mercoledì 22 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Convegno a Bologna su “Rosario e martirio oggi” - Intervista a fr. Mauro Persici, promotore del Movimento Domenicano del Rosario - di Antonio Gaspari
2) Alla Conferenza dell'Onu l'intervento di Ahmadinejad contro Israele spinge gli europei ad abbandonare l'aula - Chi non vuole combattere il razzismo - La Santa Sede deplora l'uso del forum per assumere posizioni estremiste e offensive contro qualsiasi Stato – L’Osservatore Romano, 22 aprile 2009
3) Riflessioni sulla «Dignitas personae» - L'inganno terminologico della pillola del giorno dopo - di Jean Laffitte - Vice Presidente della Pontificia Accademia per la Vita – L’Osservatore Romano, 22 aprile 2009
4) La città di Firenze ha un difensore speciale: il suo vescovo - Ancora fresco di nomina, Giuseppe Betori ha inaugurato un nuovo stile pastorale: molto impegnato nella sfera pubblica e con la difesa della vita umana come priorità. In realtà ha attualizzato un modello episcopale classico, nella storia della Chiesa. Pietro De Marco lo analizza ed interpreta - di Sandro Magister
5) Bandana, relax e vita in tenda Lo "zio" Karol mai visto prima - Dai cassetti dei suoi ex allievi di Cracovia spuntano le fotografie delle gite con il futuro Papa. Che dava loro lezioni di "vita di coppia" - di Andrea Tornielli
6) Obama sfida l’America Latina - Lorenzo Albacete - mercoledì 22 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) L’OBIEZIONE DI SALVATI - TUTTA LA CARITÀ HA AVVIO DALL’IDEA DI UOMO - GABRIELLA SARTORI – Avvenire, 22 aprile 2009
8) LA STRATEGIA EMBLEMATICA DEL MUNICIPIO X DI ROMA - Le opposizioni antropologiche balcanizzano i territori comunali - DOMENICO DELLE FOGLIE – Avvenire, 22 aprile 2009
9) 22 Aprile 2009 - LA POLEMICA - L’uomo-macchina, idolo della scienza – Avvenire, 22 aprile 2009


Convegno a Bologna su “Rosario e martirio oggi” - Intervista a fr. Mauro Persici, promotore del Movimento Domenicano del Rosario - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 21 aprile 2009 (ZENIT.org).- Si svolgerà il 25 aprile presso la Basilica-Santuario “Madonna di S. Luca” a Bologna, il Convegno del Rosario, che quest’anno avrà come tema della tavola rotonda “Rosario e martirio oggi”.
L’incontro prevede: la Messa e l’ora mariana; la tavola rotonda con relatori Antonello Brandi (presidente della Laogai Foundation Italia) e Giacomo de Antonellis (giornalista, scrittore); la visita al Santuario, le testimonianze su “Rosario e martirio”, di Tatiana Ivanovskaia (testimone dal Kazakhstan) e Pier Luigi Bianchi-Cagliesi (testimone dalla Bosnia), con Messa e adorazione conclusiva.
La giornata è organizzata da Movimento Domenicano del Rosario (http://www.sulRosario.org/), e dalla rivista Rosarium. Si tratta di un "movimento di comunione spirituale di preghiere", una sorta di scuola del Rosario nella meditazione del “Vangelo secondo Maria”, le cui orazioni intendono suscitare la benedizione mariana sull’umanità, a vantaggio di un rinnovamento della fede.
La giornata di riflessione e di preghiera aperta a tutti è secondo gli organizzatori “un significativo momento di comunione ecclesiale per poter dare (o ridare...) le motivazioni per testimoniare senza cedimenti, anzi con forza, Cristo nella società attuale”.
Per comprendere scopi e finalità di questo incontro, ZENIT ha intervistato fr. Mauro Persici, O.P., promotore del movimento nell'Italia Settentrionale e direttore della rivista Rosarium.
Perchè questo titolo? Che relazione c'è tra il Rosario e la persecuzione dei cristiani?
Fr. Mauro: “Dove arriva Dio, il deserto fiorisce!”: lo ha detto Papa Benedetto XVI nel corso dell’omelia, pronunciata lo scorso ottobre a Pompei sulla piazza antistante il Santuario della Madonna del Rosario.
Proprio qui il Pontefice pregò sull’urna del beato Bartolo Longo, che da persecutore, da militante anticlericale, dedito anche a pratiche spiritistiche e superstiziose, scoprì – grazie ad una personale conversione – il vero volto di Dio e divenne apostolo della fede cristiana, del culto mariano ed, in particolare, del Rosario, in cui egli trovò una sintesi di tutto il Vangelo.
Ora, la nostra speranza è che i vari deserti sparsi oggi nel mondo – macchiati dal sangue dei martiri o segnati dalle persecuzioni più o meno evidenti e pesanti nei confronti della presenza cristiana – , possano rifiorire e – sull’esempio del beato Bartolo Longo – rigenerare a nuova vita quanti siano oppressi dal peso del peccato.
Per far ciò, è necessario però – come ha ricordato ancora lo stesso Santo Padre a Pompei – “lasciarsi condurre per mano dalla Vergine Maria a contemplare il volto di Cristo”.
Ecco perché abbiamo deciso di dedicare un’intera giornata al tema “Rosario e martirio, oggi”, lasciandoci interpellare – nella preghiera, nella riflessione ed attorno all’Eucarestia – dalle ferite, che ancora oggi vengono inferte in molte parti del mondo al Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa”.
Quanti e quali cristiani sono stati e sono perseguitati perchè recitano il Rosario? Può farci qualche esempio di martiri mariani?
Fr. Mauro: Potrei farne molti. Padre Miguel De La Mora, uno dei 25 Beati tra i numerosi martiri messicani del 1926-1929, fu fucilato proprio mentre recitava il Rosario, il 7 agosto 1927. Lo stesso dicasi dei suoi Confratelli, P. Cristobal Magallanes Jara e Padre Pedro Maldonado. Padre Giuseppe Supina fu ammazzato presso il campo di concentramento di Oswiecim, in Polonia, indossando la veste talare e col Rosario in mano. Ma, mi creda, l’elenco potrebbe continuare… Senza contare i tanti martiri, di cui la Storia non ci ha lasciato traccia, ma che pure han vissuto la medesima condizione.
Viviamo nel secolo dei diritti: libertà di parola e di religione dovrebbero essere ormai diritti acquisiti nella maggior parte del pianeta, eppure sono ancora milioni i cristiani che subiscono intolleranza, limitazioni, divieto di culto, impedimenti per pregare, leggere i testi sacri o mostrare un crocifisso. Perchè?
Fr. Mauro: Secondo l’Arcivescovo di Sidney, Card. Gorge Pell, “i laici sembrano preferire strade a senso unico”. A fronte di ciò, ha esortato i Governi a non trattare “i credenti come una minoranza meramente tollerata e destabilizzante, i cui diritti debbano sempre essere al secondo posto rispetto alle istanze laiche”, poiché in una “democrazia sana le persone dovrebbero essere libere di discutere e criticare le convinzioni degli altri”.
Insomma, “la reciprocità – ha commentato – è essenziale”. Eppure manca. D’altra parte, spetta anche ai cristiani farsi sentire. Non genericamente per “alzare la voce”, ma per essere “testimoni”. Se la Chiesa Cattolica è sotto pressione, se “l'intimidazione e l'emarginazione” verso i Suoi fedeli “vengono passate sotto silenzio”, se questi vengono inevitabilmente bollati di “oscurantismo” e “reazione” ogni qual volta aprano bocca, bene, è giunto il momento –come afferma il Card. Pell- ch’essi riscoprano “il coraggio” necessario per “riscoprire il loro talento” e “dimostrare che esistono stili di vita migliori per edificare una buona società”.
Questo è ciò che lo stesso Arcivescovo di Sidney individua come “uno dei compiti cruciali per i cristiani nel XXI secolo”.
Anche nell'Europa la cui grandezza nelle arti, nelle scienze è stata generata e segnata dal cristianesimo, assistiamo al riemergere di un ateismo aggressivo. A Oxford hanno cancellato il Natale. In Spagna vietano il crocifisso nelle scuole. A Roma hanno impedito al Pontefice Benedetto XVI di parlare in una università fondata da un Papa. Che cosa sta accadendo?
Fr. Mauro: Accade quella che già Papa Giovanni Paolo II definiva una “silenziosa apostasia” e che Padre Bernardo Cerveliera – in un’intervista pubblicata sull’ultimo numero di “Rosarium”, il periodico del Movimento Domenicano del Rosario – chiama “abbandono della fede cattolica tout court”, definendolo un problema ancor più grave dello stesso rischio di protestantizzazione che l’Occidente – ‘cuore’ proprio della Cristianità – sta correndo.
I segni sono evidenti ed evidente è la fondatezza del giudizio, pure espresso dal Card. Pell alla Oxford University Newman Society, circa “la persecuzione condotta dal laicismo conformista contro la Chiesa Cattolica”. Lo stesso Giorgio Salina, Presidente dell'Associazione “Fondazione Europea”, ha denunciato apertamente “un'intolleranza, che permea parte della società europea, dimostrando l'urgenza di quella 'nuova evangelizzazione', di cui hanno parlato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI”.
Le istituzioni europee non sono esenti “da questo contagio nichilista e relativista con manifestazioni di intolleranza verso la religione cristiana, cattolica in particolare, e contro la Chiesa ed il Santo Padre. E' in atto una forma più subdola, ma non per questo meno violenta di persecuzione”. Nello stesso Parlamento Europeo, secondo Salina, “si riscontra un'ostilità diffusa e manifesta, tale per cui, in particolare in questa legislatura, nessuno dei fondamentali principi etici naturali promossi dalla cultura cattolica sull'uomo e sulla società, ha la benché minima probabilità di essere condiviso”.
In che modo la Chiesa si può rinnovare e il Cristianesimo diventare riferimento anche nella vita pubblica?
Fr. Mauro: Lo ha detto ancora il Santo Padre a Pompei: crescere nell’intimità con Gesù ed imparare alla scuola della Vergine Santa a compiere sempre la divina volontà. In una parola, tornare ad essere se stessa, recuperare la genuinità dell’Annuncio nella preghiera e nella contemplazione e soprattutto non temere, esser testimone, davvero e fino in fondo, senza l’'umana prudenza’, che non porta da alcuna parte… Occorre accogliere l’invito di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura” ed ancora “Duc in altum”, dispieghiamo le vele del nostro cuore, senza incertezze, senza preoccupazioni! Per riuscire in tutto questo, Benedetto XVI ha indicato nel Santo Rosario un “prezioso mezzo spirituale”. Ma di ciò parleremo a Bologna…


Alla Conferenza dell'Onu l'intervento di Ahmadinejad contro Israele spinge gli europei ad abbandonare l'aula - Chi non vuole combattere il razzismo - La Santa Sede deplora l'uso del forum per assumere posizioni estremiste e offensive contro qualsiasi Stato – L’Osservatore Romano, 22 aprile 2009
Ginevra, 21. La Conferenza di esame della Dichiarazione di Durban del 2001 contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza - organizzata dalle Nazioni Unite e apertasi ieri a Ginevra - rischia di veder vanificati i suoi scopi. L'intervento del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, con un nuovo inaccettabile attacco a Israele, ha spinto i delegati dei Paesi dell'Unione europea presenti - Germania, Italia, Olanda e Polonia avevano già deciso di non partecipare insieme a Stati Uniti, Israele, Canada, Australia e Nuova Zelanda - a lasciare l'aula. La Repubblica Ceca, presidente di turno dell'Ue, ha ritirato definitivamente la sua delegazione. Le prospettive di ottenere indicazioni forti contro il razzismo dalla Conferenza - cosiddetta Durban ii in quanto aggiornamento di quella tenuta appunto a Durban, in Sud Africa, nel 2001 - a questo punto sembrano diminuire. La Sala Stampa della Santa Sede, attraverso il suo direttore, il gesuita padre Federico Lombardi, aveva già anticipato ieri sera alcuni commenti relativi al discorso tenuto dal presidente iraniano alla Conferenza. In aggiunta - con una dichiarazione diffusa oggi - la medesima Sala Stampa desidera rimandare alle parole del Santo Padre Benedetto XVI, il quale domenica scorsa ha detto: "Formulo i miei sinceri voti affinché i delegati presenti alla Conferenza di Ginevra lavorino insieme, con spirito di dialogo e di accoglienza reciproca, per mettere fine a ogni forma di razzismo, di discriminazione e intolleranza, segnando così un passo fondamentale verso l'affermazione del valore universale della dignità dell'uomo e dei suoi diritti, in un orizzonte di rispetto e di giustizia per ogni persona e popolo". Di conseguenza la Santa Sede "deplora l'uso di questo forum dell'Onu per assumere posizioni politiche, estremiste e offensive, contro qualsiasi Stato. Ciò non contribuisce al dialogo e provoca una conflittualità inaccettabile. Si tratta, invece, di valorizzare tale importante occasione per dialogare insieme, secondo la linea di azione che la Santa Sede ha sempre adottato, in vista di una lotta efficace contro il razzismo e l'intolleranza che ancor oggi colpiscono bambini, donne, discendenti di africani, migranti, popolazioni indigene in ogni parte del mondo. La Santa Sede, mentre rinnova l'appello del Papa, assicura che con tale spirito la sua delegazione è presente e lavora alla Conferenza". In precedenza padre Lombardi aveva sottolineato che la bozza della dichiarazione finale, concordata venerdì scorso dal comitato preparatorio, "è in sé accettabile, essendone stati tolti gli elementi principali che avevano suscitato obiezioni", quali i riferimenti a Israele e il concetto di diffamazione delle religioni, mentre è stata bocciata la richiesta iraniana di diluire il riferimento alla Shoah. Condanna per le parole di Ahmadinejad hanno espresso il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, e l'alto Commissario dell'Onu per i diritti umani, Navanethem Pillay, che avevano aperto ieri mattina i lavori della Conferenza. Ban Ki-moon ha deplorato l'uso della piattaforma dell'Onu per "accusare, dividere e incitare all'odio". Pillay ha criticato l'intervento del leader iraniano, ma ha aggiunto che "la migliore replica è rispondere e correggere, non ritirarsi e boicottare la conferenza". Dello stesso avviso si è detto lo statunitense Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch una delle principali organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, presente come osservatore alla Conferenza. Roth, figlio di un ebreo fuggito nel 1938 dalla Germania nazista, ha detto che chiamarsi fuori è un errore, perché la Conferenza - chiamata a definire i modi di combattere razzismo, xenofobia e discriminazione - non è riducibile alle farneticazioni del leader iraniano.
(©L'Osservatore Romano - 22 aprile 2009)


Riflessioni sulla «Dignitas personae» - L'inganno terminologico della pillola del giorno dopo - di Jean Laffitte - Vice Presidente della Pontificia Accademia per la Vita – L’Osservatore Romano, 22 aprile 2009
La seconda parte dell'istruzione Dignitas personae, dedicata ai nuovi problemi riguardanti la procreazione, si conclude con un paragrafo circa le nuove forme di intercezione e contragestazione. Questi sono mezzi tecnici che, una volta avvenuta la fecondazione, agiscono allo scopo di impedire all'ovulo fecondato d'impiantarsi nell'utero - intercezione - o di proseguire nella propria maturazione una volta che l'impianto è avvenuto - contragestazione. Tra i mezzi intercettivi ci sono dispositivi intra-uterini (spirale), prodotti con azione antigonadotropa (danazolo), prodotti di uso orale in combinazione con alte dose di estrogeni. In quest'ultimo caso, il metodo attualmente più diffuso è quello che utilizza il progestinico levonorgestrel. Il meccanismo di inibizione della gravidanza esercitata da questo prodotto, somministrato con due dosi successive entro le 48 ore dal rapporto sessuale, è oggetto d'intensa discussione a livello medico ed etico. Alcuni, infatti, parlano di un effetto puramente contraccettivo che impedirebbe la fecondazione. Altri, invece, sostengono che tale prodotto agisce anche dopo la fecondazione. L'azione post-coitale di questo prodotto dipende prima di tutto dal momento in cui è assunto, rispetto al ciclo ovarico della paziente. Se la pillola viene assunta a fecondazione già avvenuta, impedendo la gravidanza, si deve ammettere l'esistenza di un'azione che impedisce lo sviluppo naturale dell'embrione. Un effetto rilevato nelle donne che hanno assunto la pillola a base di levonorgestrel è stato una certa alterazione della ricettività dell'endometrio. Si suppone, dunque, che la pillola possa anche impedire lo sviluppo dell'embrione già esistente, con il noto effetto dei progestinici sull'endometrio uterino. Sebbene manchino ancora, a livello scientifico, le prove certe di una tale azione, è tuttavia corretto ammettere che si possa presumere una qualche interferenza nello sviluppo dell'embrione precoce. I mezzi contragestativi si riferiscono essenzialmente all'assunzione di un antiprogesterone (mifepristone). Il mifepristone (ru 486) ha come effetto principale quello di bloccare i recettori per il progesterone; somministrato nelle prime ore dopo il rapporto sessuale, impedisce l'impianto dell'embrione, e la sua efficacia si protrae fino a cinque giorni dopo il rapporto. Il mifepristone è usato soprattutto per il suo effetto contragestativo, e non può essere assunto senza controllo medico. La contragestazione operata con il mifepristone realizza chiaramente un aborto e non può sussistere nessun dubbio sulla grave illiceità morale del suo uso, tanto per il medico che lo prescrive quanto per la paziente che lo richiede e lo assume. Per quanto riguarda i mezzi intercettivi, già si è accennato alle accese discussioni sul loro meccanismo d'azione, che hanno generato giudizi contrastanti sull'illiceità morale della loro assunzione. Si deve affermare, tuttavia, che il solo fatto che tali mezzi siano concepiti per avere un effetto intercettivo, cioè abortivo, e data la probabilità che questi effetti siano reali, il suo uso è da ritenere, dal punto di vista morale, gravemente illecito, a motivo del mancato rispetto della vita umana in esso implicito. Non è rilevante quale sia il momento esatto in cui viene interrotto lo sviluppo di un embrione, attraverso un atto positivo. Ci si situa qui nella fattispecie dell'aborto, tanto a livello morale quanto a livello canonico. Sotto quest'ultimo aspetto, in particolare, l'istruzione ricorda opportunamente che la configurazione penale dell'aborto, per il Diritto Canonico, riguarda "l'uccisione del feto in qualunque modo e in qualunque tempo dal momento del concepimento", come attestato dalle Risposte a dubbi emesse il 23 maggio 1988 dalla Pontificia Commissione per l'Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico. A livello morale, è doveroso ricordare i termini dell'enciclica Evangelium vitae che definisce l'aborto procurato "l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita". E l'enciclica continua: "La gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare" (n. 58). Si deve sempre tenere presente che dal momento della fecondazione, cioè della penetrazione di uno spermatozoo nell'ovulo, inizia la formazione di una nuova entità biologica, lo zigote. I due gameti realizzano, con l'unione dei loro rispettivi programmi, un nuovo progetto-programma che determina ciò che sarà l'essere così individuato. È in questo momento che comincia l'avventura di una nuova vita umana. A livello biologico conviene insistere sul fatto che un tale programma non è un materiale inerte, sul quale l'organismo materno possa poi agire, allo stesso modo in cui ci si serve di un programma di lavoro per costruire un progetto. Si tratta, invece, di un nuovo progetto che si costruisce da solo e che è autore e attore di se stesso. Dal momento della fecondazione, sono i sistemi di controllo dello zigote a entrare in gioco e sono ancora questi che assumono il controllo totale dell'impianto dell'embrione. In altre parole, dalla prima divisione di segmentazione in blastomeri fino allo stadio di blastocisti e all'annidamento, il responsabile della programmazione è il materiale genetico intrinseco del neo-concepito. Pertanto, l'embrione umano, ancora prima del suo impianto nell'utero, dal processo della fecondazione e della formazione dello zigote, merita il pieno rispetto dovuto alla persona umana. Se i mezzi tecnici intercettivi e contragestativi sono abortivi, ci si può chiedere perché la presente istruzione ne voglia trattare, essendo l'aborto una materia ampiamente discussa negli ultimi cinquant'anni nei testi del magistero della Chiesa. Il motivo essenziale è che questi mezzi vengono talvolta presentati, in modo ingannevole, come mezzi puramente contraccettivi, il che ha generato le discussioni alle quali si è fatto riferimento precedentemente. L'inganno si situa anzitutto a livello terminologico: si parla volentieri di "contraccezione d'emergenza", oppure di "contraccezione pre-impiantatoria" o ancora di "contraccezione post-coitale"; si usa anche l'espressione "pillola del giorno dopo", in analogia con la classica pillola contraccettiva. Questo tipo di terminologia induce erroneamente a credere che esistano due tipi di contraccezione. Il primo che designa i metodi classici (ormonali, di barriera, eccetera) che si usano prima del rapporto sessuale; e un secondo, che si userebbe in caso di dimenticanza, una volta avvenuto il rapporto. Se esiste qualche incertezza a proposito dell'azione esatta dei mezzi di "contraccezione d'emergenza", un tale dubbio induce a propendere per un'azione abortiva, per l'impedimento dell'annidamento. In tale condizione, la regola morale è chiara: chiede di astenersi, perché ciò che è in gioco è l'esistenza di una vita umana, che deve essere rispettata e tutelata. Si noti anche che, a livello etico, la specie morale dell'aborto non cambia a seconda che questo venga effettuato con intervento chirurgico, o in maniera più "asettica" attraverso la somministrazione di una pillola. Tale giudizio non impedisce di continuare gli studi circa i modi più adatti per affrontare i gravissimi problemi causati dalla violenza sessuale a una donna. Se da una parte la donna vittima di una terribile aggressione alla sua dignità ha il diritto di difendersi, anche attraverso l'uso di mezzi che potrebbero impedire l'ovulazione e la fecondazione, occorre d'altra parte ribadire che va difeso anche il diritto alla vita dell'essere umano eventualmente già concepito. Se ci fosse una qualche incertezza al riguardo, non sarebbe lecito utilizzare mezzi che potrebbero avere un effetto anche abortivo. Come afferma l'enciclica Evangelium vitae, "sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano" (n. 60). Occorre anche ribadire che non siamo qui di fronte alla fattispecie di una coscienza confusa a causa di un dubbio sul valore dell'azione progettata, come pretendono alcuni difensori della "pillola del giorno dopo". La persona che chiede una "contraccezione di emergenza" lo fa perché ha avuto un rapporto sessuale che sa essere potenzialmente fecondo e desidera che questa eventuale gravidanza venga interrotta. La sua intenzione non è solo contraccettiva: ha anche un'intenzione abortiva. Il medico che prescrive a questa persona la "pillola del giorno dopo" non lo fa per il suo effetto solo contraccettivo, ma anche per quello abortivo, vale a dire per impedire lo sviluppo di una gravidanza potenzialmente già iniziata. È vero che la donna che assume il "contraccettivo d'emergenza" può farlo senza aver iniziato una gravidanza e che, in questo caso, l'effetto del prodotto sarebbe prevalentemente antiovulatorio. Tuttavia, quest'ultima possibilità non modifica la specie morale del ricorso a tale pratica: la donna che vuole il prodotto e il medico che lo prescrive o somministra, accettano volontariamente il rischio di provocare un aborto. Qualunque sia la realtà a livello biologico, siamo certamente, sul piano morale delle intenzioni, nel campo dell'aborto procurato. La situazione appena descritta mostra il dovere morale dei medici, degli educatori e dei confessori di illuminare la coscienza dei fedeli e di tutte le persone di buona volontà, denunciando l'inganno che ha reso possibile l'accettazione della "pillola del giorno dopo" nei Parlamenti nazionali. In conclusione, si deve precisare che il fatto che s'invochi la contraccezione per "giustificare" retoricamente degli atti potenzialmente abortivi non deve ingannare, lasciando pensare che l'uso di mezzi solo contraccettivi sia moralmente lecito. Al riguardo il magistero si è già ampiamente espresso. Occorre osservare, tuttavia, che, pur essendo la contraccezione un atto di natura essenzialmente diversa, l'uso abituale e banalizzato dei mezzi contraccettivi, lungi dal fare regredire il ricorso all'aborto, trova spesso in quest'ultimo il suo prolungamento. Al riguardo, fanno pensare le parole di Evangelium vitae: "Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi (...) Ma pure con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta" (n. 13).
(©L'Osservatore Romano - 22 aprile 2009)


La città di Firenze ha un difensore speciale: il suo vescovo - Ancora fresco di nomina, Giuseppe Betori ha inaugurato un nuovo stile pastorale: molto impegnato nella sfera pubblica e con la difesa della vita umana come priorità. In realtà ha attualizzato un modello episcopale classico, nella storia della Chiesa. Pietro De Marco lo analizza ed interpreta - di Sandro Magister
ROMA, 21 aprile 2009 – Firenze è una città faro per il mondo intero. Lo è come capitale dell'arte. Ma lo è anche come laboratorio di forti esperienze cristiane, personali e di gruppo. Lo è stato sicuramente per una gran parte del Novecento.

Il nuovo esempio che oggi Firenze offre al mondo cattolico, non solo italiano, ha a che fare con il ruolo del suo arcivescovo.

Il suo nome è Giuseppe Betori. Ha 62 anni, è originario dell'Umbria e ha fatto studi da biblista. È arcivescovo di Firenze dall'8 settembre del 2008. In precedenza era stato segretario generale della conferenza episcopale italiana, braccio destro del cardinale presidente Camillo Ruini e poi del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco.

L'estate scorsa, quando la sua nomina era nell'aria ma non ancora ufficialmente decisa, un buon numero di sacerdoti e di laici fiorentini firmarono una lettera aperta per chiedere che il nuovo vescovo fosse uomo di "pazienza" e di "perdono", lasciasse cadere "i toni amari e di condanna", instaurasse tra la Chiesa e la società civile "un clima di libertà e di rispetto reciproco".

Era facile indovinare che questo profilo di vescovo non corrispondeva a quello polemicamente attribuito a Betori dai firmatari della lettera.

In ogni caso Benedetto XVI mandò lui a Firenze. Nella sua prima intervista al giornale della diocesi, Betori annunciò che avrebbe operato per "una fede capace di fare cultura". E aggiunse: "Nulla di ciò che è umano è alieno alla Chiesa e quindi ci sarà una parola della Chiesa su tutta la realtà cittadina. L'umano può e deve essere illuminato dal Vangelo".

Ai primi di ottobre, poco prima di entrare in diocesi, disputò pubblicamente con la filosofa Roberta de Monticelli. Questa aveva annunciato di abbandonare la Chiesa cattolica proprio per colpa di Betori: per aver egli condannato, "a nome della Chiesa italiana", l'autodeterminazione nell'interrompere anticipatamente la vita. Lo accusò di "diabolicamente" negare "la possibilità stessa di ogni morale: la coscienza e la sua libertà". Betori le rispose con un pacato editoriale sul quotidiano della CEI, "Avvenire", dal titolo: "Chiedo anch'io la libertà di coscienza. Altra cosa dall'autodeterminazione".

Poco dopo l'ingresso in diocesi il 26 ottobre, corse a visitare i piccoli malati dell'ospedale pediatrico "Enrico Meyer" di Firenze, proprio mentre nello stesso ospedale si teneva un congresso sul tema: "Il neonato è persona?", con relatore il neonatologo olandese Eduard Verhagen, promotore di "cure di fine vita" per gli infanti. L'arcivescovo criticò l'orientamento del congresso, lo definì "inquietante".

In novembre, la sera del 20, partecipò a una veglia di preghiera per Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo che la magistratura italiana aveva autorizzato a far morire, interrompendo l'alimentazione e l'idratazione come richiesto dal padre: un caso molto simile a quello di Terri Schiavo negli Stati Uniti. Betori pronunciò nell'occasione una riflessione in forte difesa del mantenimento in vita di Eluana. E questo fu il suo primo atto pubblico solenne su una questione anche politica, da nuovo arcivescovo della città.

L'8 dicembre, festa dell'Immacolata, predicando in piazza del Duomo disse: "Siamo turbati nel vedere come da più parti e in varie forme sia posta in questione l'intangibile dignità della persona umana, soprattutto dove essa vive nella fragilità, al sorgere e al naturale compiersi della vita".

Il 23 gennaio, al consiglio pastorale diocesano, indicò tra gli obiettivi della Chiesa fiorentina quello di riconquistare "la visibilità della vita credente quotidiana" e quello di sanare la frattura consumatasi nei decenni passati tra la fede e la cultura.

Intanto, ad Eluana Englaro era stata tolta la vita. La donna non era di Firenze. Ma pochi giorni dopo, il 9 marzo, il consiglio comunale di questa città, su proposta di un consigliere socialista, deliberò di dare a Giuseppe Englaro, il padre di Eluana che ne aveva voluto la morte, la cittadinanza onoraria: "quale simbolo di eccellente insegnamento di grande integrità morale, di coraggio umano e civile, in difesa della legalità della laicità dello stato, dell’umanità, della civiltà". La delibera passò di stretta misura, con numerosi voti contrari.

Meno di un'ora dopo arrivò la replica dell'arcidiocesi, con una nota ufficiale risolutamente critica:

"Il gesto compiuto è offensivo nei confronti di quella non trascurabile parte della città che nel corso della vicenda di Eluana ha manifestato orientamenti ben diversi da quelli di cui erano portatori il signor Giuseppe Englaro e il gruppo che lo ha sostenuto. Ma l’offesa più grande è stata fatta verso i genitori, fratelli, amici e volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che in Italia vivono in situazioni similari a quelle da cui è stata strappata a forza Eluana, persone che chiedono invece di essere sostenute nella loro dedizione, nella loro fatica e nella loro speranza".

Ne nacque una discussione pubblica molto animata. Il presidente del consiglio comunale, Eros Cruccolini, scrisse una lettera alla diocesi in difesa della giustezza della delibera. Betori rispose confermando "che proprio l’amore per questa città esige che un vescovo, in coscienza, debba esprimere, se necessario come nel caso presente, un dissenso" .

Un ulteriore botta e risposta scritto si ebbe prima della cerimonia di conferimento a Giuseppe Englaro della cittadinanza onoraria. L'arcivescovo, invitato ad assistere alla cerimonia, rifiutò.

La disputa è tuttora viva e si intreccia, su scala nazionale, alla discussione che accompagna l'elaborazione nel parlamento italiano di una legge sul fine vita, accelerata proprio dalla sentenza della magistratura su Eluana Englaro.

Ma a Firenze il fatto nuovo è proprio il ruolo svolto dal vescovo, che non ha precedenti negli ultimi decenni.

La novità è doppia. Anzitutto per l'impegno diretto, anche nel campo politico, del vescovo nella città. E poi per l'oggetto di questo suo impegno pubblico, che riguarda la difesa della vita umana in quanto tale: un tema sul quale una parte dei vescovi, del clero e del laicato cattolico è molto restio a porsi in conflitto con lo "spirito del tempo".

Questa duplice novità esige di essere analizzata e interpretata, anche per la sua forza esemplare. È quanto fa qui di seguito il professor Pietro De Marco, fiorentino ed esperto riconosciuto del cattolicesimo della sua città:


Sul vescovo come difensore della città, nelle moderne invasioni dei barbari di Pietro De Marco
1. La attuale congiuntura della Chiesa fiorentina, retta dall'arcivescovo Giuseppe Betori, credo abbia una sua esemplarità che può avere ripercussioni internazionali. Ciò che avviene a Firenze è il recupero di un ruolo antico: quello del vescovo come "defensor civitatis", difensore della città, e "consul Dei", console di Dio, appellativo, quest'ultimo, che fu dato a papa Gregorio Magno.

Naturalmente qualcosa di questo ruolo episcopale emerge a tratti nelle guerre o nelle rivoluzioni. Anche il cardinale Clemens August von Galen venne definito, per la sua testimonianza nella Germania hitleriana, "defensor civitatis" e "consul Dei", come gli antichi Padri della Chiesa "tra le orde dei barbari". Oppure emerge in situazioni di grave conflitto sociale, come accadde col vescovo Oscar Romero in America Latina. Ma il caso di Firenze è interessante anche perché avviene fuori dall'eccezionalità di un'azione eroica, o da uno stile "engagé", tanto celebrato nelle culture liberazioniste quanto raramente originale, e spesso con effetti dottrinali e pastorali negativi.

Al centro del caso di Firenze vi sono questioni antropologiche, bioetiche e biopolitiche che hanno poco da spartire con i consueti terreni di disputa politica ed economica. Sulle questioni della vita, la Chiesa è nella sua piena originalità e solitudine; è soggetto insostituibile. In questo senso il caso fiorentino ha portata esemplare. Che potrebbe sollecitare o confermare dei fermenti nella stessa direzione, in altri episcopati.


2. I media laici hanno adottato la metafora calcistica dell'intervento "a gamba tesa" per indicare la forma e la sostanza del comunicato dell'arcidiocesi di Firenze del 9 marzo scorso, critico sulla concessione, da parte della municipalità, della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro, padre di Eluana, la giovane donna in stato vegetativo fatta morire di fame e di sete poche settimane prima, per sentenza della magistratura.

Questo atto critico pubblico è coerente con uno stile di governo della Chiesa fiorentina che si sta delineando di settimana in settimana. Nel comunicato arcivescovile si affermava: "La pretesa di un gruppo di consiglieri di fare una scelta a nome di tutta una città è un atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini, inferendo una profonda lacerazione nella convivenza". E ancora: si è inteso "mostrare con un ultimo atto di arroganza [da parte di un consiglio comunale a fine mandato - ndr] la disponibilità di un potere esercitato come arbitrio, a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro”.

Alcuni hanno equiparato il comunicato della curia arcivescovile addirittura a un proclama intimidatorio, a un "diktat" al quale il consiglio comunale della città avrebbe dovuto inchinarsi. Espressioni come "proclama" e "diktat" non sono nuove. Sono state rivolte da commentatori autorevoli anche contro il presidente della conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, intervenuto anche lui sul caso di Eluana negli stessi giorni. Il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono in Italia ormai standardizzati e automatici.

Viene quindi da domandarsi perché anche chi, più moderatamente, ha usato la metafora sportiva della "gamba tesa", abbia comunque evocato un comportamento che impone all'arbitro di fischiare fallo. La risposta investe la storia civile e religiosa italiana dell'ultimo mezzo secolo.

Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento falloso, o "uncorrect", in ogni intervento pubblico della gerarchia cattolica. Da decenni il popolo cattolico italiano si è assuefatto al silenzio del suo clero e dei suoi vescovi, in sede pubblica. Anzi, si è assuefatto a qualcosa di più: a che i vescovi parlino in pubblico, eventualmente, solo per sottoscrivere valori e retoriche civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità ad essi. Infatti, non sono mancate voci di denuncia da parte di vescovi dei "mali" del paese, ma principalmente rivolte a temi civili sui quali la Chiesa si allineava, spesso con qualche ritardo, alle forze politiche e morali "critiche".

Sui temi però di diretta deduzione dall'antropologia cristiana, prevale il silenzio. I vescovi hanno a lungo delegato il "discernimento critico" su questi temi, e la sua proposizione pubblica, al magistero ordinario degli ultimi pontefici e alle pronunce della CEI. Così, senza rendersene conto, i vescovi lasciano alla società civile – e specialmente alle culture politiche di opposizione e denuncia – il compito di conferire la legittimazione "politica" all'autorità episcopale.

Anche se non sono mancate eccezioni, questa "correttezza politica" è stata a lungo osservata, col visibile gradimento di amministratori e forze politiche. Da una pratica del genere sono derivate delle tacite regole del gioco. L'opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell'arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto non appena un vescovo sembri "scorretto".

Ma vi è di più. Un'opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa "correctness" ecclesiastica nella sfera pubblica con un ideale equilibrio tra autorità politiche e spirituali. Realizzando così nei fatti e nel costume una impropria "privatizzazione" della peculiare e irrinunciabile natura pubblica della Chiesa.

La moderna dottrina della "laïcité" condiziona la neutralità dello Stato al carattere privatistico della Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua innocuità politica, delle quali lo Stato sarebbe giudice. Ma la Chiesa cattolica non è così per essenza, né è riducibile a questo. Non lo è stata quando ha innervato di sé l'Europa e l'Occidente, non lo è diventata dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.

Questa presenza magisteriale e civilizzante della Chiesa cattolica, la necessità che essa compaia come tale nella sfera pubblica, non sono mai spariti del tutto, anzi, sono da diversi anni di nuovo presenti e visibili sulla scena mondiale. I sociologi individuano questo fenomeno come uno dei più sintomatici dell'età "postsecolare". Il pontificato di Giovanni Paolo II e, in Italia, l'innovativo governo della conferenza episcopale esercitato dal cardinale Camillo Ruini hanno messo questa rinnovata presenza pubblica della Chiesa sotto i nostri occhi. Ma sia l'assuefazione di parti della società civile, sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della Chiesa tentata dalle culture secolariste convergono tuttora nel sentire la presenza magisteriale e civilizzante della gerarchia cattolica come eccezione, come trasgressione, persino come imposizione.


3. Passiamo a Firenze e al suo vescovo. Fin dai primi secoli del cristianesimo il vescovo è sia centro della vita liturgica, che è già in sé pubblica, sia – in coerenza col suo ministero che è "sovraintendere" – una peculiare autorità civile. Ha scritto uno storico della tarda antichità, Bernard Flusin: "È impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato a intervenire". Anche se non è un signore territoriale, il vescovo è un "defensor civitatis" con un ruolo di bilanciamento rispetto ai funzionari imperiali. Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani, le funzioni di assistenza e di governo: i vescovi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano. Il vescovo, nel quadro della sua città, è detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità cittadina di fronte al potere civile. Confermano altri storici, tra cui Luce Pietri: "I suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione" civile. È ministro dell'assistenza.

Questi tratti di lungo periodo sono stati poi aggiornati e armonizzati agli ordinamenti dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti. Restano costitutivi. E ciò è così vero e così evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando i compiti del vescovo verso la "polis" si esprimono in attività sociali di "supplenza" sono graditi, ricercati, elogiati. Quando invece la sollecitudine del vescovo – che in se stessa non è per il welfare ma risponde all'assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salvezza delle anime anche quando sovviene ai corpi – si rivolge ad altre e decisive tutele del benessere spirituale e morale dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa è fischiata come "fallosa".

Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio. Il comunicato dell'arcidiocesi è, nella sostanza, la prima lettera del vescovo Giuseppe Betori alla città e sulla città. È un atto di sollecitudine del pastore, che si fa "garante della giustizia e protettore dei deboli" sul terreno antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici. Egli analizza la realtà e mette in guardia dai pericoli. Il richiamo al "rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie", che compare nella lettera inviata all'arcivescovo dal presidente del consiglio comunale di Firenze, mostra scarsa conoscenza di questo compito episcopale.


4. Il dibattito pubblico che ne è venuto, inedito per Firenze come inedita, da mezzo secolo, è in questa città l'assunzione di responsabilità pubblica da parte di un vescovo in contrasto con i poteri civili, rappresenta un paradigma per un nuovo stile ecclesiale, almeno in Europa. La svolta non ha mancato di sollevare alcune obiezioni.

Si è osservato che lo stile "ortodosso" di Betori non è in sintonia con Firenze, poiché "Firenze è atipica, non è città dell'ortodossia". Questa convinzione appartiene a una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze "eretica", che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento. Ma proprio la vicenda recente del cattolicesimo fiorentino, che molti conoscono anche al di fuori dell'Italia, non ha nulla a che fare con quel mito. Giorgio La Pira, il sindaco di cui è in corso la causa di beatificazione, era un "piagnone" (parola con cui erano designati nel Quattrocento i seguaci del monaco rigorista Girolamo Savonarola) di forte ortodossia, obbedientissimo alla Chiesa e al papa. Dopo la stagione lapiriana quel robusto filone cattolico si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nascondimento nicodemita e conformismo progressista. Ma di nuovo, con Betori vescovo, non è più stagione di silenzi o sussurri, per la Chiesa.

Il presidente del consiglio comunale della città ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, "espressione concreta della volontà della città", non possono mai essere considerate "negative". Ma così ha confuso legalità con legittimità politica. La lotta tra gruppi e correnti della maggioranza progressista che amministra Firenze ha prodotto una delibera di portata ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana Englaro) l'opinione pubblica e conquistarla a una irriflessa opzione verso l'eutanasia, quindi su frontiere etiche di estrema gravità. Inoltre una ridotta maggioranza di consiglieri ha fatto uso di poteri e strumenti legali per schierarsi contro il governo nazionale e contro la Chiesa, proprio mentre a Roma il parlamento stava elaborando una legge sul "testamento biologico". Un atto politico che è difficile non giudicare – come ha fatto il vescovo – "pretestuoso, offensivo, distruttivo" per il governo della città, non meno che per l'etica pubblica. Domani, quali altre decisioni potranno essere prese facendo leva simbolicamente sul "cittadino Englaro", e con l'apporto di quanto resta del dissenso cattolico?

Il vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi "iustitia" nel senso profondo della politica cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia etico-politica. Ha agito nonostante la pressione contraria di un'opinione pubblica anche ecclesiale: quella che si oppone alla Chiesa "delle condanne" in nome della "medicina della misericordia".

Quest'ultima pressione è obiettivamente alleata con le polemiche laiche contro la "Chiesa del no", ridicolmente additata come Chiesa della paura e della conservazione. Anche la cosiddetta "opinione pubblica ecclesiale" mostra una assoluta sordità (spesso tradotta in pratica pastorale) alla battaglia bioetica della Chiesa e degli ultimi pontefici. Sempre propensa a parlare di apertura alla speranza, questa opposizione intra-ecclesiale ignora che la speranza dell'uomo è affidata a coerenza antropologica, a responsabilità universalistica, non a un minimalismo di paradigmi rivolto a sovvenire pietosamente ai casi particolari. Ignora che altra è, ecclesiologicamente, la responsabilità di un parroco, condizionata dall'immediato dei "mondi vitali" dei suoi fedeli, altra quella del papa e dei vescovi. L'immediato dei mondi vitali non può divenire canone di fede.


5. C'è poi anche un'altra obiezione: perché il recente risveglio delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? Rispondo che non è importante argomentare qui, come pur sarebbe possibile, che non è così. Credo in effetti che questa prevalenza debba esistere.

L'ambito bioetico e biopolitico è di tale crucialità che sarebbe piuttosto l'assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria ad apparire colpevole. Vi sono ambienti, anche cattolici, dove i temi bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce deprecare che altrove se ne parli: deprecare cioè che ne parli la gerarchia, seguita da cerchie "fondamentalistiche". È invece colpevole il silenzio su questi temi, perché nessun cattolico è esonerato dall'intendere che la sfida delle biotecnologie non discende da soli bisogni terapeutici e non approda alla sola riduzione di una patologia o di una sofferenza. Essa è sfida antropologica nel significato pieno della parola, ossia all'esistenza e al senso dell'uomo come creatura.

Quella che chiamiamo da qualche tempo antropologia teologica è stata per secoli una sezione del trattato "de Deo creante et elevante". Né può essere diversamente. Senza fondamento nel Dio creatore, scienze e filosofie dell'uomo e del "bios" divengono saperi e pratiche di un videogame giocato sull'uomo reale.

Le implicazioni della sfida, il frequente cinismo nichilistico alla Peter Singer, il fantasticare sul post-umano sono oggi così ricorrenti ed espliciti che solo una "differenza cristiana" incantata dall'innocenza del mondo può non prenderne atto. Questa frontiera è, invece, di assoluta priorità per la responsabilità cristiana. Se l'uomo non è pensato come creatura non vi può essere sensato ragionamento sui suoi atti. La teoria che calcola il "migliore interesse" dell'essere umano, prima o dopo la nascita, portatore di handicap o malato grave, è esemplare, più ancora che per la sua inumanità, per la sua vacuità teoretica. Quale sarebbe il miglior interesse per un essere non integro, non sano? Non essere più. Che meravigliosa integrità e felicità restituiremmo al feto, all'infante, al malato, all'anziano, sopprimendolo! La irragionata convinzione secondo cui il migliore interesse di un essere ne chiederebbe e giustificherebbe la soppressione è, da sola, la straordinaria spia di una deriva suicidaria. Benedetto XVI l'ha messo in luce.


6. A tutto questo il vescovo cattolico, per primo, ha il compito di dire autorevolmente "no", "mi oppongo" (come nel "Racconto dell'Anticristo" di Solov'ev), non sorpreso dal trovarsi magari solo nella sollecitudine ultima per l'uomo: perché sola e universale nella comunità degli uomini è la Chiesa, com'è suo mandato e sua certezza, dall'origine. Un "no" detto senza pathos apocalittico. Con argomenti e con analisi, discernendo le tecniche e le metodiche. Con la sapienza di chi ha costruito e garantito la ragione dell'Occidente.

Perciò, nella risposta cattolica all'emergenza bioetica non vi è alcuna "sacralizzazione del biologico", come qualche critico sostiene. Ogni vita di cui l'intelletto e l'amore cattolico si occupano è sempre l'intero umano, che è molto più del vivente che appare al biologo o al clinico in quanto tali. Né vi è alcunché da sacralizzare, perché quell'intero è già "sacro".

Sono evidenze difficilmente controvertibili. Eppure resta, preoccupante, la diffusa incapacità, per non dire la resistenza cattolica a capire e a motivare il primato radicale, oggi, dell'annuncio antropologico. Sembra reciso il filo con la grande tradizione apologetica. La confusa cedevolezza di tanta cultura cattolica alle campagne mediatiche contro la "Chiesa del no" non attesta alcun proficuo "dialogo col mondo", piuttosto una situazione di dipendenza intellettuale e politica. Ma dei vescovi combattenti potranno portarci fuori dall'Egitto.


Bandana, relax e vita in tenda Lo "zio" Karol mai visto prima - Dai cassetti dei suoi ex allievi di Cracovia spuntano le fotografie delle gite con il futuro Papa. Che dava loro lezioni di "vita di coppia" - di Andrea Tornielli - Guarda le fotografie
Il sorriso è inconfondibile, nonostante la bandana rossa che gli fascia il capo, e i raggi del sole che gli fanno chiudere gli occhi. Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, è ritratto nell'immagine qui sopra durante una delle numerose escursioni che il prelato - dai suoi giovani amici soprannominato Wujek, «lo zio» - faceva durante l'estate. Escursioni, gite di diversi giorni, con soste in tenda, lunghe traversate sul kajak, messe celebrate all'aperto, passeggiate silenziose contemplando la natura, dialoghi sinceri e serrati sull'amore e sulla responsabilità. Sotto lo sguardo coinvolgente di quello straordinario «zio», gli universitari di Cracovia del gruppo «Srodowisko » («Ambiente») imparavano a volersi bene e a costruire su solide basi la loro vita di coppia. Wojtyla, prima sacerdote, poi vescovo e infine cardinale, seguivale loro storie e ne benediceva le nozze. Dialogava con loro, riportando le loro esperienze nelle sue riflessioni confluite nel libro Amore e responsabilità.

Traspare dalle immagini la storia dell'amicizia profonda che ha legato colui che sarebbe diventato l'inventore delle «Giornate mondiali della gioventù» ai suoi allievi. Il futuro Papa si trovava in gita con loro, a pagaiare sul kajak, anche quando venne raggiunto dalla chiamata del cardinale primate Stefan Wyszynski, che ai primi di luglio lo convoca a Varsavia per comunicargli la nomina a vescovo.
Queste fotografie, scattate in momenti di relax del gruppo «Srodowisko», sono rimaste gelosamente custodite nei cassetti dei loro autori. Vengono ora pubblicate a corredo del volume intitolato Bellezza e spiritualità dell'amore coniugale (Edizioni Cantagalli), che contiene un testo inedito di Wojtyla recentemente scoperto, una sorta di regola per giovani sposi datato 1968, l'anno dell'enciclica Humanae vitae di Paolo VI. Il documento è stato rintracciato nell'archivio della diocesi di Cracovia e sarà al centro della Giornata di studio sul tema «L'amore e la sua regola. La spiritualità coniugale di Karol Wojtyla» organizzata per il prossimo 24 aprile a Roma dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia (www.istitutogp2.it), presieduto da monsignor Livio Melina, insieme con la Cattedra Karol Wojtyla, diretta da Stanislaw Grygiel. Al seminario parteciperanno tre componenti del gruppo «Srodowisko», testimoni diretti di quegli anni: Danuta Ciesielska, la professoressa Teresa Malecka e il professor Gabriel Turowski.
La regola, scritta per le coppie, e non per i singoli coniugi, era, nell'intenzione del futuro Papa, soltanto la traccia iniziale di un lavoro che doveva essere via via arricchito e dunque aggiornato e ampliato, dall'esperienza di vita degli stessi sposi. «In quel testo – spiega al Giornale monsignor Livio Melina – Karol Wojtyla afferma che non c'è amore senza una regola. L'amore, anche se scaturisce da un evento affettivo, non è soltanto un sentimento, ma si compie in un atto libero della persona, che dona se stessa a un'altra persona. Da Papa, Giovanni Paolo II ribadirà più volte questa concezione personalistica, legata alle affermazioni contenute nell'enciclica Humanae vitae: colui che ama afferma la persona dell'altro per se stessa, e non per trarne una utilità o un piacere. Non si tratta dunque di una regola moralistica, esteriore all'atto, ma un'espressione interna, intima all'atto stesso».
«Un secondo aspetto – continua monsignor Melina – è che non c'è regola senza spiritualità e la regola va vissuta all'interno di uno slancio verso la perfezione dell'amore. Wojtyla, che rifletterà nel suo magistero una vera e propria teologia del corpo, dice ai suoi giovani amici coniugi che pur non essendo tenuti a seguire i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza come i consacrati, devono tendere anche loro ad essi e vivere il dono di sé nell'amore coniugale alla luce di questa verità piena del corpo». Infine, Wojtyla afferma nella regola che questa spiritualità non si può vivere, conclude monsignor Melina, «senza il sostegno di una comunità, di un gruppo di persone che aiuti a viverla: e lui definiva questo gruppo una "famiglia di famiglie"».
Quella «famiglia di famiglie» che queste fotografie ritraggono ai suoi inizi.
il Giornale 20-4-2009


Obama sfida l’America Latina - Lorenzo Albacete - mercoledì 22 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Le reazioni negli Stati Uniti al recente incontro del presidente Obama con i leader politici dell’America Latina e dei Caraibi (tutti democraticamente eletti, tranne naturalmente Cuba, non presente al meeting) si sono divise secondo le appartenenze partitiche.
Il Partito Repubblicano, profondamente diviso su come recuperare dopo le sconfitte alle elezioni presidenziali e per il Congresso, ha usato l’avvicinamento di Obama al venezuelano Chavez e il discorso antiamericano del presidente del Nicaragua Daniel Ortega, come un altro argomento a favore della loro campagna tesa a spaventare gli americani con l’ideologia “di sinistra” di Obama. Il suo approccio e la sua politica, affermano, fanno sembrare deboli gli Stati Uniti e mettono in pericolo la sicurezza nazionale.
La maggior parte dei Democratici sostiene il presidente, accusando il Partito Repubblicano di essere ancora incapace di capire le sfide del tempo presente. Qualche Democratico “moderato” o “conservatore” è però preoccupato per quella che appare essere la convinzione del presidente di poter accantonare le vecchie controversie senza che prima siano risolte. Ciò che si teme è che il taglio drastico di Obama con il passato possa essere pericoloso, se fatto sulla base di spinte ideologiche senza tener conto della realtà.
Questa discussione ricorda il dibattito sorto in campagna elettorale attorno ai rapporti di Obama con il Reverendo Jeremiah Wright, il Pastore della sua Chiesa a Chicago. Pochi americani “normali” hanno dimestichezza con la retorica dei dibattiti dei neri che abitano i sobborghi urbani e, quindi, molti sono rimasti scandalizzati da quelli che sembravano loro incendiari sermoni antipatriottici.
In questo scenario culturale si è in effetti sviluppato il bacino elettorale originario di Obama, ma molti americani avevano difficoltà a credere che almeno alcune di queste idee, così popolari nel suo gruppo sociale, non fossero condivise anche da Obama. Quando si rese conto che ciò avrebbe potuto danneggiare seriamente la sua corsa alla presidenza, Obama troncò le sue relazioni con Wright e gli ambienti culturali connessi.
Qualcosa di simile sta accadendo sul tema della politica degli Stati Uniti verso l’America Latina. Il cittadino medio americano non sa un granché della cultura latino-americana e delle discussioni attorno ad essa, né gli importa molto. Molti di questi dibattiti derivano dalle varie versioni del pensiero marxista e dalle sue relazioni con la dottrina e la prassi sociale cattolica. L’ignoranza degli americani sul pensiero e l’azione sociale cattolica è nota e la gran parte dei dibattiti in America avviene nel quadro della dottrina sociale protestante.
Il risultato è che per gli americani è molto difficile capire la retorica dei “caudillos” di sinistra o di destra che continuano a emergere nel mondo latino-americano. Molti pensatori, anche filo americani, sono risentiti di questa ignoranza e disinteresse sull’America Latina; per esempio, persino leader e pensatori fortemente antimarxisti non possono fare a meno di provare un minimo di piacere nel vedere tipi come Castro o Chavez affrontare gli Stati Uniti.
In questo scenario, la figura del presidente Obama è una sfida inaspettata per l’America Latina, in quanto mette in discussione molti degli stereotipi sui leader politici americani. La sicurezza e il brillante intelletto accademico di Obama attraggono e disarmano i latino-americani.
Per questo, personalmente ritengo la sua condotta al meeting con i leader latino-americani saggia e tale da non inviare un segno di debolezza da parte degli Usa. Il pericolo di questa posizione, tuttavia, è che proprio quell’abbandono del passato che essa richiede possa portare a ignorare preoccupazioni che invece non possono essere ignorate.


L’OBIEZIONE DI SALVATI - TUTTA LA CARITÀ HA AVVIO DALL’IDEA DI UOMO - GABRIELLA SARTORI – Avvenire, 22 aprile 2009
C osa dovrebbero o non dovrebbero fa­re il Papa e i vescovi italiani al fine di guidare il loro popolo verso le luminose mete richieste dai tempi, è un tema sul qua­le non cessa di esercitarsi uno stuolo nu­meroso di «soggetti». I modelli di intervento sono vari: si va dalla intimidatoria «con­danna » del Parlamento belga contro le di­chiarazioni fatte da Benedetto XVI sui li­miti dell’uso del preservativo nella lotta al­l’Aids a forme infinitamente più educate e rispettose espresse in tono di “consiglio” sinceramente amichevole. È il caso di un ar­ticolo apparso ieri sulla prima pagina di un quotidiano nazionale, a firma di Michele Salvati. Ma insomma, sospira il professore, visto che Papa, vescovi e volontariato cat­tolico sono così socialmente apprezzati nel fare «del bene» soccorrendo naufraghi, de­relitti e clandestini, nonché terremotati e fa­miglie colpite dalla crisi, “sfruttino” meglio questo patrimonio, lasciando perdere tut­ti quei discorsi di nascituri e morituri e di etica sessuale che abbassano il consenso sociale invece di accrescerlo, come anche alla Chiesa farebbe comodo. Insomma, conclude educatamente il professore, ca­ra Chiesa, più Caritas meno bioetica.
Il professore, che così amichevolmente si esprime, va per questo ringraziato ed ap­prezzato. E tuttavia, nella sostanza, certe divergenze restano. Sfugge, per esempio, il fatto che dire talu­ne cose (politica­mente scorrette, è vero) in fatto di na­scituri e morituri, di dignità umana da ri­spettare in ogni si­tuazione della vita, specie in quelle fra­gili, è, per chi crede in Cristo, un modo, non meno nobile e sostanziale, di dire e fare la carità. Tanto più che se non lo di­ce la Chiesa non lo dice nessun altro (e quindi la cosa arric­chisce il dibattito, anche a livello demo­cratico). Di più: queste “strane” idee di fon­do, sono esattamente all’origine delle va­rie forme di carità cristiana così gradite a tutti (i soldi a fin di bene, il soccorso ai de­boli e agli emarginati, le cure ai poveri...). Sono le idee che hanno segnato la diffe­renza rivoluzionaria fra quel che c’era pri­ma di Cristo e quel che c’è stato (e si vuol continuare a far sì che continui ad esserci) anche dopo Cristo. Né ad Atene né a Roma (che pure furono sedi di altissime civiltà) sa­rebbe mai venuto in mente a qualcuno di prendersi cura dei malati in fase inguaribi­le, oppure degli handicappati; o anche so­lo degli schiavi. Sfugge, a chi critica l’insistenza cattolica sui temi bioetici, che è qui che si misura davvero la fedeltà al principio dell’ugua­glianza fra gli esseri umani che fin qui ha caratterizzato la civiltà occidentale.
Quando si comincia a far differenza fra vi­te “degne“ e vite “non degne” di prosegui­re, la famosa “uguaglianza” di cui pure ci si riempie la bocca a tanti livelli (sociali, po­­litici, di “genere”...) già non c’è più.
Resta poi da fare qualche postilla: propor­re taluni criteri in tema di etica sessuale, farebbe dunque perder consenso alla Chie­sa perché il «costume» porta da tutt’altra parte. Cosa parzialmente vera. Ma forse non nei termini in cui anche alcuni sfidu­ciati cattolici pensano. Impegnato in una campagna di vaccina­zione contro una forma di cancro all’utero che prevede questo intervento sulle dodi­cenni italiane, cioè «prima del primo rap­porto sessuale», il professor Umberto Ve­ronesi ha ammesso con «sorpresa»: dal­lo screening che abbiamo fatto a Mila­no, è risultato che ben il sessanta per cen­to delle diciottenni cittadine non ha an­cora avuto tali rapporti. Roba che se l’a­vesse detta il cardinal Bagnasco avreb­be rischiato come minimo il più sarca­stico e alluvionale dei linciaggi mediati­ci. E anche di questo, che la realtà, a vol­te, è diversa da come ha interesse di far­cela vedere l’onda “corrente”, andrebbe tenuto conto. Anche in casa nostra.


LA STRATEGIA EMBLEMATICA DEL MUNICIPIO X DI ROMA - Le opposizioni antropologiche balcanizzano i territori comunali - DOMENICO DELLE FOGLIE – Avvenire, 22 aprile 2009
Come nel Sessantotto, peggio che nel Sessantotto.
Allora i consigli comunali si dilaniavano e votavano improbabili ordini del giorno sulla guerra del Vietnam o contro l’odiato imperialismo americano.
Oggi accade nei Municipi (altrimenti detti circoscrizioni), dove si discute e si arriva a votare sulle questioni antropologiche, tipo il Registro dei testamenti biologici. Accade in Italia, a Roma, dove l’iniziativa viene presentata sotto il titolo di 'salvaguardia dei diritti civili'.
Che detta così, si fa fatica a non essere d’accordo, salvo scoprire che si tratta di battaglie prevalentemente ideologiche. Al cui fondo s’intravede una concezione dei diritti che, esaltando l’autodeterminazione assoluta del singolo cittadino, non coglie o elude la dimensione relazionale insita nella storia personale e comunitaria.
Il caso del X Municipio romano è per molti versi emblematico. Lì si esercita una vera e propria opposizione antropologica nei confronti della giunta capitolina.
Se tutto questo non sorprende, deve però allertare quella parte della società civile più sensibile alle questioni della fine della vita e che non intende arrendersi a una soluzione che possa aprire la strada a derive eutanasiche.
Senza dire che, in presenza di una legge in discussione al Parlamento, oggetto di tensioni e contrapposizioni, appare evidente come questo tipo di iniziative abbiano un duplice obiettivo: fare pressing su tutti i consiglieri e rafforzare la contrapposizione etica sul territorio. Magari anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Una questione, dunque, politica, e non solo, e che per questo merita di essere stigmatizzata, in quanto solo apparentemente innocua, puntando ad aprire degli autentici 'crateri' antropologici.
Procediamo, se possibile, con ordine. Innanzitutto va ricostruito quanto è accaduto nel X Municipio di Roma, per intenderci quello di Cinecittà­Tuscolano, che 'amministra' una zona a grande densità abitativa (oltre 200mila abitanti). Qui il promotore del Registro è il presidente Sandro Medici (sinistra radicale) alla guida di una compagine di centrosinistra.
Il presidente gode dell’appoggio di un testimonial d’eccezione quale Mina Welby, moglie di Piergiorgio. Pronta a dichiarare: «Sarebbe ideale se ogni municipio e ogni comune avessero il loro Registro». Dopo un primo tentativo andato a vuoto con il suo consiglio, Medici ci ha riprovato con un atto unilaterale della sua giunta. Ma il blitz è fallito grazie ad un accordo fra i cattolici dei diversi schieramenti, promosso da esponenti dell’associazionismo cattolico di base: con una mozione approvata trasversalmente dal consiglio municipale il Registro è stato stoppato e il presidente di fatto sfiduciato.
In conclusione, più che amministrare la porzione di territorio a loro affidata, qualcuno vorrebbe che i consiglieri dei municipi o delle circoscrizioni si occupassero d’altro: ieri di coppie di fatto, oggi di testamenti biologici. Magari con la pretesa di pronunciarsi pure sul diritto all’autodeterminazione nel fine vita. Il tutto mentre il Parlamento discute e viene chiamato a decidere con saggezza. Davvero una strana Italia.


22 Aprile 2009 - LA POLEMICA - L’uomo-macchina, idolo della scienza – Avvenire, 22 aprile 2009
Il fascicolo in uscita del «Quaderni di Scienza & Vita», periodico diretto da Paola Ricci Sindoni e Paolo Marchionni, presenta alcuni contributi sull’educazione alla vita e, in particolare, una riflessione da due punti di vista apparentemente opposti, quello laico e quello credente. Quest’ultimo è rappresentato dalla nostra giornalista Marina Corradi, mentre la voce laica è quella del filosofo Pietro Barcellona, che ragiona sul progressivo abbandono dell’idea di uomo elaborata dalla cultura occidentale a favore di una nuova visione dove il sistema stabilisce il valore delle persone sul principio della ragione tecnologica. Pubblichiamo in questa pagina alcuni stralci della riflessione di Barcellona.

Non c’è dubbio che oggi ci tro­viamo di fronte a un muta­mento radicale del funzio­namento mentale e della configura­zione lessicale del mondo, che ri­chiederebbe un approccio comple­tamente nuovo alla strategia d’ana­lisi della realtà e dei modi dell’ap­prendimento. Non riesco a parlare con un giovane immerso nella logi­ca dell’istantaneità sui temi della tra­dizione storica, della lettura per suc­cessione di eventi. C’è uno scarto lin­guistico che rischia la rottura della comunicazione fra generazioni. In realtà noi non parliamo coi nostri fi­gli perché essi vivono in un altro u­niverso linguistico, perché la società si è disintegrata sotto l’azione dei mutamenti epocali che vengono rap­presentati come globalizzazione e pensiero unico, ma che ancora non sono compresi in una adeguata rap­presentazione del mondo. L’uomo ha dimenticato di essere un granello infinitesimale rispetto al­l’immensità sconosciuta dell’uni­verso e si è arrogato il potere di crea­re la vita senza la vita.

Certo, i frutti del sapere razionale sono enormi e le tecnologie consentono prestazioni prima inimmaginabili. Il progresso scientifico è stato il traguardo di sfor­zi inauditi e in esso sono state ripo­ste le speranze di un mondo miglio­re. Il prezzo pagato per questo vero e proprio delirio di onnipotenza è, però, che la razionalità si è trasfor­mata in una macchina costruita se­condo principi logico- matematici che consentono di calcolare funzio­ni e prestazioni producendo conti­nuamente strutture idonee a opera­re secondo impulsi codificati in ap­positi programmi operazionali. Il mondo è sistema e gli uomini sono inclusi nella logica sistemica: mac­chine per sopravvivere senza vivere. La ragione ha disintegrato l’uomo e ne ha fatto oggetto di studio. La psi­cologia, l’economia, la politica e via via il cuore, il fegato, i polmoni, il pancreas, gli occhi, sono diventati oggetto di sapere, guidati dall’unico metodo scientifico che si conosce: il riconoscimento della stessa comu­nità degli scienziati. Umberto Veronesi, sul «Corriere del­la Sera» di qualche mese fa, ha scrit­to che nel giro di qualche generazio­ne la differenza sessuale fra uomini e donne perderà ogni significato, che l’umanità si riprodurrà senza biso­gno dell’accoppiamento di un uomo e di una donna, ma attraverso l’inse­minazione artificiale e la clonazione, che l’evoluzione naturale della so­cietà ci porta oltre i confini dei tradi­zionali comportamenti sessuali e ci destina a nuove forme di relazioni interpersonali.

Così, in una qualsiasi pagina di gior­nale, viene annunciata senza alcun clamore la fine delle leggi che hanno fin qui governato il problema della riproduzione sociale, del ruolo della generazione, della responsabilità verso il futuro. Nel proclama di Ve­ronesi, di una umanità senza diffe­renze, è lo spazio, lo spazio della me­moria e del sogno, che viene negato e distrutto. Nell’universo indifferen­te ciascuno vive per se stesso, per il proprio godimento immediato che è garantito dalle nuove possibilità of­ferte dalla scienza, dalle biotecnolo­gie, dalla chimica, dalla fisica e dalle neuroscienze. Veronesi non annuncia il futuro del­la libertà umana, ma la morte del­l’immagine dell’uomo che è stata fa­ticosamente costruita nella storia dell’Occidente. L’indifferenza ses- suale non è un progetto di umanizzazione della società e della natura, non è un progetto di svi­luppo della consapevolezza del si­gnificato del nostro essere al mon­do, ma la cancellazione di ogni spa­zio mentale, non riducibile a sinapsi e a neuroni, dove possa svilupparsi la domanda umana sul senso della vita, sul valore squisitamente umano del sogno di un futuro diverso, sulle speranze di un avvenire di salvezza dall’ingiustizia e dalla sofferenza.

Og­gi la scienza e la filosofia non sop­portano il mondo delle passioni e dei sentimenti (a meno che non si ridu­cano a formule chimiche o a errori lo­gici) perché esso ci porta dentro una dimensione che non riesce a conci­liarsi con la loro pretesa di assoluto e di eternità: la temporalità caduca e divoratrice. Per la scienza come per tutti gli assoluti non esiste il tempo, il tempo della nascita né il tempo del­la morte, il tempo della gioia né il tempo del dolore. Ciò che accade, ac­cade per caso o per necessità. Non è un problema di coscienza, né una questione che riguarda soltanto ogni singolo indivi­duo, ma la stessa doman­da del chi siamo e del perché viviamo. Non si tratta soltanto di rie­vocare le grandi storie che ci hanno appassionato e for­mato: le passioni terribili che hanno scatenato le guerre antiche e moderne, gli amo­ri tragici di Paolo e France­sca, di Tristano e Isotta, di Giulietta e Romeo, ma l’inte­ro clima culturale in cui si è venuto sviluppando nell’Oc­cidente lo spazio specifico dell’essere umano combat­tuto fra le forze primordiali della na­tura, fra la implacabile legge dell’E­ros senza limiti, e il bisogno di un or­dine che sanzioni anche la respon­sabilità verso la progenie chiamata a raccogliere il testimone della vita. Gli dei greci, il Dio del cristianesimo, hanno reso possibile agli uomini i­stituire lo spazio mondano dell’in­terrogazione sulla verità come do­manda sul senso della vita.

In questo spazio sono apparse 'figure' che non hanno nulla a che fare col di­vino, né col natura­le: la tenerez­za dei corpi che si stringono, la bel­lezza di un neonato dalla pelle rosa­ta, la coscienza del tramonto del vi­gore giovanile, la nostalgia e la me­moria, il sapere e la speranza, la sof­ferenza e la gioia, l’estasi e il tor­mento. Attraverso di essi l’uomo ha cercato di sfuggire ad ogni statuto di necessità e di assumere sempre più la responsabilità della propria esi­stenza. Tutti sono bravi a descrivere la globalizza­zione, i mer­cati finanziari, il problema delle borse, i nuovi orizzonti intercul­turali, la scoperta delle cause di tutte le malattie, ma nessuno è più capa­ce di parlare a un bambi­no mutilato da una bom­ba americana caduta per caso su un villaggio pa­cifico o ai superstiti di un attentato kamikaze che ha stroncato la vita di giovani in festa in un pic­colo centro israeliano. Perché abbiamo perduto il senso del­la vita, le domande tragiche che na­scono dal dolore senza spiegazioni? Perché abbiamo confuso, forse in­tenzionalmente, la ragione con il pensiero e la conoscenza con la com­prensione. Questa è un’epoca in cui la ragione ha distrutto il pensiero e la cognizione ha soppresso l’intesa af­fettiva.
Pietro Barcellona