lunedì 22 febbraio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: “IL MONDO SI MIGLIORA INCOMINCIANDO DA SE STESSI” - Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus
2) Avvenire.it - 22 Febbraio 2010 – ANNIVERSARIO - Giussani: il carisma del maestro
3) Pontificia accademia dei litiganti - Si riaccende, dopo una breve tregua, la polemica dentro l'accademia per la vita. Cinque membri sfiduciano il presidente. Il giallo della modifica di un pronunciamento della congregazione per la dottrina della fede. Le parole più sagge vengono dal "cortile dei gentili" - di Sandro Magister
4) La lotta come dimensione strutturale della vita monastica - Tutte le armi per salire sulla scala di Giacobbe - Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate nel corso della giornata di studi dedicata alla "Lotta politica nell'Italia medievale" e organizzata a Roma dall'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. - di Umberto Longo, Università di Roma La Sapienza - L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010
5) I padri della Chiesa e la conversione di John Henry Newman - Quei buoni amici del quarto secolo - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010


BENEDETTO XVI: “IL MONDO SI MIGLIORA INCOMINCIANDO DA SE STESSI” - Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus

ROMA, domenica, 21 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica in occasione della preghiera mariana dell'Angelus, recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini presenti in piazza San Pietro.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Mercoledì scorso, con il rito penitenziale delle Ceneri, abbiamo iniziato la Quaresima, tempo di rinnovamento spirituale che prepara alla celebrazione annuale della Pasqua. Ma che cosa significa entrare nell’itinerario quaresimale? Ce lo illustra il Vangelo di questa prima domenica, con il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Narra l’Evangelista san Luca che Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, "pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito Santo nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo" (Lc 4,1-2). È evidente l’insistenza sul fatto che le tentazioni non furono un incidente di percorso, ma la conseguenza della scelta di Gesù di seguire la missione affidatagli dal Padre, di vivere fino in fondo la sua realtà di Figlio amato, che confida totalmente in Lui. Cristo è venuto nel mondo per liberarci dal peccato e dal fascino ambiguo di progettare la nostra vita a prescindere da Dio. Egli l’ha fatto non con proclami altisonanti, ma lottando in prima persona contro il Tentatore, fino alla Croce. Questo esempio vale per tutti: il mondo si migliora incominciando da se stessi, cambiando, con la grazia di Dio, ciò che non va nella propria vita.
Delle tre tentazioni cui Satana sottopone Gesù, la prima prende origine dalla fame, cioè dal bisogno materiale: "Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane". Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura: "Non di solo pane vivrà l’uomo" (Lc 4,3-4; cfr Dt 8,3). Poi, il diavolo mostra a Gesù tutti i regni della terra e dice: tutto sarà tuo se, prostrandoti, mi adorerai. È l’inganno del potere, e Gesù smaschera questo tentativo e lo respinge: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto" (cfr Lc 4,5-8; Dt 6,13). Non adorazione del potere, ma solo di Dio, della verità e dell’amore. Infine, il Tentatore propone a Gesù di compiere un miracolo spettacolare: gettarsi dalle alte mura del Tempio e farsi salvare dagli angeli, così che tutti avrebbero creduto in Lui. Ma Gesù risponde che Dio non va mai messo alla prova (cfr Dt 6,16). Non possiamo "fare un esperimento" nel quale Dio deve rispondere e mostrarsi Dio: dobbiamo credere in Lui! Non dobbiamo fare di Dio "materiale" del "nostro esperimento"! Riferendosi sempre alla Sacra Scrittura, Gesù antepone ai criteri umani l’unico criterio autentico: l’obbedienza, la conformità con la volontà di Dio, che è il fondamento del nostro essere. Anche questo è un insegnamento fondamentale per noi: se portiamo nella mente e nel cuore la Parola di Dio, se questa entra nella nostra vita, se abbiamo fiducia in Dio, possiamo respingere ogni genere di inganno del Tentatore. Inoltre, da tutto il racconto emerge chiaramente l’immagine di Cristo come nuovo Adamo, Figlio di Dio umile e obbediente al Padre, a differenza di Adamo ed Eva, che nel giardino dell’Eden avevano ceduto alle seduzioni dello spirito del male di essere immortali, senza Dio.
La Quaresima è come un lungo "ritiro", durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire", di "agonismo" spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza. In questo modo potremo giungere a celebrare la Pasqua in verità, pronti a rinnovare le promesse del nostro Battesimo. Ci aiuti la Vergine Maria affinché, guidati dallo Spirito Santo, viviamo con gioia e con frutto questo tempo di grazia. Interceda in particolare per me e i miei collaboratori della Curia Romana, che questa sera inizieremo gli Esercizi Spirituali.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i ragazzi di Seregno e di Lecco, venuti per la loro professione di fede, e i fedeli di Cento di Ferrara e di diverse città della Sicilia. Un pensiero speciale rivolgo alle Figlie di San Camillo, che si apprestano a celebrare il centenario della morte della loro Fondatrice, la beata Giuseppina Vannini. A tutti auguro una serena domenica e un buon cammino quaresimale.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


Avvenire.it - 22 Febbraio 2010 – ANNIVERSARIO - Giussani: il carisma del maestro
Chi sia stato don Giussani non è semplice dirlo. Poche parole non bastano a descriverne la ricchezza della personalità poiché egli è stato un uomo poliedrico. Ci avvicineremo percorrendo alcune strade concentriche che hanno segnato la sua esistenza. Egli è stato un lettore intelligente e precoce di poesia e letteratura. Durante le ore di lezione, citava a memoria intere poesie di Pascoli, di Leopardi, di Ada Negri e di altri autori a lui cari. Interessato al dramma inevitabile dell’esistenza umana, era un innamorato degli uomini: sempre desideroso di imparare, di trovare la strada per entrare dentro le loro vite, la loro mente e il loro cuore. Le parole degli scrittori erano, tra le altre, alcune vie di questo incontro. Era sicuro di una cosa: ogni uomo, nel fondo del suo essere, vive per le stesse esigenze di verità, di giustizia, di bene, di felicità che animano le ore dei suoi fratelli sulla terra. All’uomo che grida, che cerca, che non può negare a se stesso quel «più in là» di cui parla Montale, era diretta la sua attenzione profonda. Lo sviluppo compiuto di questa intuizione è contenuto nella sua opera che egli chiamerà «Il senso religioso».

Colpiva in don Giussani la sua passione per la musica. Da piccolo, il padre lo portava con sé ad assistere a concerti d’organo o di polifonia, una passione che coltiverà poi in seminario attraverso la scuola di monsignor Nava. Egli ha così penetrato i segreti delle grandi opere: portava in classe grandi grammofoni per farci ascoltare la Quinta o la Settima di Beethoven, alcuni concerti di Mozart, ci introduceva a Brahms, Schubert e Chopin. Nella musica vedeva il segno profondo della vita dell’uomo. Nei grandi artisti, nella loro opera leggeva la solitudine umana e, allo stesso tempo, la tensione verso l’incontro con altri uomini.

Don Giussani è stato sì un uomo curioso, che amava conoscere, ma soprattutto l’amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita. Egli è stato un grande studioso di teologia in seminario, l’ha penetrata con tale passione che i suoi insegnanti pensavano potesse diventare un grande teologo, uno dei più importanti del nostro Paese. Trascorse 8 anni nel seminario di Venegono, dove vi erano degli educatori che potevano, per la loro profondità e paternità, formare non solamente dei preti, ma educare degli uomini. Un episodio lo segnò profondamente. Quando da monsignor Gaetano Corti sentì commentare il versetto del Prologo del Vangelo di Giovanni, «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), cioè la Bellezza, la Giustizia, l’Amore, la Verità si è fatta carne, si ricordò in quel momento di una poesia di Leopardi. Era un inno non a una delle sue amanti, ma alla scoperta che ciò che cercava nella donna amata era qualcosa oltre essa.

Quella di Leopardi fu, 1800 anni dopo san Giovanni, la mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto. L’allora rettore del seminario, Giovanni Colombo, futuro arcivescovo di Milano, che nutriva sentimenti di vera stima per Giussani, tentò per ben due volte di realizzare il progetto di tenerlo in seminario. Nel 1954 e poi nel 1965. Giussani sentiva di essere chiamato ad altro. È lui stesso a raccontarlo: dopo aver incontrato alcuni giovani studenti sul treno, trovandoli totalmente estranei alle cose più elementari del cristianesimo: «Mi venne… il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto… Abbandonai perciò l’insegnamento in seminario… e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato». Don Giussani è stato soprattutto un grande educatore. La sua preoccupazione era trasmettere ai ragazzi in modo chiaro, affascinante e coinvolgente, quello che gli sembrava la Chiesa non riuscisse più a comunicare. Il patrimonio vitale che costituisce l’anima di ogni civiltà deve essere riscoperto e riguadagnato da ogni generazione.

Tutta la vita del sacerdote lombardo è stata un’esistenza dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che sarà il tentativo del Vaticano II, un concilio pastorale che non volle semplicemente riproporre delle verità, ma soprattutto indicare una strada per viverle. Egli non si stancò mai di ripetere che seguire Cristo non è negare la ragione, negare l’uomo, ma all’opposto è esaltarlo. Il cristianesimo non è una tradizione del passato, è una Persona presente che entra nella vita, in forza della ragione stessa del suo annuncio. Giussani era fermamente convinto che solo dall’interno del cristianesimo vissuto l’uomo scopre se stesso e le sue attese più radicali. Nessuno conosce l’uomo come Cristo, dirà la costituzione del Concilio «Gaudium et spes» (n. 22). Il suo tentativo è stato quello di portare la tradizione vivente della Chiesa negli ambienti della vita dell’uomo: nella scuola, nell’università, nella famiglia e nel lavoro. Tuttavia Giussani non ebbe vita facile.

Egli era malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano un innovatore perché metteva insieme ragazzi e ragazze e favoriva la creazione di comunità nelle scuole, viste come una possibile causa dell’allontanamento dei giovani dalle parrocchie. Al tempo stesso era additato dagli innovatori come tradizionalista. In realtà don Giussani aveva orrore per ogni tradizionalismo come sguardo all’indietro. Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una rottura con la storia precedente, quanto piuttosto una novità nella continuità. Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità. Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata.

Era fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. La vita perderebbe il suo asse fondamentale: la scoperta di essere creatura, di essere fatti da Dio, generati da qualcuno che ci precede, che ci attende e che ci vuole bene. Combatté tuttavia anche ogni forma di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’ autorità. Don Giussani è stato un alto cantore di Cristo.

Già negli anni del seminario iniziò con alcuni suoi compagni un piccolo gruppo, lo «Studium Christi»: una passione irrefrenabile per Gesù come avvenimento presente. La fede è riconoscere Cristo vivo qui ed ora, centro del cosmo e della storia, una persona che vale la pena seguire, che è luce che illumina la vita e calore che riempie interamente il cuore. Le parole della Scrittura erano spessissimo sulle labbra di Giussani: egli la leggeva, la meditava, ci si immedesimava.

E immedesimava chi lo ascoltava. Amava tantissimo san Giovanni e san Paolo, forse perché li sentiva più vicini a sé. In Giovanni scopriva la forza della contemplazione dell’evento dell’incarnazione; in Paolo il grande slancio missionario. Don Giussani era un uomo profondamente lombardo e un prete profondamente ambrosiano. Tutta la sua vita è stata permeata dalla figura e dall’insegnamento di sant’Ambrogio che attraverso la liturgia e la grande tradizione della Chiesa ambrosiana giunse fino a lui.

L’ambrosianità di don Giussani si esprimeva nel senso concreto dell’uomo peccatore e salvato. Era vivo in lui lo stupore per la misericordia di Dio più grande del nostro peccato. Amava tutto ciò che è bello, tutto ciò che è parola, che è canto, come era per Ambrogio, creatore degli inni. In lui ho rivisto un tratto tipico dei grandi preti ambrosiani: una «fedeltà in piedi» non servile, ma reale e sacrificata all’autorità della Chiesa. Così è stato il suo rapporto con i due arcivescovi di Milano, Montini e Colombo, che videro la fioritura del movimento proprio negli anni del loro servizio pastorale, e con i papi che ha incontrato.

Don Giussani è stato un grande uomo di cultura, un estimatore della ragione umana. Durante le ore di lezione colpiva la forza logica del suo parlare, la stringenza del suo ragionamento. Egli non si stancò di sostenere contro ogni riduzionismo che la ragione è apertura alla realtà in tutti i suoi fattori. Benedetto XVI in questi ultimi anni ha invitato ad «allargare la ragione». Mi ha fatto molto pensare a don Giussani. La ragione non è qualcosa che ci chiude in noi stessi ma è una finestra spalancata su una realtà nella quale non si finisce mai di entrare.

Dall’incontro con Cristo nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere nell’ambiente in cui vivono i cristiani. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità e alla missione, costituì l’anima della nuova Gioventù Studentesca nata intorno a Giussani. Egli ci ha sempre educati alla carità. Fin da piccoli andavamo nella Bassa milanese per stare con i bambini semplicemente, per educarci al fatto che Dio si è fatto uomo per stare con noi. Tutto nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la sua vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, opere di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie.

Già dalla fine degli anni Sessanta don Giussani aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi. Ed infine, l’ultima parola che ha dominato la vita di don Giussani è stata la misericordia. Negli ultimi anni tutto si era tramutato in questa certezza: «Dio per l’uomo è misericordia». È stata l’insistenza maggiore in un numero impressionante di interventi, come un fiume in piena, in un uomo segnato dall’immobilità, dalla quasi totale impossibilità ad articolare la sua voce. Colpisce la comunanza con la vita di Giovanni Paolo II, morto proprio nei primi vespri della festa della Divina Misericordia. E 5 anni prima di morire Giussani scriveva: «Di fronte a tutti i peccati della terra, sarebbe ovvio dire: Dio distrugga un uomo così. Invece, Dio muore per un uomo così, diventa uomo e muore per un uomo così, tanto che questa sua misericordia rappresenta il senso ultimo del mistero».


15/02/2010 - Aldo Maria Valli - da Studi cattolici n. 587 - «Padre Pio, un caso da manuale. - Le vicissitudini per presentare in televisione la biografia di Padre Pio edita dall'Ares
Era la fine dell’estate 2007 quando l’allora direttore del Tg1 Gianni Riotta mi fece avere le bozze di un libro su Padre Pio che sarebbe uscito nell’ottobre successivo.
Il libro era Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, edito da Einaudi e scritto dallo storico Sergio Luzzatto. Riotta mi chiese di studiarlo in vista di un servizio di presentazione per il telegiornale e, cosa molto più impegnativa, di uno Speciale Tg1 di un’ora nel quale, prendendo spunto dall’uscita del libro, si tornasse sopra l’intera vicenda umana e spirituale di Padre Pio, compresi i contrasti e le incomprensioni con il Vaticano.
Lessi il libro con grande interesse e anche, direi, con soddisfazione, dal punto di vista dello stile letterario, perché Luzzatto scrive molto bene. Mi colpì soprattutto l’intreccio fra la storia del frate con le stigmate e la storia dell’Italia in quegli anni, in particolare durante il ventennio fascista. Era infatti la prima volta che il rapporto veniva studiato in profondità, mettendo anche in luce l’utilizzo della figura di Padre Pio, da parte di diverse forze politiche, nel corso dei decenni.

Andai a trovare Luzzatto a casa sua. Conobbi così uno studioso giovane, appassionato, grande conversatore, molto simpatico. Mi spiegò di essere di religione ebraica, non praticante, ma desideroso di riscoprire le proprie radici, e ci sentimmo subito in sintonia.
Quando gli chiesi come mai avesse deciso di dedicarsi a Padre Pio, mi disse che lo aveva colpito un fatto: il numero impressionante di persone, non solo in Italia, che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con il santo frate. C’è chi lo vede in sogno; chi lo considerava lontano dalla propria spiritualità e poi invece, tramite vie misteriose, lo ha riscoperto e ne è diventato devoto; chi ha sentito improvvisamente il bisogno di rivolgersi a lui in un momento difficile della propria vita; chi ne è venuto a conoscenza tramite amici o parenti e ha ricevuto da lui moltissime grazie.
Durante l’incontro non avvertii nessuna ostilità da parte di Luzzatto nei confronti di Padre Pio. Al momento del commiato gli chiesi: «Ma alla fine, professore, chi è per lei Padre Pio?», e lui disse: «È un uomo che ha fatto tanto bene a tante persone». Risposta che mi sembrò carica di verità, perché in effetti quando, ancora oggi, si va a San Giovanni Rotondo, al di là di tutti gli aspetti che possono convincere di meno, come un certo commercio che ruota attorno alla figura del santo, ciò che colpisce è proprio il bene che i pellegrini ricevono dall’accostarsi a lui e dal pregare sulla sua tomba.
Confesso che durante l’incontro con Luzzatto non ci soffermammo più di tanto sulla questione delle stigmate. Io, come detto, ero interessato a ciò che mi sembrava il contributo più originale del libro, ovvero le connessioni fra la vita del frate e la storia d’Italia, e lui non mostrò nessuna intenzione di puntare, in modo scandalistico o pruriginoso, sulle controversie legate alle ferite di Padre Pio.
Per realizzare lo Speciale Tg1, mi recai a San Giovanni Rotondo per la prima volta in vita mia. Ci arrivai in una giornata di tormenta, con un gran freddo, vento a raffiche, pioggia a secchiate, il cielo nero, un’atmosfera terrificante. Proprio a causa delle condizioni del tempo, fui costretto a stare sempre all’interno del convento, e questa circostanza favorì una particolare intimità con i frati. Parlammo molto, con grande libertà, anche degli aspetti più controversi della vita di Padre Pio. Riuscii così a farmi un quadro abbastanza preciso, ma soprattutto ebbi la possibilità di calarmi a fondo nella realtà in cui visse il frate, spogliandomi di tutti i miei eventuali pregiudizi.

Immagine distorta

Mentre lavoravo allo Speciale, il Corriere della sera uscì con un articolo dello stesso Luzzatto intitolato «Padre Pio, il giallo delle stigmate». Era un’anticipazione del libro, ma ne offriva un’immagine distorta. Infatti, ignorando tutto il resto, puntava soltanto sul presunto uso, da parte di Padre Pio, di acido fenico per procurarsi le abrasioni sulle mani, questione che Luzzatto effettivamente affronta in alcune pagine, ma che non costituisce il cuore dell’opera.
La circostanza, lo ricordo, è basata sulla testimonianza di una devota del frate, Maria De Vito, cugina di un farmacista di Foggia, il dottor Valentini Vista, la quale riferì che nel 1919, al rientro da una visita a Padre Pio, chiese al cugino farmacista una bottiglietta da cento grammi di acido fenico puro dicendo che era stato lo stesso frate ad avanzare la richiesta, raccomandandole di mantenere il segreto.
Dopo l’uscita dell’articolo, Gianni Riotta mi convocò e mi chiese: «Tu hai parlato con Luzzatto della storia dell’acido fenico, vero?». Al che dovetti confessargli che sì, avevamo affrontato le polemiche sulle stigmate, ma che, non essendomi sembrato quello il cuore del libro, ci eravamo soffermati di più sulle questioni storiche e sullo sfondo politico dell’Italia di quegli anni.
Riotta mi replicò con uno sguardo che era un misto di commiserazione e irritazione, come fanno a volte i maestri con gli alunni buoni ma un po’ duri di comprendonio. Mi disse più o meno: «Lo so che sei un idealista e un’anima candida, ma noi siamo il telegiornale, e il telegiornale per vivere ha bisogno di fare ascolti. Solo gli ascolti sono la nostra forza, nient’altro. E gli ascolti si fanno con gli argomenti forti. La storia dell’acido fenico è un argomento forte, capisci? Non pensare che io sia un mostro. Piacerebbe anche a me approfondire i rapporti tra la vita di Padre Pio e la storia sociale e politica della sua epoca, ma considera che noi ci rivolgiamo a un pubblico vastissimo, che non è di specialisti, e questo pubblico lo dobbiamo catturare. Chiama Luzzatto, fallo venire qui e integra l’intervista con la faccenda dell’acido fenico».

Fu così che Luzzatto mi raggiunse alla Rai di Saxa Rubra a Roma e realizzammo il supplemento di intervista. Puntai sulla questione dell’acido, ma lui in realtà mi sembrò quasi desideroso di ridimensionare la portata di quelle pagine.
I miei problemi comunque non erano ancora finiti, perché, il giorno dopo, il Corriere se ne uscì con un altro articolo, sempre nella pagina della cultura e sempre con grande evidenza, intitolato «Padre Pio, un immenso inganno», e lì capii subito che tutta la storia stava prendendo una brutta piega e che saremmo finiti pari pari in quel sensazionalismo e in quel giornalismo «urlato» che io in genere cerco di evitare, perché credo che non spieghi niente e serva solo ad alzare cortine fumogene.
Nell’articolo si citava il contenuto di «quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi e rivelati da Sergio Luzzatto», quattro foglietti sui quali il 25 giugno 1960 Giovanni XXIII aveva definito Padre Pio un «fenomeno preoccupante» e la devozione nei suoi confronti una «dolorosa infatuazione». Tutto a partire dalla scoperta di «filmine» (così le chiamava il Papa) che avrebbero mostrato Padre Pio in «rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana», e il tutto «a discredito della santa Chiesa».
Bisogna dire che quell’appunto del 1960, in realtà, era già noto e che in esso il Papa, dopo aver definito Padre Pio «un idolo di stoppa», aggiungeva in latino «si vera sunt quae referentur», cioè «se è vero quel che si dice»; ma voi capite che questa annotazione, di fondamentale importanza, dal punto di vista del giornalismo sensazionalistico passa del tutto in secondo piano rispetto a un titolo che parla di Padre Pio come di un «immenso inganno» e tira in ballo l’argomento pruriginoso dei rapporti con «le femmine».
A onor del vero, l’articolo diceva anche che, al di là delle rivelazioni sui bigliettini di papa Giovanni, il libro di Luzzatto dava un giudizio di Padre Pio che non era per nulla liquidatorio e che l’interesse dell’opera stava non tanto nei presunti retroscena sulle stigmate quanto nella ricostruzione del sorprendente intreccio fra la vita di un povero frate del Gargano e quella della Chiesa, della politica e della finanza dell’epoca. Tuttavia la macchina dell’informazione, unita a quella dell’editoria, si era messa in moto secondo le logiche del sensazionalismo, e in questi casi non c’è niente da fare: opporsi è come pretendere di fermare con le mani un treno in corsa.

Di fronte ai titoli del Corriere, non fu facile convincere i miei superiori che non era il caso di realizzare uno «Speciale Tg1» in senso scandalistico, ma alla fine furono comprensivi e mi lasciarono carta bianca. Intitolai lo Speciale Il mistero Padre Pio, andammo in onda negli ultimi giorni dell’ottobre 2007 e, nonostante il mio stile, da libro di storia più che da rotocalco, gli ascolti furono ottimi, il che dimostra che il pubblico è più maturo di quanto pensiamo in genere noi giornalisti. Ovviamente ci misi la faccenda dell’acido fenico e degli appunti di Giovanni XXIII, ma cercai di contestualizzare queste circostanze, ascoltando molte altre testimonianze e soprattutto facendo notare che papa Roncalli per i suoi duri commenti si basò sempre su giudizi riferiti da altri: «si vera sunt quae referentur», appunto. Nel complesso fui abbastanza soddisfatto del mio lavoro, che infatti venne giudicato favorevolmente per l’equilibrio.

Uno scrupolo di coscienza

Poco meno di un anno dopo questa vicenda, mi chiamò l’Ares proponendomi la lettura del libro di don Francesco Castelli Padre Pio sotto inchiesta. L’autobiografia segreta (Edizioni Ares, Milano 2008, pp. 328, euro 14), un’opera che mi apparve subito caratterizzata da un rigore storico eccezionale e che mi colpì per il racconto, fatto dallo stesso Padre Pio, di come il frate ricevette le stimmate. Un racconto (molto più dettagliato di quello già noto, contenuto in una lettera inviata da Padre Pio al suo direttore spirituale) dal quale si viene a sapere, soprattutto, che il frate conosceva bene l’identità della persona che gli apparve e che fu proprio Gesù a chiedergli di aiutarlo a portare il peso dei peccati del mondo.
Il libro di don Francesco inoltre contiene un altro documento inedito: l’esame delle stimmate fatto dal vescovo inviato dal Vaticano. Un esame approfondito e accurato, l’unica vera indagine realizzata per conto del Sant’Uffizio, al termine della quale monsignor Rossi, ammettendo di essere partito con un atteggiamento di prevenzione, arriva a dire che le stimmate sul frate si spiegano solo con un’origine divina.
Il lavoro di don Francesco, mi dissi, meritava di essere conosciuto almeno quanto quello di Luzzatto. E fu così che, nonostante la mia congenita timidezza, fui molto insistente con Gianni Riotta. Gli dissi che dovevamo assolutamente parlare del libro di Castelli, e dovevamo farlo nella nostra edizione principale, il Tg1 delle 20, anche con una breve intervista all’autore.
Non è per niente usuale che in un Tg, specie nell’edizione principale, si presenti un libro. In genere lo si fa nella rubrica settimanale dedicata alle novità librarie, oppure in qualche edizione minore, ma nel caso del lavoro di don Francesco presi il coraggio a due mani e mi rivolsi al direttore perché avvertii uno scrupolo di coscienza. Dopo tutto lo spazio dedicato alle pagine più sensazionalistiche del libro di Luzzatto, sentivo il bisogno di riequilibrare la situazione. Mi sembrava un dovere verso i nostri ascoltatori oltre che nei confronti di Padre Pio.
Devo dire che il direttore accettò di buon grado la mia proposta. Avrebbe potuto rifiutarla, invece avvertì anche lui un obbligo morale oltre che professionale. Quindi andammo in onda.

Nel servizio, sia pure nei pochi secondi concessi dal telegiornale, cercai di spiegare che il libro di don Francesco, proponendo gli atti della prima inchiesta del Sant’Uffizio su Padre Pio, condotta da monsignor Raffaello Carlo Rossi nel 1921 su incarico del Vaticano, non solo ci mette a conoscenza di quella che può essere considerata l’autobiografia del frate (per via delle sei preziose deposizioni di Padre Pio raccolte dall’inquisitore), ma ci offre una documentazione di prima mano che permette di aggiornare in modo decisivo la storiografia sul suo conto e di scrivere un nuovo capitolo sulla storia del Sant’Uffizio, la cui immagine, come dice l’autore, «esce rinnovata e ripulita da luoghi comuni».
Feci anche capire, o almeno ci provai, che pur essendosi abbeverati alla stessa fonte, cioè gli archivi vaticani relativi al periodo dal 1921 al 1939, aperti su concessione di papa Benedetto XVI, Luzzatto e Castelli ne avevano tratto indicazioni e conclusioni diverse. Per via del poco spazio a disposizione, non mi fu possibile dirlo esplicitamente, ma lasciai intuire che il lavoro dello storico cattolico si era dimostrato, nel complesso, più convincente di quello dello storico laico, e questo in virtù di una preparazione in campo religioso che, lungi dal costituire un velo o un impedimento per la ricerca, si era invece rivelata uno strumento al servizio di una migliore comprensione.

Giornalismo «culturale»

Ora, quello che mi preme far notare è che l’intera vicenda rappresenta un caso da manuale per chi volesse studiare il giornalismo italiano, e in particolare il giornalismo culturale. Se la macchina dell’informazione e quella dell’editoria decidono di imporre un argomento, e di imporlo sotto una certa luce, lo possono fare, e i modi per opporre resistenza sono davvero limitati.
Inoltre c’è ancora un forte pregiudizio verso la cultura che possiede il marchio cattolico. Al Tg1, quando spiegai che l’autore di Padre Pio sotto inchiesta era un prete e che la casa editrice era cattolica, la prima reazione fu di rifiuto: «Non ci occupiamo di santini», disse un vicedirettore. Come se l’editoria cattolica non potesse produrre altro. Solo la fiducia che il direttore aveva in me ci permise di andare in onda con la recensione del libro pubblicato dall’Ares, e devo dargliene atto.

Raccontare la verità è molto più difficile che fare del sensazionalismo. Perché la verità molto spesso è complessa, ha bisogno di attenzione per essere esposta in tutti i suoi aspetti e non si presta a essere riassunta in titoli «gridati». Se poi la verità è raccontata da chi non nasconde la propria fede cattolica, le possibilità di essere presi in considerazione all’interno del mondo culturale si riducono di molto. Bisogna intraprendere una vera e propria battaglia, il che costa fatica e richiede tanta tenacia, oltre che la forza necessaria per far fronte allo scoramento che ti prende quando non riesci a far valere le tue ragioni.
Siamo dunque in presenza di una discriminazione. E se lo dico non è per fare del vittimismo, ma solo perché così in effetti stanno le cose. In ogni caso, che le battaglie siano vinte o perse, a chi le conduce in nome della verità resta sempre la soddisfazione e la gioia di averle combattute. E, per quanto mi riguarda, molto spesso resta il rapporto di stima e di amicizia con le persone che la Provvidenza mette sul mio cammino.
Sono contento di aver conosciuto Sergio Luzzatto, uomo sincero e storico appassionato, con il quale ho potuto confrontarmi apertamente. Sono contento di aver lavorato con un direttore come Gianni Riotta, sempre disponibile al dialogo e sensibile alle questioni riguardanti la fede e la religione. E sono contento dell’amicizia nata con don Francesco Castelli, un grande storico, un grande uomo e un gran bravo sacerdote. Che sia stato proprio Padre Pio il regista di questa storia?
Aldo Maria Valli


Pontificia accademia dei litiganti - Si riaccende, dopo una breve tregua, la polemica dentro l'accademia per la vita. Cinque membri sfiduciano il presidente. Il giallo della modifica di un pronunciamento della congregazione per la dottrina della fede. Le parole più sagge vengono dal "cortile dei gentili" - di Sandro Magister
ROMA, 20 febbraio 2010 – Non c'è requie per il presidente della pontificia accademia per la vita, l'arcivescovo Salvatore (Rino) Fisichella, sulle cui traversie www.chiesa ha ampiamente riferito in precedenti servizi.

L'assemblea plenaria dell'accademia che si è tenuta in Vaticano a porte chiuse dall'11 al 13 febbraio era parsa concludersi pacificamente per lui, anche perché il suo principale oppositore, l'accademico belga Michel Schooyans, era stato trattenuto a Lovanio da un malanno di stagione.

Ma alcune battute dette da Fisichella nel discorso con cui ha aperto l'assemblea e poi all'agenzia Catholic News Service della conferenza episcopale degli Stati Uniti hanno indotto alcuni suoi oppositori a riaprire il fuoco contro di lui.

Il 16 febbraio Schooyans e altri quattro accademici hanno firmato e diffuso una dichiarazione nella quale tornano a invocare che sia tolta a Fisichella la presidenza dell'accademia.

La loro dichiarazione è riprodotta integralmente più sotto. Ed è l'ultimo capitolo di una polemica che si trascina da quasi un anno, dal 15 marzo 2009, quando su "L'Osservatore Romano" uscì un articolo di Fisichella che criticava l'arcivescovo brasiliano di Recife per come aveva scomunicato gli autori di un doppio aborto su una madre bambina.

Contro quell'articolo e il suo autore – che l'aveva scritto su richiesta e con l'approvazione del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone – le proteste furono forti e numerose, da parte di vescovi brasiliani e di altri paesi e di decine di membri della pontificia accademia per la vita. Arrivarono fino al papa. Il 10 luglio la congregazione per la dottrina della fede pubblicò una "Chiarificazione" sulla dottrina della Chiesa in materia di aborto, contro i fraintendimenti che avevano preso spunto da quell'articolo.

Ma Fisichella non ha mai ritenuto di aver scritto qualcosa di sbagliato. Nel discorso di 40 minuti col quale lo scorso 11 febbraio ha introdotto i lavori dell'assemblea plenaria dell'accademia, ha ribadito che la "Chiarificazione" della congregazione per la dottrina della fede gli ha dato ragione in tutto.

Il testo del discorso di Fisichella, pronunciato in italiano con traduzioni simultanee, non fu distribuito ai presenti e il giorno dopo "L'Osservatore Romano" ne pubblicò solo una parte, priva dei riferimenti al caso di Recife.

Il 12 febbraio, intervistato da Carol Glatz del Catholic News Service, Fisichella se la prese con i suoi critici: "Se un membro dell'accademia, se alcune persone, per ragioni di interesse politico, hanno voluto travisare le mie parole, la responsabilità non è mia. La responsabilità è piuttosto di coloro che hanno voluto creare una situazione di conflitto".

Alla vigilia dell'assemblea plenaria dell'accademia, Schooyans aveva pubblicato una requisitoria contro l'uso ingannevole che si fa del concetto di "compassione", finendo col giustificare atti contrari alla morale cristiana.

A giudizio di Schooyans, con quell'articolo su "L'Osservatore Romano" Fisichella era caduto proprio nella "trappola" della falsa compassione, a proposito della bambina brasiliana resa gravida dal patrigno e fatta abortire.

Anche Benedetto XVI, nel discorso rivolto il 13 febbraio alla pontificia accademia per la vita al termine dell'assemblea, ha messo in guardia dal "facile pietismo dinanzi a situazioni limite". Ma Fisichella ha sempre respinto ogni critica al riguardo.

I principali testi della controversia sono tutti controllabili su www.chiesa. Ma ad essa si sono intrecciate anche voci esterne alla Chiesa.

Una di queste voci, tra le tante, è quella di Ruggero Guarini, un intellettuale non credente che ha scritto questa breve lettera al quotidiano "il Foglio", che l'ha pubblicata lo scorso 10 febbraio presentandola come "un magnifico esempio di apologia laica" della vita nascente:

"Per quale oscura ragione, pur non essendo io un antiabortista militante, riflettendo sul caso dei due gemelli spuntati nel grembo di quella bambina di Recife violentata dal patrigno ma poi eliminati dai medici, mi sorprendo a immaginare che mi piacerebbe che quei piccini fossero nati?

"Il vero motivo sono proprio le speciali circostanze di questo episodio insieme atroce e toccante, ossia la generazione di quei due esserini da un atto orribile ma non per questo privo del potere di produrre quel miracolo che è la trasmissione della vita, il loro felice sviluppo nel ventre di una fanciullina ignara del carattere prodigioso del processo in corso nel suo piccolo corpo, infine l’effetto particolarmente sinistro provocato dall’ottusa sicurezza con cui persone del tutto estranee a quella catena di eventi sovrumani si sono arrogate il diritto di impedirne l’esito…

"Quale prova abbagliante è insomma questo episodio dell’essenza irriducibilmente misteriosa della vita, del suo ineffabile valore di dono, del suo non essere nostra, nonché della micidiale ridicolezza dell’idea di poterne disporre!".

Sarebbe stato bello se la controversia si fosse pacificata sulla traccia di parole così semplici e profonde. Risuonate non dentro il tempio, ma nel "cortile dei gentili"!

*

Tornando alla polemica interna alla pontificia accademia per la vita, i cinque oppositori di Fisichella lo accusano, tra l'altro, di aver ottenuto in extremis una modifica a suo favore della "Chiarificazione" del 10 luglio 2009 della congregazione per la dottrina della fede.

In segreteria di Stato la presa di posizione dei cinque accademici è stata accolta con prevedibile irritazione. Alla prima notizia della diffusione del testo, il 19 febbraio, il direttore della sala stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, ha detto che "tale documento non è giunto né al Santo Padre, né al cardinale segretario di Stato, che ne sembrerebbero i naturali destinatari", né è stato presentato nell'assemblea plenaria della pontificia accademia per la vita "che sarebbe stata il luogo naturale per affrontare l'argomento". Quindi "stupisce e appare non corretto che a tale documento venga data una circolazione pubblica".

Eccone il testo integrale, a titolo di documentazione:


DICHIARAZIONE SULLA PRESIDENZA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, A SEGUITO DELL'ASSEMBLEA DELL'ACCADEMIA DELL'11-13 FEBBRAIO 2010, IN VATICANO


La contestazione dell'arcivescovo Rino Fisichella nella sua qualità di presidente della Pontificia accademia per la vita, che vari commentatori avevano preannunciato, durante l'assemblea dell'Accademia della scorsa settimana non c'è stata. Perché? Essenzialmente a motivo di una decisione politica presa da alcuni membri che avevano firmato la lettera del 2 aprile 2009 all'arcivescovo Fisichella e la successiva lettera al cardinale Levada del 1 maggio 2009, chiedendo che fosse corretta l'impressione di grave fraintendimento dell'insegnamento della Chiesa sull'aborto diretto creata dall'articolo dell'arcivescovo Fisichella su "L'Osservatore Romano" del 15 marzo 2009.

Le ragioni di questa decisione politica erano di due tipi. a) Un'aperta contestazione di Fisichella nell'assemblea avrebbe diviso l'Accademia, non necessariamente perché gli accademici concordino con la sua condotta ma perché molti avrebbero ritenuto inappropriato trattare in questo modo un uomo nominato dal papa che è anche arcivescovo. Inoltre, un'aperta sfida da parte di accademici laici avrebbe corso il rischio di portare la curia a serrare i ranghi attorno a Fisichella a motivo della mentalità clericale di questa corporazione e nonostante egli manchi di sostegno quasi ovunque. b) Risulta da fonti attendibili che Fisichella è visto da gran parte della curia come inadatto alla presidenza della Pontificia accademia per la vita e c'è una ragionevole speranza che il Santo Padre riconoscerà il bisogno di assegnargli una carica meglio rispondente alle sue capacità.

La mancanza di un'aperta contestazione a Fisichella ha creato l'inesatta impressione che gli accademici appoggiassero la sua presidenza, per rassegnazione o per altro motivo. Questa è un'impressione che egli aveva tutto l'interesse a propagare. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità, e uno dei principali motivi per cui tale impressione è falsa è il discorso decisamente inopportuno che egli ha tenuto aprendo l'assemblea.

Egli non ha mostrato la minima consapevolezza degli effetti rovinosi del suo articolo su "L'Osservatore Romano" del 15 marzo 2009 o della sua responsabilità circa tali effetti. I rispettosi sforzi di vari accademici di ottenere da lui una correzione (cosa che egli all'epoca rifiutò) li ha descritti come attacchi personali contro di lui motivati da "dispetto"; quando nessuno dei firmatari aveva il più piccolo motivo di coltivare simili sentimenti nei suoi confronti. Ha rivendicato che la "Chiarificazione" finalmente pubblicata l'11 luglio 2009 dalla congregazione per la dottrina della fede gli ha dato ragione.

In altre parole, non ha ritrattato nulla di ciò che ha detto nel suo articolo. È facile pensare che Fisichella si ritenga in diritto di rivendicare d'aver avuto ragione grazie all'infelice primo paragrafo della "Chiarificazione", che dice quanto segue:

"Recentemente sono pervenute alla Santa Sede diverse lettere, anche da parte di alte personalità della vita politica ed ecclesiale, che hanno informato sulla confusione creatasi in vari Paesi, soprattutto in America Latina, a seguito della manipolazione e strumentalizzazione di un articolo (sottolineatura nostra) di Sua Eccellenza Monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sulla triste vicenda della 'bambina brasiliana'."

Ciò che pochi sanno è che questo non era il testo originale del paragrafo d'apertura, pronto per essere pubblicato su "L'Osservatore Romano". Fisichella ottenne di vedere il testo prima della pubblicazione e volle che il paragrafo originale fosse cambiato così come poi apparve nella versione resa pubblica. In questo modo gli fu consentito, con l'apparente autorità della congregazione per la dottrina della fede, di declinare ogni responsabilità per il rovinoso impatto del suo articolo sulla difesa delle vite umane innocenti dei nascituri. La responsabilità per questa rovina apparterrebbe interamente al modo con cui altri avrebbero "manipolato e strumentalizzato" il suo articolo!

Ma non soddisfatto d'aver declinato le responsabilità per il danno arrecato dal suo articolo, Fisichella nel suo discorso dell'11 febbraio all'Accademia ha preteso che il riconoscimento d'aver avuto ragione si estendesse al contenuto del suo articolo. Questa pretesa è particolarmente grave poiché la chiara implicazione del testo del suo articolo è che vi sono situazioni difficili nelle quali i medici hanno la facoltà di un autonomo esercizio della coscienza nel decidere se praticare un aborto diretto.

Sembrerebbe, quindi, che la "Chiarificazione" della congregazione per la dottrina della fede non sia stata capace di chiarire il pensiero dell'arcivescovo Rino Fisichella. Se è così, ciò solleva un dubbio preoccupante proprio su quanto la "Chiarificazione" sia stata complessivamente efficace nel confutare la falsa comprensione dell'insegnamento della Chiesa sull'aborto diretto trasmessa dall'articolo del 15 marzo 2009.

Lungi dal produrre unità e genuina armonia nell'Accademia, il discorso dell'11 febbraio dell'arcivescovo Fisichella ha avuto l'effetto di rafforzare nelle menti di molti accademici l'impressione di essere guidati da un ecclesiastico che non capisce ciò che comporta l'assoluto rispetto per le vite umane innocenti. Questo è uno stato di cose assurdo in una Pontificia accademia per la vita, che può essere rimediato solo da coloro che sono responsabili della sua nomina come presidente.

Luke Gormally, membro ordinario dell'Accademia, già direttore (1981-2000) del Linacre Centre for Healthcare Ethics, Londra, Regno Unito.

Christine de Marcellus Vollmer, membro ordinario dell'Accademia, presidente di Alliance for the Family, Venezuela.

Monsignor Michel Schooyans, membro ordinario dell'Accademia, professore emerito dell'Università di Lovanio, Belgio.

Maria Smereczynska, membro corrispondente dell'Accademia, Polonia.

Thomas Ward, membro corrispondente dell'Accademia, presidente di The National Association of Catholic Families, Regno Unito.
16 febbraio 2010


La lotta come dimensione strutturale della vita monastica - Tutte le armi per salire sulla scala di Giacobbe - Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate nel corso della giornata di studi dedicata alla "Lotta politica nell'Italia medievale" e organizzata a Roma dall'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. - di Umberto Longo, Università di Roma La Sapienza - L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010
Contro di te, o mondo immondo, noi protestiamo! Così comincia un celebre testo monastico, la Vita di san Romualdo di Ravenna scritta nel 1042 da san Pier Damiani, monaco e protagonista della riforma della Chiesa nel pieno del medioevo. La testimonianza agiografica su un monaco che con la sua azione e i suoi ideali di riforma ha meritato la santità si apre con una contrapposizione netta, radicale che inserisce subito l'esperienza esistenziale del santo monaco in un contesto di lotta, di conflitto rifacendosi a una tradizione retorica antica quanto il monachesimo.
A ben vedere una scelta così radicale, totalizzante genera per forza conflitti: quella della lotta è una dimensione costitutiva, strutturale della vita monastica al punto che la si può considerare una cifra caratterizzante.
Il fine ultimo del monachesimo è la pace dell'anima nel porto celeste, ma per giungervi non sono possibili compromessi; dunque va riconsiderato e/o ricontestualizzato l'atteggiamento un po' oleografico, agiografico nel senso deteriore e non etimologico del termine - buonista si direbbe oggi - che contraddistingue certo modo di considerare il chiostro e la vita monastica.
Se il chiostro evoca valori come la mitezza, l'umiltà, l'equilibrio, virtù cardini che tutte le fonti monastiche propugnano senza sosta come ingredienti necessari, e indispensabili per la vita monastica, allo stesso tempo i monaci sin dalle origini si sono autorappresentati e concepiti come soldati, come atleti di Cristo, perennemente in guardia contro una nutrita schiera di nemici. Sin dai primordi i testi che riguardano il monachesimo sono intessuti di linguaggio e metafore militari: la stessa vita monastica è indicata come una milizia spirituale.
Ogni monastero è una piccola Gerusalemme celeste in terra, è un orto delle delizie spirituali, una riproduzione del giardino dell'Eden, un hortus conclusus, ma è anche un luogo di scontro, un teatro di guerra, un avamposto, una roccaforte dove si combatte una lotta senza quartiere, sotto l'insegna della categoria dell'urgenza, della fretta, del correre verso Dio (festinare ad Deum) e dell'estrema bellicosità contro se stessi e i nemici di Dio. Negli e dagli avamposti del cielo in terra, i monasteri, parte una lotta senza tregua. Il monaco pugna, combatte contro una miriade di nemici più o meno insidiosi: primo fra tutti se stesso, poi - e insieme - il demonio, l'antico nemico, il nemico per eccellenza, quindi un gradino più sotto tutti gli altri nemici di Dio: i pagani, gli eretici, i laici prepotenti, le donne, gli altri monaci, gli ordini diversi, i vescovi rapaci, la natura implacabile e incontrollabile, gli infedeli.
I monaci si impongono una strada difficilissima: quella della perfezione spirituale. Salgono una ripida e impervia scala che conduce a Dio. È un'immagine ricorrente nel mondo monastico quella della scala di Giacobbe, della salita dei gradini, delle tappe, dell'ascesa/ascesi al cielo verso la Gerusalemme celeste. Gerusalemme c'entra sempre: ieri come oggi è un ombelico sensibile del mondo per un eccezionale insieme di motivi.
La scala però è stretta; nel senso che molte sono state le vie e le formule elaborate per realizzare il fine ultimo dell'esperienza monastica che è l'affrettarsi verso Dio: ma molteplici sono state anche le forme e i modi della partecipazione del monachesimo alla costruzione della società.
Ma torniamo alla Vita di Romualdo che è un'opera esemplare per mettere in risalto una serie di caratteristiche fondamentali del monachesimo e dei suoi rapporti con la società. Il santo protagonista e l'agiografo, lo scrittore della sua biografia spirituale, sono monaci impegnati nella riforma del monachesimo e più in generale della società cristiana; riforma cioè ritorno alla primitiva forma, all'origine apostolica della Chiesa e agli esordi del movimento monastico. È un procedere caratteristico questo dei riformatori monastici, ma più in generale degli uomini del medioevo: la riforma con i suoi immancabili esiti innovativi si concepisce e si presenta come una rincorsa ai modelli autoritativi antichi, una corsa in avanti con lo sguardo a ritroso.
Innanzitutto, il santo protagonista è nobile, non c'è santità senza nobiltà tra alto e pieno medioevo, le componenti aristocratiche forniscono i quadri delle élites monastiche ed ecclesiastiche. Romualdo fugge dalla società e dal mondo cittadino con le sue contese politiche, le faide, la violenza per ricercare i recessi remoti, gli spazi incontaminati dalla presenza sociale umana dove costruire la sua santità. Se rifugge la violenza del mondo e della società cittadina che al suo tempo comincia a fermentare - l'occasione della conversione avviene dopo aver partecipato a un omicidio perpetrato dalla fazione del padre - tuttavia non rinuncia alla forza caratteristica del gruppo sociale da cui proviene; il santo trasferisce queste virtù su un altro piano, più alto. Romualdo lotta. Incessantemente, per tutta la vita, a cominciare dai soprusi dei potenti. Ma se vive separato, se si è escluso con pia fierezza dal secolo, non ha abbandonato il mondo. Il santo monaco consiglia e ammonisce i potenti, primo tra tutti lo stesso imperatore Ottone iii e cerca di convertirli; anela la missione, evangelizza le distese da cristianizzare, fonda monasteri, senza tregua. La dimensione della contesa non si limita all'opposizione ai soprusi di una società violenta, ma Romualdo lotta contro tutti: nemici, monaci sordi al progetto di rigenerazione spirituale e morale che egli propone e che tentano di assassinarlo, ma anche contro i suoi discepoli, all'interno delle comunità da lui stesso fondate. Dovunque egli vada e fondi eremi e monasteri deve poi andarsene perché rischia la vita; nella sua inquieta ansia di convertire il mondo in un eremo vive sulla sua pelle tutta la drammaticità del lacerante rapporto tra intuizione e istituzione.
Volgiamoci allora alle origini. Il movimento monastico nasce come contrapposizione radicale e inconciliabile alla società tardoromana e ai suoi valori non solo religiosi ma anche etici, politici e culturali. I primi monaci si considerano dei transfughi e si autodefiniscono dei profughi, solitari in rotta di collisione con la società cittadina del loro tempo. La loro contestazione radicale non si limita ai valori pagani ma i monaci si ribellano, in nome del desiderio di vivere più profondamente possibile la propria fede, anche all'acquiescenza degli altri cristiani e soprattutto delle gerarchie ecclesiastiche che si sono troppo presto e troppo facilmente integrate nelle strutture culturali e politiche di un mondo rispetto a cui dovrebbero sentirsi estranee. I monaci compiono un'azione assurda. Edificano una città nel deserto; abitano il deserto, lo spazio esterno e opposto alla polis, e a quello che lì si svolge: la politica, proponendo un modello antitetico sia spiritualmente che culturalmente. I monaci scelgono come spazio in cui articolare la propria esperienza un "non luogo", un'assenza, secondo i criteri della società coeva. Il deserto diviene il teatro della contesa tra i monaci e un antagonista temuto della società tardoantica, il demonio, e un teatro ha sempre il suo pubblico. La fama della intransigente potenza del modello ascetico monastico fa breccia nella scala dei valori della società. La scelta del luogo, il contesto geografico, spaziale della vita monastica si rivela un elemento cardine nell'esperienza monastica. Questa alterità, contrapposizione tra deserto e spazio urbano della società resterà un elemento costante dell'identità monastica, pronto a riemergere, come il disprezzo per il mondo e i suoi valori tra cui spiccano la politica e la cultura.
Nel passaggio dai deserti orientali alle campagne dell'occidente l'inconciliabile alterità del monachesimo rispetto alla società si viene ricomponendo attraverso intuizioni e mediazioni epocali come quella di Papa Gregorio Magno che alla fine del vi secolo rivela e consegna alla società dell'altomedioevo il tesoro dell'esperienza monastica benedettina. Il monachesimo viene smussato delle sue asperità radicali e contestatarie e la sua forza d'urto prorompente viene recuperata all'interno dei quadri della società mediante la missione dell'evangelizzazione che permette di unire all'urgenza della salvezza l'inquadramento sociale, politico e culturale della società occidentale.
Nell'altomedioevo i monaci acquistano un ruolo sempre più importante all'interno della società per la loro radicale, statutaria, ontologica, differenza dichiarata rispetto a essa e ai suoi valori che li rende tanto più preziosi modelli cui ricorrere per equilibrare i conflitti, gli squilibri e molte delle urgenze della società. E li rende necessari interlocutori. Altro capo dialettico. Da qui le ingenti donazioni di beni e di oblati, la richiesta di intercessione di preghiera, i compiti di insediamento negli spazi incolti, la missione, la cultura.
Lo spazio di azione privilegiato del monachesimo è la campagna che per molti secoli è il luogo per eccellenza della santità e della civiltà rappresentata dall'istituzione monastica che trasforma il paesaggio, lo cristianizza, lo sacralizza. Il monachesimo fino almeno al xii secolo svolge una funzione e ricopre un'importanza e un'autorità nella società medievale davvero imponente. Questo anche perché nei suoi quadri dirigenti si inseriscono i rampolli dei ceti dominanti. Intorno al 1000 il monachesimo in Italia, ma in tutto l'Occidente, è un fattore di coesione politica e sociale strettamente coinvolto negli equilibri politici. In questa attitudine, dopo l'anelito al deserto, si rivela il secondo elemento fondamentale e costitutivo del monachesimo medievale costituito dal suo pieno coinvolgimento nella strutturazione degli equilibri economici e sociopolitici. Il monachesimo con le sue estese proprietà e il suo consolidato e antico radicamento è un elemento fondamentale della costruzione sociale e politica del territorio. È diretto dagli appartenenti ai gruppi preminenti della società, è proprietario terriero, è investito di autorità dai sovrani di cui spesso i suoi esponenti sono ascoltati consiglieri spirituali, contende agli episcopati la cura delle anime, la gestione dei santuari e delle rendite, è pienamente coinvolto nel processo di ridefinizione dei diritti della società signorile. Accanto a questa nevralgica funzione politica nel tornante tra primo e secondo millennio la preminenza del monachesimo si consolida anche per un compito specifico che assolve una funzione fondamentale nella rigida articolazione della società: la preghiera. I monasteri costituiscono l'aristocrazia della preghiera, secondo l'efficace espressione coniata dal medievista Giuseppe Sergi. I monaci pregano, non solo per la loro personale salvezza, ma per quella di tutta la società. Sintesi di questa concezione del monachesimo santificante è Cluny. L'abbazia di Cluny con la sua liturgia complessa, sfarzosa, perpetua e trionfante si pone come signora dell'aldilà, intermediario principe tra la terra e il cielo e tra i vivi e i defunti, al punto che la sua potenza è tale da poter intercedere con successo per i dannati alle fiamme eterne. Nel quadro del processo che porterà alla nascita del Purgatorio i monaci cluniacensi grazie all'efficacia della loro preghiera lottano e vincono con il diavolo ottenendo la facoltà di liberare le anime dannate. Il risultato di questi sforzi è l'omogeneizzazione delle pratiche religiose dell'Europa occidentale e il disciplinamento della vita di laici da parte di monaci e chierici. Le pratiche rituali e liturgiche elaborate dal monachesimo danno coesione religiosa alla società, ma forniscono anche un apparato su cui sperimentare le pratiche e le simboliche del potere politico. In questa prospettiva il monachesimo è pienamente coinvolto nella sfera del potere e del suo esercizio in una società in cui religioso e politico non sono ancora ambiti concettuali distinti ma presentano intrecci e sovrapposizioni. Accanto e insieme alla funzione di mediatore tra l'umano e il divino il monachesimo partecipa attivamente alla costruzione e alla rappresentazione ideologica del potere laico.
(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010 )


I padri della Chiesa e la conversione di John Henry Newman - Quei buoni amici del quarto secolo - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010
All'apparire della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus (4 novembre 2009) sull'accoglienza di gruppi anglicani "nella piena comunione cattolica", il pensiero si volge spontaneamente a John Henry Newman, che, dopo un laborioso e tribolato cammino, il 9 ottobre 1845 veniva accolto nella Chiesa cattolica dal passionista Domenico Barberi - beatificato nel 1963 - che per caso passava da Littlemore.
Nel suo Diario Newman scrive: "In serata venne Padre Domenico. Iniziai la mia confessione". "L'8 ottobre - egli annota nell'Apologia (1864) - scrissi a vari amici la seguente lettera: "Littlemore, 8 ottobre 1845. Stasera aspetto padre Domenico, il passionista che, fin dalla gioventù, è stato ispirato a occuparsi in modo diretto e specifico, prima dei paesi del Nord, poi dell'Inghilterra. Dopo quasi trent'anni di attesa fu mandato qui senza che lui l'avesse chiesto. (...) È un uomo semplice e santo, e allo stesso tempo dotato di notevoli qualità. Non conosce le mie intenzioni, ma intendo chiedergli l'ammissione nell'unico ovile di Cristo"".
Quella sera piovosa Newman incominciò, dunque, la sua confessione generale presso il fuoco a cui il passionista, giunto tutto bagnato fradicio, si riasciugava. La preparava da giorni e la terminò l'indomani, il 9 ottobre, quando, verso le sei del pomeriggio, fece la professione di fede, seguita dal battesimo sotto condizione; il giorno seguente partecipò alla messa e fece la comunione.
"Avevo l'impressione - ricorderà sempre nell'Apologia - di entrare in porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora ad oggi, è rimasta inalterata". "Mai la Chiesa Romana, dopo la riforma protestante, - avrebbe commentato il primo ministro britannico William E. Gladstone - ha riportato una vittoria più grande!".
A proposito di questa Chiesa nel maggio del 1843 aveva comunicato a Keble: "Temo di credere che la comunione cattolica romana sia la Chiesa degli apostoli. Sono assai più sicuro del fatto che la Chiesa anglicana si trovi in loco haereseos, che non del fatto che le aggiunte romane al Credo originale non siano altro che sviluppi scaturiti da un'esperienza viva e penetrante del deposito della fede". E il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana cui si stava dedicando gliene dà una conferma sempre più chiara.
A Henry H. Manning aveva scritto che le sue dimissioni da vicar di St. Mary's non erano dovute a delusione né a irritazione, ma alla sua convinzione che "la Chiesa di Roma è la Chiesa cattolica", mentre non lo era quella anglicana. Alla sorella Jemima, angosciata dalla scelta del fratello come chi viene a sapere "che un caro amico deve morire", diceva in una delle lettere tormentate e piene di affetto di quel tempo: "Una chiara convinzione della sostanziale identità fra Cristianesimo e sistema romano occupa la mia mente da tre anni"; l'"unica ragione" del suo gesto era "semplicemente quella di credere che la Chiesa romana è quella vera". D'altronde egli non poteva fare diversamente: "Non vedo nulla che mi possa spingere alla decisione, se non il pensiero che offenderei Dio, non facendolo".
Nel suo soggiorno a Milano, nel 1846, osservava: "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica - e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste".
Il distacco dalla Chiesa anglicana era stato dolorosissimo, e tutti, in lacrime, lo avevano avvertito nella cappella di Littlemore il 26 settembre del 1843, quando Newman pronunziò il suo ultimo sermone anglicano - "La separazione dagli amici" - ossia la separazione, come egli diceva, da quella Chiesa che non lo riconosceva più e da quei fratelli, "teneri e affettuosi", ai quali domandava che pregassero "perché conoscesse la volontà di Dio e fosse pronto ad attuarla". L'unico suo timore - avrebbe scritto ancora alla sorella Jemima - era quello di "tradire la grazia divina".
La conversione segnava l'approdo di un cammino interiore arduo e lucido, in cui si intrecciava la sua fedeltà alla coscienza che via via trovava la sua illuminazione nella storia stessa della Chiesa. Dal profilo della fedeltà alla Grazia e alla coscienza si potrebbe dire che quel cammino era incominciato quando nella sua prima conversione (1816) brillò in lui, con la diffidenza per "la verità dei fenomeni mutevoli", "l'idea di due e solo due esseri assoluti di piena evidenza: Io e il mio Creatore" - Creatore che parla e si rivolge a lui personalmente nella Scrittura - e la persuasione che "la santità è preferibile alla pace" e che "la crescita è segno della vita".
Ma va segnata un'altra tappa nell'iter interiore di Newman, quando, in circostanze di viva sofferenza e di prostrazione, nel 1827, si risvegliò bruscamente dalla seduzione dell'intellettualismo e del liberalismo. Venne poi il viaggio nel Mediterraneo del 1833 e la malattia in Sicilia, durante la quale andava ripetendo di "non aver mai peccato contro la Luce", la Luce che brillava nel suo spirito illuminato dalla Parola di Dio.
Intanto si dedicava allo studio appassionato dei Padri della Chiesa, e particolarmente dei suoi "amici del secolo iv", che erano "Atanasio dal cuore regale", il "maestoso Ambrogio", il "glorioso predicatore" Crisostomo, paragonato a "una giornata di primavera, luminosa e piovosa, che riluceva e brillava della pioggia", e Basilio, simile a "una giornata d'autunno, calma, mite e uggiosa", e Gregorio di Nazianzo, un'"estate piena, con lunghe ore di dolce quiete, e la monotonia spezzata da lampi e tuoni".
"Sempre il ricordo dei Padri - annota Denys Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto: "Questo è il luogo più meraviglioso. (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, Santa Monica, Sant'Atanasio".
Dichiarerà a Pusey: "I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic)" e chiederà al Signore "il senso dei santi Padri", così da dire quello che essi hanno detto e da pensare quello che essi hanno pensato.
Furono, quelli, per Newman anni di assidua e sofferta ricerca e di penetrante e rigorosa valutazione intellettuale. Ma egli si accorgeva che, per una "verità intera", non poteva più accontentarsi di una "via media", e che i suoi Tracts - che gli provocavano violente reazioni e forti condanne - lo inducevano al distacco definitivo e traumatico, d'altronde rasserenato da sicura coscienza. Il "Movimento di Oxford", che egli aveva suscitato, come una primavera, maturava in lui nell'adesione alla Chiesa di Roma, pur continuando a portare nel cuore e nella memoria il bene ricevuto e l'attaccamento alle valide tradizioni conservate nella sua Chiesa.
Newman entrava, secondo le parole della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, in quell'"unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica", quale "sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui".
Newman non si sarebbe mai pentito del passo fatto. Trent'anni dopo la conversione avrebbe confidato: "Dal 1845 non ho mai esitato, neppure per un solo istante, nella convinzione che fosse mio preciso dovere entrare, come allora ho fatto, in questa Chiesa cattolica che, nella mia propria coscienza, ho sentito essere divina".
E quando si sussurrava che, deluso del trattamento che gli era riservato nella Chiesa Cattolica, avesse intenzione di ritornare alla Chiesa anglicana, egli smentì con indignazione quelle voci: "Non ho mai vacillato un istante nella mia fiducia nella Chiesa Cattolica, da quando sono stato accolto nel suo grembo. Sarei un perfetto imbecille - per usare un termine moderato - se nella mia vecchiaia abbandonassi "la terra dove scorrono latte e miele", per la città della confusione e la casa della servitù".
(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010 )