa, e per poter intavolare dall'interno un dialogo con la teologia. Se ne possono avere utili riscontri, ad esempio, nel volume Pavel A. Florenskij. Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza (a cura di Natalino Valentini e Alexander Gorelov, Torino, Bollati Boringhieri, 2007).
Come ricorda un eminente discepolo di Florenskij, Alexei Fëderovic Losev (1893-1988), la matematica si occupa dell'infinito, "è farcita di teorie sull'infinito, ma non dice una parola oltre i confini delle sue sfere, non parla di filosofia. In Florenskij abbiamo un approccio globale. Per lui l'infinito non è un concetto né ideale, né materiale, ma è vivo e per questo motivo viene percepito in maniera sensibile. Questa scoperta è una scoperta enorme alla quale però nella maggior parte dei casi la nostra scienza non è ancora arrivata". A ragione Valentini, commentando l'affermazione nel libro citato, precisa come per Florenskij la matematica non sia una disciplina tecnica in grado di fornire una comprensione del mondo, ma vera e propria filosofia. Nel suo studio sui Numeri pitagorici Florenskij percepisce la portata rivoluzionaria dei cambiamenti che sta vivendo la scienza nel passaggio al ventesimo secolo. Egli sulla scia del suo maestro, il matematico Nikolaj Vasilievic Bugaev, giunge a elaborare una teoria matematica basata sul riconoscimento del principio di discontinuità e quello a esso collegato di forma.
Come ricorda Valentini "sulla base di queste intuizioni, rafforzate soprattutto dal confronto con le teorie di Cantor, egli adotta un rinnovato discernimento critico della realtà, sviluppando una sua teoria dello spazio e della prospettiva, ma anche una diversa relazione tra discontinuo e intero, finito e infinito".
Una delle persuasioni comuni che si sono affermate a partire dal Rinascimento fino a oggi, è che il mondo sia dominato da una sorta di legge della continuità, che alimenta una visione globale puramente analitica secondo la quale ogni accadimento è governato da leggi altrettanto analitiche. L'evoluzionismo e il darwinismo sono stati il principale motore di diffusione di questa visione.
Al contrario, proprio su base matematica, Florenskij elabora una teoria che assume il principio di discontinuità come criterio di discernimento del reale. Questa assunzione rende possibile riabilitare anche il concetto di forma che implica la salvaguardia e la riscoperta dell'individuale, dell'unico, del "singolare" a fronte della sopravvalutazione dell'indifferenziato, tipico della mentalità che assume il continuo come unica visione della realtà.
Da ciò deriva un'altra importante conseguenza così riassunta da Valentini: "L'argomentazione florenskiana mostra come, accanto all'oggettività incondizionata riguardante la verità, vi sia l'esigenza di una completezza che rinunci all'univocità, in grado di correlare l'intuizione con la consequenzialità dei sistemi di pensiero formalizzati, l'infinità attuale con quella puramente potenziale".
Non si tratta, allora, solo di aver anticipato alcuni dei risultati più importanti della teoria matematica contemporanea, come ad esempio la troviamo nell'opera di Kurt Gödel - per il quale non esiste nessun sistema assiomatico completo - ma di essere riuscito tramite la mediazione della matematica e della fisica a raggiungere quei "due postulati filosofici che sostanziano la sua concezione della razionalità: il principio di discontinuità del reale e la struttura antinomica della verità".
Oltre alle ricadute di natura epistemologica interne alla scienza ciò consente di definire un impianto filosofico compatibile con le due dimensioni fondamentali della Rivelazione: il rendere ragione dell'unicità e dell'armonia del piano divino dispiegato da un lato nella giustizia della creazione e dall'altro nello sviluppo paradossale della storia della salvezza che ha al suo vertice lo scandalo della croce.
(©L'Osservatore Romano - 11 febbraio 2010)


Avvenire, 11 Febbraio 2010 - La fiction tv su Franco Basaglia - Amare i matti: loro come noi, noi come loro
Primato asso-luto di spettatori domenica e lunedì in prima serata su Rai1: forte emozione ha suscitato la fiction «C’era una volta la città dei matti», dedicata alla vita e all’opera di Franco Basaglia. Su quella massa di pubblico e sulla forte emozione bisogna interrogarsi. Il tema è quello dei matti, della follia, dei manicomi, della chiusura dei manicomi, e della rivoluzione di Basaglia, che ha pensato a curarli facendoli vivere nella società. Vedendo il filmato, più volte, nei momenti in cui Basaglia toccava l’acme della rivoluzionarietà, veniva da pensare che non era una rivoluzione teorica, scientifica, tecnica: era una rivoluzione etica. Basaglia si poneva davanti ai pazienti non come un medico, ma come un amico, non armato di scienza, ma di amore.

È una soluzione cristiana. Nel vastissimo campo indicato dal principio che dice «aiutare i bisognosi», Basaglia ha individuato i più bisognosi. Il marxismo aveva ragionato sui poveri che sono poveri perché non hanno, i proletari che hanno soltanto la prole. Basaglia lavora in mezzo ai nuovi proletari, a cui la prole vien tolta. C’è una matta alla quale vien tolto il figlio, perché vien fatta abortire. Le viene spiegato, e lei crede, che il figlio è figlio del demonio (non è sposata). È per questo che la ragazza diventa matta. A un certo punto, un matto chiede a Basaglia e a noi tutti: ma è l’essere matti che fa nascere il dolore o è il dolore che fa diventar matti? Il matto non sarà un sovraccaricato di dolore? Il sovraccarico lo fa cadere, e lui cade di là, oltre la ragione.

La società è una città assediata: dentro ci vuole ordine e garanzia, l’ordine e la garanzia sono minacciati da due pericoli, la pazzia e la miseria, che molte volte sono un solo pericolo, la miseria, che genera anche la pazzia. I ricchi non hanno matti. I ricchi matti restano dentro la città. I poveri matti vanno espulsi, apparentemente, e dichiaratamente, per la loro salvezza, la loro sicurezza, in realtà (ecco la scoperta di Basaglia) per la nostra sicurezza, la nostra salvezza. Lo spazio isolato e separato in cui devono stare i matti è il manicomio.

L’isolamento e la separatezza li rende più matti. Per bloccarli di là, medico e infermieri usano la forza, e diventano carcerieri. «Carcerieri buoni - dice Basaglia - ma pur sempre carcerieri». Crudeli, nel filmato, le scene della doccia gelata, del letto di contenzione, delle scosse elettriche, della gabbia. I matti sono ex-umani, ora animali senza anima.
La rivoluzione di Basaglia consiste nello scoprire in quegli esseri l’anima, nel sentirli come uomini, come noi. Se loro sono come noi, noi siamo come loro.

A questo i colleghi, l’ospedale, l’università, i tribunali si oppongono: Basaglia è un pericolo sociale, perché non rivede soltanto la psichiatria, ma tutta la medicina, e la famiglia, e la società. La giovane che partorisce un figlio-del-demonio è figlia di una madre che la schiavizza, ma la madre a sua volta ha patito un’altra schiavizzazione. Questa è la catena ereditaria del trauma, che blocca la mente. Basaglia fa una scoperta: la catena del trauma si spezza con l’amore. Mi spingo più avanti, e mi assumo la responsabilità: per salvare il miserabile che muore per la sua miseria, devi essere pronto a morire per lui. Basaglia muore nel lavoro e per il lavoro. I suoi matti lo sentivano. Ce l’avevano con tutto il mondo, ma non con lui.
Ferdinando Camon


Macché «vitalismo»: è rispetto per la persona - di Michele Aramini – Al dogmatismo pro-autonomia nelle scelte di fine vita affermato da Maurizio Mori, presidente della Consulta (radicale) di bioetica, si contrappone una visione di libertà che non prescinde dal valore in sé della persona.Avvenire, 11 febbraio 2010
L’articolo di Maurizio Mori ('Quel che ci ha insegnato il caso Eluana') apparso sull’ Unità del 6 febbraio è espressione del ferreo e, spesso, superficiale dogmatismo di chi accusa i cattolici di essere dogmatici. La certezza dell’autore che l’opinione pubblica abbia svoltato pagina abbandonando il vitalismo in favore di una democratica autonomia nelle scelte di fine vita è la convinzione del militante Mori, presidente della Consulta (radicale) di bioetica, che vuol farci credere che tutti ormai la pensino come lui. Per amore di verità e chiarezza dobbiamo svolgere alcune considerazioni.
Innanzitutto ci chiediamo: che cosa pensa Mori del caso Eluana?
Egli pensa che si debba gioire del fatto che finalmente i 'saggi magistrati' nel 2007 e 2008 hanno dato libero corso ai desideri del 'purosangue della libertà', come viene chiamata Eluana nel suo articolo. L’autore non si rende conto del fatto che molti altri magistrati avevano emanato sentenze di segno opposto. Per lui contano solo le sentenze che vanno nella direzione da lui auspicata, anche se si tratta di sentenze discutibili perché invadono l’ambito del potere legislativo, come quelle che vanno contra legem in relazione alla legge 40.
Mori non si rende conto neppure di ciò che ogni genitore con figli adolescenti sa bene e cioè che forse tutti i giovani vorrebbero essere alfieri della libertà, e che richiamare questa definizione, quand’anche fosse appropriata alla persona di Eluana, non avrebbe nulla a che fare con ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Infatti i genitori sanno bene quanto sia importante dialogare con i figli e far loro comprendere che certe scelte sono sbagliate.
In secondo luogo che dire dell’accusa di vitalismo (cioè ostinazione a tenere in vita) a quanti avrebbero voluto salvare la vita di Eluana? Chi ha avuto la ventura di ascoltare Mori sa bene quanto il suo pensiero (ripreso pedissequamente da certa bioetica nordamericana) sulla persona umana abbia reso questo concetto del tutto inconsistente al punto di vanificarlo. Se si chiedesse a Mori che cosa è la persona umana, egli direbbe, come spesso dice: è niente.

Anche qui dobbiamo registrare in Mori la mancanza di consapevolezza che la tanto sbandierata libertà di scelta non avrebbe alcun senso se la persona umana fosse niente. Se invece la persona umana, fatta di anima e di corpo, ha un valore in se stessa, valore che non si può mai perdere, la libertà viene a collocarsi nel suo giusto ambito e se ne può dispiegare il valore nel dialogo con le altre persone e la società.
L’idea di uomo che ha Mori è quella di un fantasma capriccioso. E dimentica l’insegnamento di Kant, il più grande maestro del pensiero laico, che diceva: là dove c’è il corpo là c’è l’uomo. Rispettare il corpo vivente di una persona non è vitalismo, ma è vero rispetto per il mistero della persona umana nella sua più profonda verità. Solo questo rispetto garantisce che nessuno possa farsi arbitro della vita altrui, decidendo quando meriti di vivere e quando no. E anche la singola persona deve confidare che la società, proprio perché rispetta la persona e ogni persona, rispetterà anche la sua condizione finale dandole tutto il sostegno necessario e senza alcun accanimento fuori luogo.
Non bisogna lasciarsi incantare da quelli che propagano il mito dell’autodeterminazione assoluta: ciascuno di noi è in grado di comprendere che tale principio è distruttivo della società. Esso è violento e fonte di conflitto e alla fine è utile solo ai più forti.

Quelli che lo propugnano nell’ambito del rispetto della vita portano avanti un’opera distruttiva, di individualismo estremo, privo di ogni fiducia nella cura che gli altri possono avere per noi. Contro questo modo disumano di relazionarsi deve operare un’intelligente opera culturale ed educativa che mostri come sia possibile coniugare giusta libertà e rispetto della persona. Valori che nella realtà sono alleati, e non contrapposti arbitrariamente come fa Mori, e che una legislazione a servizio dell’uomo deve sapere comporre.


«Aborto più facile»: da Strasburgo la solita lezione – Avvenire, 11 febbraio 2010
Le donne «dovrebbero avere il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto». È quanto afferma una risoluzione approvata ieri dall’Europarlamento sulla parità fra uomini e donne nell’Ue. Nella proposta, passata con 381 sì, 253 no e 31 astenuti e presentata dal socialista belga Marc Tarabella, si afferma inoltre che le donne «devono godere di un accesso gratuito alla consultazione in tema di aborto»,, mentre si invitano gli Stati a porre in atto misure per migliorare l’accesso «ai servizi della salute sessuale e riproduttiva» e a «sensibilizzare gli uomini sulle loro responsabilità in materia». Il tutto all’interno di un documento apparentemente 'tranquillo', che tratta di argomenti come la promozione dell’imprenditorialità femminile, il divario retributivo tra uomini e donne, la garanzia dei servizi di assistenza a bambini e anziani, la revisione del congedo di maternità e l’introduzione di quello di paternità.
«Ho votato no alla risoluzione – spiega in una sua dichiarazione Carlo Casini, del Ppe – sebbene condivida gran parte del suo contenuto, perché non si può invocare l’uguaglianza per una determinata categoria di persone negandola ad un’altra categoria di esseri umani». Il riferimento è in specifico al paragrafo 38 della risoluzione. «La distruzione dei più piccoli e indifesi, quali sono i bambini non ancora nati, non può essere considerato uno strumento per affermare la dignità e la libertà della donna. È in atto una 'congiura contro la vita' che utilizza sperimentate metodiche di inganno.
Dobbiamo smascherarle. Mettere insieme richieste giustissime con pretese ingiustissime, cambiare il significato delle parole: sono stratagemmi dimostratisi efficaci nel voto del Parlamento, ma ai quali io intendo sottrarmi. Non si può parlare del dramma dell’aborto, che merita l’attenzione dei politici e non solo dei moralisti, senza riconoscere anche i diritti del nascituro, quanto meno sollecitando un’adeguata educazione al rispetto della vita e organizzando forme di solidarietà in favore delle gravidanze difficili o non desiderate, affinché possano giungere al loro esito naturale».
Casini lamenta poi un comportamento schizofrenico del Ppe stessa: «Il giorno prima, nella discussione interna, mi era sembrato di cogliere una fortissima convergenza sulla necessità di opporsi a queste strumentalizzazioni. Poi, al voto, le delegazioni di Francia, Olanda, Romania e Bulgaria sono andate per la loro strada. Da questo punto di vista bisogna lavorare per ristabilire una coerenza nei partiti che si ispirano ai principi cristiani e risanare il Ppe». Nella delegazione italiana solo due parlamentari del Partito popolare europeo hanno votato a favore della mozione: Licia Ronzulli e Amalia Sartori.

Ma alla fine, quale è il valore di un atto parlamentare del genere?
«Zero», risponde Mario Mauro, Ppe e vicepresidente del Parlamento di Strasburgo, «si tratta di parole al vento perché è noto che su questi temi l’Ue non ha potere legislativo sugli stati membri». Il fine è quindi squisitamente politico: «Si tratta di infarcire con qualche elemento velenoso un testo che si presenta con scopi di altro segno. Per quanta riguarda l’aborto, questa dinamica è non è certo nuova all’interno del Parlamento. Il tutto a che pro? Direi quello di creare e consolidare, passo dopo passo, risoluzione dopo risoluzione, un contesto cultural politico sempre più disponibile ad accettare questo tipo di posizioni. È il tentativo di precostituire un consenso che poi, si spera, darà i suoi frutti a tempo opportuno. C’è anche da dire, comunque, che tanti voti a favore della risoluzione nascevano dal fatto che la deputata o il deputato x, che magari avevano lavorato su uno dei temi presenti nel documento, non voleva far mancare il proprio appoggio, considerando che si trattava di una risoluzione senza alcuna ricaduta concreta».

Una piccola consolazione, secondo Mauro, c’è: «Se c’è una cosa che mi ha colpito anche nel caso di questa risoluzione, è che i più convinti e inossidabili fautori delle agevolazioni dell’aborto sono persone in là con gli anni. Nelle deputate più giovani c’è assai meno questo piglio ideologico, che considera l’aborto come una conquista positiva della società. Occhi più giovani e probabilmente meno acciecati da un’impostazione del passato». Il che non è molto, ma è sempre qualcosa su cui vale la pena puntare.