domenica 5 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:

  1. 05/04/2009 11:31 - VATICANO - Papa: La Croce, legge fondamentale della vita per i giovani - Benedetto XVI invita i giovani a non “ripiegarsi su se stessi”. La Croce è la sola via per costruire un “Regno universale”, di incontro fra culture diverse. Essa è anche la strada dell’amore vero, che implica “sacrificio”, “rinuncia” e obbedienza alla volontà di Dio. “Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente”.
  2. 05/04/2009 12:28 - VATICANO - Papa “grande pena” per i profughi annegati e per le vittime delle mine anti-uomo
  3. Usate l’intelligenza - “Certi ambienti laicisti sono spiazzati da un capo della Chiesa che parla della fede secondo ragione. Per questo lo aggrediscono”… - Tempi 30 Marzo 2009
    La legge 40 dopo la sentenza della Consulta - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 3 aprile 2009
  4. La “Passione” di Alessandro Manzoni - Il sangue “pioggia di mite lavacro” - di Inos Biffi - L’Osservatore Romano, 5 aprile 2009
  5. IL TESTAMENTO È “ DOMANDA DEI SANI ”, AVVERTE LO PSICHIATRA BORGNA - Come cambia la prospettiva quando si è a un passo dalla morte - MARINA CORRADI - Avvenire, 5 aprile 2009


    05/04/2009 11:31 - VATICANO - Papa: La Croce, legge fondamentale della vita per i giovani - Benedetto XVI invita i giovani a non “ripiegarsi su se stessi”. La Croce è la sola via per costruire un “Regno universale”, di incontro fra culture diverse. Essa è anche la strada dell’amore vero, che implica “sacrificio”, “rinuncia” e obbedienza alla volontà di Dio. “Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente”.
    Città del Vaticano (AsiaNews) - Una folla di almeno 40 mila persone ha preso parte all’inizio dei riti della Settimana santa con la celebrazione della domenica delle Palme in piazza san Pietro, presieduta da Benedetto XVI. La maggioranza di loro sono giovani romani e da diverse nazioni con magliette multicolori, cappelli, sciarpe, fazzoletti e un universo di palme e rami d’ulivo, venuti per la 24ma Giornata mondiale della gioventù che quest’anno si celebra a livello diocesano. Lo scorso anno la Giornata è avvenuta a livello mondiale a Sydney (Australia) e nel 2011 sarà a Madrid. Per questo, alla fine della celebrazione, giovani australiani hanno consegnato la Croce dei giovani a dei giovani spagnoli.
    Dopo il canto lungo ed emozionante della Passione di Gesù secondo san Marco, il papa si è rivolto proprio ai giovani con una proposta profonda ed esigente. Prendendo spunto dalla commemorazione odierna, dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, il pontefice ricorda il valore delle giornate di Sydney (“l’obiettivo essenziale era questo: Vogliamo vedere Gesù”), acclamato, come nella liturgia di oggi, come “colui che viene nel nome del Signore", e come il " Regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11, 9s).
    Il papa si domanda: “Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?”. “Possiamo - spiega - riconoscere due caratteristiche essenziali di questo Regno. La prima è che questo Regno passa attraverso la croce… La seconda caratteristica dice: il suo Regno è universale”.
    Ma subito, Benedetto XVI sottolinea la diversità del Regno di Gesù Cristo: “[esso] non è una regalità di un potere politico, ma si basa unicamente sulla libera adesione dell’amore - un amore che, da parte sua, risponde all’amore di Gesù Cristo che si è donato per tutti. Penso che dobbiamo imparare sempre di nuovo ambedue le cose - innanzitutto l’universalità, la cattolicità. Essa significa che nessuno può porre come assoluto se stesso, la sua cultura e il suo mondo. Ciò richiede che tutti ci accogliamo a vicenda, rinunciando a qualcosa di nostro. L’universalità include il mistero della croce - il superamento di se stessi, l’obbedienza verso la comune parola di Gesù Cristo nella comune Chiesa. L’universalità è sempre un superamento di se stessi, rinuncia a qualcosa di personale. L’universalità e la croce vanno insieme. Solo così si crea la pace”.
    Al “Vogliamo vedere Gesù” (Giov. 12,21) - il tema della Giornata di Sydney - Gesù risponde con le parole sul “chicco di grano morto” (Giov. 12,24), che è “la legge fondamentale dell’esistenza umana: ‘Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna’ (Gv 12, 25). Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per se stesso, stringere tutto a sé e sfruttarne tutte le possibilità - proprio costui perde la vita. Essa diventa noiosa e vuota. Soltanto nell’abbandono di se stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’io in favore del tu, soltanto nel ‘sì’ alla vita più grande, propria di Dio, anche la nostra vita diventa ampia e grande”.
    Questo principio, spiega il papa, stabilito da Gesù è alla fine lo stesso principio dell’amore: “L’amore… significa lasciare se stessi, donarsi, non voler possedere se stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su se stessi - cosa sarà di me -, ma guardare avanti, verso l’altro - verso Dio e verso gli uomini che Egli mi manda. E questo principio dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è ancora una volta identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo in Cristo”.
    “Ad una vita retta - precisa il pontefice - appartiene anche il sacrificio, la rinuncia. Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente. Non esiste una vita riuscita senza sacrificio. Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto ‘sì’ ad una rinuncia sono stati i momenti grandi ed importanti della mia vita”.
    Il papa volge poi il pensiero ai momenti dello “spavento di Gesù”, “il suo spavento davanti al potere della morte, davanti a tutto l’abisso del male che Egli vede e nel quale deve discendere”. “Anche noi - spiega Benedetto XVI - possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirGli: ‘Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!’ (Gen 32, 27)”.
    Alla fine, però, “la gloria di Dio, la sua signoria, la sua volontà è sempre più importante e più vera che il mio pensiero e la mia volontà. Ed è questo l’essenziale nella nostra preghiera e nella nostra vita: apprendere questo ordine giusto della realtà, accettarlo intimamente; confidare in Dio e credere che Egli sta facendo la cosa giusta; che la sua volontà è la verità e l’amore; che la mia vita diventa buona se imparo ad aderire a quest’ordine. Vita, morte e risurrezione di Gesù sono per noi la garanzia che possiamo veramente fidarci di Dio. È in questo modo che si realizza il suo Regno”.
    Ritornando poi al simbolo della Croce dei giovani che passa da Paese a Paese, accompagnata dai giovani, egli sottolinea: “Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo - noi - da dare il Figlio unigenito per noi (cfr Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Ma tocchiamo anche la legge fondamentale, la norma costitutiva della nostra vita, cioè il fatto che senza il ‘sì’ alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo giorno per giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore - per amore della verità e dell’amore di Dio - possiamo fare anche qualche rinuncia, tanto più grande e più ricca diventa la vita. Chi vuole riservare la sua vita per se stesso, la perde. Chi dona la sua vita - quotidianamente nei piccoli gesti, che fanno parte della grande decisione - questi la trova. È questa la verità esigente, ma anche profondamente bella e liberatrice, nella quale vogliamo passo passo entrare durante il cammino della Croce attraverso i continenti. Voglia il Signore benedire questo cammino. Amen”.


    05/04/2009 12:28 - VATICANO - Papa “grande pena” per i profughi annegati e per le vittime delle mine anti-uomo
    Doppio appello di Benedetto XVI ai Paesi mondiali a sottoscrivere il bando delle mine anti-uomo e delle munizioni a grappolo. Una richiesta all’Unione europea e al mondo perché aiutino l’Africa a sradicare la miseria e la guerra, per fermare le tragedie del traffico di migranti. Il passaggio della croce da Sydney a Madrid e l’augurio per la prossima Giornata mondiale della gioventù nel 2011.
    Città del Vaticano (AsiaNews) - All’Angelus di oggi, inserito alla fine della messa in piazza san Pietro per la domenica delle Palme, Benedetto XVI ha messo in secondo piano il saluto ai rappresentanti per la Giornata della Gioventù per sottolineare due gravi problemi che affliggono la comunità internazionale: l’uso delle mine anti-uomo e il dramma dei profughi africani annegati nei giorni scorsi nel mare Mediterraneo.
    Il papa ha ricordato che proprio il 4 aprile è stata celebrata la IV Giornata dell’ONU per sensibilizzare sul problema delle mine antipersona. Di recente l’Onu ha anche aperto le firme per la Convenzione contro l’uso delle munizioni a grappolo. “Desidero incoraggiare - ha detto il pontefice - i Paesi che non lo hanno ancora fatto a firmare senza indugio questi importanti strumenti del diritto internazionale umanitario, ai quali la Santa Sede ha dato da sempre il proprio appoggio. Esprimo altresì il mio sostegno a qualsiasi misura intesa a garantire la necessaria assistenza alle vittime di tali armi devastanti”.
    L’altro appello è introdotto dalla “grande pena i nostri fratelli e sorelle africani, che pochi giorni fa hanno trovato la morte nel Mare Mediterraneo, mentre cercavano di raggiungere l’Europa”. Alla fine di marzo 3 imbarcazioni provenienti dalla Libia, strapieni di centinaia di profughi, sono affondate, provocando con ogni probabilità la morte per annegamento di almeno 300 persone. “Non possiamo - ha detto il papa - rassegnarci a tali tragedie, che purtroppo si ripetono da tempo! Le dimensioni del fenomeno rendono sempre più urgenti strategie coordinate tra Unione Europea e Stati africani, come pure l’adozione di adeguate misure di carattere umanitario, per impedire che questi migranti ricorrano a trafficanti senza scrupoli. Mentre prego per le vittime, perché il Signore le accolga nella sua pace, vorrei osservare che questo problema, ulteriormente aggravato dalla crisi globale, troverà soluzione solo quando le popolazioni africane, con l’aiuto della comunità internazionale, potranno affrancarsi dalla miseria e dalle guerre”.
    Dopo aver salutato i delegati delle Giornate mondiali della gioventù, legati al Pontificio consiglio per i laici, Benedetto XVI ha commentato il simbolo del passaggio della Croce dalle mani dei giovani australiani a quelle dei giovani spagnoli: “Questo ‘passaggio di testimone’ assume un valore altamente simbolico, con cui esprimiamo immensa gratitudine a Dio per i doni ricevuti nel grande incontro di Sydney e per quelli che vorrà concederci in quello di Madrid. Domani la Croce, accompagnata dall’Icona della Vergine Maria, partirà per la capitale spagnola, e là sarà presente alla grande processione del Venerdì Santo. In seguito inizierà un lungo pellegrinaggio che, attraverso le Diocesi della Spagna, la riporterà a Madrid nell’estate 2011. Possano questa Croce e questa Icona di Maria essere per tutti segno dell’amore invincibile di Cristo e della sua e nostra Madre!”.
    Il “passaggio” della Croce, applaudito dalle migliaia di giovani, è avvenuto sul sagrato della piazza, alla presenza del card. George Pell di Sydney e del card. Antonio María Rouco Varela di Madrid.
    Il raduno mondiale dei giovani, che avrà luogo nell’agosto 2011 a Madrid, avrà per tema: "Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede (cfr Col 2,7)".



    Usate l’intelligenza - “Certi ambienti laicisti sono spiazzati da un capo della Chiesa che parla della fede secondo ragione. Per questo lo aggrediscono”… - Tempi 30 Marzo 2009
    Se per una volta trovassero la strada della considerazione spassionata di ciò che ascoltano, se non proiettassero su ciò che ascoltano l’amor proprio e l’interesse dell’approvazione luogocomunista, perfino il Manifesto avrebbe capito tutto. Ida Dominijanni ha letto la prolusione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, e ne ha colto il succo: “Dallo “scontro di civiltà” a quello “fra due diverse, per molti aspetti antitetiche, visioni antropologiche””. Sintesi perfetta. Peccato che poi l’autrice glissi sull’argomento e non discuta l’osservazione del capo della Cei se non con una ritirata strategica in politica. E nell’accusa, incomprensibile, di “fondamentalismo ontologico”. Ma insomma, cos’è questa benedetta ontologia? Può perfino essere che si annidi nella creazione di un fondo nazionale a favore dei lavoratori e delle famiglie. Fondo annunciato dallo stesso Bagnasco e istituito da una Chiesa cattolica essa stessa dipendente dalla generosa e libera carità della gente italiana (l’8 per mille) e non dal prelievo automatico dalla cassa dello Stato. Coincidenza vuole che sua eminenza ci riceva in una casa di ospitalità delle suore di Eugenia Ravasco, una milanese nobile e agiata del tempo di Manzoni, beatificata da Giovanni Paolo II nel 2003, orfana dei genitori, che rinunciò a un ingente patrimonio (e al matrimonio con un marchese) “per consacrarsi al Sacro Cuore di Gesù”, ospitare nella sua casa l’“Associazione per il bene” e dedicare la vita alle scuole per i giovani e all’assistenza di ammalati e bambini poveri. Su cosa abbiamo discusso e ci siamo divisi a proposito di Eluana Englaro? Su cosa discute e si divide il Parlamento italiano in materia di disposizioni di fine vita? E poi c’è l’aborto che assedia i nuovi poveri. C’è l’annosa “emergenza educativa”. Insomma parliamo di tentativi di associazione per scongiurare il male e sostenere il bene. Personale e sociale. Al contrario di quanto faccia trasparire una certa rigidità di figura e di biografia (è stato ordinario militare e la sua severa e ieratica postura non lo dimentica), i modi del cardinale Bagnasco sono molto cortesi e affabili. Si capisce che siamo di fronte a un uomo che sa ascoltare e volentieri concede quaranta minuti della sua impegnativa giornata per rispondere a domande, anche impertinenti.
    Eminenza, la lettera che Benedetto XVI ha scritto ai vescovi per chiarire le ragioni e i confini del suo “gesto di misericordia” nei confronti dei lefebvriani ha colpito tutti. Il Pontefice ha rilevato gli errori compiuti dalla stessa istituzione ecclesiale, ha spiegato il suo gesto e ha richiamato i cattolici, conservatori e progressisti, a non compiere lo speculare errore di considerare la Chiesa un fatto precedente o conseguente al Concilio Vaticano II. Ha sorpreso, inoltre, il modo particolarmente profetico, confidente, apostolico, con cui il Papa ha richiamato i fondamenti del primato petrino e chiesto l’unità del popolo cristiano, smettendola i cristiani di “divorarsi” a vicenda. Lei, a proposito di questa lettera, ha parlato di un “fatto storico”. Conferma?
    Confermo. Ho subito ritenuto e anche detto in alcune sedi che questa lettera passerà alla storia come la cifra di un Papa e di un papato. Di un Papa che non ha niente da nascondere di proprio e quindi non ha paura di presentarsi ai suoi confratelli nell’episcopato, alla Chiesa e al mondo intero con una straordinaria, grandiosa umiltà. In questo quadro di estrema trasparenza e umiltà disarmante il Santo Padre ha dato la corretta interpretazione del suo Pontificato e del servizio petrino. Che è per confermare la fede del popolo di Dio, per custodire e promuovere l’unità della comunità cristiana. Nello stesso tempo egli mette anche in evidenza ciò che gli sta più a cuore: la conferma della fede dei fratelli, l’unità della Chiesa, il cammino ecumenico, il dialogo interreligioso. Facendo appello a tutta la cristianità perché si stringa attorno al servizio di Pietro per questi stessi scopi.
    Impressiona anche la preoccupazione del Papa circa il fatto che la fede scompare “da vaste zone della terra” e “Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini”. Lo scrittore Vittorio Messori ci vede un richiamo alla priorità della fede e del Cristo storico rispetto all’istituzione ecclesiale. Cosa ne pensa?
    Certamente l’ansia apostolica, l’ansia evangelica che è tipica di san Paolo - “guai a me se non predicassi il Vangelo” - è l’anima dell’istituzione. Non c’è e non ci può essere una contrapposizione ma semmai una profonda unità tra quello che è il carisma dell’annunzio evangelico e quello che è l’istituzione che questo carisma, quest’anima, informa. La passione per l’evangelizzazione è propria di Pietro e si declina in Benedetto XVI all’insegna di una particolare chiarezza di predicazione e di una particolare profondità. Profondità che non è oscurità di linguaggio perché arriva al cuore di tutti in quanto l’attuale magistero petrino usa sia della fede, che è la chiave interpretativa di accesso alla rivelazione, ma anche della ragione. Per questo la figura di questo pontefice sembra suscitare in un certo mondo laicista qualche problema in più, qualche maggiore apprensione. Sentono di aver di fronte un uomo e un Papa che si presenta alla Chiesa e al mondo con il linguaggio della fede non disgiunto dalla ragione.
    Da Ratisbona all’Africa, gli appelli di Benedetto a una “laicità positiva” non sembrano essere stati raccolti. Anzi. Gli osservatori e i media internazionali, dal New York Times a Le Monde, da al Jazeera a El País, hanno moltiplicato le ingiunzioni all’“abiura” e le richieste di “scuse” da parte del Papa.
    Il candore del Papa è disarmante e colpisce tutti, credenti e non credenti. È un candore che non ha paura ad entrare direttamente nei problemi - anche i più spinosi, i più delicati - di fronte ai quali il Papa sente la sua profonda responsabilità di pastore e di maestro a cui non può sottrarsi. Ripeto, capisco le apprensioni dei detrattori di un papato che entra nei problemi con quella mitezza e semplicità che certamente ha guadagnato e guadagna il cuore e l’attenzione di molti, cattolici o meno. Questo stile non aggressivo, aperto e, starei per dire, laico, suscita probabilmente l’aggressività e le reazioni bigotte di qualcuno. Come dicevo poc’anzi, Benedetto è il Papa della fede non separata dalla ragione. Il timore è che l’aggressione nei suoi confronti derivi dallo spiazzamento che produce in certi ambienti laicisti questa sollecitudine verso tutto ciò che è umano, quindi cristiano. Già, perché non si può proprio dire, come talvolta i superficiali usano dire, che il Papa fa semplicemente il suo mestiere, parla esclusivamente a chi ha la fede, non ci riguarda quel che dice perché non siamo credenti. Non si può più dire in modo così tranchant e sistematico che ogni parola che il Papa dice sia una parola che vale solamente per i fedeli. Non si può più dire perché il Papa usa una ragionevolezza di fondo che si presenta e si offre a qualunque uomo di pensiero, di intelligenza e di riflessione. In sintesi, la sua semplicità, il suo candore, la sua mitezza persuasiva suscitano qualche reazione particolarmente virulenta. Con la sua chiarezza, il Papa, ad esempio in Africa, ha messo il dito su argomenti di estrema importanza che vanno a toccare interessi economici e politici rilevanti. Per questo certi ambiti altolocati reagiscono con astio e irrisione.
    Ambiti “neocolonialisti” come lei ha detto alla Cei?
    È lo stesso Papa Benedetto che ha parlato di “neocolonialismi” e questa parola deve far riflettere il mondo occidentale. Mi chiedo se questo polverone creato attorno a un brevissimo passaggio sui preservativi - fatto sull’aereo che lo portava in Africa e nel contesto di una conversazione con i giornalisti, esponendo nel merito nient’altro che la posizione della Chiesa di sempre, nulla di nuovo - non puntasse a distogliere l’attenzione sugli altri temi, decisivi, che il Papa ha toccato nel suo viaggio.
    Sta dicendo che l’incomprensione è voluta? Che è la ricaduta politica delle dichiarazioni del Papa a impedire una discussione schietta delle sue posizioni?
    La fede ha sempre una dimensione e quindi una ricaduta pubblica, sociale, che si riflette nei diversi campi della vita, dalla politica all’economia, dalla cultura alla finanza. La dimensione comunitaria, che va oltre il privato delle singole persone, è parte costitutiva della fede. Non ha senso per la persona e non è concepibile nella storia una fede confinata nel privato.
    L’interpretazione privatistica della fede e quindi una visione della Chiesa confinata nel mondo della sacrestia o dentro il recinto sacro è una concezione che, qualora vi sia, non è conforme al Vangelo né alla presenza della Chiesa nella storia. Certamente il fatto che la fede ricada sul vissuto, sia delle persone, sia delle società, dei popoli, delle culture, non dovrebbe spaventare. E non dovrebbe diventare una preclusione ascoltare il magistero della Chiesa. Non dico di accogliere tale magistero, dico semplicemente di ascoltarlo per potersi poi confrontare serenamente in modo non pretestuoso e non pregiudizialmente polemico. Restare fermi alla preclusione non è una posizione intelligente, di apertura alla realtà, comunque si configuri, che poi uno può accettare o respingere. Il primo atto dell’intelligenza è riconoscere che la realtà ci precede.
    Perdoni la brutalità, ma la Chiesa dimostra di avere maggior feeling con il governo Berlusconi rispetto a quello precedente. È giusto che la Chiesa sia schierata da una parte?
    La Chiesa è sempre schierata da una parte: dalla parte di Cristo e quindi dell’uomo. Perché l’uomo è amato da Dio ed è redento. La Chiesa continua la missione di Cristo e quindi è schierata dalla parte dell’uomo perché Dio si è schierato dalla nostra parte. E Cristo crocifisso è la prova storica di questo parteggiare di Dio per l’umanità, così com’è, per salvarla. Quanto a ciò a cui lei allude bisogna distinguere. La Chiesa, il Santo Padre, i vescovi ricevono chiunque si presenti nei modi dovuti alle udienze. Tanto più se queste persone rivestono cariche civili e istituzionali. Il rispetto per le istituzioni fa parte dello stare al mondo della Chiesa. Quanto al resto, invece, la Chiesa non sposa parti politiche, ma pronuncia le sue valutazioni alla luce del Vangelo, della dottrina e dell’insegnamento sociale sui singoli valori e le scelte che i parlamenti, comunque siano composti, fanno.
    Faccia conto di avere davanti un lavoratore pendolare. Apro uno di quei giornali che regalano in stazione e leggo che i sondaggi danno ragione ai detrattori del Papa. Le cancellerie internazionali confermano le critiche a Benedetto (“Le sue frasi sul preservativo sono pericolose per la salute pubblica”). Gli italiani non sono d’accordo con la Chiesa. Se lei fosse il pendolare che mi siede accanto, come commenterebbe queste notizie?
    Suggerirei di leggere il Vangelo, dove Gesù non ha misurato la verità della sua predicazione con il consenso delle folle. Le quali a volte erano consenzienti. O mostravano di esserlo. Altre erano all’opposizione. Spesso nel rifiuto. Basta pensare al discorso sul pane della vita: chi non mangia la mia carne e non beve del mio sangue non avrà la vita eterna. Tutti se ne sono andati. E Gesù li ha lasciati andare. Nella fattispecie, se vogliamo accennare al caso che tante polemiche ha suscitato, le parole del Papa sui preservativi, mi è stato riferito di illustri studiosi e comunque operatori impegnati in prima linea nella ricerca e lotta contro l’Aids, che hanno espresso pieno accordo con le parole del Pontefice. È il caso per esempio di un autorevole ricercatore di Harvard (Edward Green, direttore dell’Aids Prevention Research Project della Harvard School of Public Health and Center for Population and Development Studies, vedi ilSussidiario.net e Il Foglio del 25 marzo, ndr). Mi pare quindi che a volte certe contestazioni sono un po’ enfatizzate. Ci sono, per carità, le critiche ci sono e sono legittime. Il problema è che spesso vengono presentate come universali quando in realtà sono unilaterali.
    Anche a proposito del caso Englaro ha parlato di un “fatto storico” che contraddice secoli di civiltà. Qual è il suo bilancio di questa storia e cosa pensa della legge che si appresta a varare il Parlamento?
    Innanzitutto rimane un grande dolore. Perché è successo quello che si sperava non accadesse mai nel nostro paese. Il dolore non dovrebbe passare. Non dovrebbe passare in fretta. Non dovrebbe passare mai. È una ferita che deve lasciare il segno per farci più attenti e pensosi, più lucidi e meno ideologici nell’affrontare il grande tema della vita e della morte. Le circostanze, determinate dalla Cassazione e dalla magistratura in genere, come a tutti è noto, hanno indotto ad auspicare una legge che preveda che non si possa interrompere l’idratazione e l’alimentazione in modo che non debbano più accadere tragedie come quella di Eluana. Una legge che sia veramente promotrice della vita, soprattutto della vita fragile, che solleciti la società ad accompagnare la vita ferita. Senza permettere, come il Santo Padre ha detto, che ci siano scorciatoie come quella dell’eutanasia, o di altra natura, che non portano il bene della persona. Tutta la società deve coinvolgersi in un impegno ulteriore, in un supplemento di amore, di sacrificio, di cura, di presa in carico, che costituisce il criterio per giudicare la civiltà di una comunità umana.
    Non si può negare, però, che anche nella comunità ecclesiale siano emerse critiche e divisioni rispetto alla linea espressa dal Papa, dai casi Eluana e lefebvriani alle ultime polemiche sul condom.
    Guardi, lo scorso settembre si è svolto il sinodo mondiale dei vescovi. È stata un’esperienza di grazia straordinaria, una specie di Concilio in miniatura. Ora, se c’è stato un ritornello tra le moltissime testimonianze ascoltate e che ha attraversato le tre intense settimane, è quello che ha invitato a riprendere la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Costituzione che ricorda che la parola di Dio è Gesù Cristo, il quale ci parla nella duplice voce della parola scritta, la Sacra Scrittura, e della parola tramandata, la Tradizione. Entrambe queste forme, scritta e tràdita, sono affidate al magistero della Chiesa. Basterebbe che la formazione dei cristiani mantenesse ben salda questa verità della fede ribadita dal Concilio Vaticano II e ripresa fortemente dal Sinodo perché certe sbavature non si ripetano.
    Eminenza, a proposito di formazione, non le sembra paradossale che ci siano “scuole” laiche che seguono il magistero petrino con più attenzione di tante altre religiose? Penso all’accademia giornalistica del Foglio di Giuliano Ferrara e a quella cattolica del San Raffaele di Milano…
    Senza entrare nel merito delle persone e istituzioni citate, torniamo all’eccezionalità della figura di questo Pontefice. Che mostra una grande capacità di comunicazione della dottrina che presenta ai diversi uditori come plausibile. Chiunque rifletta sul suo insegnamento, qualunque sia la posizione in cui si trova, comprende che ci può essere una consonanza anche tra persone che dichiarano di non avere una fede particolare.
    Nella sua prolusione lei invita vescovi e fedeli a usare “gli strumenti”. A cosa si riferiva e qual è la preoccupazione che soggiace a questo richiamo?
    Gli strumenti che il mondo cattolico ha sono notevoli e alla portata di tutti. Mi riferisco innanzitutto al patrimonio di letteratura, filosofico, teologico che è a disposizione. Ma anche agli strumenti a cui tutto il popolo di Dio può accedere tranquillamente e facilmente come il Catechismo della Chiesa Cattolica, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, naturalmente la Bibbia… E poi ancora, al livello più diffuso, ci sono i mezzi di comunicazione, riviste cattoliche di larga diffusione, Avvenire e l’Osservatore Romano, la tv Sat 2000, Radio inBlu… Sono strumenti molto semplici ma anche molto documentati, di facile accesso e di grande utilità.
    Proprio su Avvenire si è letto un intervento del cardinale Angelo Scola: stiamo attenti, ha detto il patriarca di Venezia, da una parte a non intendere il cristianesimo come religione civile, dall’altra a non ritrarci in un irenismo che annuncia Gesù ma si ritira dalle questioni civili e culturali. Si può dire che laici, associazioni e movimenti debbano oggi assumere nuove responsabilità?
    Tutta la comunità cristiana ha la responsabilità di incarnare la fede nella storia! Ben sapendo che la fede non può essere al servizio di una religione civile. L’altare non può e non deve essere al servizio di nessun trono, e viceversa, in nome del principio di lacità la cui radice è nel Vangelo: Cesare e Dio. Chi tentasse di rendere il cattolicesimo una religione civile farebbe una operazione scorretta che la Chiesa non potrebbe mai sposare. D’altra parte, testimoniando il Vangelo nella propria vita e ispirando le realtà temporali, come ricorda il Concilio Vaticano II, alla luce del Vangelo, la comunità cristiana esprime quella ricaduta della fede nella vita personale e nella vita sociale, nella cultura e nella società, che è intrinseca al Vangelo. Perché il Vangelo di Cristo è l’espressione dell’incarnazione del Figlio di Dio nel mondo, nella storia così com’è. Quindi non può non essere incarnata la fede, non può non illuminare dall’interno le realtà umane. Perché? Perché Dio si è incarnato. Perché Dio si è fatto uomo per salvare non solo tutti gli uomini, ma per salvare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue espressioni.
    Anche Tony Blair è stato insultato semplicemente perché ha creato una fondazione che si occupa del fatto religioso e inaugurato una “colonna della fede” sul New Statesman, storica rivista dei laburisti inglesi, dove ha scritto che così come l’ideologia è stata protagonista del secolo scorso, nel XXI saranno le religioni a fare la differenza e il bene comune.
    È l’Europa che deve fare questa riscoperta riscoprendo tutto il resto del mondo! Perché fuori dall’Europa la religione non è ostracizzata. Ma è inclusa, riconosciuta, valorizzata, proprio nella costruzione della società civile e della cultura. Quanto più l’Europa pretende di cancellare Dio dal suo orizzonte, tanto più questo atteggiamento determina nel resto del mondo un clima di sospetto. E anche di deprezzamento. Questo è un fatto. D’altra parte negare il valore della dimensione religiosa nella persona, con la ricaduta che ha nella società - perché la persona non può vivere scissa tra privato e pubblico, la persona è sintesi non schizofrenia tra privato e pubblico - vuol dire andare fuori dalla realtà. Finito il tempo delle ideologie, l’Europa dovrebbe riconoscere con molta onestà intellettuale che la dimensione religiosa fa parte dell’impasto dell’uomo e quindi fa parte dell’impasto della società. Con le debite distinzioni, appunto, Cesare e Dio, ma anche senza separazioni e neutralismi…
    Come dimostra il viaggio di Benedetto XVI in Africa… Ma quello che abbiamo raccontato noi qui in Europa è diverso da ciò che è accaduto davvero in Camerun e Angola tra il Papa e il popolo.
    Certo. E questo succede proprio perché c’è un filtro pregiudiziale. E forse anche un filtro determinato da interessi di tipo politico ed economico. Per cui è bene oscurare certe tematiche che il Papa ha annunciato con molta forza e chiarezza nel mondo africano e che interessano il mondo occidentale proprio nel suo rapporto con l’Africa.
    di Luigi Amicone
    Tempi 30 Marzo 2009


    La legge 40 dopo la sentenza della Consulta - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 3 aprile 2009
    Questa sentenza non mina i principi fondamenti della legge 40, ma sicuramente apre almeno su alcuni punti ad una pericolosa interpretabilità che potrebbe portare ad una deriva nell'uso.
    La legge 40 che regola in Italia la Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), comunemente detta fecondazione assistita, torna sotto attacco a causa di ricorsi e sentenze giudiziarie.
    L’accanimento verso questa legge nasce da quella parte minoritaria nel paese, già clamorosamente sconfitta al referendum del 2005, che non si è ancora rassegnata e dopo la via referendaria continua i suoi attacchi per via politica (vedi la scandalosa modifica delle linee guida da parte del Ministro Turco dello scorso maggio 2008) e per via giudiziaria. Ma forse c’è da dire che l’aspetto che più dà fastidio è che la legge 40 funziona. Il numero delle cliniche non è affatto diminuito, ma tutte si sono dovute iscrivere ad un registro nazionale che le certificasse, tutelando così in maggior misura la salute della donna. I dati del Registro della Procreazione Medicalmente Assistita confermano che i centri che attuano la PMA in Italia sono 342 nel 2007, erano 120 nel 2003.
    La legge 40 ha fermato quel “Far West” procreativo che aveva portato a casi di prestito di utero, fecondazione eterologa, parti plurigemellari ecc.
    Ma per capire meglio cosa realmente è successo in seguito all’applicazione della legge 40 che non è una legge cattolica (ricordiamo che la fecondazione in vitro è comunque eticamente sbagliata), bisogna partire dai risultati della sua applicazione dopo il 2004, data di entrata in vigore della legge.
    Già l’anno scorso i dati dicevano che dal 2003 al 2005 il ricorso alle tecniche PMA e il numero dei nati vivi erano aumentati, oggi i dati dell’ultimo rapporto al Parlamento sulla legge 40, sulla base dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità, dichiarano che aumenta il numero delle coppie che si sono rivolte ai centri di fecondazione assistita in Italia per avere un figlio, passando da 43.024 nel 2005 a 55.437 nel 2007, e i nati vivi (sì perché comunque la fecondazione in vitro, visto il basso tasso di successo comporta la morte di una percentuale del 70% circa degli embrioni) sono passati da 4.940 a 9.137. Quindi sono aumentate le coppie che hanno utilizzato la PMA; questo smentisce anche i soliti “miti” dei viaggi all’estero.
    La legge 40 ha inoltre permesso e favorito investimenti sulla ricerca e lo sviluppo delle tecniche di congelamento degli ovociti, che è eticamente valido a differenza di quello degli embrioni.
    La sentenza con la quale la Corte Costitu¬zionale ha dichiarato l’illegittimità di al¬cune parole dell’articolo 14 apre nuove problematiche che saranno più chiare quando saranno rese note le motivazioni. Bisogna comunque dire che non sono stati accettati i ricorsi che riguardavano l’articolo 1 della legge che riguarda l’identità umana del concepito e quindi la titolarità del suo diritto alla vita riconosciuta; rimane così riconosciuto come valido il punto più innovativo e importante della legge, il principio cardine e fondamentale nella battaglia per la difesa della vita; dobbiamo quindi fare attenzione a non permettere la strumentalizzazione della sentenza.
    Ricordiamo che gli articoli 13 e 14 della legge 40 vietano chiaramente qualunque sperimentazione sull’embrione se non per fini di diagnosi e di terapia volte alla tutela della salute dell’embrione stesso, e vietano la crioconservazione (congelamento), selezione, clonazione e la soppressione di embrioni.
    Questi riferimenti sono molto importanti, in quanto prima dell’entrata in vigore di questa legge non esisteva una regolamentazione chiara. Se una donna decideva di ricorrere alla PMA e iniziava un ciclo di cure, venivano prodotti molti embrioni. Gli embrioni prodotti in sovrannumero venivano congelati e resi pronti da scongelare ed utilizzare, qualora il primo ciclo di cure non avesse dato un esito positivo (es. aborto spontaneo). Si capisce bene che molti di questi embrioni venivano prodotti con il solo scopo di essere congelati e in parte erano destinati a scopi non chiari (forse sperimentazione ecc..). Basti pensare che solo in Italia ci sono attualmente circa 30.000 embrioni ancora congelati. Adesso grazie a questa legge non solo non è più permessa la crioconservazione, ma nell’articolo 14 si precisa che gli embrioni prodotti devono essere al massimo 3 e devono essere tutti impiantati contemporaneamente nell’utero della madre: viene a mancare, dunque, l’intenzionalità di produrre embrioni in eccesso, che sarebbero destinati esclusivamente alla morte.
    Con la cancellazione da parte della Corte Costituzionale del limite di tre embrioni che nell’articolo 14 era così dichiarato “ non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” si pongono tre problemi:
    1. innanzitutto per fecondare più embrioni le donne devono subire bombardamenti ormonali maggiori; inoltre l’impianto di più embrioni può causare gravidanze plurime, ed entrambe queste situazioni possono creare più problemi alla salute della donna.
    2. se si decidesse di creare più embrioni e di non impiantarli tutti, si ritornerebbe alla situazione di creare embrioni con possibili scopi di selezione eugenetica o con lo scopo di non essere utilizzati, e quindi destinati sicuramente alla morte.
    3. come potrà conciliarsi questo esubero di embrioni col divieto, che la Consulta non ha cancellato, di crioconservazione?
    Bisogna infine ricordare che scientificamente i dati mostrano che la tendenza è quella di impiantare 1-2 embrioni e questo non inficia in alcun modo la percentuale di successo delle tecniche; il numero massimo di 3 embrioni infatti era stato scelto in base all’evidenza scientifica e non come decisione politico-ideologica.
    Vedremo come si deciderà di procedere, questa sentenza non mina i principi fondamenti della legge 40, ma sicuramente apre almeno su alcuni punti ad una pericolosa interpretabilità che potrebbe portare ad una deriva nell'uso.


    La “Passione” di Alessandro Manzoni - Il sangue “pioggia di mite lavacro” - di Inos Biffi - L’Osservatore Romano, 5 aprile 2009
    Nell'inno sacro La Passione Manzoni - che vi attese a varie riprese dal marzo 1814 all'ottobre 1815 - volge in poesia "il mestissimo rito" del Venerdì Santo, con la sua rievocazione del "Giusto, deriso e offeso, ma in solitaria e dignitosa grandezza" (Valter Boggione), coi sentimenti suscitati all'ascolto degli annunzi profetici sui dolori inenarrabili di quell'"Afflitto" che muore sulla Croce: sentimenti di timore per l'ira divina, ma alla fine, di confidente speranza in virtù del suo sangue innocente.
    La "lirica meditazione" (Alberto Chiari) - tra tutte quelle di Manzoni la più intimamente partecipata e sofferta - procede lentamente, e lo stesso metro del verso, il decasillabo, predispone a intercalare ampi spazi di silenzio, e a trattenere la considerazione e lo spirito sugli eventi tremendi che la liturgia - quella ambrosiana che il poeta lombardo ha di fronte - ripropone con la severa attrattiva, la forza potente dei suoi segni e l'"atmosfera cupamente solenne" (Clara Leri). L'inno si apre con la vista dei fedeli avviati alla chiesa per la celebrazione del Venerdì Santo. Anzi, lo stesso poeta, associandosi a loro, li esorta a mettersi in cammino con pensosa e trepida gravità, come a seguito della notizia inaspettata di una sciagura "O tementi dell'ira ventura, / Cheti e gravi oggi al tempio moviamo, / Come gente che pensi a sventura, / Che improvviso s'intese annunziar".
    Sono chiamati "tementi dell'ira ventura": già il Battista ammoniva a non credere di poter "sfuggire all'ira imminente": un tema ricorrente nell'inno, che farà posto a quello della fiducia, grazie all'immolazione di Cristo che da quell'ira "ci ha liberati" (1 Tessalonicesi, 1, 10). Il "rito" è definito "mestissimo": e la definizione è perfetta. In tutto il corso dell'anno sacro il Venerdì è il giorno più spoglio e più dolente.
    "Non s'aspetti - avverte il poeta - di squilla il richiamo; / Nol concede il mestissimo rito": veramente le campane potevano ancora richiamare a raccolta col loro suono, destinato poco dopo a spegnersi definitivamente - per essere sostituito dal martellare monotono e piatto del crotalo - dopo i rintocchi della morte di Gesù, a conclusione della lettura della Passio. Quanto all'altare: è rivestito della veste che indossa una sposa in lutto per lo sposo scomparso: "Qual di donna che piange il marito, / È la veste del vedovo altar": vedovo, poiché in questo giorno "aliturgico", senza celebrazione eucaristica né comunione - com'è nella tradizione ambrosiana - Cristo, lo Sposo, è assente e la Chiesa è in gramaglie. Il Venerdì Santo non c'è l'Eucaristia. Lo rende noto il poeta: "Cessan gl'inni e i misteri beati, / Tra cui scende, per mistica via, / Sotto l'ombra de' pani mutati, / L'ostia viva di pace e d'amor". E qui ogni parola è puntuale e rifinita e ne risulta una teologia dell'Eucaristia rigorosa e suggestiva, definita coi termini precisi, che il linguaggio della tradizione liturgica e biblica conoscono: da "i misteri beati", dalla "mistica via" - una via piena di mistero -, dall'"ombra" delle specie eucaristiche, che nella transustanziazione hanno perso la loro sostanza, all'"ostia viva", cioè al Cristo "Pane vivo", immolato e pure vivente, che sulla croce ha riconciliato l'uomo con Dio e gli uomini tra loro, e recato nel mondo la carità. E dal silenzio - che viene a crearsi spontaneo alla fine del verso precedente - ecco risonare il "sacro lamento" dell'"intento Isaia", che sente gravare sul suo cuore affannato e impaurito la tragedia di quel servo di Dio: "S'ode un carme: l'intento Isaia/ Proferì questo sacro lamento, / In quel dì che un divino spavento/ Gli affannava il fatidico cor". Nelle umiliazioni di quel servo il profeta presagisce con realismo impressionante gli oltraggi stessi inflitti a Gesù e il seguito penoso dei momenti della sua straziante passione, rievocati dal poeta in versi di intensa ed emozionante potenza. Il "veggente di Giuda", paragonandola a un germoglio che viene alla luce da un suolo riarso, evoca un essere misterioso e conturbante: una figura umana ridotta allo stremo, vilipesa, dal volto velato, come fosse colpita da un castigo divino, e rappresentasse l'ultimo e il più mirabile degli uomini. "Di chi parli, o Veggente di Giuda?/ Chi è costui che, davanti all'Eterno/ Spunterà come tallo da nuda/ Terra, lunge da fonte vital?/ Questo fiacco pasciuto di scherno/ Che la faccia si copre d'un velo/ Come fosse un percosso dal cielo, / Il novissimo d'ogni mortal?", domanda il poeta.
    Si tratta del "Giusto", ossia di Gesù, che - avverando la predizione di Isaia sull'agnello muto e mansueto condotto al macello e sul Servo del Signore - viene ignobilmente crocifisso, gravato delle colpe di tutti: "Egli è il Giusto che i vili han trafitto, / Ma tacente, ma senza tenzone; / Egli è il Giusto; e di tutti il delitto/ Il Signor sul suo capo versò". Si tratta del "Santo", che come nuovo Sansone libera l'Israele nuovo e, morendo per l'umanità peccatrice - "sposa infedele" -, lascia alla Chiesa, non per inganno ma deliberatamente, "la fortissima chioma", ossia la forza redentrice del suo sacrificio.
    E a questo punto ripassano come in "diversi riquadri" (Valter Boggione), i vari e spaventosi momenti della passione del Figlio di Dio: "Quei che siede sui cerchi divini" (Dante parla dei "cerchi superni", Paradiso, XXVIi, 144), divenuto uomo - "d'Adamo figliolo" - ha voluto condividere con "i fratelli tapini" la triste eredità del loro peccato: il loro "funesto retaggio". È l'affermazione di Paolo su Gesù, che, pur essendo di natura divina, annichilì se stesso, assumendo la condizione del servo (Filippesi, 2, 6). Seguono i momenti spaventosi di quella passione: le ingiurie; il tormento dello spirito; la tristezza della morte; la paura che segue al peccato, pur essendo il Signore innocente; la dolente e inascoltata orazione nel Getsemani; l'abbandono del Padre; il bacio del tenebroso discepolo, traditore del sangue incolpevole; lo scherno della marmaglia al luminoso volto divino; l'atroce e insaziato piacere del male, che giunge fino al crimine più empio.
    A rendere questo, Manzoni scrive i suoi versi più drammatici: "Né sdegnò coi fratelli tapini/ Il funesto retaggio partir: / Volle l'onte, e nell'anima il duolo, / E l'angosce di morte sentire, / E il terror che seconda il fallire, / Ei che mai non conobbe il fallir". "La repulsa al suo prego sommesso, / L'abbandono del Padre sostenne: / Oh spavento! l'orribile amplesso/ D'un amico spergiuro soffrì./ Ma simìle quell'alma divenne/ Alla notte dell'uomo omicida: / Di quel Sangue sol ode le grida, / E s'accorge che Sangue tradì./ Oh spavento! lo stuol de' beffardi/ Baldo insulta a quel volto divino, / Ove intender non osan gli sguardi/ Gl'incolpabili figli del ciel./ Come l'ebbro desidera il vino, / Nell'offese quell'odio s'irrita; / E al maggior dei delitti gl'incita/ Del delitto la gioia crudel".
    In questa sequenza di raccapriccianti eventi si distingue, nel delirio della sua potenza, l'orgoglioso e stolto procuratore Pilato che - bassamente preoccupato solo di comprare e di salvare la propria carriera col sangue incolpevole di Cristo - ignora chi veramente fosse quel silente imputato, condotto come offerta sacrificale dinanzi al suo tribunale: "Ma chi fosse quel tacito reo, / Che davanti al suo seggio profano/ Strascinava il protervo Giudeo, / Come vittima innanzi a l'altar, / Non lo seppe il superbo Romano; / Ma fe' stima il deliro potente, / Che giovasse col sangue innocente/ La sua vil sicurtade comprar".
    Ma soprattutto l'attenzione del poeta si sofferma con trepidazione sul "Sangue dai padri imprecato". La loro sacrilega domanda, che pervade il cielo di lutto e fa coprire il volto degli angeli inorriditi, è stata ascoltata - ritiene Manzoni - e dai padri continua a pesare sui figli: "Su nel cielo in sua doglia raccolto/ Giunse il suono d'un prego esecrato: / I celesti copersero il volto: / Disse Iddio: Qual chiedete sarà./ E quel Sangue dai padri imprecato/ Sulla misera prole ancor cade, / Che mutata d'etade in etade/ Scosso ancor dal suo capo non l'ha". Il pannello conclusivo della tragica scena ritrae la morte dell'"Afflitto" sul "letto nefando" della croce, il grande grido, l'esalazione dell'ultimo respiro, l'esultanza dei carnefici, e l'ira divina incombente, ravvisabile anche nei segni seguiti a quella morte: lo squarcio del velo del tempio, le tenebre su tutta la terra, il terremoto e l'aprirsi delle tombe e l'apparizione dei trapassati. "Ecco appena sul letto nefando/ Quell'Afflitto depose la fronte, / E un altissimo grido levando, / Il supremo sospiro mandò: / Gli uccisori esultanti sul monte/ Di Dio l'ira già grande minaccia; / Già dall'ardue vedette s'affaccia/ Quasi accenni: Tra poco verrò". Ma sorprendentemente, proprio l'evocazione di quella sovrastante minaccia del Rex tremendae maiestatis fa scaturire nel poeta - dopo ancora una pausa propiziata dal verso - gli accenti della più commossa e confidente preghiera al "gran Padre", al Signore indulgente, perché, in virtù del sacrificio di Cristo, il Sangue scenda a purificare misericordiosamente quei medesimi che lo hanno follemente invocato. Anzi scenda su tutti: "Tutti errammo". "O gran Padre! per Lui che s'immola/ Cessi alfine quell'ira tremenda; / E de' ciechi l'insana parola/ Volgi in meglio, pietoso Signor./ Sì, quel Sangue sovr'essi discenda; / Ma sia pioggia di mite lavacro: / Tutti errammo; di tutti quel sacro-/ santo Sangue cancelli l'error". E pare di sentire in queste parole la confessione dello stesso Manzoni, l'eco della sua recente conversione e della gioiosa esperienza del perdono ottenuto. Il tema dell'ira divina, ricorrente nell'inno, si trasforma in quello dell'"immensa pietà" (Ognissanti), mentre il tema ugualmente insistente del sangue che grida vendetta finisce in quello del sangue che deterge e redime. Si riflette in questi versi la visione misericordiosa degli uomini, che volge verso tutti occhi di largo compatimento e indulgenza. È la pietà manzoniana, che, mentre aborrisce e detesta "il secolo atroce", si sente vicino al "tristo esiglio" dei buoni.
    La contemplazione e l'orazione del poeta non è terminata. Ritta, "immota", accanto alla croce, egli rimira la madre del Crocifisso e anche da questo sguardo scaturisce una confidente, toccante, implorazione alla "regina de' mesti" - che le litanie mariane invocano come "Consolatrice degli afflitti" e "Regina dei martiri" - perché associ i nostri dolori ai santi patimenti del Figlio, a caparra e in attesa della sua visione gloriosa: "E tu, Madre, che immota vedesti/ Un tal Figlio morir sulla croce, / Per noi prega, o regina de' mesti, / Che il possiamo in sua gloria veder; / Che i dolori, onde il secolo atroce/ Fa de' boni più tristo l'esiglio, / Misti al santo patir del tuo Figlio/ Ci sian pegno d'eterno goder".
    Osserva il cardinale Giovanni Colombo: "Il Manzoni in questo punto interpreta sant'Ambrogio, che, in un famoso commento, insiste sull'atteggiamento virile di Maria: la dolce e santa Madonna sta in piedi accanto alla croce. La "perdolente" non si abbandona a un desolato lacrimare: in silenzio ascolta gli insulti rivolti al divino agonizzante, e maternamente implora per tutti perdono e pace dal Padre misericordiosissimo".
    (©L'Osservatore Romano - 5 aprile 2009)

I versi dell'inno
O tementi dell'ira ventura,
Cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
Come gente che pensi a sventura,
Che improvviso s'intese annunziar.
Non s'aspetti di squilla il richiamo;
Nol concede il mestissimo rito:
Qual di donna che piange il marito,
È la veste del vedovo altar.
Cessan gl'inni e i misteri beati,
Tra cui scende, per mistica via,
Sotto l'ombra de' pani mutati,
L'ostia viva di pace e d'amor.
S'ode un carme: l'intento Isaia
Proferì questo sacro lamento,
In quel dì che un divino spavento
Gli affannava il fatidico cor.
Di chi parli, o Veggente di Giuda?
Chi è costui che, davanti all'Eterno
Spunterà come tallo da nuda
Terra, lunge da fonte vital?
Questo fiacco pasciuto di scherno
Che la faccia si copre d'un velo
Come fosse un percosso dal cielo,
Il novissimo d'ogni mortal?
Egli è il Giusto che i vili han trafitto,
Ma tacente, ma senza tenzone;
Egli è il Giusto; e di tutti il delitto
Il Signor sul suo capo versò.
Egli è il santo, il predetto Sansone
Che morendo francheggia Israele;
Che volente alla sposa infedele
La fortissima chioma lasciò.
Quei che siede sui cerchi divini,
E d'Adamo si fece figliolo,
Né sdegnò coi fratelli tapini
Il funesto retaggio partir:
Volle l'onte, e nell'anima il duolo,
E l'angosce di morte sentire,
E il terror che seconda il fallire,
Ei che mai non conobbe il fallir.
La repulsa al suo prego sommesso,
L'abbandono del Padre sostenne:
Oh spavento! l'orribile amplesso
D'un amico spergiuro soffrì.
Ma simìle quell'alma divenne
Alla notte dell'uomo omicida:
Di quel Sangue sol ode le grida,
E s'accorge che Sangue tradì.
Oh spavento! lo stuol de' beffardi
Baldo insulta a quel volto divino,
Ove intender non osan gli sguardi
Gl'incolpabili figli del ciel.
Come l'ebbro desidera il vino,
Nell'offese quell'odio s'irrita;
E al maggior dei delitti gl'incita
Del delitto la gioia crudel.
Ma chi fosse quel tacito reo,
Che davanti al suo seggio profano
Strascinava il protervo Giudeo,
Come vittima innanzi a l'altar,
Non lo seppe il superbo Romano;
Ma fe' stima il deliro potente,
Che giovasse col sangue innocente
La sua vil sicurtade comprar.
Su nel cielo in sua doglia raccolto
Giunse il suono d'un prego esecrato:
I celesti copersero il volto:
Disse Iddio: Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
Sulla misera prole ancor cade,
Che mutata d'etade in etade
Scosso ancor dal suo capo non l'ha.
Ecco appena sul letto nefando
Quell'Afflitto depose la fronte,
E un altissimo grido levando,
Il supremo sospiro mandò:
Gli uccisori esultanti sul monte
Di Dio l'ira già grande minaccia;
Già dall'ardue vedette s'affaccia
Quasi accenni: Tra poco verrò.
O gran Padre! per Lui che s'immola
Cessi alfine quell'ira tremenda;
E de' ciechi l'insana parola
Volgi in meglio, pietoso Signor.
Sì, quel Sangue sovr'essi discenda;
Ma sia pioggia di mite lavacro:
Tutti errammo; di tutti quel sacro-
santo Sangue cancelli l'error.
E tu, Madre, che immota vedesti
Un tal Figlio morir sulla croce,
Per noi prega, o regina de' mesti,
Che il possiamo in sua gloria veder;
Che i dolori, onde il secolo atroce
Fa de' boni più tristo l'esiglio,
Misti al santo patir del tuo Figlio
Ci sian pegno d'eterno goder.
(©L'Osservatore Romano - 5 aprile 2009


IL TESTAMENTO È “ DOMANDA DEI SANI ”, AVVERTE LO PSICHIATRA BORGNA - Come cambia la prospettiva quando si è a un passo dalla morte - MARINA CORRADI - Avvenire, 5 aprile 2009
A i margini del dibattito sul fine vita, e su quanto questo concetto debba essere 'laico', e su che cosa ne determini la laicità - dove pare che il carattere non vincolante delle dichiarazioni di fine vita venga visto come una lesione della piena autodeterminazione del soggetto, una menomazione della sua individuale libertà - ci continua a tornare in mente quel che dicono, dalle corsie, i medici che concretamente stanno di fronte e accanto ai malati, negli ultimi giorni.
Sono i dati forniti un anno e mezzo fa dall’Istituto dei Tumori di Milano, dove in 25 anni - su quarantamila pazienti - uno solo aveva avanzato e mantenuto la richiesta di morire. Sono le parole di tanti medici sconosciuti, che nel dibattito di oggi non hanno voce, e che dicono come l’immensa maggioranza degli uomini quando ha davanti, imminente e certa, la morte, si attacchi istintivamente alla vita, anche a quella sofferente e limitata, che a noi sani pare una cosa da poco. Fra tutti, viene in mente ciò che dice Eugenio Borgna, anziano maestro della psichiatria italiana, saggista per il laico editore Feltrinelli, che dopo una vita intera passata con le malate nell’ospedale psichiatrico di Novara, curandole e anche accompagnandole a morire, afferma che l’eutanasia “è domanda dei sani”. Che il malato grave tende ad avvinghiarsi a quanto, anche poco, di vita gli rimane. Che un conto è guardare alla questione quando si è in piena salute, e dunque in fondo ci si percepisce immortali, e altro, tutt’altro è lo sguardo di un malato condannato. E dunque, quello stendere un testamento e pretendere poi che sia rispettato integralmente quando fossimo in stato di incoscienza, contiene in sé una profonda irrazionalità. Perché gli uomini non sono entità pietrificate, che pensano per sempre allo stesso modo.
Basta invece poco, per farli cambiare.
Un responso, una diagnosi di tre righe in calce a un esame. E quella vita malata, tarpata, magari non più autonoma, magari bisognosa di una sonda per nutrirsi, magari addirittura assente, cambia, agli occhi di quello stesso uomo, valore. Pareva un nulla, un avanzo pietoso, da rifiutare con libertà ed orgoglio: “In quel caso, staccate”. E invece l’uomo, così com’è davvero, 'nudo' in un letto d’ospedale o di una clinica di lusso, quasi sempre, eternamente si direbbe, si ribella; e a quel poco di respiro e luce che gli resta, si attacca. Vuole vivere, e a volte come mai prima di allora. (È l’esperienza di quella dottoressa dell’Istituto dei tumori di Milano, allieva di Veronesi, che quando si seppe malata scoprì, ha detto, come ogni giorno ha un valore infinito).
Allora, tornando allo scontro che imperversa su quel pezzo di carta, e su quanto e come la volontà del paziente debba essere un vincolo, vorremmo dire quasi sommessamente che la realtà, negli ospedali, è - ci dicono - altra da quella cristallizzata, geometrica e orgogliosa che crede di dichiararsi in un testamento biologico dei sani. Altra dalla pretesa che il tuo 'no' di giovane con tutta la vita davanti valga come clausola fiscale in quel futuro, a noi stessi così ignoto, che ci attende un giorno. Non è 'cattolico' il volere arginare questa ansia di assoluta autodeterminazione; è semplicemente conseguente a cos’è, a com’è, concretamente, quando si ammala, un uomo. (E se poi la domanda di 'staccare' persiste anche di fronte alla morte, spesso, nell’esperienza, ciò che la spinge è la sofferenza fisica - che può e deve essere affrontata e lenita - oppure la solitudine. Ma in questo caso la domanda vera del malato è: non lasciatemi solo. E che tragedia allora fare finta di non capire, e abbandonare alla morte).