venerdì 19 febbraio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL PAPA: IL SACERDOTE DEVE IMMERGERSI NELLA SOFFERENZA DEL SUO TEMPO - Incontro di inizio Quaresima con il clero di Roma
2) Discriminata per la croce che porta al collo - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 18 febbraio 2010
3) Piemonte: Piano Bresso per l'immigrazione, un disastro annunciato - Nota di Massimo Introvigne: Trascrivo un mio articolo pubblicato su "Libero" del 18.2.2010, d'interesse sulla questione immigrazione certamente per i piemontesi - oggetto di un'autentica campagna di disinformazione da parte della coalizione che sostiene Mercedes Bresso - ma anche per tutti quanti s'interrogano sul problema.
4) Buffalo Bill? Un gran massone - di Massimo Introvigne (da "Avvenire", 18 febbraio 2010) - Buffalo Bill, grembiule e Winchester
5) GIORNALI/ Sapelli: solo lo "scandalo" di Benedetto XVI può salvare l’Italia dal partito degli onesti - INT. Giulio Sapelli - venerdì 19 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
6) BENEDETTO XVI AL CLERO DI ROMA - LA FORZA DELLA GENEROSITÀ LO SFREGIO DEL TORNACONTO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 19 febbraio 2010
7) ELUANA ENGLARO, LE PRESUNTE LIBERTÀ, LA DIGNITÀ DELLA PERSONA - Nessun potere umano può travalicare la vita - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 19 febbraio 2010


IL PAPA: IL SACERDOTE DEVE IMMERGERSI NELLA SOFFERENZA DEL SUO TEMPO - Incontro di inizio Quaresima con il clero di Roma
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 18 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il sacerdote deve entrare come Cristo al centro dei dolori e delle tentazioni del mondo, per fare da “mediatore” e “ponte” tra il divino e l'umano.
E' quanto ha detto il Papa in un passaggio della sua lectio divina tenuta questo giovedì nell'Aula della Benedizione del Vaticano in occasione del tradizionale incontro di inizio Quaresima con i presbiteri della diocesi di Roma, guidati dal Cardinale Vicario Agostino Vallini.
Nella sua riflessione il Pontefice è partito dai brani tratti dai capitoli 5, 7 e 8 della Lettera agli Ebrei, dove si parla di Cristo sommo sacerdote.
Nel suo discorso, secondo quanto riferito da “L'Osservatore Romano”, il Papa ha tracciato l'identikit e la missione del prete che, come Gesù, è uomo di Dio ma anche “uomo in tutti i sensi”, chiamato a coltivare intelligenza, sentimenti e affetti secondo la volontà del Creatore.
Questo non vuol dire – ha però precisato il Santo Padre – conformarsi alla mentalità che giustifica come “umani” comportamenti come la menzogna o la disonestà.
“Il peccato non è umano”, ha detto il Papa, invitando i preti a educarsi invece ai valori della giustizia, della prudenza, della saggezza.
Al contrario, la fisionomia del vero essere umano a immagine di Dio è frutto di “un processo di vita” che comincia dagli anni della formazione e deve continuare per tutta l'esistenza del sacerdote.
Benedetto XVI ha poi indicato nella “compassione” una dimensione essenziale del ministero del presbitero, il quale non può vivere in una sorta di distacco platonico dalle cose del mondo, ma deve prendere su di sé quotidianamente la sofferenza del suo tempo, della sua parrocchia, delle persone affidate a lui.
Per il Pontefice, dunque, l'accettazione e l'offerta delle sofferenze nella vita pastorale costituiscono un'azione sacerdotale in senso pieno.


Discriminata per la croce che porta al collo - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 18 febbraio 2010
E’ finito davanti alla Court of Appeal londinese un altro celebre caso di discriminazione nei confronti dei cristiani in Gran Bretagna.
Nadia Eweida, una cinquantottenne impiegata delle British Airways, non si è arresa di fronte al verdetto del Tribunale del Lavoro che ha respinto il suo ricorso.
Questi i fatti.
Nel settembre 2006 Nadia Eweida, addetta al servizio di check-in presso il terminal 5 dell’aeroporto di Heathrow, si vede intimare dalla direzione della compagnia aerea di non indossare, durante l’orario di lavoro, la collanina con la croce che portava al collo. Il rifiuto da parte della dipendente, motivato da sue profonde convinzioni religiose e dal fatto che i segni distintivi di altre fedi venivano invece permesse dalla compagnia, non viene preso molto bene.
Infatti, senza tanti complimenti, Nadia Eweida viene licenziata il 20 settembre 2006, con la motivazione che la sua croce d’argento, non più grande di una moneta da 5 pence, appare contraria alla «company’s uniform policy». Le 49 pagine di dettagliate istruzioni sull’uso delle uniformi e dei gioielli delineavano, infatti, una filosofia aziendale impostata sull’assoluta “neutralità” nei confronti delle convinzioni personali dei dipendenti. Questo non impediva, però, agli impiegati sick di indossare il turbante ed alle impiegate mussulmane di coprirsi il capo con la hijab. Tali comportamenti, in realtà, venivano espressamente autorizzati in quanto trattavasi di adempimenti previsti come obbligatori da una fede religiosa.
Il caso, come è ovvio, fa insorgere l’opinione pubblica, che si divise pro e contro l’impiegata cristiana. Da una parte, i laici atei della National Secular Society, che plaudono il licenziamento di Nadia Eweida ravvisando nella sua pervicacia ad ostentare la croce sul posto di lavoro un odioso tentativo di “evangelizzazione” dei clienti. Dall’altra parte, coloro che gridano alla discriminazione dei cristiani ed invocano per Nadia Eweida il diritto di indossare la catenina con la croce, come espressione della propria libertà religiosa.
La donna, in realtà, ottiene un sostegno anche da autorevoli personalità del mondo politico e religioso. Persino l’allora premier Tony Blair si espone pubblicamente in suo favore consigliando British Airways di utilizzare il “buon senso”, ovvero autorizzare l’uso della collanina e di non insistere nella posizione assunta. Aggiunge pure un altro suggerimento, acquisito – sostiene – dalla sua esperienza politica, ovvero che «ci sono battaglie che non meritano di essere combattute», lasciando intendere che quella della compagnia di bandiera contro Nadia Eweida era una di tali battaglie. All’invito di Blair si associano più di cento parlamentari bipartisan.
Durissima anche la reazione dell’Arcivescovo di Canterbury che da Roma, dove si trovava in visita dal Papa, dichiara di essere profondamente indignato per il fatto che si sia potuto ritenere “offensivo” il simbolo cristiano della croce. Arriva addirittura a minacciare il boicottaggio della compagnia aerea da parte dei cristiani e persino il disinvestimento dei fondi finanziari della Chiesa anglicana investiti in azioni British Airways.
Le forti pressioni politiche, la pessima pubblicità da parte delle autorità religiose (oltre la minaccia di “ritorsioni” economiche), inducono la compagnia aerea a rivedere, obtorto collo, la posizione inizialmente assunta. Così, viene introdotto nelle linee guida sull’utilizzo delle uniformi un criterio di “flessibilità” di modo che, seppur non esplicitamente, si possa comunque tollerare l’uso di una collanina con la croce.
British Airways il 3 febbraio 2007 arriva persino a reintegrare, cinque mesi dopo, nel proprio posto di lavoro Nadia Eweida ma, non volendo ammettere di aver commesso un atto discriminatorio, la compagnia non riconosce, comunque, alla dipendente il diritto agli arretrati degli stipendi non percepiti nel periodo di licenziamento.
Nadia Eweida, a questo punto, intende ingaggiare una battaglia legale per far valere i propri diritti.
Da qui il ricorso al giudice del lavoro (Employment Appeal Tribunal, EAT), che nel novembre 2008, le dà torto non riconoscendo alcuna forma di licenziamento discriminatorio nei suoi confronti e dichiarando legittimo l’operato della British Airways. Singolare la motivazione. Dopo aver precisato di non essere un «tribunale religioso» (“tribunal of faith”), i magistrati hanno sbrigativamente liquidato la questione sostenendo che «per i cristiani mettersi al collo una croce non è “generalmente” considerato un precetto religioso».
Nadia Eweida non si arrende e impugna la decisione.
Lo scorso gennaio si è svolta l’udienza davanti alla Court of Appeal di Londra. Queste le tesi contrapposte.
Il legale di Eweida, la combattiva avvocatessa Karon Monaghan, sostiene il diritto della propria assistita ad indossare una piccola, semplice croce d’argento «come manifestazione visibile del proprio credo ed espressione personale della propria fede». Invoca, poi, l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti del’uomo e le vigenti normative britanniche in materia di tutela delle pratiche e delle convinzioni religiose dei dipendenti, l’Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003. Evidenzia, inoltre, la disparità di trattamento compiuta dalla British Airways nel «permettere l’utilizzo di simboli religiosi visibili per i credenti in altre fedi, come ad esempio il kara, braccialetto sacro dei Sikh, il kippah, copricapo degli ebrei, o la hijab, velo per le donne musulmane». British Ariways, infatti, si è vista bene dal vietare simili forme esteriori di fede.
Singolare la tesi difensiva della compagnia aerea. L’avvocatessa Ingrid Simler si rivolge alla Corte sostenendo che «l’esibizione della croce al collo non è richiesta come precetto dalla religione cristiana ed è quindi frutto di una scelta individuale e non obbligatoria rimessa al mero desiderio della Eweida». Ma l’avvocatessa si spinge oltre – fino al limite dell’irriverente –, quando dichiara che «il simbolo utilizzato dalla Eweida deve intendersi come espressione di una semplice convinzione allo stesso modo dei simboli utilizzati da altre persone per manifestare contro il nucleare o in favore dei diritti degli omosessuali».
All’udienza sono presenti diversi sostenitori di Nadia Eweida e qualche parlamentare.
C’è pure l’ex Ministro degli Interni John Reid, il quale, prendendo la parola fuori dall’austero palazzo di stile gotico-vittoriano che ospita la Court of Appeal, dichiara: «Questo caso rappresenta un chiaro indicatore del fatto che i cristiani non godono delle stesse protezioni previste dalla legge per i fedeli di altre religioni a cui viene garantita, nel posto di lavoro, la massima disponibilità per quanto riguarda l’abbigliamento e l’esibizione di simboli religiosi».
Anche Nadia Eweida, subito dopo l’udienza, rende una dichiarazione: «Io ho combattuto questa battaglia legale fino alla Corte d’Appello per difendere il diritto dei cristiani a portare indosso una croce. E’ triste constatare come British Airways non si renda conto e non riesca a percepire che proprio la croce è il simbolo per eccellenza della fede cristiana».
Lo scorso venerdì 12 febbraio, la Corte d’Appello londinese, con una sentenza più che prevedibile, ha respinto il ricorso di Eweida.
Patetica l’uscita di Lord Justice Sedley, uno dei giudici d’appello, che dopo aver ribadito l’inopportunità di esibire simboli religiosi nei luoghi di lavoro, ha dichiarato che, tutto sommato, «non è impensabile che in alcuni casi un divieto generale rappresenti l’unica soluzione».
Peccato che l’ultima sentenza dell’Alta Corte in materia abbia ribadito il fatto che la proibizione ad una ragazza sikh di portare a scuola il “kara”, braccialetto sacro, integri un vero e proprio atto di discriminazione religiosa.
Qual è la differenza tra una croce ed un kara? Semplice. La reazione dei discriminati. Non è facile gestire politicamente le veementi proteste della comunità sikh o di quella islamica, mentre i cristiani hanno da sempre dimostrato di essere assai più “tolleranti” rispetto alle ingiustizie patite. Fa parte, del resto, del loro stesso DNA.
La morale di questa storia dovrebbe farci riflettere.
Mentre da noi in Italia si discute se esporre o meno il crocifisso nei luoghi pubblici, in Gran Bretagna la magistratura ha già deciso che ad un cristiano si può impedire di portare al collo il simbolo della propria fede sul luogo di lavoro. Se consentiamo che la tolgano dai muri, arriveranno a levarcela anche di dosso.
Gianfranco Amato, Presidente di Scienza e Vita di Grosseto


Piemonte: Piano Bresso per l'immigrazione, un disastro annunciato - Nota di Massimo Introvigne: Trascrivo un mio articolo pubblicato su "Libero" del 18.2.2010, d'interesse sulla questione immigrazione certamente per i piemontesi - oggetto di un'autentica campagna di disinformazione da parte della coalizione che sostiene Mercedes Bresso - ma anche per tutti quanti s'interrogano sul problema.

Lo ha detto a Torino Casini: l’UDC in Piemonte ha scelto la sinistra perché, se con la presidente uscente del PD Bresso, c’è dissenso sui problemi etici, il dissenso con il candidato del centro-destra Cota in materia di accoglienza agli immigrati è più forte. Prescindiamo per una volta dal fatto che per un cattolico la vita e la famiglia dovrebbero venire prima di tutto il resto, e parliamo – seriamente, però – d’immigrazione.

Che cosa ne pensi la Bresso si ricava facilmente dal disegno di legge n. 627 presentato nel 2009 dalla sua Giunta al Consiglio Regionale, il Piano Bresso per gli immigrati che sarà la base della sua politica nell’ipotesi in cui fosse rieletta. Ora, questo disegno è la cronaca di un disastro annunciato.

Il Piano Bresso parte da un’esplicita valutazione positiva della “multiculturalità”, proponendo “la valorizzazione delle diverse culture” di cui gli stranieri sono portatori (art. 14). Sembra tutto bello e innocuo: ma vi è qui una concezione folkloristica e superficiale della “cultura” e un pericoloso relativismo. Tutte le culture sono sempre belle e buone? Ci sono culture che sostengono la poligamia o che puniscono con la morte l’apostasia di chi lascia la propria religione: vanno bene? Vanno “valorizzate”?

Perfino il governo Prodi aveva adottato la “Carta dei valori” dell’allora ministro dell’Interno Amato, certo insufficiente ma che fermava almeno gli estremisti peggiori, alcuni dei quali controllano importanti sale di preghiera e istituzioni islamiche anche in Piemonte. Il Piano Bresso non prevede nessun filtro di valori, e pertanto istituzioni culturali che rifiutano la “Carta” di Amato potranno iscriversi nel registro del “privato sociale” (art. 6), entrare nelle “consulte” (art. 10 e 11) e partecipare a tutti i vari carrozzoni e iniziative per cui si prevede di togliere dalle tasche dei contribuenti piemontesi, in epoca di crisi, ben quattro milioni di euro all’anno.

Il Piano Bresso, inoltre, apre la porta a trattamenti preferenziali per gli stranieri, a scapito degli italiani. Se si esamina l’art. 18, relativo alle abitazioni, si vede che solo alla lettera (d) si è avuto il pudore di scrivere che gli immigrati saranno sostenuti “a parità di condizioni con i cittadini italiani”. Nelle precedenti lettere da (a) a (c) questa clausola non c’è, e si apre la porta a favori nel settore della casa agli immigrati anche a scapito di cittadini italiani non meno bisognosi.

E c’è di peggio. Il Piano Bresso contiene una vera e propria “carta del clandestino” che rischia di essere uno spot pubblicitario per attirare irregolari. È vero che l’art. 2 sembra stabilire che – ove non sia diversamente disposto – per cittadini stranieri s’intendono solo i regolari. Ma attenzione: la puntualizzazione riguarda solo quanti saranno indicati come stranieri “di seguito”. E quindi non coinvolge l’art. 1, che promette a tutti, dunque compresi i clandestini, servizi e promozione sociale. Si dichiara poi esplicitamente che non si farà differenza fra regolari e clandestini nelle strutture sanitarie piemontesi (art. 13), garantendo tra l’altro personale specializzato per un approccio “multiculturale”. Così di fatto si sollecita per esempio il clandestino tossicodipendente a recarsi in Piemonte, dove troverà anche assistenza per “il recupero dei tossicodipendenti recidivi”.

Intendiamoci bene: una cosa è assistere il clandestino, una volta che è entrato, con i servizi sanitari e sociali essenziali, un’altra è assicurargli prima magnifiche sorti e progressive se viene in Piemonte. Se un ladro tentando di entrare in casa mia dalla finestra si ferisce gravemente, da buon cattolico prima di chiamare la polizia gli presto soccorso. Ma non metto un cartello fuori della porta offrendo la migliore assistenza sanitaria ai ladri che eventualmente si ferissero cercando di entrarmi in casa.

Il Piano Bresso ripropone la visione della clandestinità non come situazione da eliminare attraverso l’espulsione ma come tappa verso la regolarizzazione. Con quell’implicito incoraggiamento dell’immigrazione clandestina che è uno dei cavalli di battaglia della sinistra – e la prima causa di tante tragedie, da Rosarno a Via Padova a Milano.


Buffalo Bill? Un gran massone - di Massimo Introvigne (da "Avvenire", 18 febbraio 2010) - Buffalo Bill, grembiule e Winchester
Ci aveva provato anche il Duce. Nel 1942 l’editore fiorentino Nerbini, che con Buffalo Bill si era arricchito stampando oltre mille romanzi popolari sulle imprese del leggendario eroe del West, obbedì a una velina del regime, peraltro priva di ogni fondamento storico, rivelando che il cow-boy era in realtà un immigrato italiano, si chiamava Domenico Tombini ed era romagnolo come Mussolini. Ora ci prova la massoneria. Il bollettino della società di ricerca americana del Rito Scozzese Antico e Accettato dedica la storia di copertina del suo numero dell’inverno 2010 al “massone Buffalo Bill”, con inedite rivelazioni.

Ma chi era Buffalo Bill? Il colonnello William Frederick Cody (1846-1917) nasce a Le Claire, nell’Iowa, nel 1846. A dieci anni corre già per il West portando messaggi, a pagamento; a undici si arruola come scout nell’armata federale del colonnello Albert Johnston (1803-1862), che cerca di sottomettere con le armi i mormoni dello Utah, i quali si considerano indipendenti dagli Stati Uniti e praticano apertamente la poligamia. Da qui inizia una lunga carriera militare che dura fino al 1872, nel corso della quale Cody combatte gli indiani d’America ma li tratta anche da amici. Uccidendo quasi cinquemila bisonti – per l’esercito, per privati come il granduca Alexei (1850-1908), figlio dello zar di Russia Alessandro II (1818-1881), e occasionalmente anche per gli indiani – si guadagna il soprannome di Buffalo Bill.

Congedato con una medaglia al valore, già famoso, Cody si guadagna da vivere sfruttando la sua leggenda. Con gli spettacoli che mette in scena e che porta in tutto il mondo, Italia compresa, sotto il nome di Wild West Show, Cody contribuisce più di ogni altro a diffondere il mito del West. Anche un suo ex-nemico, il capo indiano Toro Seduto (1831-1890), sconfitto e arrestato dall’esercito americano, anziché andare in prigione è “affidato” a Buffalo Bill, che lo porta con sé e lo fa esibire nel Wild West Show insieme alla non meno famosa pistolera Annie Oakley (1860-1926). Per molti anni gli specialisti dell’Ovest americano hanno considerato Cody un apologista senza riserve delle ingiustizie ai danni degli indiani. I suoi biografi più recenti ci spiegano che non è così. Cody ha un grande rispetto per gli indiani e per la loro religione e si batte con sincerità per le cause in cui crede: contro la schiavitù, in particolare, e contro la poligamia dei mormoni. Si può considerare quest’ultima una battaglia vinta, certo non dal solo Cody: la poligamia sarà abbandonata dalla Chiesa Mormone nel 1890 e proseguita fino ai giorni nostri solo da gruppuscoli scismatici.

Ma – al di là del folklore – Cody aveva un’ideologia? Sì, sostiene ora la massoneria, per cui la simpatia per la religione dei nativi americani – all’insegna del principio secondo cui tutte le religioni sono, in fondo, di ugual valore – e anche l’avversione ai mormoni – bestie nere dei massoni statunitensi nel XIX secolo per una serie complessa di ragioni – sono legate a filo doppio alla sua notevole carriera massonica. Secondo la documentazione ritrovata dai ricercatori del Rito Scozzese, Buffalo Bill divenne massone il giorno del suo ventiquattresimo compleanno. Ci mise un anno a raggiungere il grado di maestro perché fu bocciato al primo esame – la cultura non era esattamente il suo forte – e dovette ripeterlo. Ma da allora andò a gonfie vele, arrivando fino al trentaduesimo grado del Rito Scozzese e facendosi ammettere anche nell’organizzazione massonica parallela, la Shrine, i cui simboli sono “orientali” e “arabi” e di cui fa parte una élite di massoni americani.

Quando Buffalo Bill morì a 71 anni, nel 1917, non si accese solo una disputa fra gli Stati del Wyoming, dove viveva, e del Colorado – che l’ebbe vinta – dov’era morto, su dove doveva essere sepolto, ma anche tra lo Stato del Colorado e i massoni. Questi ultimi sostenevano che l’eroe del West desiderava un funerale massonico solenne. Ma il funerale di Stato cui pensava il governatore del Colorado doveva tenere conto del fatto che non tutti amavano i massoni. Così Buffalo Bill ebbe due funerali: il primo di Stato, a Denver, e il secondo massonico sul Monte Lookout a Golden, in Colorado, dove fu deposto nel sepolcro quattro mesi dopo il primo funerale (VEDI IMMAGINE). Secondo il bollettino del Rito Scozzese si trattò del più grande funerale della storia massonica, alla presenza di quindicimila “fratelli” e simpatizzanti e con tutta la pompa del rito. La stessa fonte fa notare, giustamente, come all’epoca si trattò pure di un grande spot propagandistico per la massoneria, che fino a pochi anni fa continuò ad attirare turisti con una rievocazione annuale dell’evento sul Monte Lookout. In fondo, anche la ricerca storica – pur seria e documentata – ha oggi un elemento di propaganda. Rivendicando come suo figlio un eroe popolare mai dimenticato come Buffalo Bill la massoneria americana, per la verità un po’ in crisi e con qualche difficoltà a reclutare nuovi membri, si circonda di una patina a suo modo romantica.


GIORNALI/ Sapelli: solo lo "scandalo" di Benedetto XVI può salvare l’Italia dal partito degli onesti - INT. Giulio Sapelli - venerdì 19 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
La nuova ondata di scandali, intercettazioni e avvisi di garanzia che ha visto coinvolti i vertici della Protezione civile e alcuni esponenti del Pdl tiene in subbuglio il mondo politico. Intanto ieri la Corte dei Conti ha fatto sapere che nel 2009 sono triplicate le denunce per fatti di corruzione e Berlusconi ha annunciato misure anticorruzione più severe. Ma c’è stato un altro fatto degno di nota per il dibattito sull’etica pubblica. «Non si dica più “ha mentito: è umano; ha rubato: è umano”» - ha detto Papa Benedetto XVI ai sacerdoti romani. «Questo non è il vero essere umani - ha aggiunto -. Essere umani è invece essere generosi, essere a immagine di Dio». Il commento di Giulio Sapelli.

Che senso possono avere le parole del Papa per un paese che riscopre di essere attraversato dalla corruzione?

L’unico senso che può avere un messaggio cristiano come quello impersonato dal Santo Padre: un che di scandaloso, di scandaloso nel senso evangelico del termine. Siamo fatti ad immagine di Dio ma non siamo come Lui. Siamo limitati e condizionati dalle circostanze ma abbiamo anche il libero arbitrio. Se volete rinnovare una presenza divina in voi stessi, questo mi pare il senso di quello che ha detto il Papa, dovete comportarvi come vi insegna il Vangelo. Dio perdona i ladri e le prostitute, ma certamente non li indica come modelli da seguire.

Nel 18simo anniversario di Tangentopoli i giornali e l’opinione pubblica hanno scoperto che la corruzione esiste ancora.

Diciamo pure i giornali, perché l’opinione pubblica è fatta di persone che lavorano e che hanno altre cose a cui pensare. La corruzione esisterà sempre. Diventa un problema per l’ordine sociale quando appaiono due fenomeni strettamente legati: quando si trasforma da fenomeno patologico in fatto fisiologico, e quando da visibile diventa invisibile.

Ma il nostro paese ha fatto «progressi» dal ’92 a questa parte o no?

Una dato è certo: la corruzione è aumentata. E come tale è ormai un fatto fisiologico. Il che mette una pietra tombale sugli entusiasmi di chi sperava che l’ondata giustizialista cambiasse l’Italia e preparasse l’avvento degli onesti.

Le colpe sono o non sono dei politici corrotti?
Io continuo a sostenere la mia vecchia tesi della cleptocrazia come meccanismo unico della corruzione. Cioè che coloro che spingevano per la corruzione in Italia non sono stati tanto i partiti, quanto gli imprenditori. Pensiamo che nel 1991 i grandi imprenditori di questo paese, quelli che mantenevano in piedi il sistema, potessero farsi impensierire dai politici? Non scherziamo. Erano loro a mantenere l’assessore o il funzionario di turno, a farlo eleggere o a consolidarne la posizione.

Prima ha parlato di corruzione visibile e di corruzione invisibile. Cosa intende dire?

Che più il finanziamento dei partiti è visibile - come avviene negli Usa, dove la legge che lo stabilisce è stata da noi tanto criticata ma non si capisce perché - e più la corruzione si riduce. Invece più i meccanismi sono invisibili, più il passaggio di denaro dalle imprese ai partiti diventa una patologia «regolata» dalla legge della corruzione sottobanco. Nella crisi finanziaria hanno avuto gravi responsabilità, ma i paesi anglosassoni hanno ancora molto da insegnarci. Nei paesi euroasiatici, dove il mercato è meno dispiegato, c’è anche meno transparency. E più corruzione.

Bastano leggi migliori per contrastare la corruzione?

No. Direi però che leggi migliori possono offrirci più occasioni per dare alla corruzione una sanzione morale. Questo non vuol dire che la corruzione non esisterà né che non sia esistita prima di Tangentopoli. Di corruzione parlava già Cicerone, se non sbaglio. Anni fa in un’intervista all’Herald Tribune Di Pietro disse che i suoi maestri sul fenomeno della corruzione erano Giulio Sapelli e Vilfredo Pareto. Ma forse Di Pietro ha saltato le pagine straordinarie del Cours de sociologie dove Pareto dimostra che la corruzione è consustanziale a tutte le forme di economia.

Allora è utopico prospettare un sistema nel quale sia finalmente sradicata.

Certamente. Ma non è utopico, come fa il Santo Padre, auspicare una cultura per cui la corruzione abbia una sanzione morale. La legge migliore è quella americana, ma non basta. Il resto tocca al nostro senso morale e alla nostra libertà. Ecco perché la rivoluzione giudiziaria non ha certo cambiato il sistema in senso positivo, ha solo prodotto politiche di corruzione più scaltre.

Dopo gli ultimi fatti di cronaca anche Berlusconi si è raccomandato di fare più selezione nelle candidature politiche e a livello istituzionale ha annunciato norme anticorruzione più severe.
Non posso che essere d’accordo con Berlusconi. Però un conto è ricevere un avviso di garanzia per aver difeso un gruppo di lavoratori durante un picchetto, e un altro per aver rubato. L’immunità parlamentare risolverebbe molti problemi. Ma va detto che i partiti sono cambiati. Oggi i partiti in senso classico sono scomparsi e restano confederazioni che mettono insieme imprenditori e politici, nuovi cacicchi che cercano il controllo del territorio e che possono allearsi a geometria variabile per formare un partito a scala nazionale. Oggi la corruzione è molto più diffusa che nel 1992 perché è molto meno visibile.

Galli della Loggia sul Corriere ha smascherato l’illusione di chi pensava che la corruzione fosse riservata solo all’ambito politico. È l’intera società ad essere guasta.

No, la società italiana non è marcia. Ha una costruzione del potere per cui arrivano alla cuspide dei sistemi di potere, in politica e in economia, i meno capaci ma più aggressivi e coloro che sono figli delle persone più influenti dal punto di vista della ricchezza e della cultura.

Gli ha fatto eco Ricolfi sulla Stampa. «Non possiamo continuare a contare soltanto su un sussulto delle coscienze - ha scritto -. Se identifichiamo i meccanismi possiamo provare a cambiarli».

D’accordo, ma il vero problema è che c’è stata una tremenda decadenza dell’etica pubblica. A sua volta questa dipende dal disordine morale individuale. Le istituzioni servono perché tengono a bada le mire dell’uomo, però l’uomo deve usare bene la sua libertà personale. Occorre piuttosto domandarsi: perché oggi il denaro è l’unico metro? È con la virtù che si educano i giovani, cioè con l’evidenza di buone prassi in grado di mostrare che operare per il bene è possibile. Sono fiducioso. L’Italia è piena di persone che non verrebbero mai messe nelle liste elettorali, perché incapaci di portare soldi.

Che parte può avere il richiamo morale della Chiesa verso la società civile?

Oggi il richiamo della Chiesa ha un’altissima qualità morale ma un’incidenza scarsa. La Chiesa non è fatta solo dai suoi preti, ma anche e soprattutto dai suoi laici. I laici però hanno subito un influsso culturale di tipo protestante che li ha allontanati dalla Chiesa. L’immagine del «cattolico adulto» dice tutto: un cattolico adulto non è cattolico, perché il cattolico è per sua natura minorenne. Non servono cattolici adulti, ma cattolici che pensano e vivono secondo l’insegnamento della Chiesa. Oggi però il popolo cattolico, tranne poche eccezioni, mi sembra che abbia perso la voce.
(Federico Ferraù)


BENEDETTO XVI AL CLERO DI ROMA - LA FORZA DELLA GENEROSITÀ LO SFREGIO DEL TORNACONTO - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 19 febbraio 2010
I preti sono uomini tra gli uomini. Ieri il Papa li ha invitati fortemente ad essere 'completamente' uomini. A essere uo mini di contemplazione ma anche uomi ni di 'compassione' verso l’uomo che è ferito dal peccato. Per la loro stessa con dizione di verginità e di dedizione, i preti possono vivere l’umanità di tutti, e non u na parziale umanità, non una parziale de dizione. Il richiamo di ieri al clero roma no è di grande importanza. Parlando ai preti, il Papa sa di parlare, per così dire, al la società guardata con gli occhi di Gesù. Alla società abitata da Gesù.
Per questo ciò che ha detto ieri interroga la nostra intera società. Non è un discor so per un gruppo separato. Non un pro gramma per una certa fascia sociale o per un certo gruppo di interesse. Non per un partito. Ma per uomini che hanno accet tato di farsi di tutti. Che hanno accettato di essere servi di tutto e di tutti. In un cer to senso dei veri sovvertitori, in questa e poca dove spesso gli uomini giocano a fa re i presunti padroni e padroncini della vi ta propria e altrui. Per questo ieri ha osa to ricordare il più grande sovverti mento della storia. Ovvero lo sguardo di Cristo sull’uo­mo. Lo sguardo che sa che cosa è veramente uma no, degno d’uomo. Lo sguardo che anche nel pecca tore vede la possi bilità della scoper ta del vero bene. E della piena soddi sfazione. Il vero sguardo rivoluzionario. Che non lascia le cose come stanno. Che non lascia in pace nessuno. Così quando ieri il Papa si è sof fermato sul fatto che non si può dire che mentire o rubare è umano, devono tre mare i petti di tutti. Così quando ha detto che invece è veramente umano l’essere generosi, devono tremarci i polsi in que sta società dove la generosità sembra per dere terreno in favore del bieco e a volte scorretto tornaconto. Il Papa non ha det to: rubare non è legale. Sarebbe stato trop po poco. E troppo comodo, in un certo senso. Ha detto: non è umano. Ha detto ben di più. E ha usato la parola 'pecca to'. Che è come dire la ferita più dura. L’orrendo. E’ un peccato di disumanità. E ha detto ai suoi: chiamatelo con il suo no me. Non dite che rubare è umano. No, è disumano.
Perché invece la generosità è veramente umana, la ricerca della giustizia è vera mente umana. E lo sappiamo, se lasciamo parlare un poco la nostra esperienza lo sappiamo: avvertiamo molto più com piuta la nostra vita quando è generosa, quando sa donarsi, di quando ricaviamo per noi stessi gioie rubate. La compassio ne, il farsi vicino all’uomo come è, segna to dal peccato, significa ricordare sempre cosa è l’uomo veramente. Cosa lo rende veramente tale. Cioè dove sta la sua vera soddisfazione.
Ha osato per questo, il Papa, soffermarsi sulla parola più temuta della nostra epo ca: la parola obbedienza. La parola riget tata da tutti come fonte di alienazione, di ce, è invece la descrizione della esperien za che conforma il nostro essere a ciò che è più suo, più adeguato a noi. Per questo l’obbedienza è una forma della libertà. Poi ché ascoltando Dio, si ascolta il bene del la natura del nostro essere più profondo.
Parlando ai suoi preti, il Papa vescovo di Roma, non ha girato intorno ai problemi. Ha descritto un clero appassionato alla vi ta degli uomini. Che non si fa dettare le categorie di giudizio e di pensiero sulla vi ta da altro che non sia il Vangelo. E perciò sa essere dalla parte della persona sem pre. Parlava ai suoi, il Papa. Ma poiché la sua è l’unica leadership mondiale che si fonda sull’essere servo, parlava in un cer to senso come servizio a tutti. E infatti so no parole che, in mezzo al troppo chiac chierume anche di queste settimane, ser vono veramente.


ELUANA ENGLARO, LE PRESUNTE LIBERTÀ, LA DIGNITÀ DELLA PERSONA - Nessun potere umano può travalicare la vita - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 19 febbraio 2010
A più di un anno dalla morte di Eluana Englaro sarebbe giusto si aprisse una discussione pacata sul tema della vita umana.
Soprattutto perché la conclusione del dibattito appare ancora una prospettiva lontana.
Tantissime cose sono già state dette sul fine vita nei giorni scorsi, relativamente alle ragioni degli uni e degli altri, polarizzate attorno al binomio pro e contro la vita e la libertà. Vi sono state, però, due affermazioni del signor Englaro, argomentate con grande partecipazione nei giorni scorsi in un articolo apparso su un quotidiano, veramente allarmanti. Si tratta, invero, di altrettanti attentati al buon senso, prima ancora di essere attacchi violenti al significato profondo dei valori costitutivi della persona umana come tale. La prima affermazione è questa: « Non credo che la medicina giusta sia quella che offra una vita senza limiti » . Ossia, coloro che non pensano che l’autodeterminazione, sacrosanta in sé, possa valere in assoluto nello stabilire legalmente una scelta di morte sosterrebbero, secondo lui, l’idea bizzarra di un prolungamento infinito della vita personale. Ma quando mai! Non è per niente vero che l’immortalità sia la prospettiva ultima caldeggiata dai sostenitori della vita. Viceversa, sembra piuttosto che ad ambire a qualche onnipotenza umana siano coloro che vogliono ergere la libertà a giudice ultimo della vita personale, magari lasciando scritto astrattamente su un pezzo di carta presso un notaio fin quando vivere e quando morire, o lasciando questo onere ai familiari. La vita personale è ingiustamente concepita senza limiti quando si attribuisce alla libertà il potere malefico di creare un termine prefissato all’esistenza, sulla base di una presunta indegnità. Ma davvero qualcuno pensa che ci siano medici che concepiscono la vita come infinita? Vi è una seconda affermazione nell’articolo, la quale, oltretutto, è errata perfino concettualmente. Englaro dice di voler « mettere in guardia il legislatore da autoritarismi da Stato etico » . Mi chiedo se il termine « autoritario » sia compreso nel suo significato. L’autorità, infatti, è espressione massima della libertà legittima di qualcuno.
La legge sul fine vita, per contro, istituirebbe un vincolo alla libertà affermando, insieme al rispetto supremo per la vita personale, un limite proprio all’autoritarismo. Decidendo che non si può privare una persona della nutrizione e dell’idratazione si dice in termini esatti che nessuno ha la possibilità di esprimere un potere umano che travalichi la vita personale. In fin dei conti, l’esatto opposto dell’autoritarismo.
O piuttosto, la legge imporrebbe che, fermo restando il valore dialogico della terapia che coinvolge paziente, medici e familiari, esiste una soglia non oltrepassabile di sussistenza umana che deve essere lasciata aperta al corso naturale delle cose, senza alcun accanimento né verso la vita, né verso la morte. Una conclusione quindi è certa, dopotutto: tutelare la vita è l’unico modo sicuro per proteggere eticamente la persona umana e la sua permanente dignità dall’onnipotente e autoritario arbitrio della libertà.
Sarebbe giusto che ora, finalmente, si aprisse una discussione pacata.