lunedì 20 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Don Luigi Giussani nelle parole di don Massimo Camisasca
2) L`Adige 14 Aprile 2009 - di Domenico Delle Foglie - IN ABRUZZO UNA CHIESA DI POPOLO
3) Il metodo di Benedetto XVI - Mons. Massimo Camisasca - lunedì 20 aprile 2009 – ilsussidiario.net
4) PAPA/ 2. Un uomo scomodo capace di parlare dal megafono dei suoi nemici - John Waters - lunedì 20 aprile 2009 – ilsussidiario.net
5) PAPA/ 3. Quando è Pietro a salvare la ragione... - Massimo Serretti - lunedì 20 aprile 2009 – ilsussidiario.net


Don Luigi Giussani nelle parole di don Massimo Camisasca
ROMA, lunedì, 20 aprile 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’intervista a don Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, pubblicata sul decimo numero della rivista "Paulus" (aprile 2009), dedicato al tema “Paolo educatore alla libertà”.
* * *
«L’educazione è l’introduzione alla realtà totale». Basterebbe questa sola citazione di don Luigi Giussani per intuire che il suo nome dovrà figurare tra i grandi della pedagogia. Anche se il termine “pedagogo” appare molto riduttivo: Benedetto XVI ha definito l’educatore come «testimone della verità e del bene» (Lettera sul compito urgente dell’educazione). Una distinzione, questa, molto cara anche a san Paolo. Abbiamo chiesto a don Massimo Camisasca – amico di don Giussani, autore di una sua importante biografia e della trilogia dedicata alla storia di Comunione e Liberazione – di raccontarci il rapporto tra l’Apostolo e l’educatore.
«Comunione» e «libertà» sono due termini chiave nell’epistolario paolino. San Paolo occupa un posto particolare nella riflessione e nell’esperienza di don Giussani?
«Penso che, assieme a san Giovanni, san Paolo sia l’autore di tutto il Nuovo Testamento più citato da don Giussani. Non è un caso. Da san Giovanni Giussani traeva la penetrazione del mistero dell’incarnazione; da san Paolo l’identità del cristiano come persona resa nuova dall’immersione nell’evento di grazia della morte e resurrezione di Gesù. Quando si avranno a disposizione le ricorrenze bibliche dell’intera opera di Giussani certamente un posto particolare occuperà la Lettera ai Galati: “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)... “Ciò che conta è l’essere nuova creatura” (Gal 6,15)... “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20). Giussani ha commentato tutto san Paolo, ma questi temi che ho citato sono stati quelli centrali della sua predicazione, soprattutto durante gli anni ’70 e ’80, quando l’ontologia cristiana sembrava dissolversi in un’azione per gli altri che aveva perso le proprie radici. Per questo, giustamente, il nome che il movimento prenderà, dal 1969 in poi, è un’endiadi di due parole paoline. La comunione, affermata come la vera strada per la salvezza dell’uomo, dono di Dio agli uomini, è proprio quell’essere uno in Gesù Cristo di cui parla Paolo. E la liberazione, termine nuovo con cui esprimere la parola salvezza, rivela l’attualità dell’umanesimo cristiano. Come ai tempi di Paolo, anche oggi la libertà è l’esperienza più attesa e interessante per l’uomo».
San Paolo dimostra la ragionevolezza della fede e la necessità di aprirsi all’Altro. Nei tre volumi del PerCorso trovo citati per ben 3 volte questi testi paolini: il discorso all’Areopago e Romani 7,24 («Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»).
«L’insegnamento e l’opera educativa di Giussani sono tesi a mostrare che la fede è il vertice della conoscenza. Certo, un vertice che è dono di Dio all’uomo, ma che non smentisce in nulla le esigenze della ragione. Le compie soltanto. Anzi, la fede è un rapporto fiduciale con un testimone che mi comunica qualcosa o qualcuno che conosco attraverso di lui. Un testimone a cui debbo fiducia, perché so che non sbaglia e non vuole mentirmi. è l’itinerario della nostra stessa vita quotidiana a essere permeato da questa dinamica. Ecco il cuore dell’insegnamento di Giussani sul senso religioso, sulla moralità nei rapporti umani, sull’educazione che Dio ha operato nel suo popolo d’Israele, e infine su quella che Gesù ha vissuto presso gli apostoli e i discepoli, e più in generale verso coloro che incontrava. È ancora oggi l’educazione di cui la Chiesa si sente responsabile verso gli uomini del nostro tempo. Ripercorrendo e commentando l’episodio del discorso di Paolo all’Areopago, Giussani aveva modo, già durante le lezioni ai liceali del Berchet che ho potuto ascoltare nella mia giovinezza, di mostrare in Paolo i fili di questa pedagogia: “Ciò che voi attendete, anche senza saperlo, io l’ho visto, l’ho incontrato. E voglio testimoniarlo”».
Paolo aggiunge che la ragione – senza la fede – può smarrire se stessa. Ne Il senso religioso, Giussani riprende Rm 1,22-31 dove si afferma che la ragione o giunge naturalmente alla conoscenza di Dio, o si chiude nei «vani ragionamenti» delle idolatrie... ovvero delle ideologie.
«Nel primo capitolo della Lettera ai Romani san Paolo denuncia il pervertimento della ragione andando ben al di là di un’accusa al mondo pagano di allora. Non è un caso che Giussani si appoggiasse proprio a quel testo per mostrare i possibili rischi della ragione che perde il senso del proprio limite e così anche della propria grandezza. La ragione che vaneggia nei suoi ragionamenti, che rifiuta di riconoscere Dio, che non sa più stupirsi di fronte alle sue perfezioni, di fronte alla perfezione delle opere da lui compiute. È ciò di cui parla san Paolo ai cristiani di allora, ma è anche la lettura che Giussani fa della crisi della ragione nell’epoca moderna. C’è una straordinaria continuità tra il discorso giussaniano sulla ragione e quello condotto da Benedetto XVI in questi primi anni del suo pontificato».
San Paolo, uomo sempre aperto al Mistero di una realtà inesauribile, ci sorprende con un’affermazione attualissima: «Se qualcuno crede di conoscere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere» (1Cor 8,2).
«Ciò che Paolo vuole colpire è la superbia degli intellettuali. Di coloro cioè che ritengono la conoscenza superiore a ogni carità. Mentre, all’opposto, è soltanto l’amore che conosce. C’è un filone molto importante, anzi decisivo, per comprendere l’animo e il pensiero di don Giussani.
Ed è quello della conoscenza affettiva. Per lui veramente solo l’amore conosce. Da ragazzi ci ricordava questa espressione di sant’Agostino: nemo cognoscitur nisi per amicitiam, nessuno è conosciuto se non attraverso l’amicizia. È l’ipotesi positiva con cui guardare alla vita che abbiamo visto in lui, con cui guardare agli uomini, soprattutto a quelli nuovi, sconosciuti, attraverso cui la novità entra nella nostra esistenza, quel nuovo orizzonte che sa parlarci di Dio. Non dobbiamo dimenticare la definizione di cultura che ha dato don Giussani, tratta proprio da san Paolo: “Vagliate ogni cosa, trattenete il valore” (cfr. 1Ts 5,21)... così lui amava tradurre».
In Filippesi 4,8 Paolo invita a considerare ciò che è «vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato...». Qual è stata la novità pedagogica di don Giussani nel parlare all’uomo contemporaneo?
«L’atmosfera giussaniana è molto vicina a questo versetto della Lettera ai Filippesi, come anche di quelli che lo precedono. Si parla di “gioia nel Signore”, determinata dalla certezza della sua presenza. E non è un caso che Giussani abbia commentato più volte questi testi, proprio nell’imminenza del Natale. In particolare il versetto 8 indica l’apertura dell’animo di Paolo, dell’animo cristiano. Il cristianesimo non è una rinuncia, è un’affermazione. San Paolo – che pure dirà “considero tutto spazzatura di fronte a Cristo” – sa benissimo che quella frase è l’espressione di una positività di tutto, e non di un’esclusione. Proprio perché in Cristo c’è tutto e tutto trova il suo valore, si può rinunciare a ciò che non c’entra con lui. Giussani ha saputo parlare all’uomo contemporaneo innanzitutto perché gli ha mostrato che seguire Cristo è un atto vitale, in cui tutto ciò che è interessante per l’uomo trova la sua pienezza e la sua fioritura. La letteratura – soprattutto la poesia, la pittura, la musica, il cinema, il teatro... tutto l’umano insomma – era oggetto dell’attenzione e dell’interesse di don Giussani. Nulla sentiva estraneo al dialogo fra l’uomo e Cristo. E tutto era espressione dell’uomo che cerca o dell’uomo che infine ha trovato».
Proprio come Paolo, Giussani non è stato solo un “pedagogo” eccezionale, ma un vero “padre in Cristo”. Può darci una sua testimonianza personale?
«L’insegnamento e l’opera educativa sono stati inscindibilmente l’anima di tutta la vita di don Giussani. La sua scuola di religione, come amava dire, prima al Berchet e poi all’Università Cattolica, è stata certamente il fuoco di tutta la sua vita, il luogo da cui tutto è partito. Ma quel fuoco, quelle parole, dovevano poi scendere nell’animo e nella mente dei ragazzi, dovevano diventare giudizio, passione, costruzione. Da qui la sua tensione di educatore, che si sviluppava sia nel dialogo personale, sia – e soprattutto – nella creazione di luoghi umani in cui le persone potessero trovare quella compagnia quotidiana che fa sperimentare le parole nell’impatto con la vita di tutti i giorni. È nella comunità, infatti, che lo Spirito plasma la nostra persona, soprattutto attraverso la docilità a Dio, cioè la preghiera, attraverso la grazia dei sacramenti, attraverso la carità dei fratelli, attraverso la testimonianza di Cristo negli ambienti della vita dell’uomo. Sono rimasto talmente affascinato dall’opera di don Giussani come insegnante ed educatore che ho cercato di mettermi sulle sue tracce. Con lui ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Filosofia, dopo la terza liceo. Volevo allora diventare domenicano. Poi ho incominciato a insegnare nei licei e all’università. L’insegnamento nelle scuole è stata una delle passioni della mia vita, purtroppo vissuta solo in modo frammentario. Altre occupazioni, infatti, mi hanno allontanato dalla scuola. Ma, per fortuna, sono sempre state occupazioni legate all’educazione dei ragazzi. Così, anche quando non insegnavo a scuola, ero pur sempre un insegnante per coloro che sceglievano di partecipare alla mia stessa vita. In un libro recentemente pubblicato su don Giussani [Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, San Paolo 2009], che è una prima sintesi di tutto il suo pensiero, mi sono permesso di scrivere che l’educazione è la cifra riassuntiva dell’intera esistenza del sacerdote di Desio. E ho invitato a rileggere Il rischio educativo, un libro nato addirittura nel 1960, ma sempre attuale».
...e proprio nell’omonima conferenza del 1985, Giussani affermava che – per lui – la più bella frase della Bibbia è il motto paolino In spe contra spem, riferito alla sempre incerta risposta alla proposta educativa.
«Non è un caso che Giussani abbia intitolato quella raccolta di suoi scritti sull’educazione con un’espressione che coinvolge la parola “rischio”. L’animo battagliero di Giussani si è riconosciuto bene in questa frase di san Paolo: sperare contro ogni speranza, sperare cioè oltre l’apparente fallimento di ogni speranza umana. I francesi hanno due belle parole: espoir e esperance. Noi, in italiano, non abbiamo questa sfumatura. Don Giussani sapeva che il cammino dell’uomo è pieno di cadute, di ribellioni, di drammi, di rivolte, di sangue. Ma sapeva anche molto bene che Dio non viene meno nelle sue promesse. Per questo, allontanato dal suo movimento nel 1965, ha atteso pazientemente il momento e la possibilità di ritornarvi. Criticato da molti, ha visto infine l’abbraccio della Chiesa nel riconoscimento pontificio del 1982. Nel maggio 1998, ormai quasi impossibilitato a muoversi, in Piazza San Pietro a Roma si è inginocchiato davanti al Papa, nel momento conclusivo della sua vita pubblica, quando veniva riconosciuto non soltanto attraverso un decreto della Santa Sede, come 16 anni prima, ma sotto gli occhi di tutto il mondo. Don Giussani ha visto la crisi del proprio movimento, nel 1965-68, ma non ha dubitato che potesse continuare. “La nostra comunione – disse allora – inizia con un inizio che rimane per l’eternità. Dio, infatti, non fa le cose per togliere. L’unico vero delitto, dal punto di vista del comportamento storico, può essere l’impazienza”».
La Fraternità missionaria San Carlo da lei fondata a partire dal carisma di CL è oggi presente in 20 Paesi di quattro continenti. Si parla del problema delle vocazioni... ma lei, quando guarda negli occhi un giovane che dice il suo “Sì!”, cosa vede? cosa fa lasciare tutto per andare in capo al mondo?
«Il problema delle vocazioni è per me unicamente un problema dei responsabili delle comunità. Dio, infatti, chiama ed attrae sempre. Ma chiama attraverso gli uomini e quando gli uomini non sono più credibili il suo richiamo, la sua voce, giunge stentorea, e non affascinante. Per questo, di fronte al bene delle nostre comunità, siamo in campo soprattutto noi, i responsabili, la nostra fede e la nostra carità. Quando arriva un nuovo seminarista nel mio seminario, quando uno di loro conclude il suo itinerario e viene ordinato, quando mi dice “Sì” rispetto a una nuova destinazione missionaria, ciò che vedo è esattamente il mondo nel giorno della Creazione. Ogni sì è il primo sì, quando dal nulla assoluto tutto è uscito, quando nel dialogo misteriosissimo fra il Padre e il Figlio a un certo punto è scaturito l’universo, e in esso l’uomo, la natura, le cose. Penso poi al sì di Maria, che è lo spazio eterno e temporale di ogni sì. Ogni vocazione scaturisce e viene accompagnata permanentemente da quella obbedienza. Anch’io mi chiedo ogni volta, e mi sono chiesto soprattutto quando ho visto partire i primi missionari per la Siberia, e poi quelli per Taiwan: “Che cosa può permettere a un ragazzo di andare così lontano, e per sempre?”. Soltanto la scoperta che egli, in realtà, ha ottenuto una tale pienezza di vita e di doni da non perdere nulla. Da questo punto di vista la vita comune è un grande dono. Nella carità affettiva di una comunità come la nostra non sono eliminate le differenze, né le difficoltà, le tensioni o le liti, ma è assicurato un luogo in cui il cuore può trovare la propria pace. Chi va lontano scopre che questa è la modalità per essere vicino, perché ogni vicinanza è assicurata nel tempo soltanto dal sacrificio».
Paolo Pegoraro


L`Adige 14 Aprile 2009 - di Domenico Delle Foglie - IN ABRUZZO UNA CHIESA DI POPOLO
«È la volontà di Dio». «Ho pregato molto e ora sono viva. Sì, io sono cattolica». Così il Dio dei cristiani irrompe in prima serata e inonda il video senza che nessuno alzi il sopracciglio. Forse ci penserà al più presto il solito Michele Santoro con la sua compagnia di giro Ruotolo-Travaglio-Vauro, a dimostrare che l`Italia magari non è poi tanto cattolica e credente come appare e che in fondo sono (siamo) tutti un po` troppo disinvolti e magari incoerenti. E perché no? Grandi peccatori. E verrebbe da rispondere: sai che scoperta! Ma abbandoniamo la tentazione di fare polemiche - ché tanto ci pensano loro senza doverli sollecitare - e concentriamoci piuttosto su quanto abbiamo visto e ascoltato. Un dramma nazionale così sconvolgente come il terremoto in Abruzzo non impedisce, anzi favorisce che la condizione normale di vita dei singoli si manifesti per quella che è e tolga spazio a quella narrazione pubblica sempre più condizionata dai sondaggi e soprattutto da un cultura urbana e borghese che nulla sa e racconta dell`Italia dei mille borghi. Proprio quell`Italia duramente colpita dal sisma che morte e distruzione ha portato non solo alla civilissima L`Aquila, ma anche a decine di centri minori che sono stati quasi annientati. Molto ha certamente contribuito al lento superamento della fase emergenziale la capacità di dare un senso propriamente religioso agli avvenimenti anche più sconvolgenti. Non certo nella chiave del dolorismo per una sorta di espiazione dei peccati commessi, quanto nella costruzione e nell`elaborazione del lutto come fatto di popolo. È quanto è accaduto con sobrietà - e in qualche misura anche con pudore dei sentimenti - sulla grande piazza nella quale si sono svolti i funerali di Stato. Le parole del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, hanno ricompreso la sofferenza nella cornice della speranza cristiana. Ma le tante liturgie, il fiume ininterrotto dei segni di croce, le mille preghiere, i rosari, i canti intonati dagli scout, le veglie pasquali nelle tendopoli, la cappelletta in legno costruita a tempo di record, i sacerdoti e le suore sfollati come tutti, il vescovo senza casa, restituiscono l`immagine, e con essa la consapevolezza, che quella d`Abruzzo è una Chiesa di popolo. Che magari farà arricciare il naso a qualcuno, ma ha certamente il merito di rinsaldare ulteriormente l`unità di un popolo che ha sofferto insieme e che oggi deve ritrovare la forza di ricostruire insieme. E se il senso religioso, ovvero la capacità di dare una risposta adeguata alle domande essenziali sul significato della vita e della morte in una cornice antropologica salda qual è quella cristiana, contribuisce a rendere un popolo più forte e più consapevole, allora non ci sarà che da rallegrarsi. Se un paragone ci viene, in queste ore drammatiche, è allo sgomento e al disorientamento generale che tutti ci prese all`indomani della strage di Nassirya, che vide la morte di tanti nostri soldati in missione di pace in Iraq. Allora fu il cardinale Camillo Ruini, con quelle sue memorabili parole («Non fuggiremo davanti ai terroristi, anzi li fronteggeremo con tutto il coraggio, l`energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li odieremo») a dare un senso, anche civile, a quel terribile spargimento di sangue. Oggi, dinanzi alla sciagura abruzzese non abbiamo una sintesi così forte, ma abbiamo un pensiero diffuso che si raggruma attorno alla presenza dello Stato, alla percezione della solidarietà nazionale e a quel senso religioso che abbiamo evocato. E sappiamo, senza nutrire dubbi, che c`è un popolo solidale e fiero che ha radici profonde. C`è poi una parte di questo popolo che non ha paura di dirsi cristiano e di offrire il proprio orizzonte di speranza come strumento di precomprensione della tragedia subita e come pilastro valoriale per la ricostruzione. I laici e non credenti non devono aver paura di questi loro concittadini che sono mossi dalla speranza cristiana. Non c`è un`egemonia culturale, politica o religiosa da conquistare, c`è solo una terra da ricostruire insieme. Come, e se possibile meglio, che in Friuli, Irpinia, Umbria e Belice.


Il metodo di Benedetto XVI - Mons. Massimo Camisasca - lunedì 20 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Quattro anni fa come oggi, il cardinale Josef Ratzinger veniva eletto papa e assumeva il nome di Benedetto XVI. Quattro anni sono veramente troppo pochi per permettere un giudizio, sia pur sommario sull’alba di un pontificato. Il pensiero corre subito ai ventisette anni di regno di Giovanni Paolo II. Eppure non dobbiamo dimenticare che Josef Ratzinger ha già ottantadue anni, che egli è consapevole di questo, e che ha voluto imprimere perciò al suo pontificato un percorso ben preciso, sapendo di dover fare solo cose essenziali e molto incisive.
Egli non crede probabilmente che sia efficace spostare gli uomini da un incarico a un altro. Lo ha fatto, all’inizio del suo pontificato, ma poi si è come fermato. Preferisce il cambiamento interiore delle persone, come ha chiaramente richiesto nella sua sorprendente lettera all’episcopato cattolico. È convinto che Dio può tutto, anche cambiare il cuore degli ecclesiastici e aprirli a una considerazione più vera del bene della Chiesa e della loro stessa vita.
Quali sono le linee di questa concentrazione? Innanzitutto la sua attenzione principale si rivolge all’evento della liturgia. Uno degli ultimi libri pubblicati prima della sua ascesa al pontificato, Introduzione allo spirito della liturgia, se rivisitato oggi, può essere un’utile chiave di lettura di tutto il pontificato nel suo svolgimento compiuto fino ad ora. Non voglio qui riferirmi al motu proprio che riguarda la riabilitazione della messa di san Pio V, ma a qualcosa di ben più profondo, la concezione stessa che Ratzinger ha dell’evento liturgico come momento in cui si manifesta l’assoluta priorità dell’iniziativa di Dio nella vita dell’uomo, la sua grazia, la sua misericordia, e nello stesso tempo la sua capacità di intervenire nella storia, di dare forma all’esistenza, di ricompaginare, visibilmente e invisibilmente, i cammini del cosmo verso la loro ricapitolazione. Chi vuole capire qualcosa di questo pontificato deve leggere e rileggere con attenzione le omelie di Benedetto XVI, soprattutto quelle pronunciate in occasione dei tempi liturgici forti, l’Avvento e il Natale, la Quaresima e la Pasqua, la Pentecoste. Lo ha notato più volte Sandro Magister nei suoi interventi. In quei testi, Josef Ratzinger appare chiaramente come un nuovo Leone Magno, un nuovo Ambrogio, un nuovo Agostino, colui che sa trarre dall’itinerario liturgico una pedagogia esistenziale, rivelatrice di tutto il cammino dell’uomo verso Dio, e di Dio verso l’uomo.
Non manca, naturalmente, in queste sue omelie la profondità della storia della Chiesa, delle preghiere liturgiche antiche, soprattutto latine, a cui Ratzinger attinge a piene mani per mostrare la continuità di una tradizione e la sua efficacia. Ma anche i gesti liturgici, i tempi, gli spazi. Tutto è per lui rivelatore di una pedagogia del mondo rinnovato.
È come se Benedetto XVI avesse rinunciato a far dipendere il discernimento su cosa fare o non fare da una efficacia immediata. Sa che la crisi della Chiesa e nella Chiesa è profonda. Vuole seminare dunque in profondità.
Alla luce di queste considerazioni, si comprendono altre due iniziative che io collocherei allo stesso livello dell’attenzione per la liturgia. Sto parlando dell’anno paolino e dell’annunciato anno dedicato al sacerdozio. Attraverso l’anno paolino ancora in corso, Benedetto XVI ha voluto riandare alle radici della Chiesa e nello stesso tempo favorire un’esposizione assolutamente concentrata su Cristo della fede e della dottrina cristiana. Per Paolo esiste solo Cristo, e Cristo crocifisso e risorto. Egli non si è mai soffermato nelle sue lettere sull’infanzia di Gesù (ha tutto concentrato in tre parole: nato da donna), non ha parlato della vita a Nazareth, e neppure dei tre anni della comunità apostolica. Per Paolo, il Gesù che lo interessa è quello della passione, morte, e resurrezione, quello che è asceso al cielo e siede alla destra del Padre, il Figlio di Dio fatto carne. L’anno paolino ha permesso ai pastori sensibili e attenti di riproporre in modo vitale il cuore dell’esperienza cristiana. Allo stesso modo, e con la stessa radicalità, Benedetto XVI sa che il punto più grave della crisi della Chiesa ancor oggi è la vita sacerdotale. Scarseggiano i maestri, gli educatori, sono incerti gli insegnamenti impartiti in molte scuole di teologia, permane una crisi affettiva di molti sacerdoti, accentuata dalla solitudine e dal ripiegamento. Ma soprattutto in molti paesi, si assiste a una riduzione progressiva del popolo di Dio, la cui educazione e crescita è la finalità primaria della vita del sacerdote. Non è dunque un caso che papa Ratzinger abbia voluto questo anno sacerdotale, collegandolo al 150° anniversario della morte del santo Curato D’ars.
Un’ultima annotazione: il cuore del papa guarda ad est, alla Russia, alla Cina. Nel suo libro su Benedetto XVI, scritto all’indomani della nomina del papa, e che rimane comunque l’unico libro interessante su questo pontificato (Benedetto XVI. La scelta di Dio, Rubbettino editore), George Weigel, prevedendo proprio quest’attenzione di Josef Ratzinger ha scritto: “L’Asia è il continente che ha visto il più grande fallimento della missione cristiana in due millenni”. E aggiunge: “La Cina potrebbe essere il più grande campo di missione cristiana del ventunesimo secolo”. Ma anche l’India, in cui assistiamo oggi a una persecuzione così atroce dell’esigua minoranza cattolica, è un punto di riferimento importante. La sua profonda cultura induista e buddista interroga la sapienza cristiana e la fede nell’unica salvezza che viene da Cristo.


PAPA/ 2. Un uomo scomodo capace di parlare dal megafono dei suoi nemici - John Waters - lunedì 20 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI, a quattro anni dalla sua elezione, continua a confondere i suoi nemici e a incantare i suoi ammiratori con un pontificato che si rileva brillante oltre ogni aspettativa. Come sembrano vicini quei giorni di primavera del 2005 quando il suo predecessore ci rattristò con la sua dipartita e, nello stesso momento, ci sollevò l’animo con la dignità della sua morte, ricordandoci che solo nella fede l’umanità può vedere oltre la frontiera ineluttabile. E poi il momento della successione, l’emergere della risoluta figura del Cardinale Joseph Ratzinger che riceveva il testimone di San Pietro in un periodo di dubbio e di crescente paura mai visti prima.
Benedetto era, secondo l’analisi dei media, un “tappabuchi”, un passo indietro, un “reazionario”, un “destrorso”, un oscurantista. Ciò che però poi è divenuto evidente, era già implicito nei suoi magistrali scritti nel corso di vari decenni: un sommo intelletto innestato in una personalità vivace, un uomo che nella sua vita ha visto l’umanità sbandare tra un grande bene e un ancor più grande male e che cerca di riconciliare ciò che ha visto con la verità che ha ereditato.
Uno dei molti paradossi di essere Papa nel mondo moderno è che si deve parlare attraverso un megafono controllato dai propri nemici. Giovanni Paolo II era un attore che comunicava disarmando con il suo carisma e il suo fascino chi teneva il megafono; la strategia di Benedetto è una decisa sovversione dei codici culturali di coloro che si oppongono praticamente a tutto quanto la Chiesa cattolica e il suo capo ora rappresentano.
Fin dall’inizio Papa Benedetto ha messo sotto esame la cultura dell’epoca e con le sue prime encicliche ha affrontato i due temi più urgenti del nostro tempo: il processo di fuoriuscita dal linguaggio pubblico, rispettivamente, dell’amore e della speranza. “In un mondo dove il nome di Dio è talvolta associato con la vendetta o perfino con il dovere dell’odio e della violenza… io voglio parlare nella mia prima enciclica dell’amore che Dio profonde su di noi e che a nostra volta dobbiamo condividere con gli altri”, ha scritto in Deus Caritas Est. Dio è amore, non odio.
Questo sottile e brillante Papa ha dovuto lottare per farsi sentire in un clima mediatico caratterizzato dal sabotaggio e dalla distrazione. I media hanno tentato ripetutamente di distorcere o ridurre le sue dichiarazioni, così da farle rientrare nei pregiudizi che hanno segnato la sua elezione. Ma Benedetto, dagli episodi di Regensburg o de La Sapienza, così come dai più recenti tentativi di mistificare le sue affermazioni sulla sessualità umana e la controversia sui preservativi e la lotta all’Aids, è emerso come un uomo pieno di coraggio e di garbo, il suo messaggio è rimasto integro e la sua posizione si è rafforzata al di là dei notiziari e degli studi dei media internazionali.
La rilevanza di Benedetto è che egli dà rigore intellettuale al cuore della cristianità nella pubblica piazza, spiegando e chiarendo le connessioni e le sconnessioni fondamentali tra cristianità e cultura moderna. Giovanni Paolo II era una figura carismatica e un brillante filosofo, ma il suo personaggio pubblico tendeva ad emanare un messaggio dualistico: indulgente e amabile da un lato, ma rigidamente e, perfino, semplicisticamente tradizionalista dall’altro. Naturalmente, questo era dovuto in buona parte al trattamento riservato alla sua persona e al suo messaggio dai media, che lasciavano largamente da parte la sua vasta produzione di scritti filosofici.
Benedetto è un esperto nel riportare i legalismi cattolici al loro significato essenziale e nel raggiungere, nonostante i rumori di disturbo dei media, le generazioni istruite dei giovani che, come egli ha correttamente individuato, sono ora affamati di qualcosa che trasformi il lassismo inoculato da una cultura che vende sensazione e libertà, ma niente che possa avvicinarsi al tipo di soddisfazione che desiderano ardentemente.
Papa Benedetto è un uomo che non può essere inserito in alcun schema. Egli ha reputazione di teologo tradizionalista, ma culturalmente appare un modernista, talvolta sembra capire la spinta post-modernista anche meglio di molti suoi seguaci. Ogni tanto anche lui sbaglia, come nella sua critica al fenomeno di Harry Potter, parrebbe su suggerimento di una singola persona con una fissa a tal proposito, e che comunque è stata probabilmente fatta senza una lettura attenta dei libri in oggetto.
Simili occasionali interventi servono a rinforzare da parte dei media la caricatura di un Papa senza rapporti con la società moderna, quando sono semplicemente punti deboli inevitabili in un uomo nella sua nona decade. In realtà è il più moderno e radicale dei papi. Quando parla, lo fa come capo della Chiesa Cattolica Romana, ma la sua preoccupazione sembra essere per l’anima della società. Ha di fronte un’epoca alle prese con una crisi di identità e cerca di mostrargli la via d’uscita. Il suo progetto è la restituzione alla cultura occidentale di un concetto integrale di ragione, la ri-separazione del metafisico dal fisico. Il “golpe” degli anni sessanta, che tentò di imporre il razionalismo scientifico come la luce culturale che avrebbe guidato quest’epoca, non è riuscito a convincere neppure i suoi sostenitori che, allarmati dalla svogliatezza e dal disinteresse dei loro figli e dall’incombere dell’oscurità che essi stessi avevano evocato, ora chiamano a gran voce per essere riassicurati neo-atei come Richard Dawkins e Christopher Hitchens.
Già il concetto che “Dio è morto” è diventato una notizia di ieri, dato che le società moderne cercano di muovere oltre forme di riduzione della ragione verso qualcosa che incorpori di più l’esperienza umana e non la sola testa. Nel momento in cui le ideologie del progetto di “libertà” degli anni sessanta si frantumano sugli scogli della realtà e i fautori di queste ideologie cominciano a capire che, dopo tutto, non hanno risposte ai dilemmi fondamentali dell’umanità, nel momento in cui ci stiamo trascinando verso quello che il mio amico Magdi Cristiano Allam ha chiamato “il suicidio della nostra civiltà”, speriamo e preghiamo perché Benedetto rimanga con noi per tutto il prossimo, cruciale decennio, comunicando sommessamente la sua antica verità attraverso il megafono dei suoi nemici.


PAPA/ 3. Quando è Pietro a salvare la ragione... - Massimo Serretti - lunedì 20 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il pontificato di Papa Benedetto si avvia a ricoprire il secondo lustro del terzo millennio dell’era cristiana e già mostra alcuni tratti che ne rilevano in maniera definita la fisionomia interiore. Il ministero petrino, pur nella sua precisa caratterizzazione, è comunque polimorfo nelle sue espressioni e inoltre, ogni pontificato, pur qualificandosi in una continuità plurimillenaria, possiede anche un suo profilo proprio che si rivela fino in fondo solo nel suo termine.
Senza pretesa alcuna di completezza o di esaustività possiamo riconoscere come uno dei fronti sensibili sul quale Papa Benedetto si è cimentato a più riprese quello che egli stesso ha denominato variamente come «capitolazione della ragione» o «esperienza dell’irrazionale» oppure come «processo di immunizzazione dalla verità» e «patologia della ragione».
Dopo che i nipoti dei divinizzatori della ragione si sono votati all’irrazionalità sistematica, il Successore di Pietro non perde occasione per profondersi in una lucida quanto appassionata apologia della ragione umana. Ma com’è accaduto che la cultura occidentale sia potuta pervenire ad un simile ribaltamento? E quale nesso virtuoso sussiste tra il ministero di Pietro fondato sulla fermezza e l’integrità della fede e quella facoltà dello spirito umano che è la ragione?
L’esito del percorso di fronte al quale si è trovato e si trova Papa Benedetto si può intendere ripercorrendo fugacemente alcune tappe fondamentali. L’Illuminismo (almeno quello “continentale”) non è riuscito a mantenere la sfida lanciata sull’affermazione della facoltà naturale della ragione, avendola autonomizzata e assolutizzata rispetto alla più complessa realtà dell’uomo preso nel suo insieme. Inoltre, alla prima amputazione, se n’è aggiunta una seconda: quella concernente l’orizzonte entro cui la ragione si muove, cioè, la verità e quindi la sua naturale apertura sul mistero di Dio.
Questa duplice censura ha prodotto una incurvatura su se stessa di questa facoltà della natura umana di cui lo gnosticismo idealistico è un chiaro documento. Uno sbocco di questa seconda deformazione è la messa in questione della possibilità della ragione stessa (nihilismo). Un altro sbocco è quello dell’inizio del tentativo di concepire non solo la ragione quale facoltà della natura umana, ma la natura umana stessa in quanto tale come soggetta a un progetto di riformulazione e riprogettazione di principio illimitata e impedita nell’esecuzione solo dalla concreta fattibilità.
Insomma, Papa Benedetto si è trovato di fronte non più ad una “crisi della ragione” sofferta pateticamente e con spirito di disillusione, ma ad un’irrazionalità programmatica impugnata come vessillo delle sorti progressive di trasmutazione antropologica genetica, di cui la bioingegneria è solo un pallido riflesso, tutto sommato secondario.
Di fronte a questo panorama sconcertante per tutti coloro che siano rimasti in possesso delle loro facoltà di naturale dotazione, dato che l’«essere razionale» è parte integrante dell’«essere uomo», che cosa ha proposto il pontificato di Papa Benedetto?
Due sono le proposte a questo riguardo. La prima è quella di ricondurre la ragione entro lo spazio più ampio dell’essere persona dell’uomo evitando la pessima e fatale identificazione tra soggetto razionale e soggetto personale. Il soggetto dell’atto intelligente è l’uomo in quanto persona e non la ragione o l’intelletto (cfr. Tommaso d’Aquino).
Abdicando dalla ragione si abdica dall’umanità dell’uomo, ma, storicamente, la prima abdicazione è avvenuta non in primo luogo per una volontà di negazione di un dato di natura proprio dell’uomo, quanto a motivo della dimenticanza del fatto che l’uomo possiede e governa la propria natura, cioè, è persona.
A partire da questa prima proposta Papa Benedetto può riaffermare la ragione come coessenziale all’uomo nella sua bella e piena funzione vitale ed esistenziale e, nello stesso tempo, scongiurare la deriva gnostica e intellettualistica.
La seconda proposta di Papa Benedetto, nella controversia sulla ragione e nell’«ammutolire di ciò che è autenticamente umano» riguarda la naturale apertura della ragione umana alla verità, negando la quale si scade nella «serietà vuota» (K. Jaspers).
«La questione della verità non è un passatempo (...) è una questione di essere o non essere dell’uomo». Nella verità la ragione ha il suo termine e quindi in essa si trascende, procede oltre se stessa. In altri termini, si potrebbe dire che la ragione è un organo della natura originariamente comunionale dell’uomo. Infatti la pienezza della verità si manifesta all’uomo in Gesù Cristo. «La verità è più grande della mente dell’uomo» (Agostino). La ragione è quindi una facoltà la cui natura è quella di mediare tra il realismo dell’uomo e quello del Mistero.
Con queste due mosse Papa Benedetto ricolloca la ragione ricollocando il soggetto stesso e ricolloca il soggetto umano ristabilendolo nel suo nesso genetico col Mistero di Dio, cioè, nella sua dignità di persona.
Le conseguenze di questo ristabilimento sono enormi in tutti i campi del vivere umano personale e sociale. La morale, il diritto, la politica, l’economia, le scienze naturali, l’interculturalità, il pluralismo religioso, hanno qui un asse sul quale ricentrarsi.