mercoledì 17 febbraio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) ETICA DELLA VITA ED ETICA SOCIALE: UN BINOMIO NECESSARIO E INDISSOLUBILE - di Angela Maria Cosentino*
2) Storie di conversione: Daniel Rufeisen - Un ebreo infiltrato tra le SS - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2010
3) 6/02/2010 – IRAQ - Mosul: ucciso uno studente cristiano, la comunità denuncia un “massacro politicizzato” - Ancora un’esecuzione mirata contro un cristiano della città. Il giovane è stato freddato a colpi di pistola mentre si recava in università. Ferito un amico che si trovava sul luogo dell’agguato. I fedeli parlano di “progetto politico ben organizzato” per costringerli a fuggire verso la piana di Ninive.
4) OLANDA - Suicidio medicalmente assistito per gli ultrasettantenni. Iniziativa per legalizzazione - Notizia 14 febbraio 2010 – da sito ADUC
5) CANADA - Eutanasia, larghissima maggioranza a favore. Medici Quebec: ora legalizzare - Notizia 16 febbraio 2010 – da sito ADUC
6) Eutanasia, veterano della Bbc: uccisi il mio partner malato di Aids - Gosling fa la rivelazione durante programma tv sulla morte - 16 febbraio 2010 - di Patrizio Nissirio – ANSA.IT
7) Avvenire, 16 Febbraio 2010 - Suicidio assistito: ora a Londra decidono i giudici - Si fa sempre più acceso il dibattito in Inghilterra dopo i primi casi approdati davanti alla Corte penale e la nuova linea della scelta "caso per caso" decisa l’anno scorso. Un’apertura di fatto alla legalizzazione della pratica, finora vietata. L’allarme della baronessa Ilora Finley, da oltre vent’anni impegnata sul fronte delle cure palliative: «Così si scaricano i malati».


ETICA DELLA VITA ED ETICA SOCIALE: UN BINOMIO NECESSARIO E INDISSOLUBILE - di Angela Maria Cosentino*
ROMA, martedì, 16 febbraio 2010 (ZENIT.org).- La Giornata per la vita, che si è celebrata in Italia la prima domenica di febbraio, per riaffermare - dopo l’approvazione della legge sull’aborto (L.194/’78) - il fondamentale valore della vita umana, dal concepimento alla morte naturale, richiama, quest’anno, nel Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente, passaggi che, nel Magistero di Benedetto XVI, si sono chiariti sempre più, quali ad esempio, il legame tra l’etica della vita e l’etica sociale.
Tale intuizione, che risale a Paolo VI, con l’Enciclica Humanae vitae, ha preso corpo e si è arricchita di ulteriori riflessioni con l’Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II e con l’Enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate; è stata poi riconfermata nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 gennaio 2010 e nel Discorso al Corpo Diplomatico dell’11 gennaio scorso.
Il Messaggio della Giornata per la vita tocca diversi temi, a volte appena accennati (punta di iceberg di interventi precedenti) che si possono coagulare attorno alle parole chiave vita (rispetto della persona, in ogni condizione, anche di fragilità), povertà (economica e valoriale), cura (solidarietà).
Le problematiche relative alla vita, per troppo tempo sono state declinate (a livello sociale, politico e pastorale) separatamente rispetto a quelle riconducibili alla pace, alla solidarietà, alla povertà e all’immigrazione. Eppure la Chiesa (Caritas in veritate, 15) propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale perché “non può avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” (Evangelium vitae, 101).
Una persistente mentalità materialista, egoista e consumistica, concausa della crisi economica e valoriale, conduce anche ad una crisi ecologica quando l’uomo scorda di essere apice della Creazione, custode e non padrone del Creato. Non si può separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita.
La questione ecologica, diventa così, per diversi motivi, la nuova emergenza della questione antropologica. L’uomo non è un “problema” da eliminare (secondo alcune correnti culturali), ma una risorsa creativa per il futuro della società. La denatalità rappresenta la causa e non la conseguenza della crisi economica.
Tutti siamo chiamati ad uno stile di vita sobrio e solidale, a non confondere la ricchezza economica con la ricchezza di vita, anche perché l’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica (Caritas in veritate, 44), che richiede di essere accompagnata dalla solidarietà verso quelle madri che, spaventate dai problemi economici, “possono essere tentate di rinunciare o interrompere la gravidanza” .
Ogni tempo dell’uomo è un tempo di prova che ha caratteristiche sue proprie. “Nessuno si salva da solo”, affermava Charles Peguy. Ed è opportuno ricordarlo in questo periodo di crisi. In un momento storico caratterizzato dall’egoismo, l’autodeterminazione diventa il nuovo cavallo di Troia per far passare nuovi presunti “diritti” individuali (diritto all’aborto, all’eutanasia, al libero “orientamento” sessuale…) e il mito della “qualità della vita” si impone sulla “sacralità della vita”, a livello personale e sociale, trascinando il concepito “imperfetto” o non ricercato, il disabile, il malato grave, l’anziano non autosufficiente…
L’attuale crisi economica, se da una parte rischia di oscurare il valore della vita umana, dall’altra può essere occasione di crescita perché può spingere a riscoprire la capacità di prendersi cura gli uni degli altri. Recuperare la consapevolezza del valore della vita può restituire forza al singolo e può generare la spinta necessaria a mobilitare le forze sociali per superare le difficoltà, e dimostrare nelle parole e nei fatti che c’è sempre un’alternativa.
Nessuno è padrone della vita, bene indisponibile da custodire e rispettare come un tesoro prezioso, dall’alba al tramonto. Denunciare quei meccanismi economici che producono disuguaglianza sociale e offendono la vita rappresenta un modo per vigilare e non rassegnarsi ad una diffusa cultura di morte; testimoniare la verità sulla persona (non riducibile alla materia, fine e mai mezzo) è un’alta forma di carità non solo perché risponde alle domande di senso, esigenza morale profonda di ogni uomo, ma anche perchè può produrre importanti e benefiche ricadute sul piano economico (Caritas in veritate, 45).
Diventa urgente, anche per prevenire le “nuove povertà” (non solo economiche), in una sinergia di alleanze educative e pastorali, riscoprire il senso della vita, che non risiede nella ricchezza economica, ma nella capacità di crescere, a Sua immagine e somiglianza, nella disponibilità al dono.
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La prof.ssa Angela Maria Cosentino è docente di Tutela della vita e della salute procreativa all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.


Storie di conversione: Daniel Rufeisen - Un ebreo infiltrato tra le SS - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2010
Il nazismo, la sua ideologia e le stragi compiute in nome della purezza della razza sono una marea nera che ha inquinato la storia del xx secolo, in cui i valori umani sono stati stravolti e conculcati. Ma la dignità della coscienza ha avuto la meglio e ha vinto in tante persone che hanno accettato il costante tormento di rischiare la vita, perché hanno imboccato la via della verità umana e della Verità donata da Dio alla libertà umana.
Così fu per l'ebreo Oswald Rufeisen nel 1939: poco più di un ragazzo - aveva infatti solo diciassette anni - nato a Zadziale in Polonia, poverissimo ma ricco di intelligenza e del dono delle lingue, fluente in tedesco tanto da passare per tedesco. L'intelligenza di Oswald si era dimostrata ben presto sui banchi di scuola, superando i coetanei per destrezza e profondità; gli ebrei allora non avevano facile e semplice accesso nelle istituzioni scolastiche, anche quando le famiglie erano in grado di sobbarcarsi l'onere delle spese. Fu anche membro di quel movimento sionista giovanile Akiva, allora non socialista ma orientato verso un'esperienza di vita in un kibbutz e, successivamente, verso il Partito liberale.
Al momento dell'invasione della Polonia, a Oswald e al fratello rimanevano ben poche chance: la fuga verso il sud era impossibile, bloccata a tutte le frontiere, perciò la loro meta fu Vilna, dal momento che la Lituania godeva di un breve periodo di indipendenza politica. Breve perché due furono le ondate successive: prima i sovietici, poi i nazisti.
Vilna, in quel momento, sembrava essere il punto focale di raduno per centinaia di giovani sionisti che volevano raggiungere l'Europa. Vivere allora significava sopravvivere in modo elementare, nutrirsi, lavorare dove capitava, trovare ospitalità sotto un tetto amico potendo specchiarsi e specchiare la propria angoscia in giovani volti che condividevano le stesse paure, le stesse ansie nella precarietà quotidiana. Con sotteso un interrogativo lancinante: "Domani sarò ancor vivo?".
Quando i sovietici concessero qualche numero limitato di visti, Oswald volle che il suo giovane fratello raggiungesse la tanto agognata Palestina ed ebbe il coraggio di rimanere ancora nella trappola mortale. I nazisti lo ridussero a lavoratore-schiavo: tagliava la legna nelle gelide foreste fuori città. Il ragazzo, piccolo di statura e magro, di modi affabili e gentili, trovò però un contadino disposto a rischiare nel proteggerlo, assumendolo come lavoratore. Del resto, sembrava davvero un tipico tedesco grazie alla sua ottima padronanza della lingua, ai capelli biondi e agli occhi azzurri. Oswald, quando il pericolo strinse le sue spire e la coscienza lo richiamò all'aiuto dei fratelli braccati, cambiò residenza; scappò dalla Lituania nella Russia Bianca, fermandosi a Mir, una cittadina di cinquemila abitanti a est della Polonia, vicino al confine russo, dove ancora vivevano molti ebrei rinchiusi in una sorta di ghetto nel diroccato palazzo del nobile polacco Mirsky, dopo un eccidio che era costato la vita a 1.500 ebrei.
Il giovane Rufeisen in fuga da Cracovia verso Mir aveva trovato dei documenti tedeschi in un fagotto abbandonato sull'orlo della strada, li prese e constatò come gli si addicessero: biondo, occhi azzurri... ariano!
Poté così essere reclutato dalla Polizia e diventare l'organizzatore e il salvatore di tanti civili. Ne seguì l'addestramento, mentre l'ottima conoscenza della lingua locale fu determinante per la sua promozione: nell'autunno 1942 divenne SS Oberscharführer.
Nervi saldi e prontezza di risposta e azione gli consentirono di lavorare nella polizia militare tedesca, il cui temibile capo Serafamovich terrorizzava la popolazione e gli ebrei. In quanto traduttore viveva al suo fianco, sempre con l'incubo che un minimo errore potesse svelare la sua origine ebrea.
Un giovane sionista in un uniforme tedesca! Così lo videro e riconobbero alcuni sionisti fuggiti ai massacri di Vilna. Berl Resnik, un rifugiato, entrò un giorno nell'ufficio di Oswald che gli chiese perché non lo avesse salutato dicendogli "shalom". Berl, tremando, pensò si trattasse di una trappola; quando Oswald gli rivelò la sua identità tirò il fiato.
Il doppio gioco non poteva che accrescere la tensione nel giovane Oswald, che però continuava a rischiare: rubò fucili dai quartieri generali della polizia e li passò agli amici ebrei del ghetto. L'apice del rischio fu raggiunto dopo una telefonata che riuscì ad ascoltare fra il suo capo e le SS: era fissata la data per la liquidazione del ghetto di Mir. Con mille stratagemmi, molta astuzia e un batticuore perenne, Oswald avvisò gli amici e menò il can per l'aia con la polizia tedesca conducendola a nord alla ricerca di partigiani russi. Almeno 300 ebrei riuscirono a fuggire dal ghetto e a trovare rifugio nelle foreste Nabuloki a sud.
Il sospetto cominciava a gravare su di lui per quella scomparsa improvvisa di tanti ebrei. Oswald fu interrogato quindi da un ufficiale delle SS e, vista la mala parata, una volta rimasto solo nell'ufficio, afferrò un fucile e scappò dalla finestra verso i campi aperti. Fu rincorso, gli spararono ma riuscì a fuggire e a raggiungere un convento dove le suore lo nascosero. Non fu una bravata il salvataggio di tanti ebrei ma un atto che costò a Oswald l'abbandono della sicura divisa tedesca per un abito religioso (per di più femminile).
Un mese dopo, quando un partigiano che aveva ricevuto da Oswald un paio di stivali fu trovato morto e sfigurato in volto, il fuggitivo fu dato per morto e il caso considerato chiuso.
Grazie al coraggio delle suore, da quel 16 agosto 1942 alloggiò nascosto nel solaio del fienile proprio nel cortile adiacente a quello della polizia che aveva "servito" fino a poco prima. Appena arrivato nel convento, completamente esausto, cadde in un sonno profondo di almeno ventiquattro ore. Risvegliatosi trovò vicino a sé una rivista in cui si raccontavano i miracoli avvenuti a Lourdes per intercessione di Maria Immacolata; incuriositosi chiese di poterne sapere di più. Oswald così racconta quei drammatici momenti: "Poi chiesi il Nuovo Testamento e iniziai a studiarlo. Lessi pure diversi libri ebraici che avevo trovato nel solaio. Ero colmo di domande. Mi stavo chiedendo perché simili tragiche cose stessero avvenendo al mio popolo. Mi sentivo proprio un ebreo, mi identificavo con la difficile situazione del mio popolo. Mi sentivo pure sionista. Desideravo raggiungere la Palestina, il mio stesso Paese (...) con questo quadro mentale mi esposi al Nuovo Testamento, un libro che descrive eventi avvenuti nella mia patria, la terra cui anelavo. Tutto questo deve aver creato un ponte psicologico fra me e il Nuovo Testamento. Per quanto possa sembrare strano, avevo un diploma di scuola superiore polacca ma non avevo mai letto il Nuovo Testamento. Nessuno me lo aveva richiesto. Relativamente alla Chiesa conoscevo solo cose negative. Nutrivo pregiudizi contro la Chiesa. In convento, tutto solo, mi creai un mondo artificiale pretendendo che duemila anni non fossero mai passati. In questo mondo di credenza creato da me stesso venni a confronto con Gesù di Nazaret (...) se non lo comprenderete, non comprenderete la mia lotta per il diritto alla mia nazionalità ebraica (...) così ero di fronte a Gesù di Nazaret. Devi comprendere che non tutta la storia su Gesù è la storia della Chiesa. La storia di Gesù è un frammento della storia ebraica. Così seguii gli scambi di idee e di controversie fra Gesù e alcuni degli ebrei, diversi tipi di ebrei. Presto cominciai ad apprendere sempre di più sulla posizione assunta da Gesù. Mi ritrovai in accordo con la visione e l'approccio di Gesù al giudaismo. I suoi sermoni mi toccavano fortemente. In questo processo in un certo qual modo trascurai quanto avvenuto più tardi nella relazione fra ebrei e cristiani. Nello stesso tempo avevo bisogno di un maestro, di qualcuno che mi indicasse la via, una guida, qualcuno forte (...) e così giunsi al momento in cui Gesù muore sulla croce e poi risorge. Improvvisamente, non so come, identificai la sua sofferenza e la sua risurrezione con la sofferenza del mio popolo e la speranza della sua risurrezione. Cominciai a pensare che se un uomo giusto muore, non per i suoi peccati ma per le circostanze, allora deve essere Dio, perché è Dio che lo riporta alla vita. Allora pensai che se c'era giustizia per Cristo nella forma della risurrezione, ci sarebbe stata pure una qualche forma di giustizia per il mio popolo. Ero tagliato fuori dalla mia ebraicità da circa un anno. Ero separato da tutto quanto era ebraico. Sentivo che per l'ebreo in questa Chiesa doveva esserci un posto riservato, non mi sbaglio su questo. Mi convinsi che forse io avevo una qualche speciale funzione da svolgere in questa Chiesa, forse migliorare, fissare la relazione fra ebrei e cristiani (...) alla fine il mio andare verso il cristianesimo non fu una fuga dall'ebraismo, anzi, al contrario, fu una via per trovare risposte al mio problema da ebreo. Quando compresi che mi trovavo di fronte alla decisione di abbracciare il cattolicesimo iniziò in me una battaglia psicologica. Avevo tutti i pregiudizi sugli ebrei che si convertono al cristianesimo. Ben consapevole di questo, temevo che il mio popolo, gli ebrei, mi avrebbero rifiutato. In realtà, non lo fecero. In ogni caso, la battaglia psicologica durò due giorni. Durante tutto questo tempo piansi molto, chiedendo a Dio la guida (...) non era una battaglia intellettuale, intellettualmente accettavo Gesù. L'intero problema riguardava la futura relazione con il mio popolo ebraico, mio fratello, magari con i genitori se erano vivi (...) avrei dovuto riportare gli elementi ebraici nel Nuovo Testamento, io stesso sarei stato uno di questi elementi ebraici, e altri come me. Ci sono molte persone come me, cristiani che si considerano ebrei".
Quando la madre superiora andò a far visita a Oswald il dialogo fu rapido e franco; le chiese di essere battezzato in quel giorno stesso "perché oggi è il compleanno di mio padre. Voglio dimostrare che c'è continuità, che non sto rifiutando l'ebraismo ma accettando la sua speciale forma".
"Ma non sai nulla del cristianesimo" obiettò la madre. Oswald rispose: "Credo che Gesù fu il Messia. Per favore mi battezzi oggi".
In serata, una delle suore lo battezzò: "Da quel giorno ebraismo e cristianesimo sono sempre stati il centro della mia stessa esistenza". Neppure tre settimane dalla sua spericolata fuga. Nell'inverno del 1944 Oswald dovette abbandonare temporaneamente il suo rifugio perché la polizia indagava troppo da vicino; incontrò un partigiano cui chiese notizie degli ebrei di Mir, questi lo portò al comando russo nella foresta e la vicenda di Oswald suonò strana, venne ritenuto una spia. Fu difeso però da Breslin che aveva soccorso e dovette provare la sua identità partecipando al sabotaggio di un treno carico di soldati tedeschi che fece saltare in aria.
La pressione nazista sulla cittadina cresceva, anche le suore della Risurrezione che si erano prodigate per aiutare la popolazione, e gli ebrei in particolare, furono costrette a evacuare l'edificio; a Oswald non restò che la fuga nella foresta. Ancora una volta divenne traduttore, questa volta fra partigiani e prigionieri tedeschi. Quando l'Armata Rossa avanzò verso occidente, per Oswald fu facile identificare i collaboratori dei nazisti, a questo proposito egli testimoniò anche nel 1982.
Nella Polonia occupata, travolta dalla guerra, Oswald trovava via via rifugi precari, lavori dimessi e faticosi, persone che coprivano la sua identità, datori di lavoro che intuivano ma tacevano, con grande pericolo. Ignorava la sorte degli amati genitori, pensava fosse salvo in Israele il giovane fratello.
Mir fu liberata dall'Armata Rossa nel giugno 1944, Oswald con Breslin e i sopravvissuti raggiunse la cittadina. Improvvisamente però scomparve, come svanito nel nulla. Sarebbe ricomparso come padre Daniel-Maria del Sacratissimo Cuore di Gesù, carmelitano e prete dal 29 giugno 1952.
Nel 1956 coronò il suo sogno ottenendo dai superiori di risiedere in Israele, dove ritrovò il fratello, membro di un moshav, gli amici del giovanile movimento Akiva e i superstiti di Mir.
Chiese quindi di esservi riconosciuto quale ebreo in forza della Legge del ritorno approvata dalla Knesset nel 1950, ma la richiesta venne respinta. Rufeisen ricorse alla Suprema Corte di Israele e così si trovarono a confronto il Rabbinato e la Suprema Corte dello Stato d'Israele, con due giudizi differenti: per l'uno Oswald Rufeisen, nato da genitori ebrei era legato al popolo di Israele, indipendentemente dalla sua decisione di abbracciare la fede cristiana; per l'altro non poteva essere insieme prete cattolico ed ebreo.
Fratel Daniel perse la causa nel 1962: ogni ebreo convertito a un'altra religione avrebbe perso l'accesso preferenziale alla cittadinanza nello Stato di Israele. Più tardi ottenne la cittadinanza naturalizzandosi come cittadino israeliano e vivendo nel convento carmelitano di Haifa.
(©L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2010)


6/02/2010 – IRAQ - Mosul: ucciso uno studente cristiano, la comunità denuncia un “massacro politicizzato” - Ancora un’esecuzione mirata contro un cristiano della città. Il giovane è stato freddato a colpi di pistola mentre si recava in università. Ferito un amico che si trovava sul luogo dell’agguato. I fedeli parlano di “progetto politico ben organizzato” per costringerli a fuggire verso la piana di Ninive.
Mosul (AsiaNews) – Ancora sangue cristiano versato a Mosul, nel nord dell’Iraq. Questa mattina un commando armato ha ucciso un giovane universitario e ha ferito un amico, che si trovava sul luogo dell’agguato. L’ennesimo attacco mirato contro la comunità è solo l’ultimo episodio di una lunga striscia di sangue, a breve distanza dal doppio omicidio di due commercianti e il rapimento di un uomo, avvenuto il 13 febbraio scorso.

La vittima è Zayia Thomas, studente della facoltà di ingegneria dell’università di Mosul. Il giovane è stato freddato a colpi di pistola nel quartiere di Al Tahrir. Nell’agguato è rimasto ferito anche Ramsen Shamyael, della facoltà di farmacia, che in compagnia dell’amico si stava recando in università.

Fonti cristiane di AsiaNews a Mosul parlano di “atmosfera di panico che regna fra i cristiani”, molti dei quali “hanno chiuso i loro negozi e non escono più di casa”. La gente è barricata dentro le mura della propria abitazione e teme il ripetersi di simili attacchi. “Molte altre persone – continua la fonte, in condizioni di anonimato per motivi di sicurezza – lasciano la città verso i villaggi della piana di Ninive”.

“Prima delle elezioni – aggiunge un fedele di Mosul – vogliono svuotare la città dai cristiani”. La comunità, che si sente sempre più sola e abbandonata, denuncia il silenzio del governo locale e dell’esecutivo centrale, a Baghdad. “È un massacro politicizzato e ben organizzato” aggiunge la fonte di AsiaNews, che sembra confermare quanto detto in precedenza da una personalità politica cristiana di alto profilo a Erbil, nel Kurdistan irakeno. “Anche gli attacchi a Baghdad del recente passato – ha commentato il leader politico – sono legati al progetto di una zona dove confinare la comunità cristiana”.(DS)


OLANDA - Suicidio medicalmente assistito per gli ultrasettantenni. Iniziativa per legalizzazione - Notizia 14 febbraio 2010 – da sito ADUC
Un gruppo di cittadini ha lanciato una iniziativa per legalizzare il suicidio medicalmente assistito per tutti gli ultrasettantenni che ne facciano richiesta. Martedì si cominceranno a raccogliere le firme per portare la questione all'attenzione del legislatore.
Già diverse importanti personalità hanno appoggiato l'iniziativa, tra cui ex ministri, artisti, giuristi e medici.
La legge olandese permette l'eutanasia solo in casi di sofferenza "insopportabile e incurabile", limitando la pratica ai soli pazienti affetti da malattie gravi che provocano forte dolore. L'eutanasia puo' essere praticata solo da medici. Chiunque aiuti una persona a togliersi la vita non rispettando le stringenti regole previste dalla legge, viene punito severamente.
L'iniziativa prevede non solo la legalizzazione dell'assistenza al suicidio, ma chiede anche la creazione di una nuova professione dedita al fine vita, formata da infermieri specializzati, psicologi e religiosi che siano in grado di confermare la volontà del paziente attraverso una serie di colloqui. Sarebbero necessari due pareri medici.
Attualmente, circa 400 ultrasettantenni si tolgono la vita ogni anno con metodi 'fai da te', mentre molti di più tentano senza successo di togliersi la vita con conseguenze spesso ancor peggiori sulla salute. La legalizzazione del suicidio assistito, secondo i promotori, potrebbe offrire un percorso guidato e assistenza a chi ha perso ogni speranza, offrendo alternative al suicidio. Solo chi, alla fine di numerosi colloqui, dimostra di voler davvero farla finita, verrà assistito. "Attualmente un anziano potrebbe togliersi la vita con una decisione affrettata. O forse perche' depresso o malato o incapace di prendersi cura di se stesso. La legalizzazione potrà prevenire molti suicidi offrendo assistenza", spiega Dick Swaab, uno dei fondatori del gruppo e presidente dell'Istituto olandese di neuroscienze.


CANADA - Eutanasia, larghissima maggioranza a favore. Medici Quebec: ora legalizzare - Notizia 16 febbraio 2010 – da sito ADUC
Secondo un nuovo sondaggio della Angus Reid, ben l'85% dei canadesi è convinto che la legalizzazione dell'eutanasia permetterebbe alle persone di alleviare la sofferenza e ai medici di agire con linee guida più chiare nel fine vita.
I cittadini del Quebec e del British Columbia, dove sono in discussione progetti di legge per legalizzare l'eutanasia, hanno mostrato maggiore propensione per la legalizzazione. Oltre il 75% dei cittadini del British Columbia chiede la legalizzazione, e oltre la metà vuole la depenalizzazione dell'assistenza al suicidio per i malati terminali.
Inoltre, due terzi dei canadesi è convinta che la legalizzazione della dolce morte non trasmetta alcun messaggio negativo a malati e disabili, tesi invece sostenuta dalle associazioni religiose.
Intanto, i medici del Quebec hanno preso posizione formalmente a sostegno della legalizzazione della morte assistita. Gaetan Barrette, presidente dell'ordine dei medici della provincia francofona, ha chiesto al Governo federale e quello locale di adottare linee guida e leggi che permettano ai medici di facilitare la morte di pazienti in sofferenza che ne facciano richiesta.
"Che piaccia o no", ha spiegato Barrette alla commissione parlamentare che sta analizzando proposte di legge in merito, "l'eutanasia è largamente praticata e i governi dovrebbero smetterla di far finta di non vedere".
Per Barrette, il Governo provinciale potrebbe muoversi già da solo per proteggere i medici che praticano l'eutanasia da procedimenti penali, come nel passato aveva fatto per i medici che praticavano l'aborto.


Eutanasia, veterano della Bbc: uccisi il mio partner malato di Aids - Gosling fa la rivelazione durante programma tv sulla morte - 16 febbraio 2010 - di Patrizio Nissirio – ANSA.IT

LONDRA - E' un caso che ha immediatamente rilanciato il dibattito sull'eutanasia nel Regno Unito: Ray Gosling, un presentatore della Bbc ha confessato durante una trasmissione di aver ucciso anni fa il proprio partner, che era malato terminale di Aids, soffocandolo con un cuscino in un letto d'ospedale. Gosling, 70 anni, durante il programma 'Inside Out', trasmesso ieri sera dalla Bbc nelle East Midlands (Inghilterra) e dedicato proprio alla morte, ha raccontato in una parte della trasmissione da lui girata come ci fosse un patto con il suo compagno: avrebbe messo fine alla vita di quest'ultimo, se la sofferenza fosse diventata intollerabile.

"Quando ami qualcuno, è molto difficile vederlo soffrire. Era in ospedale, con dolori terribili", e quel giorno un medico aveva detto che non c'era più nulla da fare, "così ho chiesto al medico di lasciarci soli per un po', ho preso un cuscino è l'ho soffocato, finché è morto", ha raccontato l'anziano presentatore. "Quando il dottore tornò gli dissi, se n'é andato, e nient'altro fu detto tra di noi", ha aggiunto. La polizia del Nottinghamshire ha immediatamente avviato un'indagine, affermando che fino alla confessione in tv non aveva idea dell'intera vicenda. Intervistato stamattina da Radio 4 della Bbc, Gosling ha detto di non essere preoccupato dall'indagine della polizia o delle conseguenze: "Non mi preoccupo. Ho fatto quel che ho fatto mosso dal cuore. Se c'é un Paradiso lui mi guarderà e sarà fiero di me".

Il presentatore ha detto che i fatti risalgono "ai primi anni dell'aids" e di aver scelto di confessare quella morte perché il programma parlava della morte e venivano intervistate altre persone che avevano affrontato lo stesso dilemma. Ha così creato all'interno di 'Inside Out' un mini-programma di 12 minuti (intitolato 'Gosling riflette sulla mortalita''), in cui, passeggiando in un cimitero, dice: "Forse è il momento di raccontare cosa ho fatto anni fa. Ho ucciso qualcuno". Gosling non ha detto come si chiamava l'uomo, né in quale ospedale avvennero i fatti in questione. La decisione della Bbc di non avvertire subito la polizia quando è stato girato il programma, in dicembre, è stata criticata dal gruppo contro l'eutanasia 'Care not Killing', che l'ha definita "bizarra... al momento non sembra un caso di suicidio assistito ma di uccisione intenzionale, se non di omicidio. Non sappiamo nulla di questo patto, se non dalla parola di Ray. Per questo occorre un'indagine approfondita".

L'emittente ha detto che non era obbligata per legge a allertare la polizia prima della messa in onda, ma che ora coopererà pienamente con l'inchiesta. Sarah Wootton, direttrice di 'Dignity in Dying', che si batte per il diritto al suicidio assistito, ha osservato: "Questo caso dimostra ancora una volta come questo sia un problema vero che ci può riguardare tutti. Il compagno di Ray Gosling era malato terminale e chiaramente ha chiesto aiuto per morire, quando soffriva in maniera insopportabile alla fine della sua vita. Illustra come ci sia bisogno di una legge sul suicidio assistito per aiutare chi vuole scegliere alla fine della sua vita, e per proteggere persone che possano essere vittima di coercizione". Nel Regno Unito il suicidio assistito resta un crimine, ma le linee guida emesse in settembre dalla Procura generale indicano in quali casi occorre perseguire chi assiste, e in quali no.


Avvenire, 16 Febbraio 2010 - Suicidio assistito: ora a Londra decidono i giudici - Si fa sempre più acceso il dibattito in Inghilterra dopo i primi casi approdati davanti alla Corte penale e la nuova linea della scelta "caso per caso" decisa l’anno scorso. Un’apertura di fatto alla legalizzazione della pratica, finora vietata. L’allarme della baronessa Ilora Finley, da oltre vent’anni impegnata sul fronte delle cure palliative: «Così si scaricano i malati».

La baronessa Ilora Finlay è un membro indipendente della Camera dei Lord ed esperta in cure palliative. Da oltre vent’anni lavora a fianco di malati terminali, da sempre si batte contro la legalizzazione del «suicidio assistito» in Gran Bretagna. La sua voce è diventata una presenza abituale negli ultimi mesi sui media britannici, in un periodo in cui alcuni casi hanno riacceso il dibattito sulla questione se sia giusto o sbagliato aiutare una persona sofferente a morire. Il suicidio assistito è illegale nel Regno Unito e punibile fino a 14 anni di reclusione come stabilito dal Suicide Act, che però garantisce alle autorità di usare «la loro discrezionalità» nei singoli casi. Lo scorso luglio il direttore della Procura generale Keir Starmer aveva pubblicato nuove linee guida che permettono alla magistratura di considerare ogni caso in maniera a se stante, assegnandogli il potere di scagionare parenti e familiari che aiutano una persona a morire.

Baronessa Finlay, la legge attuale parla chiaro riguardo l’illegalità del suicidio assistito. Perché dunque, come dimo­strano alcuni casi recenti, sta diventan do sempre più facile aiutare una perso na a morire e non essere puniti per questo?
«L’Atto sul suicidio ha un volto severo e un cuore compassionevole. La legge ci offre un messaggio chiaro: non è permesso uccidere una persona e quando una persona esprime il desiderio di suicidarsi abbiamo il dovere di prendercene cura. In Gran Bretagna avvengono cinquemila sucidi l’anno, e questo nonostante le strategie di prevenzione. Ma la legge sul suicidio assistito funziona in un modo che, quanto all’incriminazione, ogni caso deve essere considerato individualmente. E anche quando un tribunale emette un verdetto è sempre possibile sospendere la sentenza. Questo è già successo in passato anche nel caso in cui l’imputato era stato dichiarato colpevole.
Prendiamo per esempio chi ha accompagnato un familiare all’estero a morire. Nessuno di questi è stato fino a oggi incriminato nonostante la legge dica che è illegale aiutare o incoraggiare una persona a morire».

Il fatto che le incriminazioni siano sempre più rare, infatti, fa intravedere la possibilità di una legalizzazione del suicidio assistito. Cosa sta cambiando in Gran Bretagna?
«La grande preoccupazione è che, scaltramente, si stia lavorando per un cambiamento dell’atteggiamento della società nei confronti del suicidio assistito. Come se si volesse portare la società a credere che legalizzarlo sia ormai diventato inevitabile».

Cosa accadrebbe nel caso di un cam biamento della legge?
«Basta guardare a ciò che è accaduto nell’Oregon. Da quando la pratica è stata legalizzata, dieci anni fa, il numero dei suicidi assistiti è quadruplicato. Una legge in questo senso cambia qualcosa nel cuore di una società e nell’atteggiamento della gente: togliersi la vita non è più solo una scelta tragica di un momento, ma diventa un’opzione da considerare in anticipo. A ciò si aggiunga le difficoltà sempre più evidenti della scienza nel definire la condizione dei malati 'terminali': sempre più spesso le diagnosi si rivelano errate. I malati terminali hanno momenti di disperazione e in questi momenti credono che la morte sia la soluzione migliore. Questi sentimenti di angoscia a volte durano una settimana, altre un mese, ma nella mia lunga esperienza ho incontrato tanti malati che, passato il brutto momento, mi hanno detto che non avrebbero mai creduto di poter gioire di nuovo della vita. Il ricovero, anche se breve, anche se non completo, è sempre accaduto dopo cure palliative adeguate, dopo che è stato ridato valore alla vita di un paziente».

Le cure palliative potrebbero dunque essere la vera risposta a questi malati?
«Non ho mai pensato che le cure palliative siano una bacchetta magica: le persone soffrono e la sofferenza fa parte dell’esistenza umana. Ma se eliminiamo il dovere di prenderci cura dei nostri simili dalla nostra società e se ai vulnerabili togliamo la protezione garantita dalla legge, saremo messi di fronte a conseguenze che non avevamo mai desiderato in primo luogo. Alle persone vanno garantite delle scelte, delle vere scelte, affinché possano vivere e morire bene invece di spingerle a pensare che una vita più corta sia l’unica soluzione disponibile».

È stato spesso detto che curare un ma lato terminale sia molto più caro che aiutarlo a morire. È così?
«Lo scopo delle cure palliative è quello di aiutare le persone, di migliorare la qualità della loro vita. Non è un lavoro facile. Purtroppo viviamo in una società in cui dobbiamo lottare per ottenere risorse ed è troppo facile fare tagli e sostenere che alcune vite vanno la pena di essere vissute più di altre. Ma nel momento in cui si decide di prendere delle scorciatoie si avvalla la disperazione di questi malati. Il messaggio che ricevono è che sarebbe meglio per tutti se morissero. E questo non è certo dar loro una scelta».