lunedì 6 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Omelia di Benedetto XVI per la Domenica delle Palme
2) Che rapporto c'è tra i profilattici e la diffusione dell’HIV? - di Renzo Puccetti*
3) Eugenetica e aborto - di Leonardo M. Macrobio*
4) PMI/ Vittadini: perché a chi cerca il profitto viene proposta la rendita? - Giorgio Vittadini - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
5) L’Europa contro i totalitarismi - Mario Mauro - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
6) Quella strana pasticceria dove le colombe volano oltre le sbarre - Redazione - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net

Omelia di Benedetto XVI per la Domenica delle Palme
Celebrata a livello diocesano la Giornata Mondiale della Gioventù

CITTA' DEL VATICANO, domenica, 5 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questa domenica in piazza San Pietro la solenne celebrazione liturgica della Domenica delle Palme e della Passione del Signore, cui hanno preso parte giovani di Roma e di altre diocesi, in occasione della ricorrenza diocesana della XXIV Giornata Mondiale della Gioventù sul tema: "Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente" (1 Tm 4, 10).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
cari giovani!
Insieme con una schiera crescente di pellegrini, Gesù era salito a Gerusalemme per la Pasqua. Nell’ultima tappa del cammino, vicino a Gerico, Egli aveva guarito il cieco Bartimeo che lo aveva invocato come Figlio di Davide, chiedendo pietà. Ora – essendo ormai capace di vedere – con gratitudine si era inserito nel gruppo dei pellegrini. Quando, alle porte di Gerusalemme, Gesù sale sopra un asino, l’animale simbolo della regalità davidica, tra i pellegrini scoppia spontaneamente la gioiosa certezza: È Lui, il Figlio di Davide! Salutano perciò Gesù con l’acclamazione messianica: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore", e aggiungono: "Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!" (Mc 11, 9s). Non sappiamo che cosa precisamente i pellegrini entusiasti immaginavano fosse il Regno di Davide che viene. Ma noi, abbiamo veramente compreso il messaggio di Gesù, Figlio di Davide? Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?
San Giovanni, nel suo Vangelo, dopo il racconto dell’ingresso in Gerusalemme, riporta una serie di parole di Gesù, nelle quali Egli spiega l’essenziale di questo nuovo genere di Regno. A una prima lettura di questi testi possiamo distinguere tre immagini diverse del Regno nelle quali, sempre in modo diverso, si rispecchia lo stesso mistero. Giovanni racconta innanzitutto che, tra i pellegrini che durante la festa "volevano adorare Dio", c’erano anche alcuni Greci (cfr 12, 20). Facciamo attenzione al fatto che il vero obiettivo di questi pellegrini era di adorare Dio. Questo corrisponde perfettamente a ciò che Gesù dice in occasione della purificazione del Tempio: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni" (Mc 11, 17). Il vero scopo del pellegrinaggio deve essere quello di incontrare Dio; di adorarlo e così mettere nell’ordine giusto la relazione di fondo della nostra vita. I Greci sono persone alla ricerca di Dio, con la loro vita sono in cammino verso Dio. Ora, per il tramite di due Apostoli di lingua greca, Filippo ed Andrea, fanno giungere al Signore la richiesta: "Vogliamo vedere Gesù" (Gv 12, 21). Una parola grande. Cari amici, per questo ci siamo riuniti qui: Vogliamo vedere Gesù. A questo scopo, l’anno scorso, migliaia di giovani sono andati a Sydney. Certo, avranno avuto molteplici attese per questo pellegrinaggio. Ma l’obiettivo essenziale era questo: Vogliamo vedere Gesù.
Riguardo a questa richiesta, in quell’ora che cosa ha detto e fatto Gesù? Dal Vangelo non risulta chiaramente se ci sia stato un incontro tra quei Greci e Gesù. Lo sguardo di Gesù va molto più in là. Il nucleo della sua risposta alla richiesta di quelle persone è: "Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12, 24). Ciò significa: non ha importanza ora un colloquio più o meno breve con alcune poche persone, che poi ritornano a casa. Come chicco di grano morto e risorto verrò, in modo totalmente nuovo e al di là dei limiti del momento, incontro al mondo e ai Greci. Mediante la risurrezione Gesù oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo. Come Risorto, Egli è in cammino verso la vastità del mondo e della storia. Sì, come Risorto va dai Greci e parla con loro, si mostra loro così che essi, i lontani, diventano vicini e proprio nella loro lingua, nella loro cultura, la sua parola viene portata avanti in modo nuovo e compresa in modo nuovo – viene il suo Regno. Possiamo così riconoscere due caratteristiche essenziali di questo Regno. La prima è che questo Regno passa attraverso la croce. Poiché Gesù si dona totalmente, può come Risorto appartenere a tutti e rendersi presente a tutti. Nella santa Eucaristia riceviamo il frutto del chicco di grano morto, la moltiplicazione dei pani che prosegue sino alla fine del mondo e in tutti i tempi. La seconda caratteristica dice: il suo Regno è universale. Si adempie l’antica speranza di Israele: questa regalità di Davide non conosce più frontiere. Si estende "da mare a mare" – come dice il profeta Zaccaria (9, 10) – cioè abbraccia tutto il mondo. Questo, però, è possibile solo perché non è una regalità di un potere politico, ma si basa unicamente sulla libera adesione dell’amore – un amore che, da parte sua, risponde all’amore di Gesù Cristo che si è donato per tutti. Penso che dobbiamo imparare sempre di nuovo ambedue le cose – innanzitutto l’universalità, la cattolicità. Essa significa che nessuno può porre come assoluto se stesso, la sua cultura, il suo tempo e il suo mondo. Ciò richiede che tutti ci accogliamo a vicenda, rinunciando a qualcosa di nostro. L’universalità include il mistero della croce – il superamento di se stessi, l’obbedienza verso la comune parola di Gesù Cristo nella comune Chiesa. L’universalità è sempre un superamento di se stessi, rinuncia a qualcosa di personale. L’universalità e la croce vanno insieme. Solo così si crea la pace.
La parola circa il chicco di grano morto fa ancora parte della risposta di Gesù ai Greci, è la sua risposta. Poi, però, Egli formula ancora una volta la legge fondamentale dell’esistenza umana: "Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna" (Gv 12, 25). Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per se stesso, stringere tutto a sé e sfruttarne tutte le possibilità – proprio costui perde la vita. Essa diventa noiosa e vuota. Soltanto nell’abbandono di se stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’io in favore del tu, soltanto nel "sì" alla vita più grande, propria di Dio, anche la nostra vita diventa ampia e grande. Così questo principio fondamentale, che il Signore stabilisce, in ultima analisi è semplicemente identico al principio dell’amore. L’amore, infatti, significa lasciare se stessi, donarsi, non voler possedere se stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su se stessi – cosa sarà di me –, ma guardare avanti, verso l’altro – verso Dio e verso gli uomini che Egli mi manda. E questo principio dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è ancora una volta identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo in Cristo. Cari amici, è forse relativamente facile accettare questo come grande visione fondamentale della vita. Nella realtà concreta, però, non si tratta di semplicemente riconoscere un principio, ma di vivere la sua verità, la verità della croce e della risurrezione. E per questo, di nuovo, non basta un’unica grande decisione. È sicuramente importante osare una volta la grande decisione fondamentale, osare il grande "sì", che il Signore ci chiede in un certo momento della nostra vita. Ma il grande "sì" del momento decisivo nella nostra vita – il "sì" alla verità che il Signore ci mette davanti – deve poi essere quotidianamente riconquistato nelle situazioni di tutti i giorni in cui, sempre di nuovo, dobbiamo abbandonare il nostro io, metterci a disposizione, quando in fondo vorremmo invece aggrapparci al nostro io. Ad una vita retta appartiene anche il sacrificio, la rinuncia. Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente. Non esiste una vita riuscita senza sacrificio. Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto "sì" ad una rinuncia sono stati i momenti grandi ed importanti della mia vita.
Infine, san Giovanni ha accolto, nella sua composizione delle parole del Signore per la "Domenica delle Palme", anche una forma modificata della preghiera di Gesù nell’Orto degli Ulivi. C’è innanzitutto l’affermazione: "L’anima mia è turbata" (12, 27). Qui appare lo spavento di Gesù, illustrato ampiamente dagli altri tre evangelisti – il suo spavento davanti al potere della morte, davanti a tutto l’abisso del male che Egli vede e nel quale deve discendere. Il Signore soffre le nostre angosce insieme con noi, ci accompagna attraverso l’ultima angoscia fino alla luce. Poi seguono in Giovanni le due domande di Gesù. La prima, espressa solo condizionatamente: "Che cosa dirò – Padre, salvami da quest’ora?" (12, 27). Come essere umano, anche Gesù si sente spinto a chiedere che gli sia risparmiato il terrore della passione. Anche noi possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirGli: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!" (Gen 32, 27). Ma poi viene la seconda domanda di Gesù: "Glorifica il tuo nome!" (Gv 12, 28). Nei sinottici, questa domanda suona così: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!" (Lc 22, 42). Alla fine la gloria di Dio, la sua signoria, la sua volontà è sempre più importante e più vera che il mio pensiero e la mia volontà. Ed è questo l’essenziale nella nostra preghiera e nella nostra vita: apprendere questo ordine giusto della realtà, accettarlo intimamente; confidare in Dio e credere che Egli sta facendo la cosa giusta; che la sua volontà è la verità e l’amore; che la mia vita diventa buona se imparo ad aderire a quest’ordine. Vita, morte e risurrezione di Gesù sono per noi la garanzia che possiamo veramente fidarci di Dio. È in questo modo che si realizza il suo Regno.
Cari amici! Alla fine di questa Liturgia, i giovani dell’Australia consegneranno la Croce della Giornata Mondiale della Gioventù ai loro coetanei della Spagna. La Croce è in cammino da un lato del mondo all’altro, da mare a mare. E noi la accompagniamo. Progrediamo con essa sulla sua strada e troviamo così la nostra strada. Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo – noi – da dare il Figlio unigenito per noi (cfr Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Ma tocchiamo anche la legge fondamentale, la norma costitutiva della nostra vita, cioè il fatto che senza il "sì" alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo giorno per giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore – per amore della verità e dell’amore di Dio – possiamo fare anche qualche rinuncia, tanto più grande e più ricca diventa la vita. Chi vuole riservare la sua vita per se stesso, la perde. Chi dona la sua vita – quotidianamente nei piccoli gesti, che fanno parte della grande decisione – questi la trova. È questa la verità esigente, ma anche profondamente bella e liberatrice, nella quale vogliamo passo passo entrare durante il cammino della Croce attraverso i continenti. Voglia il Signore benedire questo cammino. Amen.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Che rapporto c'è tra i profilattici e la diffusione dell’HIV? - di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 5 aprile 2009 (ZENIT.org).- Il clamore che è seguito sui media occidentali a certe veementi reazioni suscitate dalle parole del Santo Padre in risposta ad una domanda sull’uso del preservativo nella prevenzione dell’infezione da HIV, non ha potuto evitare che il confronto approdasse sulle riviste scientifiche e persino in alcune aule parlamentari.
Molte persone sono disorientate, trovano grande difficoltà a comprendere le motivazioni per cui il preservativo non dovrebbe essere utilizzato, se la sua funzione è quella di impedire che un uomo o una donna si ammalino o trasmettano l’infezione. Una tale confusione può essere comprensibile; in fin dei conti lo stesso nome, profilattico, rimanda alla funzione di un custode che si pone a guardia dell’integrità di chi lo usa. Di fronte ad una tale percezione la resistenza ad un’ampia diffusione del preservativo non raramente viene percepita come una ostinata difesa di principi astratti che invece dovrebbero essere messi da parte di fronte alla drammatica carnalità di centinaia di migliaia di persone che si ammalano e molto spesso muoiono.
La riflessione bioetica, prima di procedere alla valutazione delle implicazioni antropologiche ed alla successiva formulazione del giudizio etico dei comportamenti, non può prescindere dal considerare quale primo elemento il dato scientifico in sé. In via previa è bene precisare un argomento talora utilizzato in maniera non appropriata. I condom di lattice presentano una struttura porosa; forami non identificati dal test di permeabilità all’acqua possono determinare il passaggio di una quantità di liquido seminale pari a 0,00001 ml. Si ritiene che una tale quantità sia rilevante per virus ad alta infettività, ma non per l’HIV, dove la quantità di seme necessaria a veicolare una carica virale sufficiente alla trasmissione dell’infezione è valutata essere pari a 0,1-1,0 ml (1)
Quindi, puramente in termini teorici, usando il preservativo ad ogni rapporto sessuale il virus dell’HIV si trasmetterebbe solamente a seguito della rottura o dello sfilarsi del preservativo stesso. Questa sicurezza teorica del metodo ha indotto ad investire intensamente sul condom per la prevenzione della trasmissione dell’AIDS come intervento di profilassi generalizzata. Oggi abbiamo a disposizione molti più dati rispetto agli inizi dell’epidemia per una valutazione scientificamente fondata di tale misura. La revisione di 13 studi da parte dell’autorevolissimo Cochrane Database Review Institute ha dimostrato che la protezione conferita dal preservativo nella trasmissione eterosessuale del virus è pari all’80% (2). Questo dato va bene inteso. Si tratta della protezione conferita da un utilizzo del condom ogni volta, cioè ad ogni rapporto sessuale, senza mai derogare, che prevede dopo 10 anni di utilizzo costante l’infettarsi dell’11% circa dei partner sani.
A questo punto è però necessario porsi due domande: l’utilizzo del preservativo in tutti i rapporti è un obiettivo raggiungibile sul piano sanitario? In caso di un uso discontinuo del preservativo, qual è la protezione conferita? Nella realtà l’uso costante del preservativo è stato raggiunto solamente in alcuni gruppi ad elevato rischio come le persone omosessuali e le prostitute (93-97% dei rapporti con prostitute in Tailandia risultano avvenire con l’uso del condom) (3) risultandone una riduzione dell’infezione nella popolazione generale quando il focolaio epidemico era concentrato in queste stesse popolazioni (4). Diversamente in nessuna parte del mondo ci si è neppure minimamente avvicinati ad una tale diffusione del condom nella popolazione generale. Inoltre l’uso discontinuo del preservativo non ha semplicemente un’efficacia ridotta, non ha pressoché alcuna efficacia come protezione a livello di popolazione.
Secondo i dati presentati da Kimberly Smith, della divisione malattie infettive del Rush University Medical Center di Chicago, dopo 10 anni di utilizzo incostante e non perfetto, cioè tipico, il 70% dei partner sani si infettano con virus dell’AIDS (5). In un articolo dal titolo programmatico, “Dieci miti ed una verità sull’epidemia generalizzata di HIV”, pubblicato proprio sulla stessa rivista che nei giorni scorsi ha con un editoriale veementemente criticato il Santo Padre, l’affermazione “i preservativi sono la risposta” costituiva il sesto mito dell’elenco. Diceva James Shelton, dell’agenzia americana per lo sviluppo, autore dell’articolo: “I condom da soli hanno un impatto limitato sull’epidemia. A molte persone non piace usarli (specialmente nelle relazioni regolari), la protezione è imperfetta, l’uso spesso irregolare, e i preservativi sembrano alimentare la disinibizione in cui le persone si impegnano in un sesso a rischio, sia col preservativo, sia con l’intenzione di usare i preservativi” (6). Non è neppure il caso di aggiungere che la fine dell’articolo conteneva un inno ai meriti della fedeltà, un invito a concentrare gli sforzi su questo ambito per ridurre significativamente i comportamenti delle persone e con essi la diffusione dell’infezione.
Un’altra testimonianza significativa giunge da Norman Forster, professore di epidemiologia all’Università della California, che il 25 Settembre 2007 ha dichiarato di fronte all’House Committee of Foreign Affairs: “Cinque anni fa mi fu commissionato dalle Nazioni Unite una revisione tecnica di quanto avessero funzionato i condom per la prevenzione dell’AIDS nei paesi in via di sviluppo. Insieme ai miei collaboratori raccogliemmo montagne di dati e questo è quanto trovammo”. dopo avere descritto l’efficacia del preservativo quando usato costantemente ed i risultati positivi del suo impiego nei casi di epidemie concentrate in specifiche popolazioni, quali prostitute e persone omosessuali, il professo Forster così prosegue: “Poi cercammo le evidenze di un impatto sulla salute pubblica nelle epidemie generalizzate. Con nostra sorpresa non ne trovammo nessuna. Nessuna epidemia generalizzata di HIV è mai stata sottomessa con una strategia basata principalmente sui condom. Piuttosto i pochi successi nel circoscrivere le epidemie generalizzate di HIV, come in Uganda, sono state ottenute non mediante i preservativi, ma facendo cambiare le abitudini sessuali alle persone”. UNAIDS (la commissione delle Nazioni Unite per l’AIDS, n.d.r.) non pubblicò la nostra revisione, ma ci abbiamo pensato noi” (7, 8).
In Uganda la prevalenza dell’HIV è diminuita del 70% prevalentemente per la riduzione del sesso casuale (9). Nella sua presentazione dei dati al Manhattan Institute nel gennaio 2008, il professor Edward Green, capo ricercatore dell’Harvard Center for Population and Development Studies, ha affermato che solamente due misure hanno dimostrato di funzionare in Africa: la circoncisione maschile e gli interventi comportamentali tesi alla riduzione della promiscuità (10). In Uganda la spettacolare riduzione dei livelli d’infezione è stata effettuata al costo di soli 23 centesimi di dollaro per anno rendendo le persone spaventate dall’infezione, facendole sentire vulnerabili ed indicando loro semplici misure di buon senso: non avere più di un partner sessuale e ritardando l’iniziazione sessuale.
Soltanto a partire dalla fine degli anni ’90 infatti, ad epidemia già largamente domata, il governo ugandese si è adeguato alle indicazioni dei maggiori finanziatori con un incremento della distribuzione dei preservativi. Sembra difficile contestare che l’allocazione di risorse per presidi di dubbia efficacia, sottraendole ad altri interventi che hanno dimostrato un’efficacia superiore, non sia un intervento peggiorativo. Un esempio di questo genere di politiche errate sono i 900 milioni di dollari spesi direttamente per i preservativi dal programma per l’AIDS delle Nazioni Unite a cui si devono sommare la maggioranza degli ulteriori 6 milioni di dollari rubricati per la protezione delle persone ad alto rischio, destinati largamente alla promozione del condom, a fronte dei 157 milioni di dollari destinati alla promozione della circoncisione (11), una pratica che ha dimostrato un’efficacia di circa il 60% (12).
Ma esistono ulteriori motivi di preoccupazione legati alla diffusione del condom e si riferiscono ad un problema che in medicina è conosciuto come “risk compensation”. Si tratta di un effetto di annullamento dei preventivati benefici di un presidio sanitario a causa di una maggiore sicurezza percepita che si accompagna a condotte più rischiose; in questo modo si possono addirittura superare i benefici inizialmente introdotti e paradossalmente peggiorare quella stessa situazione che si intendeva lenire. In relazione alla lotta all’AIDS questo problema è attentamente considerato sia dai medici con esperienza sul campo (13), sia dalla letteratura medico-scientifica (14).
Insieme alla professoressa Maria Luisa Di Pietro abbiamo pubblicato sul British Medical Journal un intervento in cui, pur non attribuendo un ruolo causale al preservativo, risulta evidente l’associazione positiva tra impiego del condom ed infezione dell’HIV sia negli Stati Uniti che nei paesi africani (15). Nell’intervento abbiamo fatto riferimento all’assenza di sensibilità e cultura etica in quei settori che invece di reazioni scomposte avrebbero dovuto cogliere la disponibilità del Papa verso una modalità argomentativa che, anziché poggiarsi sulla dottrina degli assoluti morali, la lasciava sullo sfondo, accettando il confronto sul terreno delle conseguenze di certe scelte.
Sono ben noti i disastri provocati da certa ubris prometeica che, nell’intento di ottenere un fine buono, pretende d’ignorare l’oggetto morale; quanti ciechi si sono succeduti nel corso della storia con la pretesa di farsi guide per tutti gli altri. Il consequenzialismo utilitarista può apparire una strada logica e umanitaria, ma in morale non è mai la risposta giusta. A tale volontà di dialogo del Santo Padre hanno fatto riscontro reazioni isteriche che proclamano i dogmi e le certezze laiciste di un sacerdozio pubico che vede negli istinti del basso ventre un elemento sacrale, non dominabile dalla retta ragione e dalla volontà conformata alla virtù. Agli altri, a quelli per cui la conoscenza scientifica fa lo stesso effetto di quello prodotto da Carneade a don Abbondio, si addice bene la riflessione sulla metafisica di Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere”.
Al British Medical Journal va invece riconosciuto il merito di avere ospitato, accanto alle critiche, numerosi interventi a sostegno delle tesi espresse dal Papa, provenienti da cattolici, come anche da non credenti. Si è ben consapevoli che all’interno del mondo scientifico non vi è un’uniformità di idee, valga per tutti la risposta che le Nazioni Unite (UNAIDS) hanno fornito a Potts e colleghi (16), ma è proprio qui la questione grave di cui si sono macchiati sia le istituzioni politiche che quelle scientifiche: avere presentato la necessariamente breve frase del papa come una fandonia scientifica, anziché riconoscere che si tratta di un’opinione sostenuta da solidi dati e condivisa da ricercatori “top ranked” nel campo dell’infettivologia e della sanità pubblica, appartenenti alle istituzioni universitarie più prestigiose al mondo.
Per questo terminiamo con un suggerimento rivolto agli uomini che hanno invocato la redenzione per il Santo Padre (17): si cospargano il capo di cenere per avere distorto pubblicamente l’evidenza scientifica dichiarando inesistenti certezze ed avere così avvallato un immenso disservizio per la salute pubblica; il momento è propizio.

Referenze:
1. Carey RF, Lytle CD, Cyr WH. Implications of laboratory tests of condom integrity. Sex Transm Dis. 1999 Apr;26(4):216-20.
2. Weller S, Davis K. Condom effectiveness in reducing heterosexual HIV transmission. Cochrane Database Syst Rev. 2002;(1):CD003255.
3. UNAIDS. Evaluation of the 100% condom programme in Thailand. http://data.unaids.org/Publications/IRC-pub01/JC275-100pCondom_en.pdf
4. Nelson KE, Celentano DD, Eiumtrakol S, Hoover DR, et al. Changes in sexual behavior and a decline in HIV infection among young men in Thailand. N Engl J Med 1996; 335: 343-345.
5. Smith KY. New Drugs for Treatment-Experienced Patients. Clinical Care Options. http://www.unescobkk.org/fileadmin/user_upload/hiv_aids/Documents/Workshop_doc/MSM_Lao/Day1/Updates_on_HIV.pdf.
6. Shelton JD. Ten myths and one truth about generalised HIV epidemics. The Lancet. 370: 9602; 1809-1811.
7. Hearst N, Chen S. Condoms for AIDS Prevention in the Developing World: Is It Working? Studies in Family Planning 2004;35:39-47.
8. Norman Hearst. AIDS Prevention in Generalized Epidemics: What Works? House Committee on Foreign Affairs September 25, 2007. http://www.internationalrelations.house.gov/110/hea092507.htm.
9. Stoneburner RL, Low-Beer D. Population-Level HIV Declines and Behavioral Risk Avoidance in Uganda. Science. 2004 Apr 30;304(5671):714-8.
10. Green EC. New Evidence Guiding How We Conduct AIDS Prevention. Presentation to the Manhattan Institute, Jan 9, 2008. http://www.harvardaidsprp.org/research/green-manhattan-institute-lecture-010908.pdf.
11. Potts M, Halperin DT, Kirby D, et al. Reassessing HIV prevention. Policy Forum. http://www.hvtn.org/media/ReassessingPrevention.pdf.
12. Quinn TC. Circumcision and HIV transmission. Curr Opin Infect Dis. 2007 Feb;20(1):33-8.
13. Latham AC. Condom promotion may increase HIV transmission. 14 Aug 2004 [letter]. http://www.bmj.com/cgi/eletters/329/7459/185#68246.
14. Cassell MM, Halperin DT, Shelton JD, Stanton D. Risk compensation: the Achilles' heel of innovations in HIV prevention? BMJ 2006;332:605-7.
15. Puccetti R, Di Pietro ML. Catholic Magisterium and scientific community: possible dialogue on the bridge of numbers. British Medical Journal. 2 Apr. 2009. [letter] http://www.bmj.com/cgi/eletters/338/mar25_1/b1217.
16. Points for response to “Reassessing HIV Prevention” in Science. http://data.unaids.org/pub/InformationNote/2008/response_reassesing_hiv_prevention_science__en.pdf.
17. The Lancet. Redemption for the pope? Lancet. 2009 Mar 28;373(9669):1054.
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*Renzo Puccetti è medico specialista in medicina interna e autore del libro “L’uomo indesiderato. Dalla pillola di Pincus alla RU 486” (Società Editrice Fiorentina 2008)


Eugenetica e aborto - di Leonardo M. Macrobio*
ROMA, domenica, 29 marzo 2009 (ZENIT.org).- Come molti, anch'io utilizzo un sistema di "alerts" per ricevere nella casella di posta elettronica una rassegna delle pagine web che contengono determinate parole chiave. E devo confessare che ultimamente gli "alerts" relativi ad "eugenetica" (in tutte le sue "declinazioni": eugenismo, eugenetiche eccetera) sono aumentati.
Sembra, dunque, che questa parola stia prendendo sempre più piede nelle "conversazioni" elettroniche: l'eugenetica è in alcuni siti condannata come il male peggiore dell'umanità, in altri è declinata in una sorta di decalogo per futuri genitori, in altri ancora è legata strettamente al progresso delle scienze genetiche.
Cosa, dunque, è eugenetica e come si può accostare all'aborto?
Etimo e... ingredienti
Il termine eugenetica deriva dal greco antico e significa "buona/desiderabile nascita". Nonostante l'apparente lontananza cronologica, la parola eugenetica viene usata per la prima volta nel 1883 da Sir Francis Galton nel suo Inquiries into Human Faculties, con questo significato: "scienza per il miglioramento della specie umana dando alle razze e ceppi di miglior sangue una maggiore probabilità di prevalere sopra i meno dotati".
La preoccupazione di "migliorare la specie umana" non è certamente nuova né è stata "inventata" da Galton. E Galton non ha nemmeno inventato il metodo per perseguire questo fine: già Platone, nella sua Repubblica esprimeva la necessità di migliorare la "qualità" della polis concedendo ai più valenti maggiori possibilità di avere figli. Niente di nuovo sotto il sole? Non proprio. Se per Platone (ed altri più o meno contemporanei: Aristotele, il diritto Romano, le consuetudini spartane eccetera) l'eugenetica era qualcosa di empirico, di tentativo, all'epoca di Galton si introduce un elemento, per così dire, "scientifico". Ma questo è già uno degli ingredienti della moderna eugenetica: conviene, dunque, elencarli uno per uno.
a. Scientismo. Come tutti gli "-ismi", anche lo scientismo è una degenerazione della parola originante. Intendiamo per scientismo quel particolare approccio alla realtà che implica che tutto sia misurabile (materialismo), ossia che esista solo ciò che è misurabile (riduzionismo materialista) e che, infine, tutto ciò che statisticamente sia normale diventi per ciò stesso normativo (riduzionismo etico). Si tratta, con tutta evidenza, di un uso ideologico (ossia non realistico) della scienza e in quanto tale criticabile e, di fatto, criticato dalla stessa scienza. Concretamente lo scientismo riduce l'uomo ad una sorta di "macchina", estremamente complessa ma pur sempre macchina. Ed ogni malattia di questo organismo è trattata come se fosse un guasto ad una macchina: finché la riparazione vale la pena la si tenta, quando è troppo "cara" si preferisce rottamare la macchina per acquistarne, eventualmente, una nuova.
Si assiste, così, ad una strana uguaglianza: la malattia ed il soggetto portatore si identificano, tanto più quanto la prima è grave (e, diciamolo, quanto più il secondo è piccolo o comunque debole). I parametri per giudicare la persona sono dunque eminentemente medici, ed è sufficiente una diagnosi (con tutto ciò che questo termine comporta, ivi inclusi i rischi di errore diagnostico...) per prendere determinate decisioni. Ma non è forse vero che l'uomo è più del suo corpo e certamente più della malattia? Non che la salute non sia un bene, ma certamente non è il bene più prezioso in assoluto, non così alto da doverlo ottenere a tutti i costi. Vi sono dimensioni della persona che esulano dalla "misurazione" e che sono comunque fondanti per la vita. Ma di questo lo scientismo non sembra tenere conto.
b. Bomba demografica ed ambientalismo. Sembrerà strano, ma non è a partire dagli anni '70 che si pensa di essere in troppi sulla Terra... Già secoli prima che Paul Ehrlich pubblicasse il suo Population Bomb, illustri saggi dell'Antica Grecia e della Roma imperiale si lamentavano del sovraffollamento: l'Europa contava in quel periodo pochi milioni di abitanti. E sembrerà strano a molti sapere che la prima commissione di tutela dell'ambiente contro l'inquinamento è nata in Inghilterra nel 1285. È però solo con Malthus (siamo nel tardo ‘700, quando questo Pensatore pubblica il suo Saggio sulla popolazione) che la problematica demografica assume una connotazione sistematica. Le sue teorie (smentite sia dai fatti che da numerosi studi) ancora oggi hanno una forte presa, e possono essere riassunte grossomodo così: la popolazione cresce con un ritmo molto maggiore rispetto alla crescita della disponibilità delle risorse.
L'idea è semplice: se da un campo di grano, ad esempio, si possono ottenere al massimo 100 tonnellate di farina, questo è il massimo che si può chiedere a quell'appezzamento. Ora, se con 100 tonnellate di farina si sfamano 1.000 persone (i numeri sono veramente casuali), questo è il numero massimo di persone che potranno gravitare attorno a quel campo. Spostiamo il ragionamento da un campo all'intero ecosistema ed il gioco è fatto: se l'ecosistema può produrre 100 e con questo ci si sfama 1.000, allora oltre questo limite di popolazione non si può andare. Ovviamente i calcoli sono complessi, perché la Terra è estremamente differenziata, facendo così aumentare il numero delle variabili in gioco ed in questo processo di computo non si può non tener conto della questione ambientale: ci va una attenzione particolare ad uno sfruttamento sostenibile (questa è la parolina "magica") del suolo e delle risorse, così da poter ottenere il giusto e rispettare l'ambiente.
Ora, a costo di voler sembrare controcorrente, mi permetto di far notare alcune incongruenze. Innanzitutto non è detto che da quell'appezzamento di terreno si possa sempre e solo ottenere 100. Non sono un esperto in materia, ma ritengo che le coltivazioni odierne abbiano una resa molto maggiore di quelle medievali ed infinitamente superiore rispetto a quelle dell'Uomo di Neanderthal. Attraverso ibridazioni (che avvengano sul terreno o in un laboratorio poco conta: sono sempre geni di una specie che vanno a finire all'interno di un'altra razza) e continue migliorie l'uomo è infatti riuscito ad ottenere colture con basso scarto e con necessità di irrigazioni sempre minori. Dobbiamo comunque ritenere che, pur arrivando magari a 1.000 o 2.000, ad un certo punto si toccherà il limite massimo teorico di produzione di quel determinato appezzamento. Ma, uscendo dall'esempio del terreno: è proprio necessario basarsi sempre sulla stessa risorsa? Non è ipotizzabile cambiare risorse e risolvere così il problema (quasi) alla radice? Faccio un esempio molto banale: duecento anni fa con la sabbia, al massimo, ci si costruiva un muro o una bella casa o un castello. Oggi con la stessa sabbia, opportunamente trattata, ci si producono i microchip ed altri componenti elettronici che permettono a me di scrivere queste parole e a voi di leggerle. Ad essere precisi il computer è composto anche di plastica, un derivato del petrolio, altro elemento che fino a qualche secolo fa era ritenuto di scarto...
c. Evoluzionismo ed evoluzionismo sociale. Punto cardine dell'evoluzionismo è che tutte le specie viventi derivano da uno stesso progenitore (alcune scuole, però, ammettono l'esistenza di più progenitori: la cosa non cambia di molto per il nostro discorso). A forza di "prove ed errori", da questo unico essere si sono evoluti (cioè diretti verso una forma più perfetta) tutti gli esseri che oggi popolano la Terra e che, sempre attraverso questo processo di mutazione casuale, popoleranno la Terra del futuro. In pratica una caratteristica morfologica che si sia prodotta casualmente in un esemplare e che risulti particolarmente idonea per la sopravvivenza dello stesso verrà passata alle generazioni successive per il fatto che il soggetto "mutato" avrà maggiori possibilità di sopravvivere (e dunque di procreare) rispetto agli altri.
I due fattori chiave di questo processo sono evidentemente i grandi numeri ed il tempo. Grandi numeri perché, evidentemente, il caso non ha, per definizione, un progetto: produce mutazioni in maniera del tutto random. E non è sempre detto che una mutazione sia, solo perché è una mutazione, vincente: quante giraffe con le gambe lunghe ed il collo corto e quante con le gambe corte ed il collo lungo sono dovute nascere per ottenerne una con le gambe ed il collo entrambi lunghi? Ma ancor di più: quanti "protopesci" sono dovuti estinguersi per poter ottenere una mutazione tale da dotare il nuovo individuo di polmoni anziché di branchie? Ecco, dunque, che oltre ai grandi numeri è necessario un grande tempo: le mutazioni non sono istantanee e, se va bene, si producono da una generazione all'altra. Realisticamente, però, sono necessarie parecchie generazioni perché una mutazione (che ricordiamo è casuale) diventi sufficientemente "stabile" perché possa aversi in tutte le generazioni future (i genetisti chiamano queste caratteristiche "dominanti"). Insomma: per passare da un essere unicellulare ad un uomo (o, se vogliamo, ad un delfino, ad un bonobo, ad una gallina...) sono dovute intervenire tante e tali modificazioni vincenti (e, ancora una volta: casuali) da richiedere miliardi di "vittime" e miliardi di anni.
Alcuni studiosi (relata refero: non entro nel dibattito) hanno calcolato che non sarebbero nemmeno sufficienti gli anni di vita della nostra Terra. Quali sono le conseguenze di questo processo per il nostro discorso? A livello antropologico se l'uomo discende dalle scimmie, si deve riconoscere che tra gli esseri "inferiori" (un termine oggi politicamente scorretto) e l'uomo non vi è salto, non vi è sostanziale differenza. Ma vi è di più: se discendiamo dalle scimmie perché non dovrebbe essere valida anche per noi la "morale" delle scimmie (e qui, allora si scopre che molte specie animali hanno comportamenti omosessuali, sono poligame, infanticide, che uccidono o abbandonano gli esemplari più deboli o anziani...)? O, ancora più radicalmente: se tutto è in evoluzione, perché anche il concetto di "bene" e di "male" non dovrebbero essere in evoluzione e, dunque, frutto di evoluzione essi stessi? E qui si scopre come gli "antichi" fossero a favore di questa o quell'altra pratica (dall'aborto all'omosessualità) mentre noi oggi ne siamo contro.
Insomma: l'evoluzionismo "pialla" l'uomo al livello delle altre specie viventi dal punto di vista biologico ed antropologico, mentre la sua variante "sociale" lo "pialla" dal punto di vista della trascendenza. Ora, ogni tentativo di negare la dimensione trascendente dell'uomo è storicamente fallito: la natura umana è fatta per il trascendente, ha una naturale "sete" di infinito. I filosofi hanno descritto questo status di dipendenza dall'Assoluto, Cristo ha svelato questa sete e si è proposto come acqua viva.
*Docente della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
[La seconda parte dell'articolo verrà pubblicata domenica 5 aprile]


Eugenetica ed aborto (II) - di Leonardo M. Macrobio*
ROMA, domenica, 5 aprile 2009 (ZENIT.org).- L’eugenetica, nella storia recente, ha assunto il volto di Hitler e dei campi di sterminio, ed è dunque normale che qualsiasi medico non tolleri che un suo atto sia descritto come eugenetico. Ma tant’è: dal momento in cui io stabilisco a priori delle caratteristiche indesiderabili ed opero in modo da eliminare i portatori di queste caratteristiche o fare in modo che i portatori (eventualmente sani) non abbiano figli, sto compiendo un atto in perfetta linea con la definizione galtoniana di eugenetica.
Personalità di spicco come il dott. Carlo Bellieni hanno parlato di handifobia, neologismo che indica la paura dell’handicap(pato), di ciò che non può essere controllato, dominato, calcolato. Padre John Flynn, LC, ha parlato di “screening estetico” per indicare la (maniacale) ricerca della perfezione del nascituro eliminando chi perfetto non è. La strada che troppo spesso viene intrapresa, dunque, è quella della selezione eugenetica piuttosto che quella, più faticosa ma anche più arricchente, della ricerca delle cause (e possibilmente di cure) per determinate patologie.
Le considerazioni da fare sono almeno tre: una sulla effettiva validità di un “elenco” di caratteristiche (in)desiderabili, una seconda sull’eliminazione dei “non-adatti”, una terza sul numero degli aborti.
Un atlante di patologia medica?
I problemi che si pongono nello stilare un simile elenco sono almeno due: chi lo può/deve fare e quale sia la sua eventuale validità. Chi è in grado di stilare un ipotetico elenco di caratteristiche (in)desiderabili? Se è la scienza si rischia di cadere nel quadro scientista che abbiamo definito poco sopra. Ma anche quando non fosse questo il caso: è lecito chiedere alla medicina di accollarsi questo tipo di responsabilità? Potremmo, allora, ipotizzare che sia la società a definire delle “linee guida” di una corretta “qualità di vita”, e concretamente gli organi di governo di uno Stato o quelli sovrannazionali. Al di là di ogni tipo di sopruso (governi totalitari oppure la “tirannide della democrazia”, per cui comanda a tutti gli effetti chi ha almeno un voto in più degli altri), non si rischia di cadere in una mentalità di “Stato etico” per cui a decidere il bene o il male è un Parlamento?
Quale, poi, la possibile validità nel tempo di un siffatto elenco? Patologie che cent’anni fa erano altamente mortali oggi sono totalmente debellate o quantomeno sono curabili o gestibili. Dobbiamo dunque prevedere una revisione costante di questo elenco: ma a che ritmi? Ma vi è un’ulteriore obiezione, molto più radicale: stabilito, ad esempio, che la spina bifida sia una patologia sufficientemente invalidante da giustificare un eventuale ricorso all’aborto, chi mai finanzierà nuove ricerche per sconfiggere questa malattia?
L’eliminazione dei non-adatti
Arriviamo, dunque, al nocciolo delle nostre considerazioni. Vi sono, in questo momento storico, pressioni notevoli affinché i “non-adatti” (cioè i portatori di caratteristiche non desiderabili) siano eliminati. Come abbiamo notato è un errore innanzitutto epistemologico: si fa cioè coincidere il malato con la malattia e per debellare questa si elimina quello. E questo è il primo fattore di pressione. Vi sono poi fattori di tipo economico (o meglio, di allocazione delle risorse sanitarie): il costo di un aborto è certamente minore rispetto all’assistenza (a volte realmente complessa) di un bambino con determinate patologie. Ma anche fattori “sociali”: il nucleo famigliare si è estremamente modificato nel corso degli ultimi decenni. L’esito (sancito anche dalla Legge 194/78: il padre non è necessariamente coinvolto nella scelta abortiva) è che la famiglia (o, peggio, la donna) si trova da sola a dover portare il peso di una gravidanza problematica. È evidentemente molto più pesante l’ipotesi di doversi sobbarcare totalmente il peso di un bambino Down piuttosto che non il poter condividere questa responsabilità con amici e parenti in maniera fattiva.
Questi (ed altri) fattori sono evidentemente estrinseci rispetto alla decisione della donna di ricorrere all’aborto, ma non per questo sono ininfluenti. Anzi: è evidente che la volontà della madre verrà condizionata già a partire dal modo con cui il medico prospetterà la diagnosi (ricordiamolo: a volte può anche essere sbagliata…) alla madre. Se a questo si aggiungono i fattori che abbiamo descritto poco sopra, ci si può lecitamente interrogare sulla veridicità del consenso che la madre fornisce all’atto abortivo.
Dati e considerazioni finali
Fonti ufficiali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità parlano di circa 40 milioni di aborti all’anno, mentre altre fonti arrivano ad ipotizzarne 60 o 80 milioni. In Italia dal maggio 1978 al 2005 (ultimi dati ufficiali) ci sono stati 4.623.886 aborti, una media di più di 171.000 all’anno. Se è vero che, in termini assoluti, il numero di aborti è diminuito (il “picco” degli anni 1982 e 1983 di 235.000 aborti all’anno è sceso fino a 135.000), è altrettanto vero che, contestualmente, sono diminuite le nascite. Prendendo in mano gli annuari ISTAT e facendo un po’ di calcoli si nota come il rapporto tra aborti e nascite sia grossomodo costante, attestandosi a circa un aborto ogni 4 nati.
Se ci si spinge un po’ oltre, si possono fare alcune considerazioni di carattere sociale. Innanzitutto: la legge 194/78 è in vigore da quasi trent’anni. Sebbene l’età media del primo figlio si sia innalzata parecchio in questo periodo, è lecito ritenere che di questi quattro milioni e mezzo di non-nati una parte oggi sarebbero mamme e papà. Siamo, se mi si passa l’espressione, alla seconda generazione di non-nati. E allora nasce spontanea la domanda: quale sarebbe il volto dell’Italia con 65 milioni di abitanti invece che i 60 attuali? I “catastrofisti” rispondano pure che ci sarebbero ancora meno posti di lavoro, che si starebbe ancora più stretti, che le spese sanitarie sarebbero alle stelle e così via. Chi la pensa così ritiene che un essere umano, una persona, non sia una ricchezza ma un costo, non sia un bene ma un male, non sia un sollievo ma un peso. Io ritengo che cinque milioni di esseri umani un più, oltre ad essere una ricchezza insostituibile di per sé, siano un ottimo volano per molti comparti della vita pubblica.
La scuola, ad esempio, forse non dovrebbe più fronteggiare il problema dell’esubero degli insegnanti, perché ci sarebbero mediamente 170 mila alunni all’anno in più. Il mondo del lavoro, poi, potrebbe avere un altro beneficio sia dall’arrivo di nuove forze (ricordiamo che il sistema previdenziale italiano si basa sui contributi pagati dal lavoratore attivo…) sia, più banalmente, dalla presenza di nuovi consumatori. Certo, non sarebbero solo rose e fiori: ma questo è il rischio che l’umanità (anzi, ogni genitore) ha corso dal suo inizio, da quando ha iniziato il suo cammino nella storia e che sempre continuerà a correre finchè deciderà di mettere al mondo un figlio. In questo la posizione cristiana si rivela, ancora una volta, la più realista. Il fatto che ogni figlio (sia esso sano piuttosto che malato) sia considerato come dono di Dio ricorda al genitore che quel figlio non è suo: non può disporne come meglio crede anche se, nei fatti, ciò è “tecnicamente” possibile.
Questa indisponibilità radicale, che fa da contraltare alla assoluta debolezza del bambino, è la radice della responsabilità dell’essere genitore: non vi possono essere caratteristiche fisiche e/o psichiche che spostino di un solo millimetro questo stato di cose stabilito dalla natura o, più semplicemente, da Dio.
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*Leonardo M. Macrobio insegna alla Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum


PMI/ Vittadini: perché a chi cerca il profitto viene proposta la rendita? - Giorgio Vittadini - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Un imprenditore edile va alla sua banca e chiede un finanziamento per avviare un nuovo progetto immobiliare. Il direttore di banca, che pur ha goduto per anni della prosperità della ditta, gli domanda come mai voglia rischiare di costruire invece di vendere il terreno. Alla risposta che lui non vuole solo massimizzare gli utili, ma lavorare e far lavorare i suoi operai perché vede l’utilità di ciò che fa, il direttore gli risponde che, pur essendo i parametri economici a posto lui non lo finanzierà e gli consiglia di rassegnarsi a vendere il terreno.
Un imprenditore che negli anni scorsi ha potuto spostare sul conto di famiglia consistenti utili di impresa, decide di reinvestire questi utili in azienda, convinto che con queste risorse finanziarie riuscirà ad affrontare il momento di crisi senza pesanti ristrutturazioni. Viene preso pressoché per matto dai suoi consulenti aziendali e da altri suoi amici imprenditori.
Un altro imprenditore concorda con i suoi dipendenti una riduzione dell’orario di lavoro e dello stipendio in modo da poter continuare a far lavorare tutti. Non vuole seguire l’esempio di suoi amici che stanno chiedendo la cassa integrazione o stanno approfittando della crisi per ristrutturare l’azienda. Viene assalito dalla rappresentanza sindacale di zona che lo accusa di corporativismo perché si è permesso di stringere accordi diretti con i dipendenti e gli chiede invece di attuare una cassa integrazione a zero ore.
Un altro imprenditore, avendo un’impresa ancora vitale, resiste alla tentazione di venderla a investitori stranieri particolarmente attratti in questo momento di crisi: si trova a doversi giustificare con molti suoi amici di un analogo milieu imprenditoriale che gli chiedono perché si è perso l’occasione di vivere una vita finalmente tranquilla.
Cosa ci insegnano questi e molti altri esempi analoghi che si possono riscontrare nell’attuale situazione economica?
Che la tendenza degli ultimi anni a ridurre il nesso tra guadagno finanziario ed economia reale ha portato a confondere il profitto con la rendita parassitaria.
Sembra, ad alcuni, che resistere alla bufera cercando nuovi mercati, nuovi clienti, nuovi prodotti non abbia più alcuna convenienza e quindi valore.
Senza scomodare scenari economici globali è ormai evidente che l’idea del profitto-rendita come unica o prevalente bussola dell’agire economico ha ormai fatto il suo tempo. Una visione ideale, una gratuità intesa come amore all’uomo e al ben comune, non possono essere confinati al commercio equo e solidale, alla responsabilità sociale di impresa o al microcredito di Yunus. Sono il pilastro portante di una ripresa economica in cui lavorare, investire, finanziare, scommettere sulla stabilità dell’attività economica di lungo periodo non è uguale a guadagnare speculando. Senza questa rivoluzione educativa – in cui tornare a sperimentare la convenienza, anzitutto umana, del lavoro come capacità di cambiare in meglio la realtà intorno a sé - non ci sarà nessun pur necessario intervento economico a salvarci dal declino. E forse, tra le nuove regole, non ne guasterebbe qualcuna che premi questi atteggiamenti virtuosi come detassare gli utili reinvestiti o eliminare l’Irap.
Pubblicato su Il Riformista del 4 Aprile 2009


L’Europa contro i totalitarismi - Mario Mauro - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Quella che ci lasciamo alle spalle è una settimana importante per Bruxelles. Il Parlamento europeo ha approvato mercoledì scorso la Risoluzione su coscienza europea e totalitarismi. Su mia proposta e di altri 10 deputati del Gruppo del Partito Popolare europeo, l'Europa arriva finalmente a riconoscere il totalitarismo comunista come parte integrante e terribile della storia comune d’Europa e chiede che la responsabilità per i suoi crimini sia accettata a livello europeo, così come da decenni si agisce per i crimini del nazismo e del fascismo.
Il Parlamento europeo è preoccupato per il fatto che la disintegrazione dei regimi comunisti totalitari in Europa non è stata seguita in tutti i casi da un’inchiesta internazionale sui reati commessi dai regimi stessi ed esorta tutti gli Stati post-comunisti a effettuare una valutazione morale e politica del loro passato recente e a fornire le risorse necessarie per la ricerca scientifica e l'accertamento dei fatti.
In dettaglio la risoluzione condanna i crimini commessi da tutti regimi totalitari, il Parlamento sottolinea il successo dell'integrazione europea e l'esigenza di evidenziarne le conquiste, anche con una visione comune della Storia. Chiedendo di mantenere vive le memorie del passato, sollecitando l'apertura completa degli archivi segreti, specie in Russia, auspica poi la proclamazione di una "Giornata europea del ricordo" delle vittime del totalitarismo.
Occorre sottolineare che la mancanza di un’autorevole valutazione morale e politica di questi crimini, in quanto potenziale fonte di frustrazione, cinismo e alienazione sociale per milioni di cittadini, deve essere vista come un notevole ostacolo alla formazione di solide società civili nei paesi post-comunisti e come un fattore che sta rallentando il ritmo di integrazione europea.
Tuttora, la situazione politica in Russia non è chiara. Il Parlamento ha rimarcato più volte come le ultime elezioni parlamentari e presidenziali avvenute in Russia si siano svolte «in condizioni nettamente inferiori agli standard europei», quanto all'accesso degli osservatori internazionali, alla capacità dei partiti dell’opposizione di schierare i candidati, all’equità e indipendenza dei media.
È stato osservato anche che la persistente incarcerazione dei prigionieri politici, il trattamento riservato ai difensori dei diritti umani e l'adozione di misure che erodono la libertà di espressione, «sono in contrasto con l'impegno (della Russia) a rafforzare lo Stato di diritto. Inoltre, la mancanza d'indipendenza della magistratura, la negazione del giusto processo a imputati coinvolti in cause politiche controverse, l'impunità nei confronti di chi perpetra azioni criminose, pongono seri dubbi sul sistema di giustizia ai deputati che, al riguardo, ricordano l'impegno assunto pubblicamente dal presidente Medvedev a rafforzare lo Stato di diritto in Russia.
Nei giorni scorsi è scoppiato il caso che riguarda il film Katyn del regista polacco Andrzej Wajda, uscito in Italia in sole 12 copie. La pellicola vuole mettere in luce e chiarire la storia dell’eccidio degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale e a lungo attribuito ai nazisti tedeschi. Nessuno ha interesse a che il film sia proiettato, anzi si fa di tutto per acquistarne i diritti ed evitare così la diffusione dei contenuti e delle immagini. È significativo il fatto che, dopo oltre sessant’anni dall’atroce episodio, non solo manchi la volontà di ricostruire le responsabilità, ma anche si manifesti l’oscuro tentativo di celare i crimini del comunismo e le verità della storia.


Quella strana pasticceria dove le colombe volano oltre le sbarre - Redazione - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Un testimonial di eccezione, il mitico Albert Adrià, titolare con il fratello Ferran di El Bulli, il ristorante più famoso del mondo, per un’iniziativa sociale della pasticceria più strana d’Italia.
Siamo nel carcere penale di Padova, dove i detenuti sfornano a ripetizione panettoni e colombe. Una pasticceria sociale già di suo. Eppure qui il 27 marzo è stata presentata con lo slogan “La carità aiuta la carità, il sociale aiuta il sociale” un’idea che rende ancora più non profit il laboratorio artigianale dietro le sbarre. Chi acquisterà infatti le pregiate colombe pasquali dal sito www.idolcidigiotto.it potrà infatti devolvere un euro alla Fondazione Banco alimentare e alla sede padovana dell’Ail, Associazione italiana per la lotta contro le leucemie. Quanto al testimonial, ci si aspettava una primadonna, una star dei fornelli. In fondo è lui l’uomo delle meringhe effervescenti, delle gelatine calde, del caviale vegetale, delle olive verdi sferiche.
Invece Albert, il centravanti della pasticceria spagnola e forse mondiale, ha stupito tutti, giocando in contropiede. In carcere c’è rimasto oltre due ore, provenendo dalla Spagna con una tappa intermedia (per modo di dire) ad Hong Kong. E si è messo letteralmente in gioco con un’umiltà che ha stupito tutti. Ha impastato, decorato, spolverizzato di zucchero a velo le colombe artigianali realizzate dai detenuti assunti dal consorzio Rebus. Ha presenziato con molta attenzione al lancio della campagna sociale a favore di Ail e Banco Alimentare. E infine, quando ha parlato, lo ha fatto in punta di piedi, definendo la sua avventura in carcere «una delle sorprese che ti serba la vita».
«Come il fatto che oggi sono considerato un grande chef, è una cosa che mi sorprende, per la stessa cosa sono meravigliato di essere qua, sono contentissimo di essere qui oggi. Sono meravigliato di essere qui. Questa esperienza mi ha colpito profondamente, la società ha bisogno di realtà come questa. Spero di collaborare attivamente a questo progetto».
Ecco le altre dichiarazioni del pasticcere spagnolo rese alle telecamere che lo assediavano.
«Non sono una persona di parola facile, chiedo scusa, il mio mestiere è fare il cuoco. Io stesso sono un messaggio di speranza. Sono cresciuto in un paesino molto umile, da una famiglia umile, dove la delinquenza era un modo per andare avanti. Io ero un bravo ragazzo e mi sono sempre comportato bene, ma non avevo nessuna prospettiva. A quindici anni, quando ho avuto la possibilità di imparare un mestiere, questo mestiere mi ha permesso di formarmi come persona e di arrivare dove sono arrivato oggi. Tutto grazie alla pasticceria. L’unica cosa che posso dire è che non sono nessuno per dare consigli. Posso solo ringraziare enormemente della possibilità di visitare il carcere».
Qual è stato il suo percorso culinario?
«Grazie alla cucina moderna la Spagna è conosciuta in tutto il mondo. Adesso vogliamo far conoscere la nostra cucina tradizionale. Quando ho cominciato nel 1985, io ero conosciuto solo in Spagna. Adesso la cucina spagnola è famosa in tutto il mondo fino in Cina. Ora il mio futuro è far conoscere la cucina tradizionale come le tapas, perché per me mangiare dev’essere divertente come la vita e la tapas sono il modo più divertente di mangiare. Il mio intento è quindi di ritornare alla tradizione nella maniera più rigorosa, più pura: per esempio, se devi fare la salsa spagnola tradizionale, la devi fare “grossa”, senza raffinarla, senza usare tecniche moderne. Quello che sto facendo adesso è leggere e mangiare, per conoscere e imparare la tradizione bisogna leggere e mangiare molto».
Quello che ha visto in carcere è un esempio del fatto che qualità e il sociale possono andare insieme?
«Per me è soprattutto un esempio di intelligenza. Occorre rendersi conto di possedere delle qualità per fare qualcosa e dire “allora lo faccio”. E poi è un esempio di valori: potenziamento della tradizione, saper fare trattative, ordini, vendite, c’è dentro tutto».
Visitando il carcere ha ritrovato qualcosa che le ha fatto ripensare alla sua storia?
«Sicuramente, ho ripensato a quando avevo quindici anni e non avevo futuro. Grazie alla ristorazione e alla pasticceria mi sono formato nella professione come persona e come uomo, io devo tutto al mio lavoro».
Si può dire che il cibo aiuta a stare meglio sia nell’anima che nel corpo?
«Soprattutto per un italiano. Sicuramente per un latino il cibo non è solo un fattore organico, ma anche emozionale».
La prima emozione che ha provato entrando qui?
«Sono uno a cui piace riflettere, preferisco tornare a casa e analizzare bene tutto quello che ho visto, ho visto moltissime cose, cose che non potevo neanche immaginare, qui si sta facendo un lavoro sociale incredibile. Questo luogo non sembra assolutamente un carcere, i risultati di questa realtà sociale si vedono e deve essere appoggiata».
Ha raccontato la sua storia, una storia che comincia da lontano, che parte da una condizione umile...
«Si, io e mio fratello Ferran veniamo da una famiglia molto umile, abbiamo vissuto in un contesto dove non si può essere sicuri del proprio futuro, siamo cresciuti in un quartiere di Barcellona dove la vita era tutto tranne che facile. Ciò che ci ha permesso di venir fuori, e diventare tutto quello che siamo e che la gente conosce, è stato il lavoro a cui devo tutto, la mia crescita come professionista, come persona, come uomo».
E adesso a cosa sta pensando? Ha in mente qualcosa di nuovo?
«Adesso? Penso solo di approfittare del tempo che mi è dato di stare qui a Padova, domani a Venezia… e così giorno per giorno. adoro vivere giorno per giorno. Non so se c’è inferno e paradiso. Non so se ci sono date da vivere due vite. Io cerco di vivere questa vita meglio che posso!»
Lei è un pasticciere famoso…
«No, no. Io non sono famoso nel 95% del tempo, molto più spesso sono un professionista che si trova ogni volta di fronte a clienti che gli chiedono di provare una sensazione nuova».
Le sembra fatta bene questa colomba?
«Sicuramente. Io 3 o 4 anni fa mi ero cimentato a fare il panettone e mi è sembrato così difficile da non riuscirci, è la verità. Tra tutte le lavorazioni artigianali della tradizione questa è la più difficile del mondo».
Insomma con la sua modestia e la sua classe nel carcere italiano il centravanti degli chef spagnoli ha fatto gol. Ma Spagna-Italia, stando alle sue dichiarazioni, finirà 1-1, se è vero che i dolci di Giotto sono attesi da una trasferta iberica impegnativa ma che promette molte soddisfazioni...