martedì 21 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Riflessioni sulla «Dignitas personae» - La clonazione umana - Un'abominevole schiavitù biologica - Un bambino fatto nascere artificialmente non per il suo stesso bene, ma solo per soddisfare i bisogni o le aspirazioni dei suoi "produttori", sarà per sempre contrassegnato da questa schiavitù: una fondamentale dipendenza dalle preferenze del suo autore…- di Wojciech Giertych - Teologo della Casa Pontificia
2) Anselmo d'Aosta e l'«unum argumentum» - Storia di un malinteso - di Alessandro Ghisalberti – L’Osservatore Romano, 21 aprile 2009
3) Il mondo esiste per merito dei giusti - Spettatore e testimone del Novecento - Nel pomeriggio di lunedì 20 aprile, presso la Comunità di Sant'Egidio a Roma, viene presentato il libro Un paese non basta (Bologna, Il Mulino, 2009, pagine 293, euro 16). Intervengono Riccardo Di Segni, Gianni Letta, Andrea Riccardi e Walter Veltroni. Pubblichiamo alcuni stralci dal volume. - di Arrigo Levi – L’Osservatore Romano, 21 aprile 2009
4) Le radici bibliche dell'agire cristiano - di Klemens Stock Gesuita, pro-segretario generale della Pontificia Commissione Biblica – L’Osservatore Romano, 21 aprile 2009
5) Basta con questo laicismo contro il Papa! - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 aprile 2009 - Come noto, giovedì 2 aprile ultimo scorso, la Camera dei Rappresentanti belga ha adottato una risoluzione che «chiede al Governo di condannare le inaccettabili opinioni del Papa, espresse durante il suo viaggio in Africa, e di protestare ufficialmente con la Santa Sede.»
6) DURBAN 2/ L'Ue disunita, vittima dello "show" di Ahmadinejad - Mario Mauro - martedì 21 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) PAPA/ Quel grande messaggio culturale che avvicina occidente e oriente - Lao Xi - martedì 21 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) SUI TEMI CRUCIALI PER IL MONDO - UN OCCIDENTE DEBOLE E SFILACCIATO - ANDREA LAVAZZA – Avvenire, 21 aprile 2009

Riflessioni sulla «Dignitas personae» - La clonazione umana - Un'abominevole schiavitù biologica - Un bambino fatto nascere artificialmente non per il suo stesso bene, ma solo per soddisfare i bisogni o le aspirazioni dei suoi "produttori", sarà per sempre contrassegnato da questa schiavitù: una fondamentale dipendenza dalle preferenze del suo autore…- di Wojciech Giertych - Teologo della Casa Pontificia
La trasmissione della vita umana è sempre stata considerata un mistero, non nel senso che le funzioni biologiche fossero sconosciute, ma nel senso che in quel momento avviene qualcosa di grandioso e imperscrutabile che non può essere pienamente penetrato dall'osservazione empirica e che merita rispetto. La vita umana è segnata da un'inerente sacralità. Per questo motivo la trasmissione della vita umana si distingue anche dal punto di vista terminologico dalla trasmissione della vita di piante e animali. La prima si chiama procreazione mentre l'altra è la riproduzione. Il prefisso "pro" nella procreazione si riferisce a una funzione vicaria. È Dio che crea dal nulla un'anima umana immortale e la dona a ogni figlio che viene concepito. Questo dono divino viene ricevuto non solo dal bambino che inizia la sua esistenza umana, ma viene ricevuto anche in senso morale dai genitori del bambino che svolgono la missione più impegnativa fra tutte, e cioè quella di trasmettere la vita (cfr. le prime righe dell'enciclica di Paolo VI: Humanae vitae tradendae munus gravissimum) e di amare ed educare il figlio che hanno ricevuto da Dio. E anche se i genitori falliscono nelle loro responsabilità, Dio non fallisce, perché "Dio non si riprende mai i suoi doni o torna indietro sulle sue scelte" (Lettera ai Romani, 11, 29). Quando il concepimento di un figlio avviene a seguito di un peccato di adulterio, incesto, stupro o avviene in vitro, Dio crea ugualmente un'anima immortale per il bambino, anche se la partecipazione dei genitori in questa trasmissione della vita umana avviene secondo modalità condannabili. La trasmissione della vita di piante e di animali è diversa, poiché questi non hanno un'anima immortale e quindi nessuna dignità personale, ed è per questo che viene definita semplicemente riproduzione. Essi esistono non per se stessi, ma per il fine ultimo di soddisfare le necessità dell'umanità (cfr. Genesi, 1, 28-29).
L'adattamento dei processi riproduttivi in piante e animali intrapreso per esigenze umane e reso possibile dagli sviluppi della biotecnologia diviene inammissibile se applicato alla procreazione umana. La procreazione non può essere trattata allo stesso livello della zootecnia. Gli interventi tecnici che distorcono la natura e la finalità della procreazione rappresentano un tragico attacco alla dignità umana. Pertanto l'incombente prospettiva della clonazione umana genera giustamente la risposta estremamente allarmata dell'umanità. A causa degli sviluppi scientifici, i modi e i mezzi in cui la dignità umana può essere servita, ma anche attaccata e manipolata, sono largamente aumentati e occorre quindi che la Chiesa non resti in silenzio. L'istruzione Dignitas personae, pubblicata di recente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dedica quindi tre paragrafi alla terrificante prospettiva della clonazione umana.
La clonazione è definita come la riproduzione asessuale e agamica di un intero organismo, in modo da produrre una copia che dal punto di vista genetico è identica al suo unico progenitore. Attualmente sono stati sviluppati due metodi di clonazione. Il primo, noto come scissione embrionale, consiste nella separazione artificiale di una singola cellula o di un gruppo di cellule di un embrione al suo stadio di sviluppo iniziale, seguita dal successivo trasferimento nell'utero in modo da ottenere un gemello artificiale dell'embrione originale. Il secondo metodo, a cui si riferisce il termine clonazione in senso stretto, consiste nel trasferimento nucleare della cellula somatica. Il nucleo di una cellula embrionale o somatica, con il materiale genetico da clonare, viene introdotto in una cellula uovo precedentemente denucleata, successivamente attivata chimicamente o attraverso impulso elettrico. La cellula uovo inizia così a svilupparsi come un embrione, con un materiale genetico identico all'originale da cui è stato prelevato il nucleo.
Fondamentalmente non vi è alcuna obiezione di tipo morale in merito alla clonazione animale. La clonazione produce individui più deboli che, in quanto mere copie dell'originale, sono soggette a malattie e invecchiamento prematuro, ma potrebbero avere qualità che possono essere richieste per alcuni scopi specifici. Gli animali domestici così come le piante coltivate sono biologicamente più deboli delle loro controparti naturali, e sono quindi incapaci di sopravvivere senza il sostegno dell'uomo, ma la loro riproduzione è più veloce e quindi meno costosa. Frutta, verdura e carne animale possono essere specificamente adattati ai fini della qualità e della capacità di essere trasportati e refrigerati. La clonazione degli animali per produrre carne a minor prezzo o per salvare specie a rischio di estinzione è quindi moralmente accettabile anche se questi cloni saranno sempre più deboli degli animali riprodotti in maniera naturale e rischiano di essere deformi.
L'applicazione di questi stessi metodi tecnici di riproduzione agli esseri umani è tuttavia del tutto inaccettabile per ragioni morali. Al riguardo, i sostenitori della clonazione umana operano una distinzione tra clonazione riproduttiva e terapeutica. La prima mira alla riproduzione di esseri umani su misura, i quali, pur essendo deboli dal punto di vista fisico e genetico, potrebbero avere alcune caratteristiche prescelte, come il sesso, la composizione genetica copiata da un'altra persona o altre caratteristiche prestabilite più specifiche. La clonazione terapeutica si dice sia diretta unicamente alla produzione di embrioni con un patrimonio genetico prefissato, da cui si potrebbero raccogliere cellule staminali embrionali per la produzione di farmaci utili a superare il problema dell'incompatibilità immunologica nei trapianti. La clonazione terapeutica equivale alla produzione di embrioni umani in condizioni di laboratorio con l'intenzione dichiarata di ucciderli dopo aver raccolto le cellule staminali. Se venisse accettata la clonazione terapeutica, ci sarebbero difficilmente delle barriere morali alla clonazione riproduttiva, poiché entrambi i metodi sono identici.
Dal punto di vista dell'oggetto morale - con ciò non s'intende solo un mero evento fisico, ma l'azione percepita e accertata dalla ragione dell'agente alla luce dei principi morali (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, n. 78) - non c'è dubbio che l'atto della clonazione umana si trova in totale contrasto con i principi fondamentali della procreazione umana. Invece di procreare bambini come risultato del dono reciproco di sé da parte dei coniugi, la clonazione umana consiste nella produzione di un individuo al di fuori del contesto dell'amore coniugale e della finalità intrinseca della sessualità. La clonazione umana è pertanto in diretta contraddizione con la natura dell'atto coniugale e con la dignità della vita familiare. Queste contraddizioni si affermano sul presupposto che un individuo possa essere fatto nascere non come risultato del dono totale di sé da parte dei coniugi e quindi ricevuto come dono di Dio, ma possa essere "prodotto" attraverso l'applicazione di una procedura tecnica. Su questo punto si nota una similitudine con la fecondazione in vitro, con l'aggravante che l'individuo "prodotto" è fin dall'inizio soggetto a profonde manipolazioni biologiche. Se accadrà che il risultato della clonazione umana sia in qualche modo danneggiato, l'inclinazione mentale che sottostà a questo atto di manipolazione è tale che porterà a considerare il clone danneggiato non come un bambino che debba essere accettato e amato indipendentemente dalle sue debolezze, ma come il risultato di un esperimento tecnologico fallito, che può essere quindi eliminato per non aver raggiunto lo standard previsto. Questa riduzione della persona umana al livello di prodotto è totalmente incompatibile con la sua propria dignità.
Dal punto di vista dell'effetto dell'atto di clonazione umana, il clone, essendo soggetto a una forma di schiavitù biologica, sarà contrassegnato in permanenza da una fondamentale dipendenza dalle preferenze del suo autore. Un bambino fatto nascere artificialmente non per il suo stesso bene, ma solo per soddisfare i bisogni o le aspirazioni dei suoi "produttori", sarà per sempre contrassegnato da questa schiavitù. Trovandoci ancora nel regno degli atti futuri contingenti, che tuttavia stanno diventando tecnicamente possibili, possiamo solo immaginare il condizionamento psicologico, le limitazioni e le esplosioni di rabbia dei futuri cloni umani. La visione freudiana della ribellione nei confronti del padre e la liberazione da tutti i vincoli educativi e morali in nome di una libertà arbitraria e incontrollata troverà nella rabbia e nel risentimento dei futuri cloni umani un comprensibile humus. Si può ipotizzare quale tipo di impatto psichico avrà la fecondazione in vitro nei bambini portati alla vita in questo modo, e quale tipo di deformazione psichica e morale porterà la clonazione umana.
Dal punto di vista dell'intenzione dell'agente, la clonazione umana deve essere vista come un momento di orgoglio intellettuale supremo. Un intelletto che è concentrato unicamente sulla raccolta di dati scientifici misurabili sui fenomeni e sulla messa in atto di ciò che è tecnicamente possibile, e che allo stesso tempo esclude gli interrogativi e i risultati acquisiti dalla ricerca speculativa attenta alle finalità, ai significati e alla natura delle cose, è chiuso di fronte alla pienezza della verità. Le riduzioni positiviste e ancor più le negazioni post-moderne della possibilità di conoscere alcuna verità in nome del relativismo agnostico, chiudono la mente in se stessa. Invece di tendere alla pienezza della verità, come una tensione a cui il dono della fede invita la mente con forza (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Fides et ratio, n. 56) questo tipo d'intelletto è schiavo di se stesso, ed è pertanto incline ad attribuire a se stesso una qualità suprema, non riuscendo a vedere quanto la sua visione sia estremamente limitata. Quando l'intelletto è diretto verso esseri che sono al di sotto della sua natura, esso vi esercita un certo dominio. Quando, invece, tende alle verità universali e a Dio, che è la fonte di tutta la verità e di tutti gli esseri, l'intelletto ha bisogno di essere umile rispetto a ciò che lo supera, ma in quella umiltà esso viene portato al di là dei propri limiti verso la pienezza della conoscenza. Esso può allora vedere ciò che è al di sotto di sé alla luce delle verità universali. Le manipolazioni tecnologiche come la clonazione umana, in cui l'essere umano viene ridotto a livello di pura materia sperimentale, sulla quale lo scienziato desidera avere il pieno dominio, e con manifesto rifiuto della meraviglia contemplativa circa la dignità della persona umana e della sua universalità, sono un segno di profondo orgoglio intellettuale. L'intelletto di coloro che adottano una visione eugenica, aspirando a produrre un'identità umana completamente nuova attraverso le loro tecniche è malato di narcisismo. La storia è piena di tragici esempi di ideologie che sono nate da menti chiuse nell'orgoglio intellettuale, non disponibili ad accettare, con un atteggiamento umile, la verità della realtà. Non vi è dubbio che coloro che sperano di clonare gli esseri umani non possano in alcun modo collegare tale intenzione con la tendenza intrinseca, benché spesso non riconosciuta, della volontà verso il fine ultimo che è la felicità suprema in Dio. San Paolo esortava a fare tutto per la gloria di Dio (cfr. Prima Lettera ai Corinzi, 10, 31). Non è possibile collegare un'apertura verso la gloria più grande di Dio a un'azione che attacca direttamente la dignità della persona umana, poiché la gloria di Dio è la persona umana che fiorisce nella sua umanità. Il cristiano, mosso dalla grazia, collega un intento di amore, che si basa sulla carità ricevuta da Dio, a ogni atto e quindi reca gloria a Dio. La produzione di cloni umani nell'orgogliosa imitazione di Dio è priva di carità e rappresenta un insulto al Creatore.
Quanto sia abominevole la clonazione di esseri umani si può percepire con maggiore chiarezza attraverso il confronto con la formazione umana. Mentre è perfettamente normale che gli educatori e ancor più i genitori abbiano delle speranze per i propri figli, la vera formazione umana non è ridotta alla "produzione" di individui progettati in precedenza. Un musicista potrebbe volere che il proprio figlio sia un musicista e un medico potrebbe volere che suo figlio diventi anche lui medico. Nell'educazione, tuttavia, i figli devono poter disporre di varie possibilità per sviluppare le loro diverse potenzialità. Un programma di formazione che neghi l'individualità e lo sviluppo delle virtù personali e che richieda solo un'esatta imitazione di un'identità imposta sarebbe essenzialmente inumano. Ogni qualvolta sono stati tentati questi progetti, nell'istruzione scolastica o nei programmi sociali imposti dai regimi totalitari, giustamente s'è incontrata una reazione di rigetto. In misura anche maggiore, la prospettiva della clonazione umana incontra l'opposizione disgustata di tutti coloro, cristiani e non, che percepiscono spontaneamente l'inalienabile dignità dell'essere umano.
L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009


Anselmo d'Aosta e l'«unum argumentum» - Storia di un malinteso - di Alessandro Ghisalberti – L’Osservatore Romano, 21 aprile 2009
Negli ultimi decenni una cospicua serie di monografie e di saggi pubblicati a livello internazionale ha testimoniato l'interesse degli studiosi per una rilettura attenta e fedele all'ispirazione euristica e metodologica del Proslógion di Anselmo d'Aosta, in particolare dell'unico argomento (unum argumentum) sviluppato nei capitoli 2-4 dell'opera. Anselmo nel Proemio all'opera lo presenta come l'argomento unico, che per essere provato non necessita di altro che di sé solo. Ritenendo condivisibile la tesi degli interpreti più recenti - tra cui spiccano Michael Corbin, Jean-Luc Marion, Pavel Evdokimov, Coloman Etienne Viola - i quali individuano una notevole divergenza tra l'argomento sviluppato da Anselmo nel Proslógion e la rielaborazione compiuta nella successiva storia della filosofia, che l'ha costretto nella denominazione di "argomento ontologico", intendiamo qui proporre una lettura puntuale dei tre capitoli menzionati dell'opera anselmiana, rimarcandone successivamente la distanza dalla rielaborazione fatta dai sostenitori dell'argomento ontologico. Nel Proslógion Anselmo si dichiara insoddisfatto delle argomentazioni dialettiche su Dio, la creazione e la Trinità, elaborate in una precedente opera intitolata Monólogion, perché troppo ampie e frammentate; nel frattempo la ricerca di un argomento dalla forza probativa più concentrata ha avuto successo e, nel suo nucleo dialettico essenziale, esso coincide con una precisa nozione di Dio come "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Anselmo ricava la formula dalla tradizione - in particolare da Agostino e da Boezio - ma la ritiene anche una valida sintesi dei connotati del Dio della rivelazione biblica, e perciò la introduce con il verbo "crediamo", che vale sia per dire di un dettato della fede, sia per esplicitare una denominazione coestesa con la struttura del pensiero, riscontrabile in ogni tradizione culturale o religiosa che attribuisca un significato alla parola "Dio". Di fronte a questa nominazione di Dio, Anselmo passa a valutare la posizione dell'insipiente - desunta da un passaggio del Salmo 13 - il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l'affermazione "Dio non esiste". Perché l'affermazione raggiunga un livello di comprensione da parte dell'intelletto, l'insipiente deve riferirsi al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; pertanto il senso del suo dire si traduce nell'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto: infatti, se di esso negasse l'esistenza anche nell'intelletto, l'insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione. In questa direzione circoscritta, la negazione dell'esistenza di Dio - riportata, in positivo, all'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto e non nella realtà - implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell'intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di "maggiore". Non resta perciò che respingere la posizione dell'insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all'evidenza: non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l'esistenza nella realtà (in re) non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l'aporeticità della tesi dell'insipiente, il quale, confinando ciò di cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà. Nel successivo capitolo terzo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a rafforzare la conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l'istanza teologica, connessa con la "logica della rivelazione": dire che Dio non esiste significa dire - senza poterlo pensare - che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire: Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore: L'ultimo interrogativo del capitolo terzo, apparentemente retorico, è assai importante: se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché l'insipiente dice che Dio non esiste? In realtà lo dice, precisa Anselmo, ma non può pensarlo, e quindi l'insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero. Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l'evidenza della coincidenza di "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con l'essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell'unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile. L'unico argomento di Anselmo, denominato a partire dal secolo XVIII "argomento ontologico", ha avuto diverse valutazioni e riprese nella storia della filosofia: l'hanno criticato Gaunilone, Tommaso d'Aquino, Kant; l'hanno considerato valido, con rielaborazioni, Duns Scoto, Leibniz, Wolff, Hegel. La presentazione dell'argomento ancor oggi prevalente nei manuali di storia della filosofia è così riassumibile: Anselmo vorrebbe dare una vera e propria dimostrazione dell'esistenza di Dio, partendo dal concetto di Dio come essere supremo dalla perfezione insuperabile. Paradigmatica la formulazione dell'argomento che si riscontra nella Quinta Meditazione Metafisica di Cartesio, che intende Dio come l'essere perfettissimo: all'essere che assomma in sé la totalità delle perfezioni pensabili non può mancare la perfezione dell'esistenza nella realtà. La lettura cartesiana riconduce cioè l'argomento all'idea che dall'essenza di Dio si ricavi la sua esistenza; questa lettura è stata quella sempre proposta dagli avversari dell'argomento di Anselmo, a cominciare da Gaunilone, che ha ritenuto insostenibile la prova, perché l'idea del perfettissimo può essere una proiezione vuota del pensiero, pari a quella di un'isola sperduta nell'oceano piena di ogni dovizia. Ma siffatta lettura è stata considerata inautentica e illegittima dallo stesso Anselmo, nella risposta a Gaunilone: "In primo luogo, spesso mi fai dire che l'ente maggiore di tutti è nell'intelletto e che, se è nell'intelletto, esiste anche nella realtà, altrimenti l'ente maggiore di tutti non sarebbe maggiore di tutti; ma una tale argomentazione, in tutto ciò che io ho detto, non si trova in alcun luogo" (Risposta di Anselmo a Gaunilone, 5). In questo modo Anselmo evidenzia il cardine del suo argomento, che non ricorre all'idea di perfettissimo, ma all'idea di essere intrascendibile detto con formula negativa: "Ciò di cui non si può pensare il maggiore". La formulazione dell'unico argomento attesta cioè l'evidenza dell'esistenza di Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere "dimostrata", dal momento che si "prova" con evidenza che chi la nega è "insipiente", ossia si assesta nell' impossibilità di pensare.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)


Il mondo esiste per merito dei giusti - Spettatore e testimone del Novecento - Nel pomeriggio di lunedì 20 aprile, presso la Comunità di Sant'Egidio a Roma, viene presentato il libro Un paese non basta (Bologna, Il Mulino, 2009, pagine 293, euro 16). Intervengono Riccardo Di Segni, Gianni Letta, Andrea Riccardi e Walter Veltroni. Pubblichiamo alcuni stralci dal volume. - di Arrigo Levi – L’Osservatore Romano, 21 aprile 2009
Sono diventato giornalista più per caso che per vocazione; e da giornalista mi è capitato di essere testimone, e in qualche caso di avere anche una pur minima parte, negli eventi, ora fortunati ora infelici, del secolo che si è da pochi anni concluso. Al nuovo secolo, e al nuovo millennio, ho fatto in tempo ad affacciarmi, da spettatore interessato, e alquanto apprensivo, di una storia incompiuta. Ma non ho vissuto per mia scelta questa vita di giornalista. Da bambino, e fino al giorno in cui, nel settembre del 1938, arrivarono le leggi razziali, avevo sempre pensato che avrei fatto l'avvocato, a Modena, come mio padre Enzo, e come il nonno Alberto. Sarebbe toccato a me prendere il loro posto nello studio al pianterreno rialzato di casa Levi, in corso Canalgrande 1, visto che mio fratello Alberto, più vecchio di me di nove anni, dopo essersi laureato brillantemente in legge a Pisa, nella scuola di Giurisprudenza della Normale, famosa ed ambita, che aveva allora nome di Collegio Mussolini (e che si dimostrò un vivaio di antifascisti), era destinato, o così sembrava, alla carriera universitaria. Sarebbe dovuto anzi partire per l'Ungheria pochi mesi prima di quel fatidico settembre con una borsa di studio, che però gli era stata inspiegabilmente rifiutata. La prima avvisaglia, in realtà, della tempesta che stava per scatenarsi sulla testa degli ebrei italiani. Quel giorno di settembre del 1938, che cambiò la mia e la nostra vita (ma non sapevo, nessuno di noi sapeva allora che le nostre probabilità di sopravvivere, a partire da quel giorno, erano poche: ogni ebreo europeo della mia generazione è uno scampato, un sopravvissuto, un uomo amaramente fortunato), avevo dodici anni. Eravamo, come tutte le estati, nella casa di campagna a San Martino di Mugnano, a otto chilometri dalla Ghirlandina, la casa dove ero nato, in attesa del rientro in città per l'inizio dell'anno scolastico. Avevamo inaugurato quell'anno il nuovo campo da tennis in terra rossa, e ricordo di avere giocato quel giorno con mio cugino Gino, verso sera, nella luce rossa del tramonto, con uno strano languore addosso, consapevole che era accaduto qualcosa di terribile e di misterioso. Chissà perché (lo ricordo come fosse ora), questo languore mi dava una particolare leggerezza nel giuoco. La passione del tennis riempiva allora le nostre estati. Avevamo ascoltato poche ore prima il radiogiornale che dava la notizia delle leggi razziali, tutti riuniti nella "loggia" - così chiamavamo e chiamiamo il salone della villa - davanti alla radio Erla, un vecchio apparecchio con l'altoparlante staccato. Ricordo altri ascolti davanti alla radio; in particolare, il discorso del duce che annunciava che l'impero era tornato sui colli fatali di Roma. Un discorso di guerra, che annunciava altre guerre. Di quella giornata fatale del settembre 1938, Luisa, la più piccola di noi fratelli - aveva otto anni - ricorda che non riuscì a capire bene il significato di quello che dicevano; le fu detto di andare a giocare "coi bimbi dei contadini". La Paola, la seconda dei sette, si attaccò a papà piangendo disperatamente fra le sue braccia. All'indomani anch'io feci una scena di pianto. Pestavo i piedi, facevo domande, e fu allora la Paola, mia dolce consolatrice in ogni momento di crisi, a spiegarmi pacatamente quello che era successo, e quello che stava per succedere. Singolarmente, a indurmi a riflettere seriamente (non sulla base degli studi biblici che tanto mi appassionavano, e ancora mi appassionano, ma sulla base di una esperienza personale) sul valore possibile della fede in Dio, anzi, a farmene capire, con limpida passione, il valore e il significato, fu la testimonianza di Lina, mia moglie nata cattolica, sugli anni della sua giovinezza: quando era sinceramente credente. Eravamo sposati da poco, e ci raccontavamo e tornavamo a raccontarci il nostro passato. Lina mi parlava dell'importanza che aveva avuto per lei la confessione, della serenità che allora le dava la fede che le era stata insegnata; anche se poi, da cattolica sincera qual era, e dopo una fase di adesione al metodismo (voleva "decidere da sola" sulle verità religiose), aveva finito per "non credere più", diventando, come me, una "laica credente". Ma conservava e conserva in cuor suo un certo rimpianto, una certa nostalgia per il suo passato di credente, che le suggerisce l'istintivo rispetto per le cerimonie religiose cattoliche; come io lo conservo per quelle ebraiche - che forse per questo trovo più struggenti di quelle di altre fedi - ma anche per le messe cui mi accade di assistere. In realtà rimango estraneo alle une come alle altre (e forse, più le capisco, nei loro significati e nelle loro origini, e meno le condivido). Una grande messa cantata, ascoltata con mia moglie una domenica a Notre-Dame, e un'altra simile messa cantata domenicale cui assistemmo, sempre con mia moglie, a Santo Stefano a Vienna, nelle grandi chiese gremite di fedeli, oltre che di curiosi come noi, mi sono rimaste, lo confesso, nel cuore. E mi ha commosso "predicare" un giorno la mia fede laica a cinquemila credenti, dall'altare di San Giovanni in Laterano, la chiesa madre della cristianità, impregnata di fede dai secoli di presenza di credenti, accanto a due cardinali, in aperto confronto con uno dei due, l'eminenza Biffi, cardinale di Bologna, di cui mi commosse un passaggio della sua predica ("come potrei aver fede di tornare a incontrare mia madre nell'Aldilà, se non credessi in Dio?"). L'altro, l'eminenza Ruini, allora vicario, in Roma, del vicario di Cristo, presiedeva l'incontro che lui stesso aveva voluto. I miei genitori non avrebbero mai immaginato che ciò fosse possibile. La colta Europa ha diffuso nel mondo, oltre all'idea di progresso, oltre ai suoi ideali di libertà per tutti i popoli e di uguaglianza per tutti i cittadini, molti semi avvelenati, molte ideologie di morte. E ha rischiato di distruggere se stessa con le due guerre mondiali del Novecento. Ma non tutti, negli anni cupi dei totalitarismi e delle guerre, si erano lasciati ipnotizzare e contagiare dalla follia. Noi, i sopravvissuti, con il ritorno in Italia, ci rendemmo anche conto del debito che noi ebrei avevamo nei confronti di quello stuolo di "giusti", nella stragrande maggioranza rimasti sconosciuti, che avevano contribuito alla nostra salvezza, che non erano stati abbagliati dal carisma infernale di Hitler, che avevano rifiutato, con il rischio della loro stessa vita, di piegarsi alla logica allucinata del genocidio della nostra gente, motivati da un istinto profondo della natura umana, istinto di solidarietà, di carità e di amore del prossimo, che anche in quegli anni tremendi sopravvisse nell'anima incorrotta dei "giusti". Dice un commento del Talmud: "Il mondo esiste per merito dei giusti". Se voi uomini continuerete a ignorare i miei comandamenti, a praticare il male, dice il Signore a Isaia, "lo spirito finirebbe per spegnersi dinanzi a me, quel soffio che ho creato". Non a caso, i credenti, ebrei o cristiani che fossero, si chiesero, dopo la Shoah, "dove fosse Dio" mentre il "suo" popolo veniva distrutto: una domanda a cui anche i più saggi rabbini, come diceva il rabbino Elio Toaff, non trovavano una risposta convincente. La sola che io conosca è quella che ha proposto, in uno dei suoi libri, Elie Wiesel, raccontando l'episodio del ragazzo che ad Auschwitz, vedendo impiccare un suo coetaneo, mormorava: "Ma Dio dov'è?"; ricevendo dalla voce sussurrata di un vicino la risposta: "Non lo vedi? E lì sul patibolo". Sì. L'uomo può uccidere Dio. In particolar modo, noi ebrei italiani ci rendemmo conto che eravamo stati particolarmente fortunati: anche se non quanto gli ebrei danesi o bulgari, protetti dai loro sovrani, come non aveva saputo proteggerci il nostro pavido reuccio, che si era senza alcuna difficoltà piegato all'aggressiva, immorale follia e ambizione di Benito Mussolini. Ma avevamo trovato nel popolo italiano - grazie anche al fatto che eravamo pochi, dispersi, fisicamente indistinguibili dai non ebrei, e profondamente assimilati nel costume e modo di vita - protezioni ed appoggi che altre comunità ebraiche europee non avevano forse trovato nei rispettivi Paesi. Anche se non potevamo certo dimenticare che la Repubblica sociale, con suoi ministri e funzionari, con le sue Brigate nere, aveva collaborato ufficialmente e pienamente con i tedeschi per arrestare tutti gli ebrei e mandarli a finire nei campi di annientamento. Che il clero, e i credenti, fossero stati i principali protagonisti del salvataggio di migliaia e migliaia di ebrei italiani ci apparve subito evidente ed è fuori dubbio. Curiosamente, nessuno di noi si interrogò allora su quello che il Papa avesse o non avesse fatto. La cosa importante ci apparve allora quello che il Papa, o i preti, i frati, le suore, avevano fatto: non a caso; ebraismo mondiale fu, subito dopo la fine della guerra, generosissimo di complimenti ed espressioni di gratitudine verso Pio XII. Impossibile immaginare che tanti sacerdoti avessero aiutato gli ebrei perseguitati (o i partigiani) e avessero dato la vita per salvarli, senza il consenso della Chiesa, fino ai suoi più alti livelli. La cosa importante, per noi, fu che lo zio Camillo e suo figlio si fossero salvati rifugiandosi fra le mura del Vaticano, grazie all'amicizia con un alto prelato, quel monsignor Guidetti che ho già citato. Soltanto oggi può venir fatto di chiedersi come possa, il Papa, aver taciuto vedendo razziare, al di là del Tevere, gli ebrei di Roma, i "suoi" ebrei, senza recarsi a piedi, nella sua bianca veste, con la croce in mano, a dire: fermatevi. Se lo avesse fatto, la Chiesa avrebbe vissuto un momento di gloria suprema. Ma migliaia e migliaia di ebrei rifugiatisi nei conventi, e le suore e i frati che li avevano accolti, non si sarebbero salvati. Forse questo interrogativo semplicemente assurdo, anacronistico. Non tiene conto di quel che era il mondo quando accadde ciò che accadde: quando il meglio sarebbe stato molto peggio del bene.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)


Nuovo documento della Pontificia Commissione Biblica impegnata in questi giorni nella plenaria
Le radici bibliche dell'agire cristiano - di Klemens Stock Gesuita, pro-segretario generale della Pontificia Commissione Biblica – L’Osservatore Romano, 21 aprile 2009

Dal 20 al 24 aprile si svolge, presso la Domus Sanctae Marthae, in Vaticano, l'annuale assemblea plenaria della Pontificia Commissione Biblica. La riflessione dei membri è incentrata su un nuovo e importante tema - "Ispirazione e verità della Bibbia" - suggerito da una proposizione dell'ultimo Sinodo dei vescovi, dedicato al tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Nel precedente quinquennio la Commissione Biblica ha elaborato il documento "Bibbia e morale. Radici bibliche dell'agire cristiano". La versione italiana e quella inglese sono state pubblicate nel settembre 2008, per i tipi della Libreria Editrice Vaticana. Sono attualmente in corso le traduzioni in francese e tedesco ed è in preparazione una serie di altre traduzioni. Di questo importante documento vogliamo adesso proporre una breve sintesi. Anteposti al documento sono i testi del decalogo (Esodo, 20, 2-17) e delle beatitudini (Matteo, 5, 3-12) come espressioni caratteristiche della morale biblica nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Il documento è strutturato in due parti. La prima parte ha per titolo "Una morale rivelata: dono divino e risposta umana", mentre la seconda parte si intitola "Alcuni criteri biblici per la riflessione morale". Nella prima parte sono esposti i tratti principali della morale biblica; nella seconda parte vengono indicati alcuni principi, fondati nella Bibbia, che possono aiutare nella ricerca di soluzioni per problemi morali odierni, ignoti alla Bibbia. Il documento constata nella Bibbia una morale rivelata, una morale cioè che in prima linea non dipende da ragionamenti umani, ma ha il suo fondamento nella rivelazione di Dio. Scopre in questa rivelazione tre dati che sono fondamentali per l'agire dei cristiani. Anzitutto, al primo posto c'è sempre il dono di Dio che deve essere adeguatamente accolto da parte delle persone umane e, di conseguenza, nella Bibbia si possono trovare indicazioni per conoscere qual è il modo giusto di agire. In secondo luogo, la bontà di Dio si manifesta non solo nel dono, ma anche nel perdono. Infine, l'orizzonte dell'agire cristiano non è ristretto alla vita terrena, ma è aperto all'eterna comunione di vita con Dio. Nella Bibbia si incontrano tre grandi doni di Dio che portano con sé e fondano le conseguenze per l'agire umano. Quanto più si conosce la grandezza e ricchezza di questi doni tanto più viene compreso e motivato l'agire giusto. Le norme dell'agire non vengono imposte da fuori, ma si mostrano come implicazioni degli stessi doni. Anzitutto la Bibbia confessa Dio come Creatore di tutto l'universo. Il dono specifico del Creatore per l'uomo consiste nel fatto di averlo creato a sua immagine (Genesi, 1, 26). Ciò porta con sé i doni di razionalità e libertà, di una posizione di guida, della capacità di imitare Dio, della dignità di un essere relazionale e della santità della vita umana. Con questi doni sono connesse le rispettive implicazioni per l'agire giusto. Oltre la creazione che rimane il dono iniziale e fondamentale, Dio manifesta la sua bontà nell'elezione del popolo d'Israele e nell'alleanza con questo popolo. Nell'Antico Testamento si incontrano diverse espressioni dell'alleanza. La più importante è quella con Mosè e il popolo d'Israele con la quale sono connessi il decalogo e i codici legislativi e alla quale si riferisce l'insegnamento morale dei profeti. L'ultimo dono di Dio è la nuova alleanza nel suo Figlio Gesù Cristo. La sua opera e il suo messaggio sono fondamentali per definire il rapporto fra Dio e tutti gli esseri umani. Il documento espone come i diversi scritti neotestamentari presentano Gesù e le conseguenze della sua venuta e presenza per l'agire umano. Afferma il nostro documento: "La Bibbia è il racconto delle iniziative di Dio, ma simultaneamente il racconto delle malvagità, debolezze, fallimenti umani". E continua: "In questa situazione i libri biblici ci mostrano come al dono si aggiunge il perdono. Dio non agisce da giudice e vendicatore implacabile, ma si impietosisce delle sue creature cadute, le invita al pentimento e alla conversione e perdona le loro colpe. È un dato fondamentale e decisivo della morale rivelata che essa non costituisce un moralismo rigido e inflessibile, ma che il suo garante è il Dio pieno di misericordia" (n. 81). L'orizzonte dell'agire cristiano non è ristretto alla vita terrena, ma va oltre la morte, come chiaramente affermano gli scritti neotestamentari. È proprio dei cristiani avere la speranza di risorgere con Cristo (cfr. 1 Tessalonicesi, 4, 23); ciò non diminuisce il valore della vita terrena e dell'agire in essa, ma, al contrario, l'orizzonte escatologico conferisce alla vita attuale pieno significato e all'agire su questa terra vera responsabilità. Oggi si presentano molti problemi morali che erano sconosciuti agli autori biblici. Ciò solleva la domanda se la Bibbia abbia qualcosa da offrire per la soluzione di questi problemi, benché non si possano trovare in essa risposte preconfezionate. Il documento, tenendo conto di questa situazione, indica alcuni criteri che possono guidare nella ricerca di norme giuste per i problemi odierni. Vengono individuati due criteri fondamentali, la conformità alla visione biblica dell'essere umano e la conformità all'esempio di Gesù. La visione biblica mette in rilievo la dignità della persona umana e la sua chiamata a una comunione intima con Dio. Gesù è l'esempio dell'agire perfetto. Il suo comportamento e le sue istruzioni sono il punto di orientamento per l'agire dei cristiani. È necessaria una continua verifica per sapere se l'agire nelle situazioni di oggi sia consono a questi criteri fondamentali. Si individuano poi sei criteri specifici: convergenza, contrapposizione, progressione, dimensione comunitaria, finalità, discernimento. Vogliamo spiegarli brevemente. Troviamo nella Bibbia non raramente una convergenza fra la sue norme morali e quelle dei popoli circostanti e dunque un certo universalismo etico. Questo fatto incoraggia la Chiesa al dialogo con le diverse culture per la ricerca di un comune comportamento davanti ai problemi di oggi. D'altra parte si constata nella Bibbia una decisa contrapposizione a tante abitudini e pratiche del mondo circostante: si tratta di una presa di posizione ferma contro i valori incompatibili. Un terzo criterio può essere visto nel processo di progressione o affinamento della coscienza morale che si trova all'interno di ognuno dei due Testamenti. Il criterio della dimensione comunitaria dell'agire giusto è fondato nella natura di Dio stesso e in quella della persona umana, creata a sua immagine. Le norme dell'agire non possono essere stabilite dalla singola persona autonomamente, ma solo insieme alla comunità, e la persona deve vivere i rapporti che appartengono alla sua natura secondo queste norme. L'orizzonte escatologico è alla base del criterio di finalità. Da esso segue che le azioni nel presente sono giuste solo se sono valide anche di fronte al compimento escatologico. Infine, secondo il criterio del discernimento non tutte le norme morali che si trovano nella Bibbia possono essere messe sullo stesso livello. Occorre pertanto una determinazione attenta, secondo i casi, del valore relativo o assoluto di principi e precetti morali. Tutti questi criteri, il cui elenco è rappresentativo ma non esaustivo, sono profondamente radicati nella Bibbia e la loro applicazione potrà aiutare il credente: si tratta di mostrare quali siano i punti che la rivelazione biblica offre per aiutare noi, oggi, nel processo delicato di un giusto discernimento morale.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)


Basta con questo laicismo contro il Papa! - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 aprile 2009 - Come noto, giovedì 2 aprile ultimo scorso, la Camera dei Rappresentanti belga ha adottato una risoluzione che «chiede al Governo di condannare le inaccettabili opinioni del Papa, espresse durante il suo viaggio in Africa, e di protestare ufficialmente con la Santa Sede.»
Come noto, giovedì 2 aprile ultimo scorso, la Camera dei Rappresentanti belga ha adottato una risoluzione che «chiede al Governo di condannare le inaccettabili opinioni del Papa, espresse durante il suo viaggio in Africa, e di protestare ufficialmente con la Santa Sede.»

Per chi avesse dei dubbi il “considerando A” precisa subito che la risoluzione si riferisce alle «opinioni inaccettabili di Benedetto XVI, espresse in occasione del suo primo viaggio in Africa, relative all’uso dei profilattici per la lotta contro la propagazione della peste rappresentata dal virus dell’AIDS.»

Seguono altri considerando che ripercorrono una lettura tendenziosa, cioè parziale ed unilaterale, della lotta all’AIDS per nulla originale, finché si incontra un tocco patetico: il “considerando M” ricorda «le costanti preoccupazioni del Parlamento belga in batteria di lotta all’AIDS, e la sua volontà di implicare il Belgio contro l’AIDS soprattutto nell’Africa sud – sahariana.» Perché ho usato il termine “tocco patetico”? Ma perché le costanti preoccupazioni e la volontà di implicarsi si concretano nella raccomandazione di distribuire milioni di preservativi, ignorando, ad esempio, le molte organizzazioni locali e non, che operano concretamente accogliendo e curando i malati e facendo una importantissima “educazione preventiva”. Ma si sa, la stragrande maggioranza di queste organizzazioni sono cattoliche ! E poi soprattutto se parliamo di dignità dell’uomo di promozione dei diritti fondamentali, anche in queste terribili circostanze, ci sovviene che già nel 1845 Giuseppe Giusti, rivolgendosi a Sua Eccellenza diceva “Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato.”

Ma veniamo alle prescrizioni della risoluzione adottata.
All’art. 1 si chiede al Governo di «protestare per le vie ufficiali e diplomatiche, cioè tramite il nostro Ambasciatore presso la Santa Sede, per le opinioni di Benedetto XVI espresse in occasione del suo recente viaggio in Africa, opinioni che mettono in pericolo gli impegni della Comunità internazionale ed gli sforzi della Comunità scientifica, …»
Mentre all’art. 2 si chiede al Governo «di reagire fermamente verso tutti quegli Stati o quelle Organizzazioni che in futuro rimettessero in discussione l’utilità del preservativo quale mezzo profilattico contro la trasmissione del virus dell’AIDS».
Qualora fossero rimasti dei dubbi l’art. 3 chiede al Governo ed in particolare «al Ministro allo Cooperazione ed allo Sviluppo di ricordare, nell’ambito delle relazioni con le autorità dei Paesi partner o con ONG attive in questi Paesi che il Governo belga non sottoscrive alcuna delle opinioni espresse dal Papa circa l’AIDS …»
A parte il fatto che nel corso del dibattito è stato detto che Benedetto XVI dovrebbe essere denunciato per attentato ai diritti umani, l’affermazione comunque più grave è quella dell’articolo 1: protestare per le vie ufficiali e diplomatiche, cioè tramite il nostro Ambasciatore presso la Santa Sede, per le opinioni di Benedetto XVI espresse …! Qui siamo all’intimidazione ed alla violazione del diritto alla libertà di pensiero e di espressione del pensiero, e questo da parte di un ramo del Parlamento di uno Stato membro dell’UE. La Carta dei diritti fondamentali è davvero usata solo a fini politici.

Nessuno può vietare alla Camera dei Rappresentanti del Belgio di dissentire dal Santo Padre, e di affermarlo, anche se est modus in rebus (!!), ma non è ammissibile che si tenti di intimorire il Papa, come chiunque altro, per farlo tacere. Quanti di questi coraggiosi e indomiti Deputati, che non hanno paura a schierarsi contro Benedetto XVI, avrebbero il coraggio di intimare altrettanto ad Angela Merkel o a Nicolas Sarkozy? Anzi molti di loro hanno remore, per ragioni diplomatiche s’intende, a farlo con Ahmadinejad!

La Segreteria di Stato ha reagito con una nota, che CulturaCattolica.it ha pubblicato sabato 18 aprile scorso, nella quale, dopo che l’Ambasciatore belga aveva consegnato la nota al Segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, SER Mons. Dominique Mamberti, si dice tra l’altro: «La Segreteria di Stato prende atto con rammarico di tale passo, inconsueto nelle relazioni diplomatiche …» Richiamo l’attenzione su due termini: rammarico e soprattutto inconsueto; termini che nel linguaggio diplomatico sono molto espliciti, cioè inaspriscono la risposta, rendendola assai dura.

L’episodio del Belgio è certo il più eclatante, ma non è il solo: basti pensare, ad esempio, alle scomposte reazioni a caldo del Ministro degli Affari Esteri francese, Bernard Kouchner, e di altri.

Oltre all’indubbia ovvia considerazione che tutti questi Signori non la pensano come il Santo Padre, che del resto riprende coerentemente la posizione tradizionale della Chiesa, presentandola con fermezza e misericordia, e quindi non si capisce quale sia la “clamorosa novità” che ha colto tutti di sorpresa facendo gridare allo scandalo! In questi giorni del resto ci è capitato di incontrare un certo Caifa che si stracciava le vesti, ed il Signor Ponzio Pilato, che diceva di non volerne sapere nulla, come purtroppo qualcuno dentro e fuori la Chiesa.
Ed è evidente che scienziati, ricercatori ed uomini e donne sul campo in prima linea che hanno detto con estrema naturalezza: «Il Papa ha ragione», devono essere zittiti, e surclassati con rumori inconsulti.

Perché tanta “gran cassa” attorno ad episodi come questi, e non è la prima volta? Ci sono Persone che hanno costruito la propria “fortuna” politica con un’ostilità radicale e preconcetta alla Chiesa, come ad esempio l’On. Miguel Angel Martínez Martínez, oppure quella dell’On. Michael Cashman, Presidente del Intergruppo Gay, o l’On. Sophia in ’t Veld, Presidente dell’Intergruppo Lesbiche.

Ma non basta a chiamare a raccolta la folla che urlava “dacci Barabba”! Certamente un aspetto importante è che non si può ammettere che un’autorità morale dica con autorevolezza cose contrarie al pensiero dominante, coincidente con il “politically correct”, ma probabilmente non sono estranee neppure le tentazioni di prendere la palla al balzo, ingigantendo l’episodio e creando il caso, da parte di Massoni, che in Belgio non mancano certo, o anche di Persone “consigliate” dalle lobby farmaceutiche produttrici di profilattici, kit abortivi e sterilizzanti, oppure di persone irrazionalmente rancorose verso la Chiesa, come non pochi Eurodeputati di nostra conoscenza. Sappiamo che Fra Cristoforo disse: «omnia munda mundis». Tuttavia le reazioni che abbiamo dovuto registrare suggeriscono realisticamente un coktails di tutte queste cose insieme. Recentemente in Belgio è stato pubblicato un testo sulle presunte malefatte delle lobby cattoliche, “Il cavallo di Troia” edito dal Grande Oriente del Belgio, e «Catholics for free choice» sono sempre molto attivi a favore dell’aborto, disponendo di ingentissime somme, non possono ammettere di essere contentate nella sostanza.

Su tutto ciò risalta e ci pacifica, la serenità del Santo Padre quando dice di non essersi sentito solo e di aver sentito accanto a Sé l’amore e la solidarietà di tanti di noi, che non arriviamo ai microfoni o ai giornali. Grazie Santità, ci conti!


DURBAN 2/ L'Ue disunita, vittima dello "show" di Ahmadinejad - Mario Mauro - martedì 21 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Si è aperta ieri a Gine­vra la Confe­renza delle Nazioni Unite sul razzismo. Gli auspici non sono stati dei migliori fin dall’inizio: gli oc­cidentali sono arrivati a questo appuntamento divisi, alcuni paesi hanno garantito la presenza, altri hanno preferito defilarsi. Stati Uniti, Israele, Canada, Australia e Ita­lia hanno confermato la loro ferma decisione a non partecipare. Anche Olanda e Germania all’ultimo momento hanno preferito non prendervi parte. La ragione è semplice: non c’erano garanzie sufficienti affinché nel corso della Conferenza si evitasse uno sterile atto di accusa contro Israele e contro l'Occiden­te.
I lavori preparatori sono stati dominati dai Paesi islamici, come già accadde nella precedente conferen­za di Durban nel 2001. La Gran Bre­tagna e la Francia, invece, hanno scelto di essere pre­senti anche se poi, dopo le frasi inaccettabili del presidente iraniano Ahmadinejad, hanno lasciato la conferenza già disertata da molti Paesi europei e non.
A suscitare la dura protesta di Israele è stato proprio il leader iraniano, arrivato a Ginevra e accolto con tutti gli onori dalle massime autorità elveti­che e che è stato fra i primi a pren­dere la parola nella tribu­na che l’Onu ha messo a disposizio­ne.
Desta non poche preoccupazioni il fatto che ad una Conferenza sul razzismo, che dovreb­be essere espressione dell'impegno delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, possa impunemen­te prendere la parola chi ritiene la Shoah un’invenzione e chi presiede un regime che ha al proprio attivo l'assassinio di centinaia di oppositori politici.
Tra le tante parole non spese all’interno della conferenza figura nel discorso di Ban Ki-moon la totale assenza di alcun riferimento alle persecuzioni che nel mondo avvengono contro le comunità cristiane. Ha parlato di tolleranza e mutuo rispetto, ha denunciato che una nuova politica xenofoba è in aumento e che la discriminazione non sparisce da sola che deve essere affrontata altrimenti può diventare causa di disordini e violenze sociali, ma non si è mai riferito alle comunità religiose che nel mondo sono oppresse.
Almeno inizialmente l'Europa si è spaccata sulla partecipazione alla conferenza che i Paesi islamici hanno trasformato in un processo a distanza a Israele. Timori peraltro confermati già dalla vigilia quando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha subito ribadito la sua ostilità verso lo Stato ebraico, definito «portabandiera del razzismo».
Anche il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha sottolineato come il mancato raggiungimento di una posizione comune dell'Unione europea sulla conferenza Onu sul razzismo sia «un errore gravissimo» che «denota l'incapacità, nonostante le tante parole spese a riguardo, di trovare almeno un minimo comune denominatore su un problema di base» come è il razzismo. Sono espressioni che denotano l’amarezza per il mancato accordo in sede Ue, perché di fatto si dimostra una volta di più che l'Europa non è capace di parlare a una sola voce. Per l’Europa è stata un’occasione persa per mostrare con spirito unanime la sua ostilità verso gli osteggiatori della democrazia e della libertà. Bene hanno fatto dunque a lasciare la sala in segno di protesta dopo le dichiarazioni del presidente iraniano, ma meglio ha fatto l’Italia che ha scelto di rimanere fuori dal summit perché ritiene che le frasi di chi equipara Israele a un Paese razzista siano odiose e inaccettabili.


PAPA/ Quel grande messaggio culturale che avvicina occidente e oriente - Lao Xi - martedì 21 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Con la sua elezione il papa Benedetto XVI ha posto un problema estremamente importante per lo sviluppo culturale globale e cinese, quello del relativismo culturale. Per molti decenni l’idea che tutto andasse bene in culture diverse, che culture diverse fossero inconciliabili, ingiudicabili è diventato nei fatti la coperta del rifiuto dell'altro, dell'accettazione dell'incomprensione e della divisione del mondo in compartimenti stagni.
In qualche modo è la faccia speculare e “moderna” del colonialismo culturale. Ai tempi del colonialismo europeo la cultura era solo una, quella dell’occidente vincitore e “civile”, e i vinti erano obbligati a comportarsi e pensare come i vincitori pena il marchio di essere “incivili”.
Era quella corrente che arrivava a fenomeni ridicoli di far mettere il cilindro e la giacca del frac sopra i capelli intrecciati con il codino. Ma era una questione seria: era la negazione che esistessero altre culture, o meglio che se pure ci fossero non avevano la dignità della cultura vincente.
A questa fase se ne successe un’altra che finalmente riconosceva la dignità e il valore di culture diverse, ma questo avrebbe dovuto significare una profonda disponibilità a “entrare” in culture diverse capendole profondamente e con una disponibilità di cambiarsi. Invece diventava solo uno sforzo di separatezza di accettazione dell’incomprensione verso l’altro. Non si forzavano più i cinesi a mettere il frac ma comunque si rinunciava a capire la loro cultura con l’idea che “tutto fosse relativo” e la distanza culturale fosse in sostanza incolmabile.
Questo non è solo un fenomeno occidentale, ma anche cinese. A partire dal movimento del 4 maggio 1919, che lanciò il programma per democrazia e scienza, la Cina si imbarcò in un programma di rifiutò totale della tradizione culturale cinese. La Cina fu conquistata da un partito che prendeva di peso quelli che riteneva fossero i modelli occidentali più avanzati, quelli marxisti, e con il maoismo si imbarcò in un movimento di negazione sistematica della propria cultura.
Solo negli ultimi anni, probabilmente in meno degli ultimi 20 anni, la Cina sta gradualmente cercando di superare quella che per decenni è stata la contrapposizione frontale tra cultura tradizionale cinese (cattiva) e nuova cultura occidentale (buona). Questa contrapposizione era senza senso, perché la cultura cinese è troppo resistente ed è non annullabile, e quindi cacciata dalla porta rientra dalla finestra come superstizioni o altro. Inoltre l’annullamento della cultura cinese, ove anche fosse stata possibile, sarebbe stato un danno mostruoso per la Cina e l’umanità che avrebbe perso una enorme ricchezza di pensiero e ispirazione.
Lo sforzo attuale della Cina è quindi proprio questo di capire la cultura occidentale e quella di altre parti del mondo, e adattare la propria secondo i criteri che paiono migliori, in base a opportunità, fini o altro. Questo significa salvare e preservare molte culture ma non sulla base di una separazione a compartimenti stagni, ma sulla base di una compenetrazione e comprensione.
In qualche modo il relativismo culturale era quello praticato dagli antichi imperatori cinesi del 1700 che accettavano l’esistenza di altre culture, di altri “mondi di civiltà” ma semplicemente spiegavano di non averne bisogno perché in realtà pensavano che il loro fosse il migliore.
C’è invece un bisogno reciproco in questo mondo, occorre capirsi e dialogare non per fare chiacchiere ma per comprendere e migliorarsi.
Benedetto XVI è l’unico in occidente che in realtà ha sollevato questi argomenti. Questo naturalmente ha un valore religioso, perché il Pontefice ha fede che la sua religione sia la vera e che non tutte le religioni si equivalgano le une alle altre. Ma c’è un portato culturale forte e importante al di là della fede religiosa: le culture devono confrontarsi tra di loro, deve cadere il muro dell’esotismo incomprensibile che maschera il rifiuto paternalistico dell’altro, che vediamo tanto spesso in occidente.
Quindi certo che la Cina diventi più occidentale, ma occorre anche un altro passo: l'occidente deve diventare anche molto più cinese. Non è una pretesa coloniale questa ma una esigenza di convivenza civile, visto che i cinesi sono quasi un quarto dell’umanità. Ed è un consiglio per il bene dell’occidente che oggi per tanti versi si trova alle strette potrebbe invece farsi ispirare dal pensiero e dallo sviluppo cinese. E per questo passo utile e urgente, credo, per l’occidente, l’occidente dovrebbe ringraziare il Papa.


SUI TEMI CRUCIALI PER IL MONDO - UN OCCIDENTE DEBOLE E SFILACCIATO - ANDREA LAVAZZA – Avvenire, 21 aprile 2009
U n colpo alla credibilità dell’O­nu, si è detto dopo lo spetta­colo offerto dalla Conferenza con­tro razzismo e xenofobia apertasi ieri a Ginevra. Meglio sarebbe dire: una conferma. Se infatti il conses­so denominato ' Durban 2' ( in ri­ferimento al primo summit del 2001, in cui Israele finì sul banco degli imputati) avesse avuto ade­guata preparazione e ferma volontà di tenere fede ai suoi alti e condi­visibili obiettivi il presidente ira­niano non avrebbe osato sfidare la generale condanna delle sue tesi a­berranti sull’Olocausto e lo Stato e­braico.
Lo sfilacciato fronte occidentale si è invece presentato all’appunta­mento già in posizione di debolez­za. Stati Uniti a parte, minoritario e insufficiente era il partito del boi­cottaggio preventivo, con la Ue spaccata, unanime solo nel lascia­re l’aula e stigmatizzare l’oltraggio di un discorso razzista alle massi­me assise contro il razzismo. Al­trettanto spuntate le armi di quei Paesi che a Ginevra hanno voluto presenziare, ma in ordine sparso e senza una strategia per sostenere con decisione quei valori che do­vrebbero ispirare le risoluzioni del­la Conferenza. Colpiscono poi gli applausi che al­cuni, non pochi, delegati hanno ri­servato al presidente iraniano men­tre attaccava il governo di Tel Aviv e lo apostrofava, pur non citando­lo, come « razzista » ( al di là del fat­to che, nelle sedi opportune, una critica civile alle singole politiche di Israele sia lecita). Sono questi battimani il segno delle frequenti debolezze di un’Onu spesso para­lizzata da bilanciamenti reciproci tra schieramenti e autentici veti.
D’altra parte, il testo di partenza pare avere raggiunto un compro­messo accettabile e una base di partenza che poteva mettere d’ac­cordo anche coloro che lamentano gli inevitabili riferimenti alla pri­ma, contestata Conferenza. E sap­piamo quanto vi sia da lavorare per estirpare il cancro delle discrimi­nazioni, che oggi hanno il nome, come doverosamente si legge nel documento preparatorio, di cri­stianofobia, islamofobia e antise­mitismo.
Date le premesse, pare difficile che ' Durban 2' sia un successo. Sareb­be però un errore gettare comple­tamente l’occasione di mettere nel­l’agenda del mondo uno sforzo fat­tivo e non retorico per contrastare su scala globale i fenomeni di e­marginazione legati a nuove e vec­chie povertà. Non a caso domeni­ca il Papa aveva parlato di un’op­portunità importante da sfruttare. A questo scopo certo restano da migliorare i meccanismi delle Na­zioni Unite, che non hanno dato prova in questa occasione di esse­re funzionali alla scopo che ci si e­ra prefissi. E che non poteva esse­re il censurabile show di Ahmadi­nejad.
Una parola, infine, sulla scelta del­la Santa Sede, che da tempo aveva optato per la partecipazione al summit. Impegnato a dare il pro­prio contributo ai grandi problemi umani nella chiave dell’etica cri­stiana, il Vaticano considera la lot­ta a tutte le discriminazioni una sfi­da prioritaria e non si schiera nel­le diatribe più strettamente politi­che. Né gli sono congeniali boicot­taggi preventivi, sebbene non abbia timore ad assumere posizioni in­transigenti e impopolari quando sono in discussione valori fondan­ti. E che nessun pregiudizio anti­israeliano alligni nella diplomazia papale sarà ulteriormente chiarito nell’ormai imminente viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa.