Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II, "la fiaccola della fede e della speranza" - Omelia nel quarto anniversario della morte di Papa Wojtyła
2) Critiche alla Corte costituzionale per le modifiche alla legge 40 - di Antonio Gaspari
3) “Questioni di vita & di morte”: manuale di morale naturale - Intervista all'autore, Tommaso Scandroglio - di Antonio Gaspari
4) Quarant'anni fa l'America della crisi del Vietnam e del dopo Kennedy tornava a nutrirsi di una nuova leggenda - Easy Rider - l'epica della contro epica - di Emilio Ranzato – L’Osservatore Romano, 3 aprile 2009
5) Selezionare un figlio sano - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 aprile 2009
6) RILEVANTE MA NON RIVOLUZIONARIA - SENTENZA DA INTERPRETARE NEL RISPETTO DEI PRINCIPI BIOETICI - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 3 aprile 2009
7) «Ma adesso io vedo profilarsi contraddizioni» - Eleonora Porcu: non si può lasciare agli operatori l’interpretazione dei vari articoli – Avvenire, 3 aprile 2009
Il Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II, "la fiaccola della fede e della speranza" - Omelia nel quarto anniversario della morte di Papa Wojtyła
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 2 aprile 209 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'omelia che Benedetto XVI ha pronunciato questo giovedì nell'Eucaristia solenne celebrata nella Basilica di San Pietro con i Cardinali e i giovani di Roma in occasione del quarto anniversario della morte di Giovanni Paolo II.
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Cari fratelli e sorelle!
Quattro anni or sono, proprio in questo giorno, l'amato mio Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, concludeva il suo pellegrinaggio terreno, dopo un non breve periodo di grande sofferenza. Celebriamo la Santa Eucaristia in suffragio della sua anima, mentre ringraziamo il Signore di averlo dato alla Chiesa, per tanti anni, come zelante e generoso Pastore. Ci riunisce questa sera il suo ricordo, che continua ad essere vivo nel cuore della gente, come dimostra anche l'ininterrotto pellegrinaggio di fedeli alla sua tomba, nelle Grotte Vaticane. È pertanto con emozione e gioia che presiedo questa Santa Messa, mentre saluto e ringrazio per la presenza voi, venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, e voi, cari fedeli venuti da varie parti del mondo, specialmente dalla Polonia, per tale significativa ricorrenza.
[Vorrei salutare i polacchi, in modo particolare, la gioventù polacca. Nel quarto anniversario della morte di Giovanni Paolo II accogliete il suo appello: "Non abbiate paura di affidarvi a Cristo. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione» (Tor Vergata, Veglia di preghiera 19.08.2000). Vi auguro che questo pensiero del Servo di Dio vi guidi nelle strade della vostra vita, e vi conduca alla felicità del mattino della Risurrezione.]
Saluto il Cardinale Vicario, il Cardinale Arcivescovo di Cracovia, il caro Cardinale Stanislao, e gli altri Cardinali e tutti gli altri Presuli; saluto i sacerdoti, i religiosi e le religiose. Saluto in modo speciale voi, amati giovani di Roma, che con questa celebrazione vi preparate alla Giornata Mondiale della Gioventù, che vivremo insieme domenica prossima, Domenica delle Palme. La vostra presenza mi richiama alla mente l'entusiasmo che Giovanni Paolo II sapeva infondere nelle nuove generazioni. La sua memoria è stimolo per tutti noi, raccolti in questa Basilica dove in molte occasioni egli ha celebrato l'Eucaristia, a lasciarci illuminare ed interpellare dalla Parola di Dio, poc'anzi proclamata.
Il Vangelo di questo giovedì della quinta settimana di Quaresima propone alla nostra meditazione l'ultima parte del capitolo VIII del Vangelo di Giovanni, che contiene come abbiamo sentito una lunga disputa sull'identità di Gesù. Poco prima Egli si è presentato come "la luce del mondo" (v. 12), usando per ben tre volte (vv. 24.28.58) l'espressione "Io Sono", che in senso forte richiama il nome di Dio rivelato a Mosè (cfr Es 3,14). Ed aggiunge: "Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte" (v. 51), dichiarando così di essere stato mandato da Dio, che è suo Padre, a portare agli uomini la libertà radicale dal peccato e dalla morte, indispensabile per entrare nella vita eterna. Le sue parole però feriscono l'orgoglio degli interlocutori, ed anche il riferimento al grande patriarca Abramo diventa motivo di conflitto. "In verità, in verità io vi dico: - afferma il Signore - prima che Abramo fosse, Io Sono" (8,58). Senza mezzi termini, dichiara la sua pre-esistenza e, dunque, la sua superiorità rispetto ad Abramo, suscitando - comprensibilmente - la reazione scandalizzata dei Giudei. Ma non può tacere Gesù la propria identità; sa che, alla fine, sarà il Padre stesso a rendergli ragione, glorificandolo con la morte e la risurrezione, perché proprio quando sarà innalzato sulla croce si rivelerà come l'unigenito Figlio di Dio (cfr Gv 8,28; Mc 15,39).
Cari amici, meditando su questa pagina del Vangelo di Giovanni, viene spontaneo considerare quanto sia difficile in verità rendere testimonianza a Cristo. Ed il pensiero va all'amato Servo di Dio Karol Wojtyła - Giovanni Paolo II, che sin da giovane si mostrò intrepido e ardito difensore di Cristo: per Cristo non esitò a spendere ogni energia al fine di diffonderne dappertutto la luce; non accettò di scendere a compromessi quando si trattava di proclamare e difendere la sua Verità; non si stancò mai di diffondere il suo amore. Dall'inizio del pontificato sino al 2 aprile del 2005, non ebbe paura di proclamare, a tutti e sempre, che solo Gesù è il Salvatore e il vero Liberatore dell'uomo e di tutto l'uomo. Nella prima lettura abbiamo sentito le parole ad Abramo "Ti renderò molto, molto fecondo" (Gen 17,6). Se testimoniare la propria adesione al Vangelo non è mai facile, è certamente di conforto la certezza che Dio rende fecondo il nostro impegno, quando è sincero e generoso. Anche da questo punto di vista significativa ci appare l'esperienza spirituale del servo di Dio Giovanni Paolo II. Guardando alla sua esistenza, vi vediamo come realizzata la promessa di fecondità fatta da Dio ad Abramo, ed echeggiata nella prima lettura tratta dal libro della Genesi. Si potrebbe dire che specialmente negli anni del suo lungo pontificato, egli ha generato alla fede molti figli e figlie. Ne siete segno visibile voi, cari giovani presenti questa sera: voi, giovani di Roma e voi, giovani venuti da Sydney e da Madrid, a rappresentare idealmente le schiere di ragazzi e ragazze che hanno partecipato alle ormai 23 Giornate Mondiali della Gioventù, in varie parti del mondo. Quante vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, quante giovani famiglie decise a vivere l'ideale evangelico e a tendere alla santità sono legate alla testimonianza e alla predicazione del mio venerato Predecessore! Quanti ragazzi e ragazze si sono convertiti, o hanno perseverato nel loro cammino cristiano grazie alla sua preghiera, al suo incoraggiamento, al suo sostegno e al suo esempio!
È vero! Giovanni Paolo II riusciva a comunicare una forte carica di speranza, fondata sulla fede in Gesù Cristo, il quale "è lo stesso ieri, oggi e per sempre" (Eb 13,8), come recitava il motto del Grande Giubileo del 2000. Come padre affettuoso e attento educatore, indicava sicuri e saldi punti di riferimento indispensabili per tutti, in special modo per la gioventù. E nell'ora dell'agonia e della morte, questa nuova generazione volle manifestargli di aver compreso i suoi ammaestramenti, raccogliendosi silenziosamente in preghiera in Piazza San Pietro e in tanti altri luoghi del mondo. Sentivano, i giovani, che la sua scomparsa costituiva una perdita: moriva il "loro" Papa, che consideravano "loro padre" nella fede. Avvertivano al tempo stesso che lasciava loro in eredità il suo coraggio e la coerenza della sua testimonianza. Non aveva egli sottolineato più volte il bisogno di una radicale adesione al Vangelo, esortando adulti e giovani a prendere sul serio questa comune responsabilità educativa? Anch'io come sapete ho voluto riprendere questa sua ansia, soffermandomi in diverse occasioni a parlare dell'urgenza educativa che concerne oggi le famiglie, la chiesa, la società e specialmente le nuove generazioni. Nell'età della crescita, i ragazzi hanno bisogno di adulti capaci di proporre loro principi e valori; avvertono il bisogno di persone che sappiano insegnare con la vita, ancor prima che con le parole, a spendersi per alti ideali.
Ma dove attingere luce e saggezza per portare a compimento questa missione, che tutti ci coinvolge nella Chiesa e nella società? Certamente non basta far appello alle risorse umane; occorre fidarsi anche e in primo luogo dell'aiuto divino. "Il Signore è fedele per sempre": così abbiamo pregato poco fa nel Salmo responsoriale, certi che Iddio non abbandona mai quanti a Lui restano fedeli. Ciò richiama il tema della 24a Giornata Mondiale della Gioventù, che sarà celebrata a livello diocesano domenica prossima. Esso è tratto dalla prima Lettera a Timoteo di san Paolo: "Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente" (4,10). L'Apostolo parla a nome della comunità cristiana, a nome di quanti hanno creduto in Cristo e sono diversi dagli "altri che non hanno speranza" (1 Ts 4,13), proprio perché invece sperano, nutrono cioè fiducia nel futuro, una fiducia non basata su idee o previsioni umane, bensì su Dio, il "Dio vivente".
Cari giovani, non si può vivere senza sperare. L'esperienza mostra che ogni cosa, e la nostra vita stessa sono a rischio, possono crollare per qualche motivo a noi interno o esterno, in qualsiasi momento. È normale: tutto ciò che è umano, e dunque anche la speranza, non ha fondamento in se stesso, ma necessita di una "roccia" a cui ancorarsi. Ecco perché Paolo scrive che la speranza umana i cristiani sono chiamati a fondarla sul "Dio vivente". Solo in Lui e con Lui diventa sicura e affidabile. Anzi solo Dio, che in Gesù Cristo ci ha rivelato la pienezza del suo amore, può essere la nostra salda speranza. In Lui, nostra speranza, infatti siamo stati salvati (cfr. Rm 8,24).
Fate però attenzione: in momenti come questo, dato il contesto culturale e sociale nel quale viviamo, potrebbe essere più forte il rischio di ridurre la speranza cristiana a ideologia, a slogan di gruppo, a rivestimento esteriore. Nulla di più contrario al messaggio di Gesù! Egli non vuole che i suoi discepoli "recitino" una parte, magari quella della speranza. Egli vuole che essi "siano" speranza, e possono esserlo soltanto se restano uniti a Lui! Vuole che ognuno di voi, cari giovani amici, sia una piccola sorgente di speranza per il suo prossimo, e che tutti insieme diventiate un'oasi di speranza per la società all'interno della quale siete inseriti. Ora, questo è possibile ad una condizione: che viviate di Lui e in Lui, mediante la preghiera e i Sacramenti, come vi ho scritto nel Messaggio di quest'anno. Se le parole di Cristo rimangono in noi, possiamo propagare la fiamma di quell'amore che Egli ha acceso sulla terra; possiamo portare alta la fiaccola della fede e della speranza, con la quale avanziamo verso di Lui, mentre ne attendiamo il ritorno glorioso alla fine dei tempi. È la fiaccola che il Papa Giovanni Paolo II ci ha lasciato in eredità. L'ha consegnata a me, come suo successore; ed io questa sera la consegno idealmente, ancora una volta, in un modo speciale a voi, giovani di Roma, perché continuiate ad essere sentinelle del mattino, vigili e gioiosi in quest'alba del terzo millennio. Rispondete generosamente all'appello di Cristo! In particolare, durante l'Anno Sacerdotale che inizierà il 19 giugno prossimo, rendetevi prontamente disponibili, se Gesù vi chiama, a seguirlo nella via del sacerdozio e della vita consacrata.
"Ecco ora il momento favorevole; è questo il giorno della salvezza!" Al canto al Vangelo, la liturgia ci ha esortati a rinnovare ora, - ed ogni istante è "momento favorevole" - la nostra decisa volontà di seguire Cristo, certi che Egli è la nostra salvezza. Questo, in fondo, è il messaggio che ci ripete questa sera il caro Papa Giovanni Paolo II. Mentre affidiamo la sua anima eletta alla materna intercessione della Vergine Maria che ha sempre amato teneramente, speriamo vivamente che dal Cielo non cessi di accompagnarci e di intercedere per noi. Aiuti ciascuno di noi a vivere, come lui ha fatto, ripetendo giorno dopo giorno a Dio, per mezzo di Maria con piena fiducia: Totus tuus. Amen!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana, aggiunte a cura di ZENIT]
Critiche alla Corte costituzionale per le modifiche alla legge 40 - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 2 marzo 2009 (ZENIT.org).- In attesa della lettura delle motivazioni, il Movimento per la Vita, l’Associazione Scienza & Vita e il Forum delle associazioni familiari hanno espresso giudizi critici nei confronti della sentenza della Corte costituzionale che ha accolto parzialmente i ricorsi mossi contro la Legge 40.
Mercoledì primo aprile la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 14, comma 2, della legge 18 febbraio 2004, n° 40, limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” embrioni.
La Corte ha anche dichiarato incostituzionale il comma 3 dello stesso articolo “nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”.
I giudici della Consulta hanno dichiarato inammissibile il ricorso sulla legittimità del comma 3 dell'art. 6 della legge 40. In questa parte della norma si stabilisce che la volontà di una coppia di accedere alle tecniche di fecondazione assistita “può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati fino al momento della fecondazione dell'ovulo”, stabilendo quindi un divieto successivo.
Ugualmente inammissibili le questioni di legittimità dei commi 1 e 4 dell' articolo 14: il primo comma vieta la crioconservazione di embrioni al di fuori di ipotesi limitate, mentre il comma 4 vieta la riduzione embrionaria di gravidanze plurime salvo nei casi previsti dalla legge sull'interruzione volontaria dela gravidanza.
In attesa della lettura delle motivazioni della sentenza che consentiranno di esprimere un giudizio più ponderato, l’Associazione Scienza & Vita, che nel referendum ha guidato il fronte astensionista, osserva che “i pilastri della legge sono ancora, alla prova dei fatti, quasi tutti ben saldi”.
Scienza & Vita si è detta “innegabilmente preoccupata” della possibilità che la sentenza abbia aperto alla creazione di un nuovo numero illimitato di embrioni il cui destino appare incerto, e per le gravi conseguenze che la necessaria iperstimolazione ovarica avrà sulla salute delle donne.
Ma l’associazione si dice comunque certa che il continuo affinamento delle tecniche, la rinnovata professionalità dei centri di Procreazione medicalmente assistita (Pma) italiani e la crescente coscienza degli operatori del settore, “argineranno le alterazioni causate da questa ferita inferta all’impianto primigenio della legge”.
Per Scienza & Vita si tratta di “una ferita voluta in maniera pretestuosa anche contro ogni evidenza scientifica e contro i dati diffusi dal ministero del Welfare relativamente all’applicazione della legge 40 nel 2007”.
“Si auspica – conclude – che da parte del ministero del Welfare vi sia un intervento deciso, anche attraverso le linee guida, finalizzato ad eliminare ogni possibile ambiguità e ad operare una radicale limitazione del danno, fatto salvo l’impianto garantista della legge nei confronti sia dell’embrione sia della donna”.
Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, ha commentato che “l’aspetto più singolare della decisione della Consulta in materia di legge 40 è che essa ha dichiarato incostituzionale anche la legge tedesca la quale, come la legge italiana, non permette la generazione di più di tre embrioni per ogni tentativo di impianto”.
“Eppure – ha osservato – la Costituzione tedesca non può certo dirsi meno garantista, meno impegnata nella tutela dei diritti dell’uomo e meno preoccupata della salute della donna di quella italiana”.
“Ai titolari delle cliniche operanti nel settore, che esultano per una loro presunta vittoria – ha precisato Casini –, consiglierei una maggiore prudenza perché è alquanto dubbio che possano contare sull’aumento della clientela per effetto della decisione della Corte”.
“Anche perché, dati dell’Istituto Superiore di Sanità alla mano, denunceremo tutti i casi di produzione di più di tre embrioni che aumenta nella donna il rischio di sindrome da iperstimolazione e quindi costituisce un’evidente violazione della regola della prudenza che ancora non è stata dichiarata incostituzionale”, ha affermato.
“Il limite dei tre embrioni – ha aggiunto Casini – era ed è una cautela per la salute della donna ed al tempo stesso anche la difesa avanzata del diritto alla vita del figlio generato in provetta che non può essere considerato un oggetto congelabile e distruggibile per un fine a lui estraneo”.
Secondo il Presidente del MpV, “aldilà dei dettagli, il vero nodo della questione resta l’identità umana del concepito e quindi la titolarità del suo diritto alla vita riconosciuta dall’articolo 1 della legge 40 che la Corte non ha contestato”.
“Da tempo con la forza di centinaia di migliaia di cittadini che hanno sottoscritto una proposta di legge di iniziativa popolare – ha concluso Casini –, abbiamo chiesto il riconoscimento della capacità giuridica di ogni essere umano fin dal momento del concepimento. Questo è il punto di arrivo del moto di tutta la storia umana verso l’eguaglianza in dignità. Continueremo a lavorare in questa direzione”.
Giuseppe Barbaro, Vicepresidente del Forum delle associazioni familiari, ha dichiarato che “la sentenza della Corte Costituzionale, singolare per la velocità con la quale è stata elaborata, lascia stupefatti per la sua scarsa tempestività” perchè “arriva giusto all’indomani della pubblicazione dei dati sull’applicazione della legge 40 che dimostrano quanto la legge che si vuole colpire abbia raggiunto gli obbiettivi che si prefiggeva soprattutto in termini di tutela della vita e difesa della salute della donna”.
“Sarà necessario attendere le motivazioni per capire quanto la sentenza intervenga sulla legge, ma di certo cancellare il numero massimo degli embrioni da impiantare ripropone i fantasmi dell’eugenetica e della selezione embrionale”, ha spiegato il Vicepresidente del Forum.
Inoltre, il provvedimento “torna ad esporre la salute delle donne a quei rischi che la legge aveva eliminato abbattendo l’incidenza della sindrome da iperovulazione. Tutto questo senza nulla aggiungere alle probabilità di successo delle metodiche di fecondazione artificiale”.
“La speranza – ha concluso Barbaro - è che attraverso la rapida elaborazione di sagge linee guida il governo sappia trovare un giusto punto di equilibrio tra le osservazioni della Corte e la tutela dei diritti della madre e del figlio che è quanto la società a stragrande maggioranza ha voluto e difeso”.
“Questioni di vita & di morte”: manuale di morale naturale - Intervista all'autore, Tommaso Scandroglio - di Antonio Gaspari
ROM, giovedì, 2 aprile 2009 (ZENIT.org).- E’ arrivato nelle librerie il libro di Tommaso Scandroglio, assistente di Filosofia del Diritto e Filosofia Teoretica presso l’Università Europea di Roma, dal titolo “Questioni di vita & di morte” (Ed. Ares, Milano, 2009, 240 pp. € 15,00).
Si tratta di una sorta di manuale dove dieci esperti rispondono alle domande più comuni sui temi di morale, quali per esempio: il concepito è già un essere umano? Perché la donna non può decidere della sua salute ricorrendo all’aborto? Se due ragazzi si amano, che male c’è ad avere rapporti sessuali prima del matrimonio? E se due persone non si amano più, perché non divorziare? L’affetto tra due omosessuali non è uguale a quello di due persone eterosessuali?
Per approfondire temi che sono ogni giorno sui gionali di tutto il mondo, ZENIT ha intervistato Tommaso Scandroglio, già autore di diversi saggi e articoli.
Perché questo libro?
Scandroglio: Due erano gli scopi di questo agile manuale di morale naturale. Innanzitutto fornire delle risposte semplici, immediate ed efficaci ai soliti luoghi comuni che infestano le questioni etiche. Einstein asseriva che se una cosa non la sai spiegare a tua nonna non l’hai capita. E’ così anche per le complesse tematiche attinenti alla bioetica e alla morale naturale. E’ evidente che ciascuno dei dieci argomenti trattati può essere sviluppato in modo assai più estensivo e analitico, ma è altrettanto evidente che i fondamenti di ogni problema di morale possono essere enucleati in modo chiaro senza far sconti alla solidità e validità delle argomentazioni.
L’altro scopo era ribadire un concetto che è persino logoro per chi abbia un minimo di dimestichezza con questi temi. La morale è la spiegazione razionale di quali condotte sono buone e quali cattive. La morale – per usare un aggettivo improprio ma efficace per la comprensione di noi post-moderni – la morale è di per se stessa laica. Non serve essere cattolici per dire che è sempre sbagliato uccidere direttamente e deliberatamente un essere umano innocente.
Oppure non serve la fede per comprendere che è illecito rubare, violentare, sequestrare una persona, fare uso di stupefacenti, abortire, chiedere di morire, divorziare, etc. I cattolici, o gli ebrei o i musulmani non hanno il copyright sulla morale. Non è necessario in prima battuta l’aggancio alla Rivelazione, in primis serve invece l’uso retto della ragione. E quest’ultima è di proprietà di tutti, atei compresi.
Nel testo infatti non si troveranno argomentazioni che si puntellano sui dati di fede presenti nella Bibbia, nella Tradizione o nel Magistero per corroborare le tesi addotte. Il saggio che ho avuto il piacere di curare è quindi in polemica con le posizioni fideistiche le quali affermano che solo la fede può spiegarci quali sono le condotte buone o malvagie per l’uomo.
Chi sono i personaggi intervistati?
Scandroglio: Il saggio vuole offrire una panoramica a 360 gradi sulle tematiche più dibattute in materia di morale naturale. Le prospettive di indagine sono assai diversificate. Gli autori intervistati hanno infatti competenze delle più varie: c’è il docente universitario, il magistrato, il ricercatore scientifico, il politico, lo psicoterapeuta, il filosofo del diritto.
Ciascuno di essi ha affrontato il tema con gli strumenti offerti dalla sua professione, ma – aspetto importante da sottolineare – le conclusioni a cui arriva, per esempio, il giudice e lo scienziato coincidono. Questo a dimostrazione – mi si conceda l’espressione un po’ criptica – che la realtà non può essere in contraddizione con se stessa.
Ciò a voler dire che, ad esempio, l’aborto sarà valutato negativamente sia in ambito medico, pensiamo solo alla sindrome post abortiva che colpisce le donne, sia ambito giuridico, laddove si metterà in evidenza la contraddizione che non tutti i soggetti di diritti godono degli stessi diritti fondamentali, sia in ambito sociologico e politico, vedendo in esso una frattura dolorosa dei rapporti sociali. Insomma, strade diverse portano tutte alla stessa meta.
Quali sono le risposte che più l’hanno colpita?
Scandroglio: Spigolando qua e là potrei citare la risposta dell’onorevole Carlo Casini allo slogan ormai datato “l’utero è mio”: certo che l’utero è della donna – risponde Casini – ma non quello che c’è dentro l’utero. Oppure mi viene in mente l’affermazione di don Stefano Teisa che la legge 40 sulla cosiddetta procreazione medicalmente assistita non è una buona legge, perché permette un tecnica di fecondazione che espone ad un rischio elevatissimo di morte gli embrioni.
Rammento anche quanto ha detto la genetista Maria Grazia Vianello in merito alla sicurezza dei profilattici che falliscono, nella trasmissione delle malattie veneree, nel 10-15% dei casi, o quanto affermato da padre Lino Ciccone sul fatto che avere rapporti sessuali prima del matrimonio è come appropriarsi di una casa prima che il legittimo proprietario abbia formalmente espresso la sua volontà di vendere o donare quella casa: una sorta di furto.
Mi piace poi ricordare le argomentazioni del professor Giacomo Samek Lodovici in merito al vincolo matrimoniale, istituto non inventato dalla Chiesa ma presente dall’antichità in moltissimi popoli non cristiani, e quelle del professor Mario Palmaro sulle coppie di fatto quando chiarisce che i diritti dei singoli conviventi sono già tutelati dal diritto comune vigente senza bisogno di ulteriori normative.
Da ricordare anche la chiara precisazione del dottor Roberto Marchesini allorché spiega che l’omosessualità non è una patologia, né un disturbo ma un sintomo di un disturbo, il quale è una “ferita dell'identità di genere, ossia di una immagine di sé come non adatto al mondo maschile”.
Parimenti mi hanno impressionato i dati forniti dal professor Antonello Vanni sui danni da assunzione di cannabis, la quale provoca la distruzione irreversibile di ampie zone del cervello e malformazioni dello stesso. Come poi non citare l’intervento della professoressa Claudia Navarini sull’eutanasia che con precisione e chiarezza fa luce sui temi dell’accanimento terapeutico, del testamento biologico e del rapporto medico- paziente.
Infine mi piace sottolineare l’intervento del magistrato Giacomo Rocchi che, in tema di legittima difesa arriva a giustificare anche l’uccisione dell’aggressore.
A chi è rivolto questo libro?
Scandroglio: A tutti. Perché tutti ormai sono chiamati a schierarsi su questi temi. Da qualche decennio temi come l’aborto, il divorzio, la contraccezione ed altri non sono più dominio esclusivo degli esperti.
A quanti di noi è capitato, se non di imbattersi in simili situazioni, perlomeno di dare una propria opinione su tali questioni. E spesso non si sa cosa dire. Oltre a ciò il cosiddetto caso limite è ormai prassi normale.
Pensiamo ad esempio al fatto che ogni anno in Italia vengono soppressi dai 130 ai 135 mila bambini nel ventre della madre per aborto procurato, oppure al fatto che dal 1995 al 2005 i divorzi sono aumentati del 74%.
Occorre risvegliare le coscienze e questo libro vuole contribuire, seppur ovviamente in modo minimo, a tale scopo. Ormai da tempo si è ingenerata nella psiche delle persone un meccanismo perverso di accettazione delle condotte più disumane.
L’equazione è la seguente: certi comportamenti sono esistiti da sempre, oggi più che mai. Se un comportamento è assai diffuso allora è normale, ma se è normale significa che è anche buono sotto il profilo morale. Ma se è buono perché non renderlo legittimo anche sul piano giuridico?
Tutti sono immersi in questo stato d’animo collettivo, ognuno di noi è impregnato, chi più chi meno, dal pervasivo spirito relativista e ognuno di noi è potenziale vittima di questo sofisma che ci fa scambiare il vero con il fasullo. E’ quanto mai necessario allora spezzare tale nefasto incantesimo e far riaprire gli occhi a quella ragione che da sempre è deputata a scoprire la verità sulle cose e sull’uomo.
Quarant'anni fa l'America della crisi del Vietnam e del dopo Kennedy tornava a nutrirsi di una nuova leggenda - Easy Rider - l'epica della contro epica - di Emilio Ranzato – L’Osservatore Romano, 3 aprile 2009
I ragazzi di Easy Rider oggi hanno quarant'anni in più. Uno è diventato una star dello show-biz, un altro, componente della più famosa famiglia d'attori americana, si è perso per strada dopo un pugno di pellicole troppo figlie del loro tempo per poter sperare di valicarne i confini, il terzo, all'epoca anche improvvisato benché non sprovveduto regista, ricompare saltuariamente, ma regolarmente in linea col suo personaggio di outsider un po' studiato a tavolino. Era il 1969 quando con le loro Harley Davidson erravano per un'America insolitamente ostile alla ricerca di risposte a domande divenute tutto d'un tratto mastodontiche. Promuovendo un nuovo mito di libertà che nascondeva la crisi d'identità di tutta una generazione. E salvando il cinema del loro Paese ingrato grazie anche ad un pizzico d'opportunismo. Come capita spesso alle opere che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari, infatti, anche il paradigma del road-movie, più che un evento realmente rivoluzionario, è stato il risultato di correnti e influenze pregresse giunte a piena maturazione: ciò che ne fa un mito pressoché intramontabile, più del ribellismo dalla facile presa o di meriti strettamente artistici che oggi appaiono un po' sbiaditi, è il fatto che non si tratta solo di un film, ma del punto d'approdo di un processo storico, sociale, cinematografico decisivo per la cultura americana. La strada che porta alle sue interstatali sconfinate e allucinate, a ben vedere, parte da molto lontano. Almeno da quella seconda metà degli anni Cinquanta in cui tutto sembrava congiurare contro le majors del cinema mainstream e del loro studiosystem dalla struttura piramidale, attaccato su più fronti da fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa: leggi antitrust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell'immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie - le nouvelles vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema - che prendevano di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano.
Con una sincronicità casuale quanto si vuole, ma che non manca di ribadire l'importanza del cinema nella società americana, poi, questa crisi della fabbrica dei sogni andava a prendere forma proprio alle porte del decennio che più avrebbe fatto traballare i valori nazionali e sconvolto l'opinione pubblica. Vietnam e attentato a Kennedy avrebbero rappresentato solo l'inizio di un processo autodistruttivo destinato a durare a lungo, ma era già abbastanza per una generazione cresciuta con il mito dell'America come nazione eletta a guidare l'occidente verso lidi di pace e prosperità.
È da questo fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, che trae linfa vitale il nuovo cinema indipendente. Un movimento ancora disgregato, ma già insospettabilmente vitale che intravede, nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni - nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico - più d'uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico parallelo a quello che, di lì a poco, promuoverà "in superficie" il contro-western di stampo liberal alla Soldato blu e Piccolo grande uomo. Ma che qui, ossia nel sottobosco delle produzioni low-budget divenute improvvisamente spavalde e aggressive, assumerà piuttosto i toni di una nuova forma di horror-movie, debitrice a sua volta dell'iconografia western di cui però esibirà generosamente un uso improprio e straniante, spogliandola così di quella vecchia mitopoietica che ora si vuole combattere a ogni costo.
Anche se pochi sul momento se ne accorgono, infatti, è in questi primi anni Sessanta che viene precocemente alla luce, grazie a un manipolo di registi destinati a rimanere per lo più nell'anonimato, quell'immagine di una provincia rurale orribilmente retrograda e violenta che avrebbe fatto la fortuna dell'horror del decennio successivo, e di pellicole destinate a divenire cult imprescindibili per generazioni di cinefili - se è vero che sopravvivono ancora oggi in una serie impressionante di varianti e remake - come Non aprite quella porta di Tobe Hooper o Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, pietre miliari, anche in questo caso, che si sono avvalse almeno in parte di intuizioni altrui. È l'epoca in cui comincia a serpeggiare - anche grazie all'avallo ancora scevro da ideologie di Hitchcock e del suo Psyco - un tòpos che avrebbe fatto scuola: quello che vede un gruppo di giovani forestieri abbandonare per motivi contingenti la strada maestra per inoltrarsi lungo percorsi secondari e perigliosi, dove regolarmente scopriranno un'America allergica al nuovo, e adagiata sui simboli ormai putrescenti della storia nazionale. Da qui in avanti si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all'addomesticamento spesso brutale della wilderness e alla conquista della frontiera, vessilli di una guerra di secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza. Nell'ottica della controcultura cinematografica, insomma, gli eventi fondanti della nazione smetteranno di rappresentare motivo d'orgoglio come accadeva nel vecchio cinema western per divenire simboli del rimosso della coscienza collettiva, e di un peccato originale alla luce del quale ora si vuole inquadrare tutta la storia del Paese per arrivare a comprendere quelle pericolose forze centripete di cui è diventato preda.
Quando il film del trentatreenne Dennis Hopper - attore proveniente non a caso proprio dal fulcro dello studiosystem - finalmente approda su questo terreno figurativo e tematico già in gran parte spianato, allora, il suo merito sarà semmai quello di incanalarne i caotici fermenti in un contesto più organico e persino accattivante, conciliando le istanze metaforiche della critica sociale e politica - anche qui non mancherà il martirio dei "figli" per mano dei "padri" sullo sfondo di un'America profonda e arretrata - con quelle di un nuovo vitalismo un po' modaiolo, condito sapientemente da un uso deflagrante della colonna sonora e strizzatine d'occhio agli eccessi libertari dell'epoca. Finendo così per rappresentare, paradossalmente, tanto il riepilogo e la celebrazione del cinema indipendente del decennio che va a concludersi, quanto già uno dei più fulgidi prodromi di quella che sarà la New Hollywood, ovvero di un nuovo cinema americano che, memore della severa lezione ricevuta da oltreoceano e dalla traumatica crisi interna, cercherà di conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle della cosiddetta politica degli autori.
Punto cruciale di questo lunghissimo e all'epoca non ancora terminato processo di distruzione e ricostruzione, Easy Rider lungo tale direzione anticiperà, in particolare, pur con accorgimenti ruffiani che in seguito saranno meglio assorbiti dai nuovi mezzi espressivi, quella epica della contro-epica che farà grande la generazione dei cineasti degli anni Settanta - Scorsese, Coppola, Cimino - e i loro losers dalla statura tragica, capace di accogliere le contraddizioni ormai conclamate della società di cui sono espressione.
Quarant'anni fa, insomma, mentre la sua patria d'appartenenza era ancora in pieno subbuglio, il cinema americano non solo ne registrava la crisi con uno sguardo impietoso, ma ritrovava inaspettatamente se stesso tornando a fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ovvero nutrirsi di leggende, poco importa se moralmente irrisolte o destinate alla sconfitta. Come quei bikers pronti a farsi inghiottire dalle fauci di un Paese cui non appartengono più.
(©L'Osservatore Romano - 3 aprile 2009)
Selezionare un figlio sano - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 aprile 2009
Qualche giorno fa alla tv, una giovane donna raccontava la sua storia, mostrava la foto del suo bimbo morto a soli quattro mesi a causa di una malattia genetica di cui lei e suo marito hanno scoperto d’essere portatori sani.
Lo faceva con una grande dignità e tu intuivi il suo dolore di madre, il dramma di chi ha cullato, accarezzato, baciato quel bimbo il cui destino era segnato.
Due persone che si vogliono bene, che mettono su famiglia, due persone fertili che scoprono d’essere portatrici sane di una malattia subdola, genetica, che non ti avvisa ma non ti lascia crescere, diventare adulto.
Poi la donna ha preso la foto di una cellula appena fecondata e ha chiesto al telespettatore di dire se era meglio selezionare delle cellule e sopprimere gli embrioni malati o assistere alla morte di un figlio.
Apparentemente la domanda ha una sola risposta, perché l’empatia ci vorrebbe solidali con il dolore della madre, la sua richiesta sembrava lecita, amorevole, il suo desiderio di portare in grembo un bimbo sano, destinato a vivere, la scienza che permette di guardare a quelle cellule fecondate e di selezionare la più sana, eliminando le altre.
La donna teneva tra le mani la foto della cellula fecondata e quelle del figlio, sembrava volerci tutti con lei, tutti ad avallare la sua richiesta, meglio un embrione morto che un bambino morto.
Già, ma se li chiami entrambi – figlio – come in realtà sono, allora come fai a scegliere?
Perché quella cellula fecondata ha già in sé gli occhi di tuo figlio, così come quel bimbo che hai stretto al cuore, se li chiami figlio è chiaro che non lo puoi selezionare, non ti resta che amare.
RILEVANTE MA NON RIVOLUZIONARIA - SENTENZA DA INTERPRETARE NEL RISPETTO DEI PRINCIPI BIOETICI - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 3 aprile 2009
Si può valutare la sentenza della Corte Costituzionale in merito alla legge sulla procreazione assistita in due modi: o per ciò che essa effettivamente dice o per quello che si vorrebbe che essa avesse detto (ma non ha detto!) o che si vorrebbe che potesse dire in futuro (e il futuro, si sa, è non solo sempre aperto, ma è anche imprevedibile). Il primo modo è l’unico intellettualmente onesto e in grado di dare una corretta informazione all’opinione pubblica; il secondo è ideologia, nel senso più deteriore del termine.
Quanto è cambiata la legge 40 dopo l’intervento della Corte? È cambiata pochissimo. Restano fermi tutti i suoi principi fondamentali: la tutela degli interessi del concepito in posizione non subordinata rispetto a quella di tutti gli altri soggetti coinvolti; il divieto di procreazione assistita a carico di donne sole o dopo la morte del partner; la proibizione di pratiche eterologhe; il divieto di qualsiasi sperimentazione sugli embrioni, il divieto di distruggerli, clonarli, congelarli, selezionarli, manipolarli a fini eugenetici e di selezionarli quanto al loro sesso; la proibizione di riduzione embrionaria di gravidanze plurime.
In che cosa è consistito allora l’intervento della Corte? Essa si è limitata a dichiarare incostituzionale il comma 3 dell’art. 14 della legge, accusandolo di non prevedere la subordinazione del trasferimento degli embrioni in utero a una rigorosa tutela della salute della donna e a rimuovere la conclusione del comma 2 del medesimo art. 14, sì da consentire (ipoteticamente) la formazione 'in vitro' di più di tre embrioni e sì da rimuovere (ma sempre ipoteticamente) il dovere del medico di procedere 'ad unico e contemporaneo impianto' nell’utero della donna degli embrioni creati in provetta.
Si tratta di una sentenza rivoluzionaria? Per nulla. Per quello che riguarda il comma 2 dell’art. 14 la Corte è stata persino ridondante: bastano le norme di buona pratica clinica e la più elementare consapevolezza deontologica per farci concludere che la tutela della salute è sempre e comunque un dovere primario del medico. Sotto questo profilo, comunque, se ridondanza c’è, è benvenuta, dato che i principi dell’etica medica meritano di essere ribaditi sempre e in ogni occasione. Per quel che concerne invece il 2° comma dell’art. 14, non è infondata la preoccupazione che i giudici della Corte abbiano 'abbassato la guardia' nella tutela dell’embrione, autorizzandone una produzione eccessiva e lasciandola comunque alla discrezione del medico. Ma resta pur fermo il divieto di congelamento e di distruzione degli embrioni.
Dunque, sembra difficile ipotizzare che, anche dopo la sentenza della Corte, un medico possa produrre intenzionalmente in provetta un numero di embrioni così alto da non poterne in alcun modo prevedere l’impianto in utero, nemmeno col consenso della donna. Di necessità, chi così si comportasse, arriverebbe dolosamente a violare il primo comma dell’art. 14 (confermato dalla stessa Corte nella sua validità), quello che proibisce sia il congelamento sia la distruzione degli embrioni. Bisogna riconoscere, che nella sua formulazione linguistica, la sentenza della Corte non è un modello di chiarezza. Ciò non di meno, non solo è ben possibile, ma è doveroso interpretarla nel pieno rispetto dei principi bioetici, citati all’inizio, che sono stati posti e che restano a fondamento della legge. La Corte, per tutelare nel modo più rigoroso la salute della donna, ha voluto rimuovere quello che probabilmente le è apparso un imbarazzante dovere fatto gravare sul medico dalla legge 40, il dovere, ove egli avesse prodotto tre embrioni in provetta, di attivare una pericolosa gravidanza trigemina a carico della donna, procedendo con 'un unico e contemporaneo impianto' a portare tutti e tre gli embrioni nell’utero materno. Non so se la Corte abbia ben valutato il fatto che l’ipotesi di attivare una gravidanza trigemina, se non era esclusa dalla legge, non era nemmeno ritenuta da essa obbligatoria! Ora, comunque, dopo il suo intervento, sappiamo che questa ipotesi è definitivamente cancellata dal testo della legge. Ma poiché non sono state cancellate le altre norme a tutela dell’embrione, la conseguenza ora è che i medici dovranno ben guardarsi in futuro dal produrre più di due embrioni nell’ambito di una procedura di fecondazione assistita.
Così vuole il buon senso e questa è l’unica conclusione corretta che l’interprete può trarre da ciò che la Corte ha esplicitamente detto. Chi invece approfitta di ogni occasione per sovrapporre la propria ideologia alla realtà delle cose continuerà a farlo anche in questo caso. Deplorevolmente.
«Ma adesso io vedo profilarsi contraddizioni» - Eleonora Porcu: non si può lasciare agli operatori l’interpretazione dei vari articoli – Avvenire, 3 aprile 2009
DA MILANO
« S ono confusa e perplessa. La legge com’era aveva una sua coerenza. Ora sembra che ci siano norme in contraddizione tra loro » . La ginecologa Eleonora Porcu, responsabile del Centro sterilità dell’Ospedale Sant’Orsola- Malpighi di Bologna, si dichiara disorientata dalla decisione della Consulta di bocciare alcune parti della legge 40 e puntualizza: « La legge permetteva già una certa libertà di manovra per personalizzare le terapie a seconda dell’età delle pazienti. Certamente non si può lasciare all’interpretazione degli operatori il futuro della legge » . La Corte Costituzionale ha bocciato il limite massimo di tre embrioni da generare, ma non il divieto di congelarli e distruggerli, generando più di un dubbio. « Sono rimasta sconcertata – dichiara la Porcu – . È stata bocciata la prescrizione di un unico impianto di embrioni, non più di tre. Sembra quindi che sia possibile generare più di tre embrioni. D’altro lato resta vietata la crioconservazione e la distruzione degli embrioni. Ma se si produce un numero di embrioni superiori al necessario, si avranno di nuovo embrioni soprannumerari.
Che destino avranno? E noi operatori come dobbiamo comportarci tra due ingiunzioni contraddittorie? » . Tra le accuse alla legge, il rischio di gravidanze trigemellari è uno dei più noti, ma non è inevitabile, commenta la dottoressa Porcu: « La legge dice che si possono generare tre embrioni al massimo ma non obbligatoriamente. La gravidanza trigemellare, sebbene non sia auspicabile, è però un fatto che può accadere naturalmente. Quindi il limite di tre embrioni stabilito dalla legge rientra in un ambito di prudenza e di compatibilità con un’eventuale gravidanza » . Ma quel che più conta è che « il numero massimo di tre non obbliga a generarne tre, ma non più di tre. Nel caso di una donna di età più avanzata, quindi con una fertilità meno rigogliosa, ha senso trasferirne tre. Se viceversa l’età è più giovane e quindi si è in presenza di una maggiore fertilità potenziale, è opportuno inseminare un numero minore di ovociti e di conseguenza trasferire meno di tre embrioni. Questo è il comportamento cui mi sono sempre attenuta, scegliendo di volta in volta la strategia migliore, personalizzando le terapie opportune per le pazienti » .
Ora prevale il disorientamento. « E altrettanto ve ne sarà nelle coppie. La legge bilancia opportunamente i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito: è ormai provato che sono norme logiche e attuabili » . Ora invece « nessuno può sostenere con certezza – puntualizza la Porcu – che c’è libertà di generare un numero superiore di embrioni e poi invocare lo stato di necessità della salute della donna per non impiantarne alcuni. Certamente serviranno istruzioni agli operatori: non può essere la loro interpretazione personale a declinare l’attuazione della legge » .
Enrico Negrotti
1) Il Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II, "la fiaccola della fede e della speranza" - Omelia nel quarto anniversario della morte di Papa Wojtyła
2) Critiche alla Corte costituzionale per le modifiche alla legge 40 - di Antonio Gaspari
3) “Questioni di vita & di morte”: manuale di morale naturale - Intervista all'autore, Tommaso Scandroglio - di Antonio Gaspari
4) Quarant'anni fa l'America della crisi del Vietnam e del dopo Kennedy tornava a nutrirsi di una nuova leggenda - Easy Rider - l'epica della contro epica - di Emilio Ranzato – L’Osservatore Romano, 3 aprile 2009
5) Selezionare un figlio sano - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 aprile 2009
6) RILEVANTE MA NON RIVOLUZIONARIA - SENTENZA DA INTERPRETARE NEL RISPETTO DEI PRINCIPI BIOETICI - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 3 aprile 2009
7) «Ma adesso io vedo profilarsi contraddizioni» - Eleonora Porcu: non si può lasciare agli operatori l’interpretazione dei vari articoli – Avvenire, 3 aprile 2009
Il Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II, "la fiaccola della fede e della speranza" - Omelia nel quarto anniversario della morte di Papa Wojtyła
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 2 aprile 209 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'omelia che Benedetto XVI ha pronunciato questo giovedì nell'Eucaristia solenne celebrata nella Basilica di San Pietro con i Cardinali e i giovani di Roma in occasione del quarto anniversario della morte di Giovanni Paolo II.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Quattro anni or sono, proprio in questo giorno, l'amato mio Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, concludeva il suo pellegrinaggio terreno, dopo un non breve periodo di grande sofferenza. Celebriamo la Santa Eucaristia in suffragio della sua anima, mentre ringraziamo il Signore di averlo dato alla Chiesa, per tanti anni, come zelante e generoso Pastore. Ci riunisce questa sera il suo ricordo, che continua ad essere vivo nel cuore della gente, come dimostra anche l'ininterrotto pellegrinaggio di fedeli alla sua tomba, nelle Grotte Vaticane. È pertanto con emozione e gioia che presiedo questa Santa Messa, mentre saluto e ringrazio per la presenza voi, venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, e voi, cari fedeli venuti da varie parti del mondo, specialmente dalla Polonia, per tale significativa ricorrenza.
[Vorrei salutare i polacchi, in modo particolare, la gioventù polacca. Nel quarto anniversario della morte di Giovanni Paolo II accogliete il suo appello: "Non abbiate paura di affidarvi a Cristo. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione» (Tor Vergata, Veglia di preghiera 19.08.2000). Vi auguro che questo pensiero del Servo di Dio vi guidi nelle strade della vostra vita, e vi conduca alla felicità del mattino della Risurrezione.]
Saluto il Cardinale Vicario, il Cardinale Arcivescovo di Cracovia, il caro Cardinale Stanislao, e gli altri Cardinali e tutti gli altri Presuli; saluto i sacerdoti, i religiosi e le religiose. Saluto in modo speciale voi, amati giovani di Roma, che con questa celebrazione vi preparate alla Giornata Mondiale della Gioventù, che vivremo insieme domenica prossima, Domenica delle Palme. La vostra presenza mi richiama alla mente l'entusiasmo che Giovanni Paolo II sapeva infondere nelle nuove generazioni. La sua memoria è stimolo per tutti noi, raccolti in questa Basilica dove in molte occasioni egli ha celebrato l'Eucaristia, a lasciarci illuminare ed interpellare dalla Parola di Dio, poc'anzi proclamata.
Il Vangelo di questo giovedì della quinta settimana di Quaresima propone alla nostra meditazione l'ultima parte del capitolo VIII del Vangelo di Giovanni, che contiene come abbiamo sentito una lunga disputa sull'identità di Gesù. Poco prima Egli si è presentato come "la luce del mondo" (v. 12), usando per ben tre volte (vv. 24.28.58) l'espressione "Io Sono", che in senso forte richiama il nome di Dio rivelato a Mosè (cfr Es 3,14). Ed aggiunge: "Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte" (v. 51), dichiarando così di essere stato mandato da Dio, che è suo Padre, a portare agli uomini la libertà radicale dal peccato e dalla morte, indispensabile per entrare nella vita eterna. Le sue parole però feriscono l'orgoglio degli interlocutori, ed anche il riferimento al grande patriarca Abramo diventa motivo di conflitto. "In verità, in verità io vi dico: - afferma il Signore - prima che Abramo fosse, Io Sono" (8,58). Senza mezzi termini, dichiara la sua pre-esistenza e, dunque, la sua superiorità rispetto ad Abramo, suscitando - comprensibilmente - la reazione scandalizzata dei Giudei. Ma non può tacere Gesù la propria identità; sa che, alla fine, sarà il Padre stesso a rendergli ragione, glorificandolo con la morte e la risurrezione, perché proprio quando sarà innalzato sulla croce si rivelerà come l'unigenito Figlio di Dio (cfr Gv 8,28; Mc 15,39).
Cari amici, meditando su questa pagina del Vangelo di Giovanni, viene spontaneo considerare quanto sia difficile in verità rendere testimonianza a Cristo. Ed il pensiero va all'amato Servo di Dio Karol Wojtyła - Giovanni Paolo II, che sin da giovane si mostrò intrepido e ardito difensore di Cristo: per Cristo non esitò a spendere ogni energia al fine di diffonderne dappertutto la luce; non accettò di scendere a compromessi quando si trattava di proclamare e difendere la sua Verità; non si stancò mai di diffondere il suo amore. Dall'inizio del pontificato sino al 2 aprile del 2005, non ebbe paura di proclamare, a tutti e sempre, che solo Gesù è il Salvatore e il vero Liberatore dell'uomo e di tutto l'uomo. Nella prima lettura abbiamo sentito le parole ad Abramo "Ti renderò molto, molto fecondo" (Gen 17,6). Se testimoniare la propria adesione al Vangelo non è mai facile, è certamente di conforto la certezza che Dio rende fecondo il nostro impegno, quando è sincero e generoso. Anche da questo punto di vista significativa ci appare l'esperienza spirituale del servo di Dio Giovanni Paolo II. Guardando alla sua esistenza, vi vediamo come realizzata la promessa di fecondità fatta da Dio ad Abramo, ed echeggiata nella prima lettura tratta dal libro della Genesi. Si potrebbe dire che specialmente negli anni del suo lungo pontificato, egli ha generato alla fede molti figli e figlie. Ne siete segno visibile voi, cari giovani presenti questa sera: voi, giovani di Roma e voi, giovani venuti da Sydney e da Madrid, a rappresentare idealmente le schiere di ragazzi e ragazze che hanno partecipato alle ormai 23 Giornate Mondiali della Gioventù, in varie parti del mondo. Quante vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, quante giovani famiglie decise a vivere l'ideale evangelico e a tendere alla santità sono legate alla testimonianza e alla predicazione del mio venerato Predecessore! Quanti ragazzi e ragazze si sono convertiti, o hanno perseverato nel loro cammino cristiano grazie alla sua preghiera, al suo incoraggiamento, al suo sostegno e al suo esempio!
È vero! Giovanni Paolo II riusciva a comunicare una forte carica di speranza, fondata sulla fede in Gesù Cristo, il quale "è lo stesso ieri, oggi e per sempre" (Eb 13,8), come recitava il motto del Grande Giubileo del 2000. Come padre affettuoso e attento educatore, indicava sicuri e saldi punti di riferimento indispensabili per tutti, in special modo per la gioventù. E nell'ora dell'agonia e della morte, questa nuova generazione volle manifestargli di aver compreso i suoi ammaestramenti, raccogliendosi silenziosamente in preghiera in Piazza San Pietro e in tanti altri luoghi del mondo. Sentivano, i giovani, che la sua scomparsa costituiva una perdita: moriva il "loro" Papa, che consideravano "loro padre" nella fede. Avvertivano al tempo stesso che lasciava loro in eredità il suo coraggio e la coerenza della sua testimonianza. Non aveva egli sottolineato più volte il bisogno di una radicale adesione al Vangelo, esortando adulti e giovani a prendere sul serio questa comune responsabilità educativa? Anch'io come sapete ho voluto riprendere questa sua ansia, soffermandomi in diverse occasioni a parlare dell'urgenza educativa che concerne oggi le famiglie, la chiesa, la società e specialmente le nuove generazioni. Nell'età della crescita, i ragazzi hanno bisogno di adulti capaci di proporre loro principi e valori; avvertono il bisogno di persone che sappiano insegnare con la vita, ancor prima che con le parole, a spendersi per alti ideali.
Ma dove attingere luce e saggezza per portare a compimento questa missione, che tutti ci coinvolge nella Chiesa e nella società? Certamente non basta far appello alle risorse umane; occorre fidarsi anche e in primo luogo dell'aiuto divino. "Il Signore è fedele per sempre": così abbiamo pregato poco fa nel Salmo responsoriale, certi che Iddio non abbandona mai quanti a Lui restano fedeli. Ciò richiama il tema della 24a Giornata Mondiale della Gioventù, che sarà celebrata a livello diocesano domenica prossima. Esso è tratto dalla prima Lettera a Timoteo di san Paolo: "Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente" (4,10). L'Apostolo parla a nome della comunità cristiana, a nome di quanti hanno creduto in Cristo e sono diversi dagli "altri che non hanno speranza" (1 Ts 4,13), proprio perché invece sperano, nutrono cioè fiducia nel futuro, una fiducia non basata su idee o previsioni umane, bensì su Dio, il "Dio vivente".
Cari giovani, non si può vivere senza sperare. L'esperienza mostra che ogni cosa, e la nostra vita stessa sono a rischio, possono crollare per qualche motivo a noi interno o esterno, in qualsiasi momento. È normale: tutto ciò che è umano, e dunque anche la speranza, non ha fondamento in se stesso, ma necessita di una "roccia" a cui ancorarsi. Ecco perché Paolo scrive che la speranza umana i cristiani sono chiamati a fondarla sul "Dio vivente". Solo in Lui e con Lui diventa sicura e affidabile. Anzi solo Dio, che in Gesù Cristo ci ha rivelato la pienezza del suo amore, può essere la nostra salda speranza. In Lui, nostra speranza, infatti siamo stati salvati (cfr. Rm 8,24).
Fate però attenzione: in momenti come questo, dato il contesto culturale e sociale nel quale viviamo, potrebbe essere più forte il rischio di ridurre la speranza cristiana a ideologia, a slogan di gruppo, a rivestimento esteriore. Nulla di più contrario al messaggio di Gesù! Egli non vuole che i suoi discepoli "recitino" una parte, magari quella della speranza. Egli vuole che essi "siano" speranza, e possono esserlo soltanto se restano uniti a Lui! Vuole che ognuno di voi, cari giovani amici, sia una piccola sorgente di speranza per il suo prossimo, e che tutti insieme diventiate un'oasi di speranza per la società all'interno della quale siete inseriti. Ora, questo è possibile ad una condizione: che viviate di Lui e in Lui, mediante la preghiera e i Sacramenti, come vi ho scritto nel Messaggio di quest'anno. Se le parole di Cristo rimangono in noi, possiamo propagare la fiamma di quell'amore che Egli ha acceso sulla terra; possiamo portare alta la fiaccola della fede e della speranza, con la quale avanziamo verso di Lui, mentre ne attendiamo il ritorno glorioso alla fine dei tempi. È la fiaccola che il Papa Giovanni Paolo II ci ha lasciato in eredità. L'ha consegnata a me, come suo successore; ed io questa sera la consegno idealmente, ancora una volta, in un modo speciale a voi, giovani di Roma, perché continuiate ad essere sentinelle del mattino, vigili e gioiosi in quest'alba del terzo millennio. Rispondete generosamente all'appello di Cristo! In particolare, durante l'Anno Sacerdotale che inizierà il 19 giugno prossimo, rendetevi prontamente disponibili, se Gesù vi chiama, a seguirlo nella via del sacerdozio e della vita consacrata.
"Ecco ora il momento favorevole; è questo il giorno della salvezza!" Al canto al Vangelo, la liturgia ci ha esortati a rinnovare ora, - ed ogni istante è "momento favorevole" - la nostra decisa volontà di seguire Cristo, certi che Egli è la nostra salvezza. Questo, in fondo, è il messaggio che ci ripete questa sera il caro Papa Giovanni Paolo II. Mentre affidiamo la sua anima eletta alla materna intercessione della Vergine Maria che ha sempre amato teneramente, speriamo vivamente che dal Cielo non cessi di accompagnarci e di intercedere per noi. Aiuti ciascuno di noi a vivere, come lui ha fatto, ripetendo giorno dopo giorno a Dio, per mezzo di Maria con piena fiducia: Totus tuus. Amen!
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Critiche alla Corte costituzionale per le modifiche alla legge 40 - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 2 marzo 2009 (ZENIT.org).- In attesa della lettura delle motivazioni, il Movimento per la Vita, l’Associazione Scienza & Vita e il Forum delle associazioni familiari hanno espresso giudizi critici nei confronti della sentenza della Corte costituzionale che ha accolto parzialmente i ricorsi mossi contro la Legge 40.
Mercoledì primo aprile la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 14, comma 2, della legge 18 febbraio 2004, n° 40, limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” embrioni.
La Corte ha anche dichiarato incostituzionale il comma 3 dello stesso articolo “nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”.
I giudici della Consulta hanno dichiarato inammissibile il ricorso sulla legittimità del comma 3 dell'art. 6 della legge 40. In questa parte della norma si stabilisce che la volontà di una coppia di accedere alle tecniche di fecondazione assistita “può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati fino al momento della fecondazione dell'ovulo”, stabilendo quindi un divieto successivo.
Ugualmente inammissibili le questioni di legittimità dei commi 1 e 4 dell' articolo 14: il primo comma vieta la crioconservazione di embrioni al di fuori di ipotesi limitate, mentre il comma 4 vieta la riduzione embrionaria di gravidanze plurime salvo nei casi previsti dalla legge sull'interruzione volontaria dela gravidanza.
In attesa della lettura delle motivazioni della sentenza che consentiranno di esprimere un giudizio più ponderato, l’Associazione Scienza & Vita, che nel referendum ha guidato il fronte astensionista, osserva che “i pilastri della legge sono ancora, alla prova dei fatti, quasi tutti ben saldi”.
Scienza & Vita si è detta “innegabilmente preoccupata” della possibilità che la sentenza abbia aperto alla creazione di un nuovo numero illimitato di embrioni il cui destino appare incerto, e per le gravi conseguenze che la necessaria iperstimolazione ovarica avrà sulla salute delle donne.
Ma l’associazione si dice comunque certa che il continuo affinamento delle tecniche, la rinnovata professionalità dei centri di Procreazione medicalmente assistita (Pma) italiani e la crescente coscienza degli operatori del settore, “argineranno le alterazioni causate da questa ferita inferta all’impianto primigenio della legge”.
Per Scienza & Vita si tratta di “una ferita voluta in maniera pretestuosa anche contro ogni evidenza scientifica e contro i dati diffusi dal ministero del Welfare relativamente all’applicazione della legge 40 nel 2007”.
“Si auspica – conclude – che da parte del ministero del Welfare vi sia un intervento deciso, anche attraverso le linee guida, finalizzato ad eliminare ogni possibile ambiguità e ad operare una radicale limitazione del danno, fatto salvo l’impianto garantista della legge nei confronti sia dell’embrione sia della donna”.
Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, ha commentato che “l’aspetto più singolare della decisione della Consulta in materia di legge 40 è che essa ha dichiarato incostituzionale anche la legge tedesca la quale, come la legge italiana, non permette la generazione di più di tre embrioni per ogni tentativo di impianto”.
“Eppure – ha osservato – la Costituzione tedesca non può certo dirsi meno garantista, meno impegnata nella tutela dei diritti dell’uomo e meno preoccupata della salute della donna di quella italiana”.
“Ai titolari delle cliniche operanti nel settore, che esultano per una loro presunta vittoria – ha precisato Casini –, consiglierei una maggiore prudenza perché è alquanto dubbio che possano contare sull’aumento della clientela per effetto della decisione della Corte”.
“Anche perché, dati dell’Istituto Superiore di Sanità alla mano, denunceremo tutti i casi di produzione di più di tre embrioni che aumenta nella donna il rischio di sindrome da iperstimolazione e quindi costituisce un’evidente violazione della regola della prudenza che ancora non è stata dichiarata incostituzionale”, ha affermato.
“Il limite dei tre embrioni – ha aggiunto Casini – era ed è una cautela per la salute della donna ed al tempo stesso anche la difesa avanzata del diritto alla vita del figlio generato in provetta che non può essere considerato un oggetto congelabile e distruggibile per un fine a lui estraneo”.
Secondo il Presidente del MpV, “aldilà dei dettagli, il vero nodo della questione resta l’identità umana del concepito e quindi la titolarità del suo diritto alla vita riconosciuta dall’articolo 1 della legge 40 che la Corte non ha contestato”.
“Da tempo con la forza di centinaia di migliaia di cittadini che hanno sottoscritto una proposta di legge di iniziativa popolare – ha concluso Casini –, abbiamo chiesto il riconoscimento della capacità giuridica di ogni essere umano fin dal momento del concepimento. Questo è il punto di arrivo del moto di tutta la storia umana verso l’eguaglianza in dignità. Continueremo a lavorare in questa direzione”.
Giuseppe Barbaro, Vicepresidente del Forum delle associazioni familiari, ha dichiarato che “la sentenza della Corte Costituzionale, singolare per la velocità con la quale è stata elaborata, lascia stupefatti per la sua scarsa tempestività” perchè “arriva giusto all’indomani della pubblicazione dei dati sull’applicazione della legge 40 che dimostrano quanto la legge che si vuole colpire abbia raggiunto gli obbiettivi che si prefiggeva soprattutto in termini di tutela della vita e difesa della salute della donna”.
“Sarà necessario attendere le motivazioni per capire quanto la sentenza intervenga sulla legge, ma di certo cancellare il numero massimo degli embrioni da impiantare ripropone i fantasmi dell’eugenetica e della selezione embrionale”, ha spiegato il Vicepresidente del Forum.
Inoltre, il provvedimento “torna ad esporre la salute delle donne a quei rischi che la legge aveva eliminato abbattendo l’incidenza della sindrome da iperovulazione. Tutto questo senza nulla aggiungere alle probabilità di successo delle metodiche di fecondazione artificiale”.
“La speranza – ha concluso Barbaro - è che attraverso la rapida elaborazione di sagge linee guida il governo sappia trovare un giusto punto di equilibrio tra le osservazioni della Corte e la tutela dei diritti della madre e del figlio che è quanto la società a stragrande maggioranza ha voluto e difeso”.
“Questioni di vita & di morte”: manuale di morale naturale - Intervista all'autore, Tommaso Scandroglio - di Antonio Gaspari
ROM, giovedì, 2 aprile 2009 (ZENIT.org).- E’ arrivato nelle librerie il libro di Tommaso Scandroglio, assistente di Filosofia del Diritto e Filosofia Teoretica presso l’Università Europea di Roma, dal titolo “Questioni di vita & di morte” (Ed. Ares, Milano, 2009, 240 pp. € 15,00).
Si tratta di una sorta di manuale dove dieci esperti rispondono alle domande più comuni sui temi di morale, quali per esempio: il concepito è già un essere umano? Perché la donna non può decidere della sua salute ricorrendo all’aborto? Se due ragazzi si amano, che male c’è ad avere rapporti sessuali prima del matrimonio? E se due persone non si amano più, perché non divorziare? L’affetto tra due omosessuali non è uguale a quello di due persone eterosessuali?
Per approfondire temi che sono ogni giorno sui gionali di tutto il mondo, ZENIT ha intervistato Tommaso Scandroglio, già autore di diversi saggi e articoli.
Perché questo libro?
Scandroglio: Due erano gli scopi di questo agile manuale di morale naturale. Innanzitutto fornire delle risposte semplici, immediate ed efficaci ai soliti luoghi comuni che infestano le questioni etiche. Einstein asseriva che se una cosa non la sai spiegare a tua nonna non l’hai capita. E’ così anche per le complesse tematiche attinenti alla bioetica e alla morale naturale. E’ evidente che ciascuno dei dieci argomenti trattati può essere sviluppato in modo assai più estensivo e analitico, ma è altrettanto evidente che i fondamenti di ogni problema di morale possono essere enucleati in modo chiaro senza far sconti alla solidità e validità delle argomentazioni.
L’altro scopo era ribadire un concetto che è persino logoro per chi abbia un minimo di dimestichezza con questi temi. La morale è la spiegazione razionale di quali condotte sono buone e quali cattive. La morale – per usare un aggettivo improprio ma efficace per la comprensione di noi post-moderni – la morale è di per se stessa laica. Non serve essere cattolici per dire che è sempre sbagliato uccidere direttamente e deliberatamente un essere umano innocente.
Oppure non serve la fede per comprendere che è illecito rubare, violentare, sequestrare una persona, fare uso di stupefacenti, abortire, chiedere di morire, divorziare, etc. I cattolici, o gli ebrei o i musulmani non hanno il copyright sulla morale. Non è necessario in prima battuta l’aggancio alla Rivelazione, in primis serve invece l’uso retto della ragione. E quest’ultima è di proprietà di tutti, atei compresi.
Nel testo infatti non si troveranno argomentazioni che si puntellano sui dati di fede presenti nella Bibbia, nella Tradizione o nel Magistero per corroborare le tesi addotte. Il saggio che ho avuto il piacere di curare è quindi in polemica con le posizioni fideistiche le quali affermano che solo la fede può spiegarci quali sono le condotte buone o malvagie per l’uomo.
Chi sono i personaggi intervistati?
Scandroglio: Il saggio vuole offrire una panoramica a 360 gradi sulle tematiche più dibattute in materia di morale naturale. Le prospettive di indagine sono assai diversificate. Gli autori intervistati hanno infatti competenze delle più varie: c’è il docente universitario, il magistrato, il ricercatore scientifico, il politico, lo psicoterapeuta, il filosofo del diritto.
Ciascuno di essi ha affrontato il tema con gli strumenti offerti dalla sua professione, ma – aspetto importante da sottolineare – le conclusioni a cui arriva, per esempio, il giudice e lo scienziato coincidono. Questo a dimostrazione – mi si conceda l’espressione un po’ criptica – che la realtà non può essere in contraddizione con se stessa.
Ciò a voler dire che, ad esempio, l’aborto sarà valutato negativamente sia in ambito medico, pensiamo solo alla sindrome post abortiva che colpisce le donne, sia ambito giuridico, laddove si metterà in evidenza la contraddizione che non tutti i soggetti di diritti godono degli stessi diritti fondamentali, sia in ambito sociologico e politico, vedendo in esso una frattura dolorosa dei rapporti sociali. Insomma, strade diverse portano tutte alla stessa meta.
Quali sono le risposte che più l’hanno colpita?
Scandroglio: Spigolando qua e là potrei citare la risposta dell’onorevole Carlo Casini allo slogan ormai datato “l’utero è mio”: certo che l’utero è della donna – risponde Casini – ma non quello che c’è dentro l’utero. Oppure mi viene in mente l’affermazione di don Stefano Teisa che la legge 40 sulla cosiddetta procreazione medicalmente assistita non è una buona legge, perché permette un tecnica di fecondazione che espone ad un rischio elevatissimo di morte gli embrioni.
Rammento anche quanto ha detto la genetista Maria Grazia Vianello in merito alla sicurezza dei profilattici che falliscono, nella trasmissione delle malattie veneree, nel 10-15% dei casi, o quanto affermato da padre Lino Ciccone sul fatto che avere rapporti sessuali prima del matrimonio è come appropriarsi di una casa prima che il legittimo proprietario abbia formalmente espresso la sua volontà di vendere o donare quella casa: una sorta di furto.
Mi piace poi ricordare le argomentazioni del professor Giacomo Samek Lodovici in merito al vincolo matrimoniale, istituto non inventato dalla Chiesa ma presente dall’antichità in moltissimi popoli non cristiani, e quelle del professor Mario Palmaro sulle coppie di fatto quando chiarisce che i diritti dei singoli conviventi sono già tutelati dal diritto comune vigente senza bisogno di ulteriori normative.
Da ricordare anche la chiara precisazione del dottor Roberto Marchesini allorché spiega che l’omosessualità non è una patologia, né un disturbo ma un sintomo di un disturbo, il quale è una “ferita dell'identità di genere, ossia di una immagine di sé come non adatto al mondo maschile”.
Parimenti mi hanno impressionato i dati forniti dal professor Antonello Vanni sui danni da assunzione di cannabis, la quale provoca la distruzione irreversibile di ampie zone del cervello e malformazioni dello stesso. Come poi non citare l’intervento della professoressa Claudia Navarini sull’eutanasia che con precisione e chiarezza fa luce sui temi dell’accanimento terapeutico, del testamento biologico e del rapporto medico- paziente.
Infine mi piace sottolineare l’intervento del magistrato Giacomo Rocchi che, in tema di legittima difesa arriva a giustificare anche l’uccisione dell’aggressore.
A chi è rivolto questo libro?
Scandroglio: A tutti. Perché tutti ormai sono chiamati a schierarsi su questi temi. Da qualche decennio temi come l’aborto, il divorzio, la contraccezione ed altri non sono più dominio esclusivo degli esperti.
A quanti di noi è capitato, se non di imbattersi in simili situazioni, perlomeno di dare una propria opinione su tali questioni. E spesso non si sa cosa dire. Oltre a ciò il cosiddetto caso limite è ormai prassi normale.
Pensiamo ad esempio al fatto che ogni anno in Italia vengono soppressi dai 130 ai 135 mila bambini nel ventre della madre per aborto procurato, oppure al fatto che dal 1995 al 2005 i divorzi sono aumentati del 74%.
Occorre risvegliare le coscienze e questo libro vuole contribuire, seppur ovviamente in modo minimo, a tale scopo. Ormai da tempo si è ingenerata nella psiche delle persone un meccanismo perverso di accettazione delle condotte più disumane.
L’equazione è la seguente: certi comportamenti sono esistiti da sempre, oggi più che mai. Se un comportamento è assai diffuso allora è normale, ma se è normale significa che è anche buono sotto il profilo morale. Ma se è buono perché non renderlo legittimo anche sul piano giuridico?
Tutti sono immersi in questo stato d’animo collettivo, ognuno di noi è impregnato, chi più chi meno, dal pervasivo spirito relativista e ognuno di noi è potenziale vittima di questo sofisma che ci fa scambiare il vero con il fasullo. E’ quanto mai necessario allora spezzare tale nefasto incantesimo e far riaprire gli occhi a quella ragione che da sempre è deputata a scoprire la verità sulle cose e sull’uomo.
Quarant'anni fa l'America della crisi del Vietnam e del dopo Kennedy tornava a nutrirsi di una nuova leggenda - Easy Rider - l'epica della contro epica - di Emilio Ranzato – L’Osservatore Romano, 3 aprile 2009
I ragazzi di Easy Rider oggi hanno quarant'anni in più. Uno è diventato una star dello show-biz, un altro, componente della più famosa famiglia d'attori americana, si è perso per strada dopo un pugno di pellicole troppo figlie del loro tempo per poter sperare di valicarne i confini, il terzo, all'epoca anche improvvisato benché non sprovveduto regista, ricompare saltuariamente, ma regolarmente in linea col suo personaggio di outsider un po' studiato a tavolino. Era il 1969 quando con le loro Harley Davidson erravano per un'America insolitamente ostile alla ricerca di risposte a domande divenute tutto d'un tratto mastodontiche. Promuovendo un nuovo mito di libertà che nascondeva la crisi d'identità di tutta una generazione. E salvando il cinema del loro Paese ingrato grazie anche ad un pizzico d'opportunismo. Come capita spesso alle opere che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari, infatti, anche il paradigma del road-movie, più che un evento realmente rivoluzionario, è stato il risultato di correnti e influenze pregresse giunte a piena maturazione: ciò che ne fa un mito pressoché intramontabile, più del ribellismo dalla facile presa o di meriti strettamente artistici che oggi appaiono un po' sbiaditi, è il fatto che non si tratta solo di un film, ma del punto d'approdo di un processo storico, sociale, cinematografico decisivo per la cultura americana. La strada che porta alle sue interstatali sconfinate e allucinate, a ben vedere, parte da molto lontano. Almeno da quella seconda metà degli anni Cinquanta in cui tutto sembrava congiurare contro le majors del cinema mainstream e del loro studiosystem dalla struttura piramidale, attaccato su più fronti da fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa: leggi antitrust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell'immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie - le nouvelles vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema - che prendevano di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano.
Con una sincronicità casuale quanto si vuole, ma che non manca di ribadire l'importanza del cinema nella società americana, poi, questa crisi della fabbrica dei sogni andava a prendere forma proprio alle porte del decennio che più avrebbe fatto traballare i valori nazionali e sconvolto l'opinione pubblica. Vietnam e attentato a Kennedy avrebbero rappresentato solo l'inizio di un processo autodistruttivo destinato a durare a lungo, ma era già abbastanza per una generazione cresciuta con il mito dell'America come nazione eletta a guidare l'occidente verso lidi di pace e prosperità.
È da questo fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, che trae linfa vitale il nuovo cinema indipendente. Un movimento ancora disgregato, ma già insospettabilmente vitale che intravede, nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni - nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico - più d'uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico parallelo a quello che, di lì a poco, promuoverà "in superficie" il contro-western di stampo liberal alla Soldato blu e Piccolo grande uomo. Ma che qui, ossia nel sottobosco delle produzioni low-budget divenute improvvisamente spavalde e aggressive, assumerà piuttosto i toni di una nuova forma di horror-movie, debitrice a sua volta dell'iconografia western di cui però esibirà generosamente un uso improprio e straniante, spogliandola così di quella vecchia mitopoietica che ora si vuole combattere a ogni costo.
Anche se pochi sul momento se ne accorgono, infatti, è in questi primi anni Sessanta che viene precocemente alla luce, grazie a un manipolo di registi destinati a rimanere per lo più nell'anonimato, quell'immagine di una provincia rurale orribilmente retrograda e violenta che avrebbe fatto la fortuna dell'horror del decennio successivo, e di pellicole destinate a divenire cult imprescindibili per generazioni di cinefili - se è vero che sopravvivono ancora oggi in una serie impressionante di varianti e remake - come Non aprite quella porta di Tobe Hooper o Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, pietre miliari, anche in questo caso, che si sono avvalse almeno in parte di intuizioni altrui. È l'epoca in cui comincia a serpeggiare - anche grazie all'avallo ancora scevro da ideologie di Hitchcock e del suo Psyco - un tòpos che avrebbe fatto scuola: quello che vede un gruppo di giovani forestieri abbandonare per motivi contingenti la strada maestra per inoltrarsi lungo percorsi secondari e perigliosi, dove regolarmente scopriranno un'America allergica al nuovo, e adagiata sui simboli ormai putrescenti della storia nazionale. Da qui in avanti si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all'addomesticamento spesso brutale della wilderness e alla conquista della frontiera, vessilli di una guerra di secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza. Nell'ottica della controcultura cinematografica, insomma, gli eventi fondanti della nazione smetteranno di rappresentare motivo d'orgoglio come accadeva nel vecchio cinema western per divenire simboli del rimosso della coscienza collettiva, e di un peccato originale alla luce del quale ora si vuole inquadrare tutta la storia del Paese per arrivare a comprendere quelle pericolose forze centripete di cui è diventato preda.
Quando il film del trentatreenne Dennis Hopper - attore proveniente non a caso proprio dal fulcro dello studiosystem - finalmente approda su questo terreno figurativo e tematico già in gran parte spianato, allora, il suo merito sarà semmai quello di incanalarne i caotici fermenti in un contesto più organico e persino accattivante, conciliando le istanze metaforiche della critica sociale e politica - anche qui non mancherà il martirio dei "figli" per mano dei "padri" sullo sfondo di un'America profonda e arretrata - con quelle di un nuovo vitalismo un po' modaiolo, condito sapientemente da un uso deflagrante della colonna sonora e strizzatine d'occhio agli eccessi libertari dell'epoca. Finendo così per rappresentare, paradossalmente, tanto il riepilogo e la celebrazione del cinema indipendente del decennio che va a concludersi, quanto già uno dei più fulgidi prodromi di quella che sarà la New Hollywood, ovvero di un nuovo cinema americano che, memore della severa lezione ricevuta da oltreoceano e dalla traumatica crisi interna, cercherà di conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle della cosiddetta politica degli autori.
Punto cruciale di questo lunghissimo e all'epoca non ancora terminato processo di distruzione e ricostruzione, Easy Rider lungo tale direzione anticiperà, in particolare, pur con accorgimenti ruffiani che in seguito saranno meglio assorbiti dai nuovi mezzi espressivi, quella epica della contro-epica che farà grande la generazione dei cineasti degli anni Settanta - Scorsese, Coppola, Cimino - e i loro losers dalla statura tragica, capace di accogliere le contraddizioni ormai conclamate della società di cui sono espressione.
Quarant'anni fa, insomma, mentre la sua patria d'appartenenza era ancora in pieno subbuglio, il cinema americano non solo ne registrava la crisi con uno sguardo impietoso, ma ritrovava inaspettatamente se stesso tornando a fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ovvero nutrirsi di leggende, poco importa se moralmente irrisolte o destinate alla sconfitta. Come quei bikers pronti a farsi inghiottire dalle fauci di un Paese cui non appartengono più.
(©L'Osservatore Romano - 3 aprile 2009)
Selezionare un figlio sano - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 2 aprile 2009
Qualche giorno fa alla tv, una giovane donna raccontava la sua storia, mostrava la foto del suo bimbo morto a soli quattro mesi a causa di una malattia genetica di cui lei e suo marito hanno scoperto d’essere portatori sani.
Lo faceva con una grande dignità e tu intuivi il suo dolore di madre, il dramma di chi ha cullato, accarezzato, baciato quel bimbo il cui destino era segnato.
Due persone che si vogliono bene, che mettono su famiglia, due persone fertili che scoprono d’essere portatrici sane di una malattia subdola, genetica, che non ti avvisa ma non ti lascia crescere, diventare adulto.
Poi la donna ha preso la foto di una cellula appena fecondata e ha chiesto al telespettatore di dire se era meglio selezionare delle cellule e sopprimere gli embrioni malati o assistere alla morte di un figlio.
Apparentemente la domanda ha una sola risposta, perché l’empatia ci vorrebbe solidali con il dolore della madre, la sua richiesta sembrava lecita, amorevole, il suo desiderio di portare in grembo un bimbo sano, destinato a vivere, la scienza che permette di guardare a quelle cellule fecondate e di selezionare la più sana, eliminando le altre.
La donna teneva tra le mani la foto della cellula fecondata e quelle del figlio, sembrava volerci tutti con lei, tutti ad avallare la sua richiesta, meglio un embrione morto che un bambino morto.
Già, ma se li chiami entrambi – figlio – come in realtà sono, allora come fai a scegliere?
Perché quella cellula fecondata ha già in sé gli occhi di tuo figlio, così come quel bimbo che hai stretto al cuore, se li chiami figlio è chiaro che non lo puoi selezionare, non ti resta che amare.
RILEVANTE MA NON RIVOLUZIONARIA - SENTENZA DA INTERPRETARE NEL RISPETTO DEI PRINCIPI BIOETICI - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 3 aprile 2009
Si può valutare la sentenza della Corte Costituzionale in merito alla legge sulla procreazione assistita in due modi: o per ciò che essa effettivamente dice o per quello che si vorrebbe che essa avesse detto (ma non ha detto!) o che si vorrebbe che potesse dire in futuro (e il futuro, si sa, è non solo sempre aperto, ma è anche imprevedibile). Il primo modo è l’unico intellettualmente onesto e in grado di dare una corretta informazione all’opinione pubblica; il secondo è ideologia, nel senso più deteriore del termine.
Quanto è cambiata la legge 40 dopo l’intervento della Corte? È cambiata pochissimo. Restano fermi tutti i suoi principi fondamentali: la tutela degli interessi del concepito in posizione non subordinata rispetto a quella di tutti gli altri soggetti coinvolti; il divieto di procreazione assistita a carico di donne sole o dopo la morte del partner; la proibizione di pratiche eterologhe; il divieto di qualsiasi sperimentazione sugli embrioni, il divieto di distruggerli, clonarli, congelarli, selezionarli, manipolarli a fini eugenetici e di selezionarli quanto al loro sesso; la proibizione di riduzione embrionaria di gravidanze plurime.
In che cosa è consistito allora l’intervento della Corte? Essa si è limitata a dichiarare incostituzionale il comma 3 dell’art. 14 della legge, accusandolo di non prevedere la subordinazione del trasferimento degli embrioni in utero a una rigorosa tutela della salute della donna e a rimuovere la conclusione del comma 2 del medesimo art. 14, sì da consentire (ipoteticamente) la formazione 'in vitro' di più di tre embrioni e sì da rimuovere (ma sempre ipoteticamente) il dovere del medico di procedere 'ad unico e contemporaneo impianto' nell’utero della donna degli embrioni creati in provetta.
Si tratta di una sentenza rivoluzionaria? Per nulla. Per quello che riguarda il comma 2 dell’art. 14 la Corte è stata persino ridondante: bastano le norme di buona pratica clinica e la più elementare consapevolezza deontologica per farci concludere che la tutela della salute è sempre e comunque un dovere primario del medico. Sotto questo profilo, comunque, se ridondanza c’è, è benvenuta, dato che i principi dell’etica medica meritano di essere ribaditi sempre e in ogni occasione. Per quel che concerne invece il 2° comma dell’art. 14, non è infondata la preoccupazione che i giudici della Corte abbiano 'abbassato la guardia' nella tutela dell’embrione, autorizzandone una produzione eccessiva e lasciandola comunque alla discrezione del medico. Ma resta pur fermo il divieto di congelamento e di distruzione degli embrioni.
Dunque, sembra difficile ipotizzare che, anche dopo la sentenza della Corte, un medico possa produrre intenzionalmente in provetta un numero di embrioni così alto da non poterne in alcun modo prevedere l’impianto in utero, nemmeno col consenso della donna. Di necessità, chi così si comportasse, arriverebbe dolosamente a violare il primo comma dell’art. 14 (confermato dalla stessa Corte nella sua validità), quello che proibisce sia il congelamento sia la distruzione degli embrioni. Bisogna riconoscere, che nella sua formulazione linguistica, la sentenza della Corte non è un modello di chiarezza. Ciò non di meno, non solo è ben possibile, ma è doveroso interpretarla nel pieno rispetto dei principi bioetici, citati all’inizio, che sono stati posti e che restano a fondamento della legge. La Corte, per tutelare nel modo più rigoroso la salute della donna, ha voluto rimuovere quello che probabilmente le è apparso un imbarazzante dovere fatto gravare sul medico dalla legge 40, il dovere, ove egli avesse prodotto tre embrioni in provetta, di attivare una pericolosa gravidanza trigemina a carico della donna, procedendo con 'un unico e contemporaneo impianto' a portare tutti e tre gli embrioni nell’utero materno. Non so se la Corte abbia ben valutato il fatto che l’ipotesi di attivare una gravidanza trigemina, se non era esclusa dalla legge, non era nemmeno ritenuta da essa obbligatoria! Ora, comunque, dopo il suo intervento, sappiamo che questa ipotesi è definitivamente cancellata dal testo della legge. Ma poiché non sono state cancellate le altre norme a tutela dell’embrione, la conseguenza ora è che i medici dovranno ben guardarsi in futuro dal produrre più di due embrioni nell’ambito di una procedura di fecondazione assistita.
Così vuole il buon senso e questa è l’unica conclusione corretta che l’interprete può trarre da ciò che la Corte ha esplicitamente detto. Chi invece approfitta di ogni occasione per sovrapporre la propria ideologia alla realtà delle cose continuerà a farlo anche in questo caso. Deplorevolmente.
«Ma adesso io vedo profilarsi contraddizioni» - Eleonora Porcu: non si può lasciare agli operatori l’interpretazione dei vari articoli – Avvenire, 3 aprile 2009
DA MILANO
« S ono confusa e perplessa. La legge com’era aveva una sua coerenza. Ora sembra che ci siano norme in contraddizione tra loro » . La ginecologa Eleonora Porcu, responsabile del Centro sterilità dell’Ospedale Sant’Orsola- Malpighi di Bologna, si dichiara disorientata dalla decisione della Consulta di bocciare alcune parti della legge 40 e puntualizza: « La legge permetteva già una certa libertà di manovra per personalizzare le terapie a seconda dell’età delle pazienti. Certamente non si può lasciare all’interpretazione degli operatori il futuro della legge » . La Corte Costituzionale ha bocciato il limite massimo di tre embrioni da generare, ma non il divieto di congelarli e distruggerli, generando più di un dubbio. « Sono rimasta sconcertata – dichiara la Porcu – . È stata bocciata la prescrizione di un unico impianto di embrioni, non più di tre. Sembra quindi che sia possibile generare più di tre embrioni. D’altro lato resta vietata la crioconservazione e la distruzione degli embrioni. Ma se si produce un numero di embrioni superiori al necessario, si avranno di nuovo embrioni soprannumerari.
Che destino avranno? E noi operatori come dobbiamo comportarci tra due ingiunzioni contraddittorie? » . Tra le accuse alla legge, il rischio di gravidanze trigemellari è uno dei più noti, ma non è inevitabile, commenta la dottoressa Porcu: « La legge dice che si possono generare tre embrioni al massimo ma non obbligatoriamente. La gravidanza trigemellare, sebbene non sia auspicabile, è però un fatto che può accadere naturalmente. Quindi il limite di tre embrioni stabilito dalla legge rientra in un ambito di prudenza e di compatibilità con un’eventuale gravidanza » . Ma quel che più conta è che « il numero massimo di tre non obbliga a generarne tre, ma non più di tre. Nel caso di una donna di età più avanzata, quindi con una fertilità meno rigogliosa, ha senso trasferirne tre. Se viceversa l’età è più giovane e quindi si è in presenza di una maggiore fertilità potenziale, è opportuno inseminare un numero minore di ovociti e di conseguenza trasferire meno di tre embrioni. Questo è il comportamento cui mi sono sempre attenuta, scegliendo di volta in volta la strategia migliore, personalizzando le terapie opportune per le pazienti » .
Ora prevale il disorientamento. « E altrettanto ve ne sarà nelle coppie. La legge bilancia opportunamente i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito: è ormai provato che sono norme logiche e attuabili » . Ora invece « nessuno può sostenere con certezza – puntualizza la Porcu – che c’è libertà di generare un numero superiore di embrioni e poi invocare lo stato di necessità della salute della donna per non impiantarne alcuni. Certamente serviranno istruzioni agli operatori: non può essere la loro interpretazione personale a declinare l’attuazione della legge » .
Enrico Negrotti