venerdì 26 febbraio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Messaggio della Madonna di Medjugorje del 25.2.2010: "Cari figli, in questo tempo di grazia quando anche la natura si prepara ad offrire i colori più belli nell'anno, io vi invito, figlioli, aprite i vostri cuori a Dio Creatore perchè Lui vi trasfiguri e vi modelli a propria immagine affinchè tutto il bene, addormentatosi nel vostro cuore, possa risvegliarsi alla vita nuova e come anelito verso l'eternità. Grazie per aver risposto alla mia chiamata. "
2) PROGETTO EDUCATIVO DOMENICANO PER UNO SVILUPPO INTEGRALE DELLA PERSONA - Intervista ai responsabili dell'Istituto San Domenico di Roma - di Gisèle Plantec
3) 25/02/2010 – IRAQ - Vescovo di Mosul: Emergenza umanitaria. Centinaia di famiglie cristiane in fuga dalle violenze - Mons. Nona racconta di una “Via Crucis che non finisce mai”. L’arcidiocesi soccorre i profughi con generi di prima necessità, ma “la situazione è drammatica”. Il prelato andrà a Baghdad per chiedere l’intervento del governo centrale. Mons. Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare una “manifestazione e un digiuno” per ricordare “il massacro dei cristiani irakeni”.
4) IL CASO/ Eutanasia di Stato, quando la morte diventa una cura – Redazione - venerdì 26 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
5) Cristiani di serie B - Mario Mauro - venerdì 26 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
6) Avvenire.it, 26 Febraio 2010 - Vita e morte a Londra (e a Radiorai) - Non chiamatela per carità «compassione»
7) Avvenire.it, 26 Febbraio 2010 - BIOETICA E POLITICA - Londra apre al suicidio assistito Illegale ma «possibile»
8) E D I TOR I A L E - CREDENTI E NON, LE DOMANDE SONO LE STESSE - BRUNO FORTE – Avvenire, 26 febbraio 2010

PROGETTO EDUCATIVO DOMENICANO PER UNO SVILUPPO INTEGRALE DELLA PERSONA - Intervista ai responsabili dell'Istituto San Domenico di Roma - di Gisèle Plantec
ROMA, giovedì, 25 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Verità, libertà e responsabilità, sostegno al bambino nella sua integrità, fatta di intelligenza, affettività e cuore. Sono queste le parole chiave del progetto educativo domenicano.
Il 3 febbraio scorso, l'Istituto San Domenico di Roma ha assistito all'Udienza generale del mercoledì di Benedetto XVI. Il Papa è intervenuto proprio sul grande Santo.
Il direttore dell'Istituto, Anthony Bardoux, e suor Marie-Joannès, direttrice per quarant’anni e che ora collabora con il nuovo direttore, hanno spiegato a ZENIT con grande entusiasmo le caratteristiche del progetto educativo domenicano e come cercano di applicarle nel loro Istituto di Roma.
Potete spiegare le specificità del progetto educativo domenicano?
Anthony Bardoux: Si tratta in primo luogo di un progetto educativo cattolico, ispirato, quindi, al Vangelo. I carismi domenicani sono fonte di ispirazione per la nostra istituzione. Il Santo Padre ha sottolineato la nozione della verità. Verità, libertà e responsabilità sono le parole chiave della nostra azione sul campo.
Insistiamo sullo sviluppo della persona nella sua integrità, sulla cura dell'individuo a livello globale con la sua affettività, la sua intelligenza e il suo cuore.
In concreto, cosa differenzia le scuole domenicane da una scuola pubblica?
Anthony Bardoux: La prima differenza è la nostra capacità di mostrare i valori cristiani e di garantire che tutte le persone che vengono a lavorare da noi concordano con questi valori, che ci danno una condotta, un contesto.
L'altra differenza è l'antropologia cristiana. Sviluppiamo un approccio al bambino basato sull'antropologia cristiana.
La Dottrina Sociale della Chiesa è ovviamente una fonte di ispirazione per il progetto educativo dell'istituzione, ma c'è anche un carisma domenicano che viviamo in modo particolare, quello della fraternità, del saper vivere insieme.
Vogliamo che questo sia per le persone che vi lavorano un luogo di crescita personale, che venga presentato agli alunni come esempio da seguire.
Desideriamo che possano osservare persone che sanno vivere insieme, che si trattano quotidianamente con calorosità.
Siamo quindi particolarmente impegnati nella formazione delle persone che guidano gli alunni, e mostriamo questo impegno. Credo che sia una differenza molto forte con quello che si può constatare in un centro pubblico, dove non c'è un contesto che regge le relazioni umane.
Il nostro contesto è quello del Vangelo, e lo dimostriamo.
Suor Marie-Joannès: Sì, credo che l'aspetto più importante sia questa sua visibilità. Non vuol dire che nell'insegnamento pubblico non ci siano persone che lo vivono, ma noi qui lo viviamo come équipe.
Credo che la nota domenicana dominante sia l'Incarnazione, la passione di Domenico per Dio e per l'uomo.
Dobbiamo guardare all'uomo con una visione evangelica, uno sguardo che vuole condurre i nostri giovani allo sviluppo della loro personalità, per essere gli uomini del domani che saranno gli uomini del Vangelo.
Come vivete questo aspetto, vista la consistente presenza di musulmani nella scuola?
Anthony Bardoux: Da parte delle famiglie musulmane ci sono una ricerca molto forte di spiritualità, un forte impegno per il carattere religioso e un rispetto molto grande.
In precedenza ho lavorato con casi sociali di musulmani che venivano dai sobborghi. Si trattava di giovani molto difficili, ma avevano un enorme rispetto per i giovani cattolici che andavano a pregare.
Non c'è una dottrina sociale musulmana, e credo che anche per questo i musulmani sono impegnati in quella dei cattolici.
Sono piuttosto vicini ai valori difesi dall'insegnamento cattolico. Questo vale per la stragrande maggioranza dei musulmani, che sono musulmani moderati.
Suor Marie-Joannès: In alcuni casi, questa convivenza è anche stimolante. I musulmani hanno un senso del sacro, un senso di Dio e del religioso e sono rispettosi.
Questo interpella i nostri giovani, che si dicono cattolici ma non sempre sono molto convinti. Si influenzano reciprocamente per porsi le domande fondamentali.
A volte ci sono difficoltà?
Anthony Bardoux: In effetti c'è la paura del proselitismo da parte delle famiglie musulmane.
Noi organizziamo spesso celebrazioni, e i musulmani sono ovviamente restii, ma quando si spiega loro che a volte, come per l'udienza con il Papa alla quale abbiamo partecipato, è importante “fare famiglia”, capiscono.
In altri momenti, invece, bisogna essere delicati, rispettare la loro religione e non invitarli alla conversione.
Ci sono celebrazioni alle quali non invitiamo i musulmani (come la Messa del Mercoledì delle Ceneri), perché è importante che i cattolici possano raccogliersi senza “osservatori” esterni.
In generale, queste cose si vivono bene. Si basa tutto sul dialogo. Per la società di domani, il fatto di vivere questo tipo di esperienze in un'istituzione educativa è molto positivo.
Insegna la tolleranza, mostra che possiamo convivere intorno agli stessi valori.
In realtà, in questo caso, quando si parla di cattolici o di musulmani si parla piuttosto di cultura. Dio non fa ancora davvero parte della vita quotidiana dei bambini, e questo è vero sia per i cattolici che per i musulmani.
Come vivete la collaborazione tra religiosi e laici nell'Istituto?
Suor Marie-Joannès: La collaborazione religiosi-laici non è mai stata un problema per noi.
Anthony Bardoux: Nella direzione dei centri scolastici in Francia non ci sono quasi religiosi. Ci sarebbe un rischio reale se non si prestasse sufficiente attenzione al profilo della guida del centro, ma ora come ora i suoi direttori sono formati all'insegnamento cattolico.
Le istituzioni religiose che hanno il proprio carisma garantiscono una formazione continua. E' quella che viene chiamata “tutela”.
La presenza dei laici permette di evitare che il fatto religioso sia legato esclusivamente alla Congregazione e che si creino così due mondi.
Il laico impegnato cercherà di garantire che tutti i laici si uniscano al progetto educativo.
Nella mia lettera di impegno c'è l'esigenza a fare tutto il possibile per far vivere il carattere proprio dell'insegnamento cattolico e di sviluppare questo spirito nelle équipes. E' molto forte.
Credo che sia importante avere una cultura comune, tra laici e consacrati. Dobbiamo avere una cultura condivisa.
Suor Marie-Joannès: E' indispensabile per il mondo religioso. Il fatto di collaborare con un direttore laico che apporta la sua competenza ma allo stesso tempo è capace di rispettare la sua lettera di impegno è molto soddisfacente.
Permette di evitare la reclusione nei due mondi.
Avete una specie di “carta” di progetto educativo domenicano?
Anthony Bardoux: Abbiamo cercato di sviluppare delle idee educative e di metterle per iscritto. Questo costituirà una “base” che ispirerà l'insieme dei nostri progetti pedagogici.
Faccio qualche esempio: vivere la nostra professione con spirito di servizio e non come un potere, accogliere senza condizioni e senza carattere possessivo, spezzare le false gerarchie, mantenere i consigli di classe che rifiutano di recludere ed etichettare, accettare gli itinerari individuali e atipici, dare punizioni che non umilino e non feriscano, sviluppare l'analisi dell'attualità, la ricerca filosofica, valorizzare l'esperienza e la sua revisione...
La persona, come essere in fase di sviluppo, non formula un giudizio definitivo, non si riduce al suo passato, al suo comportamento, ai suoi risultati. Sviluppa opinioni a partire da ciò che ha avuto un esito favorevole.
La persona, come essere fragile, evita l'intransigenza e l'insensibilità, distrugge l'isolamento. Considera l'errore e l'insuccesso come un'esperienza, un passaggio. Pone le relazioni tra persone al centro del progetto scolastico. Promuove il senso del bene comune, tiene conto della varietà, sviluppando tutta la questione affettiva e sessuale, visto che la dimensione integrale della persona che c'è dietro include anche il fatto di soffermarsi su questi temi.
A volte raccogliete frutti dal vostro impegno nell'insegnamento cattolico?
Anthony Bardoux: A volte ci sono richieste di Battesimo, soprattutto tra i più piccoli.
I bambini escono non solo con conoscenze, ma anche con una serie di principi, con valori, anche se non sempre li identificano immediatamente come valori cristiani. Spesso se ne ricordano più tardi, nei momenti difficili.


25/02/2010 – IRAQ - Vescovo di Mosul: Emergenza umanitaria. Centinaia di famiglie cristiane in fuga dalle violenze - Mons. Nona racconta di una “Via Crucis che non finisce mai”. L’arcidiocesi soccorre i profughi con generi di prima necessità, ma “la situazione è drammatica”. Il prelato andrà a Baghdad per chiedere l’intervento del governo centrale. Mons. Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare una “manifestazione e un digiuno” per ricordare “il massacro dei cristiani irakeni”.
Mosul (AsiaNews) – Mosul vive una vera e propria “emergenza umanitaria”, nella sola giornata di ieri “centinaia di famiglie cristiane” hanno abbandonato la città in cerca di riparo, lasciando alle proprie spalle case, beni, attività commerciali: la situazione “è drammatica”. Mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, conferma ad AsiaNews l’esodo dei fedeli dalla città. Intanto mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare “una manifestazione di piazza e un digiuno”, per sensibilizzare la comunità internazionale sul “massacro dei cristiani irakeni” e fermare le violenze nel Paese.

L’arcivescovo di Mosul è preoccupato per le tantissime famiglie, “centinaia” nella sola giornata di ieri, che hanno abbandonato la città. Mons. Nona parla di “una Via Crucis che non finisce mai” e denuncia il “cambiamento nei metodi” operato dalle bande armate. “In passato dicevamo ai cristiani di rimanere chiusi in casa – ricorda – ma ora arrivano ad attaccare perfino nelle abitazioni private”. Il riferimento è all’omicidio avvenuto lo scorso 23 febbraio: un commando è entrato nella casa di Aishwa Marosi, cristiano di 59 anni, uccidendo l’uomo e i due figli maschi. Alla scena hanno assistito anche la moglie e la figlia, risparmiate dai criminali.

Mons. Nona conferma il rischio che “Mosul si svuoti completamente dei cristiani”, in fuga verso la piana di Ninive e altri luoghi considerati più sicuri. “Ieri ho visitato alcune famiglie – continua – ho cercato di portare conforto, ma la situazione è drammatica. La gente scappa senza portare nulla con sé”. Per questo l’arcidiocesi locale ha avviato un primo intervento di emergenza, cercando di fornire “generi di prima necessità e soccorso”, ma il pericolo di “una crisi umanitaria è concreto”.

L’arcivescovo di Mosul intende recarsi a Baghdad per incontrare i politici e il governo centrale, chiedendo il loro intervento. Mantenere la presenza cristiana in città è difficile, continua, ed è probabile che alle elezioni generali – in programma il 7 marzo – nessuno andrà a votare. Confinare i cristiani nella piana di Ninive, vittime di un conflitto di potere fra arabi e curdi, pare una realtà sempre più concreta, sebbene i vertici della Chiesa si siano sempre opposti alla loro “ghettizzazione”. Finora le fazioni in lotta hanno usato i mezzi della religione e delle bande armate per trascinare i cristiani nel conflitto. “Per questo – conclude mons. Nona – ora è necessario trovare una ‘risposta politica’ ai conflitti, alla lotta di potere”.

Mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare – per i prossimi giorni – “una manifestazione di piazza e un digiuno”, per sensibilizzare la comunità internazionale sul “massacro dei cristiani irakeni” e fermare le violenze nel Paese. Il progetto politico che intende svuotare Mosul dei cristiani va fermato, avviando un negoziato con il governo centrale e il parlamento locale e rafforzando al contempo “l’idea di unità nazionale” che si è perduta nei conflitti fra le varie etnie, confessioni religiose e influenze straniere che hanno frantumato l’Iraq. Il prelato conferma la volontà della comunità cristiana di “partecipare alla vita politica del Paese”, mentre si fa sempre più concreto il pericolo che vengano considerati “cittadini di serie B”.

Le elezioni generali in programma il 7 marzo potranno causare un’escalation ancora maggiore delle violenze. Le parti in lotta – sunniti, sciiti, curdi – non risparmieranno metodi e forze per conquistare il controllo del territorio. Baghdad, come Mosul e Kirkuk, fa gola a molti per i ricchi giacimenti di petrolio. Le violenze settarie a Mosul, inoltre, non sembrano riconducibili ad al Qaeda, ma confermano piuttosto le infiltrazioni nell’esercito e nella polizia di “poteri forti” che si rifanno ai partiti, alle confessioni religiose, alle tribù. Esse sono il segnale evidente del fallimento del progetto di creare uno stato unitario, quella “Repubblica dell’Iraq” menzionata nella Costituzione e mai nata a causa delle divisioni interne. A queste si aggiungono le pressioni dei Paesi confinanti, fra i quali l’Iran: fonti di AsiaNews a Baghdad confermano che “Teheran è immischiata a piene mani nella politica interna irachena” ed è un’influenza che tocca l’ambito economico, politico e religioso.

“Non esiste uno Stato, una patria – sottolinea mons. Sako – e le divisioni settarie sono un dato evidente. Ai cristiani non interessano i giochi di potere, l’egemonia economica, ma la creazione di uno Stato in cui le diverse etnie possano convivere in modo pacifico”. Un obiettivo che, per essere raggiunto, deve partire prima di tutto “dall’unità della comunità cristiana e dei vertici della Chiesa, che deve fare dell’unità un punto di forza al tavolo delle trattative con il governo centrale e le forze politiche del Paese”.(DS)


IL CASO/ Eutanasia di Stato, quando la morte diventa una cura – Redazione - venerdì 26 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
Nella provincia del Québec, in Canada, è in corso una campagna in favore della “dignità di morire”, che sostanzialmente si sta dimostrando una campagna a favore soprattutto dell’eutanasia e del suicidio assistito, attualmente vietati dal Codice penale. Una commissione parlamentare sta raccogliendo deposizioni e testimonianze di esperti in vista di una proposta da sottoporre a referendum. Se approvata, potrebbe essere usata come pressione sul governo federale, al quale spetta l’eventuale cambiamento del Codice penale.
Questa commissione, finora denominata “sulla questione del diritto a morire con dignità”, ha nei giorni scorsi cambiato il suo nome, diventando: “Commissione speciale sulla questione della morte con dignità”. La scomparsa del termine “diritto” è dovuta alle obiezioni sollevate sull’esistenza di un pregiudizio già dal titolo. Anche su cosa realmente possa intendersi con dignità si è aperto un dibattito, con le obiezioni, per esempio, di chi si occupa di cure palliative, che contesta che la dignità possa essere data solo da eutanasia e suicidio assistito.

Di seguito pubblichiamo la lettera sull’argomento, apparsa venerdì scorso sul quotidiano La Presse, del dottor Marc Beauchamp, chirurgo ortopedico di Montreal.

La cosa peggiore che possa capitare in una società di diritto come la nostra è che una persona debole e vulnerabile si lasci uccidere da una persona o un gruppo di persone con più potere.
È questo potere che reclamano dalla Commissione parlamentare il dottor Gaétan Barrette, della Federazione dei medici specialisti del Québec, e il dottor Louis Godin, della Federazione dei medici generici del Québec. I loro argomenti poggiano principalmente su dei sondaggi tesi a dimostrare il sostegno all’eutanasia dei membri delle due federazioni e dell’opinione pubblica.
La correttezza dell’uso di questi dati è già stata oggetto di varie critiche, anche da parte di un noto statistico dell’Università di Montreal. Allo stesso modo in cui non si preoccupano di finezze e sottigliezze quando cercano più soldi per gli aderenti (e di ciò li si ringrazia!), così non mettono di certo i guanti bianchi per reclamare il privilegio per i medici di non essere sottoposti al Codice penale per poter effettuare l’eutanasia sui loro pazienti.
L’efficacia fa qui premio sulla verità, ma i due negoziatori perdono credibilità agendo in questo modo. Dovrebbero ispirarsi ai loro colleghi del Collegio dei medici, o almeno dare l’impressione di avere un po’ di rispetto e di sensibilità verso le persone deboli, che rischiano di diventare le prime vittime di colleghi incauti quanto loro.
Tuttavia, è un altro il punto che sembra finora essere sfuggito a questi leader sindacalisti, abituati ai metodi della negoziazione, e ai politici.
Il punto centrale è che, quando si tratta di un argomento importante come la vita di una persona, l’opinione della maggioranza non è sufficiente, perché significherebbe dare la precedenza al gruppo (i forti) sulla persona (il debole). Il 50 per cento più uno, o anche l’80 percento di sostegno popolare non basta quando è questione del diritto alla vita (ed è anche il caso della pena di morte), un diritto talmente fondamentale che non può essere negato per gli altri, né rinunciarvi quando si tratta di noi stessi. Questo è il loro più grande errore.
Il secondo errore è di fare della morte una questione solamente medica, mentre si tratta di qualcosa infinitamente più grande che merita la più grande attenzione e la più grande prudenza, che non potranno mai essere assicurate da nessuna pretesa “segnalazione” di eccezionalità.
Affermare che dare volontariamente la morte dovrebbe essere tra le cure a disposizione del medico per trattare le sofferenze di una persona cosciente (l’equivalente del suicidio assistito), o peggio, per dare la morte a una persona incosciente o non consenziente (eutanasia attiva), non è alla fine che un tentativo di presa di potere da parte della classe medica. Anche se si vestono questi gesti con parole edificanti o poetiche del tipo “cure appropriate di fine vita”, “diritto a una morte dignitosa”, “ultima piccola spinta per il viaggio finale”. Si deve resistere a questa offensiva.
Come corollario, sarebbe una aberrazione e un errore storico delegare il diritto alla vita (e alla morte) al Ministero della salute. Non è un suo compito.
Questa commissione parlamentare si dimostrerà utile se aiuterà a chiarire la pericolosa confusione dei termini utilizzati: da un lato, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia e il suicidio assistito (tutti da evitare), e dall’altro, l’accesso a cure attente, umane, con un controllo ottimale del dolore tanto fisico quanto morale (che è necessario favorire e sviluppare). Chi opera con persone in fin di vita potrà confermare che i pazienti curati e attorniati da attenzione autentica normalmente non si augurano l’eutanasia, e attraversano con dignità questo passaggio che, infine, è parte della vita. Ecco il nostro vero compito come medici: umanizzare la medicina con un atteggiamento umile e disponibile che “aiuti a vivere”.
Marc Beuchamp
chirurgo ortopedico - Montreal, Canada
Apparso sul quotidiano canadese La Presse


Cristiani di serie B - Mario Mauro - venerdì 26 febbraio 2010 – ilsussidiario.net
Oltre a riportare la notizia degli ultimi scontri tra cristiani e induisti, causati da un’immagine blasfema di Gesù pubblicata su un abbecedario in India, lo stesso giorno il Corriere della sera rendeva noto che dal 2003 nell’Iraq post-bellico sono stati uccisi 825 cristiani.

In effetti quello irakeno è sicuramente il caso peggiore nel panorama della discriminazione nei confronti delle comunità cristiane in paesi a maggioranza musulmana. Il sinodo tenutosi nella primavera del 2009 ad Ainkawa, vicino ad Erbil, nel Kurdistan, ha proprio fatto conoscere al mondo la situazione dei cristiani e delle loro prospettive in quella terra martoriata dal terrorismo jihadista.

Monsignor Louis Sako, arcivescovo dei Caldei di Kirkuk dal 2003, ha spesso denunciato il tentativo di creare un clima di paura e di intimidazione che, attraverso attacchi ed uccisioni, spinge i cristiani ad abbandonare, nell’indifferenza del mondo occidentale, il Paese. Il clima è peggiorato soprattutto da quando, il 13 marzo del 2007, fu ritrovato il cadavere del vescovo caldeo di Mosul, mons. Rahho, rapito alcuni giorni prima.

Numericamente i cristiani non sono una presenza poi così ingombrante. Su una popolazione di 22 milioni di abitanti, infatti, essi sono solo il 3%, ma costituiscono il 35% di quella fascia di istruiti in grado di traghettare il Paese dalla barbarie alla civiltà. Questo perché non è affatto indifferente il contributo che essi portano in termini di opere educative e assistenziali.
Le suore avevano scuole dappertutto prima che fossero nazionalizzate da Saddam Hussein. Queste hanno formato tanti musulmani. Anche i padri gesuiti avevano un collegio a Bagdad e una università. Le persone più conosciute hanno studiato da loro, come, ad esempio, il primo ministro Ayad Allawi. Ora la situazione è tornata a quella pre-Saddam; è possibile per i cristiani aprire scuole proprie, ma il più delle volte manca l'essenziale, come la sicurezza.

Anche le opere di carità ed assistenza, soprattutto ospedali e dispensari, sono stati spesso luoghi dove si è consolidata la convivenza fra cristiani e musulmani. Si capisce allora che colpire i cristiani significa sbarrare la strada alla possibilità di rinascita di tutta la società irakena e, forse, significa anche sbarrare la strada alla possibilità di influire positivamente su tutta la regione mediorientale.

I numerosi rapimenti di cristiani, l’assalto alle loro attività commerciali, insieme a molte altre discriminazione nei loro confronti, sono il riproporsi di quell’antica mentalità islamista per cui i seguaci delle religioni del Libro (leggi cristiani ed ebrei) sono da considerarsi cittadini di serie B. Per tale ragione veniva imposto il pagamento di una tassa speciale, quella riservata ai dhimmi.

Oggi la tassa non c’è. Si usano altri metodi, molto simili a quelli di certi strozzini nostrani che fanno saltare i negozi di quanti non pagano il pizzo. Il cristiano rientra nella fascia di popolazione più istruita che, spesso, è anche la più ricca. Ciò genera invidia e per questo si impone di pagare il dazio. Il dazio per una presenza millenaria e carica di speranza per tutti gli irakeni. Il dramma di quel Paese, allora, è anche il dramma di un’Europa sempre più incapace di leggere la realtà e incidere positivamente nella storia.


Avvenire.it, 26 Febraio 2010 - Vita e morte a Londra (e a Radiorai) - Non chiamatela per carità «compassione»
Esistono almeno due metodi collaudati per manipolare la percezione pubblica delle grandi questioni sulla vita umana: cambiar nome alla realtà, o rovesciare il significato delle parole. Si tratta di strategie culturali sperimentate al punto tale da trasformarle in automatismi inconsapevoli, maschere sotto le quali i fatti diventano invisibili, quasi irrilevanti. Ha cambiato nome l’aborto, dissimulato sotto le burocratiche spoglie della «interruzione volontaria di gravidanza», meglio se Ivg. Si è smaterializzata la pillola del giorno dopo (potenzialmente abortiva) chiamandola «contraccezione d’emergenza». Persino quando si parla di «autodeterminazione» occorre cercare nel doppiofondo semantico, là dove spesso si scoprirà il reale intento eutanasico di chi parla di libertà e diritti.

Ma la distanza tra idee pensate ed espresse diventa abissale quando si assiste allo stravolgimento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore generale del Regno, Keir Starmer, dettando i criteri in base ai quali andrà perseguito o prosciolto chi attivamente aiuta un parente o un amico a morire ha spiegato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compassione». Già la definizione giuridica del gesto – «suicidio assistito» – apre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco letale o spegne un ventilatore polmonare causando la morte realizza un vero atto eutanasico. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giudizio dell’opinione pubblica, deviando l’impatto di quella che resta una morte procurata.

Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Codice penale definisce «omicidio del consenziente» riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice assenza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’eutanasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalorditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tributa a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui.

Lo slancio del samaritano è snaturato nella sua tragica caricatura: la mano che per secoli si è posata con amore sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fatica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la soluzione alla malattia senza speranza, alla solitudine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di sofferenza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autorizzare (e incoraggiare) il repulisti facendolo passare per ammirevole virtù. Una truffa culturale agghiacciante.

L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella puntata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli sviluppi parlamentari della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Il servizio pubblico ha consentito che, nella generale confusione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via.

A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la "voce" sanremese, che sul palco canta l’allergia a qualsiasi verità salvo poi aderire senza mostrar dubbio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex ministro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di protezione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «compassione» autorizza anche questo.
Francesco Ognibene


Avvenire.it, 26 Febbraio 2010 - BIOETICA E POLITICA - Londra apre al suicidio assistito Illegale ma «possibile»
Sono divenute effettive ieri le nuove linee guida sul suicidio assistito rilasciate dalla Procura generale della Gran Bretagna. Da questo momento sarà dunque possibile definire quando sarà reato e quando non lo sarà aiutare una persona a morire. Sarà la dimostrazione di una «sincera compassione» a evitare a una persona l’incriminazione.

Il suicidio assistito rimane quindi illegale in Gran Bretagna come stabilito dal “Suicide Act” del 1963 e punibile fino a 14 anni di incarcerazione. Ma con le linee guida della Procura ogni caso, dopo le indagini della polizia, sarà valutato dal procuratore Keir Starmer. Toccherò a lui decidere se passare il caso alle autorità giudiziarie oppure archiviarlo senza conseguenze.
Nelle linee guida redatte lo scorso settembre è stato eliminato il riferimento alle persone «malate terminali» e a quelle «invalide» per paura di far passare l’errato messaggio che non valesse la pena curare queste persone. Tra i motivi che hanno spinto una persona ad aiutarne un’altra a morire, la Procura deve appurare se ci siano stati interessi economici o d’altra natura e che esista vera compassione.

Lord Carlile, giudice e presidente dell’associazione contro l’eutanasia «Care not Killing», ha reagito positivamente alla decisione di abolire la classe degli invalidi. «La nostra preoccupazione era quella che queste linee guida avrebbero messo in un’unica categoria i disabili e i malati terminali garantendo a questi meno protezione degli altri». Secondo Carlile, però, le direttive della Procura non sono senza pecca e potrebbero rivelarsi problematiche: «È ancora da stabilire, per esempio – ha detto – come si stabilisce la compassione».

Il procuratore Starmer ha dichiarato ieri che il fatto che una persona abbia agito «totalmente con compassione» e non per ragioni finanziarie, è molto «importante». Ma ha sottolineato come le sue linee guida non rappresentino un cambiamento nella legge e non condonino gli omicidi. Fino a oggi 117 britannici sono morti nella clinica svizzera Dignitas accompagnati da parenti e familiari ma nessuno di questi è stato incriminato. La persona che vuole morire ed essere assistita nel cammino dovrà prendere una decisione volontaria, sostiene Starmer, chiara e informata e avere oltre diciotto anni. Chi l’aiuterà non dovrà incoraggiarla o averle dimostrato in passato azioni aggressive e dovrà sempre collaborare con la polizia. Solo se riuscirà a dimostrare di aver agito per compassione le sarà risparmiata l’udienza in tribunale e la possibile incriminazione.

Starmer ha detto ieri che non sarà offerta garanzia a nessuno e che ogni caso dovrà essere indagato dalla polizia. «Queste linee guida – ha ribadito – non aprono le porte all’eutanasia, non superano la volontà del Parlamento e non mutano la legge sul suicidio assistito». Ma in passato ci sono stati tentativi di cambiare la legge e ammorbidire quella sul suicidio assistito. Un anno fa un membro della Camera dei Lord, Lord Joffe, aveva proposto di legalizzare il suicidio assistito ma il suo progetto fu bocciato più volte e criticato dal premier Gordon Brown che si è sempre dichiarato contrario alla legalizzazione.

Sia la Chiesa cattolica che quella anglicana hanno spesso espresso preoccupazione e la necessita di investire più risorse nel settore delle cure palliative.
Elisabetta Del Soldato


E D I TOR I A L E - CREDENTI E NON, LE DOMANDE SONO LE STESSE - BRUNO FORTE – Avvenire, 26 febbraio 2010
Come rilanciare il dialogo fra credenti e non credenti – cui si riferisce papa Benedetto XVI parlando della necessità di ristabilire un 'atrio dei Gentili' – nel modo più autentico possibile?
A questa domanda si potrà rispondere correttamente solo se si terrà presente la paradossale vicinanza ed insieme la differenza che esiste fra i due interlocutori. La vicinanza è presto detta: il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita nel credente, perché solo chi crede in Dio e ha fatto esperienza del Suo amore, può anche sapere che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Perciò, il non credente non è fuori di chi crede, ma in lui: il cosiddetto ateo, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è non per semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una condizione di ricerca e di dolore, che gli fa 'sentire' come suoi la nostalgia e il desiderio di Dio. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che non lasci tracce: al contrario, è passione, sofferenza di una vita che paga di persona l’amara sfida di non credere. Non a caso il celebre aforisma 125 della 'Gaia scienza', dove Nietzsche racconta del folle uomo che nella chiara luce del mattino andò sulla piazza del mercato, tenendo accesa la lucerna e gridando: «Dio è morto... e noi lo abbiamo ucciso!», contiene la struggente denuncia del dolore infinito di non credere, del senso di abbandono, di orfananza, che consegue per tutti all’assassinio di Dio. Il non credente, come il credente, è un uomo che lotta con Dio: «Mi religión es luchar con Dios» (Miguel de Unamuno). In realtà, sono il patire e il morire a suscitare in noi la domanda, che è alla base di questa lotta. Il dolore rivela la vita a se stessa più fortemente della morte, che lo produce, perché insegna che noi non siamo semplicemente dei gettati verso la morte, ma dei chiamati alla vita. Il cammino dell’uomo sta tutto nel prendere sul serio la tragicità della morte, non fuggendola, non nascondendola, come ha fatto troppo spesso la modernità, ma domandando, interrogandosi, pensando. Dove nasce la domanda, dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità e quindi alla morte, lì si rivelano la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere, lì si affaccia la lotta con Dio. Lì l’uomo si scopre pellegrino verso la vita, un mendicante del cielo, e si comprende come la grande, vera tentazione è per tutti quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe possedere la verità tutta intera. «L’esilio vero d’Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo» ('I racconti dei Chassidim', a cura di Martin Buber): il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. Martin Heidegger, parlando della 'notte del mondo' nella quale ci troviamo, dice che il dramma dell’epoca moderna non è la mancanza di Dio, ma il fatto che gli uomini non soffrano più di questa mancanza, e perciò non avvertano più il bisogno di superare l’infinito dolore della morte, considerando esilio e non patria questo tempo che passa.
Ricordando questo, credenti e non credenti – nell’irriducibile differenza di un incontro avvenuto o ancora da avvenire con Colui che è la verità in persona – possono sentirsi accomunati in un medesimo viaggio, nello stesso confessato o inconfessato desiderio di Dio. Da qui è possibile muovere per costruire insieme un 'atrio dei Gentili', dove ritrovarsi uniti nello stupore, nella domanda, nella testimonianza e nell’incontro, davanti al Mistero santo che tutti ci avvolge.