venerdì 24 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI alla Plenaria della Pontificia Commissione Biblica - La Scrittura si comprende all'interno della Chiesa
2) Il Papa presenta Ambrogio Autperto, monaco benedettino dell’VIII sec.
3) Sri Lanka: il direttore di Caritas Vanni ferito negli scontri - Bombe contro una chiesa, ferito anche un sacerdote
4) Gerusalemme: proibito ai cristiani l'accesso al Santo Sepolcro - Alla vigilia della Pasqua ortodossa
5) Il Papa: l'obbedienza in famiglia insegna la vera libertà - Riceve gli organizzatori dell'ultimo Incontro Mondiale delle Famiglie
6) Anselmo d'Aosta: "formidabile ragionatore" tra i moderni profeti del niente - Novecento anni dopo, la sua "intelligenza della fede" è ancora la via maestra "in questa nostra epoca di proliferazione dei dubbi". La graffiante omelia con cui il cardinale Giacomo Biffi, a nome del papa, ha aperto le celebrazioni del grande dottore della Chiesa - di Sandro Magister
7) ELEZIONI/ In cosa sperare? - Roberto Fontolan - giovedì 23 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) SPAGNA/ Zapatero vuole il silenzio della Chiesa sull’aborto - Redazione - giovedì 23 aprile 2009 - È sorprendente la capacità che ha il ministro dell’Uguaglianza, Bibiana Aído, di rispondere a tutte le opinioni contrarie alla posizione del Governo sull’ampliamento dell’aborto che vuole approvare prima dell’estate. Lo fa così frequentemente e in modo così aggressivo che si è guadagnata il titolo di ministro che parla di più tra tutti quelli che siedono al Consiglio dei Ministri.
9) DOPO ELUANA/ Astrarre la persona: il “diritto” a morire si trasforma in “dovere” - Elisa Buzzi - giovedì 23 aprile 2009
10) Confronti - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 23 aprile 2009
11) Il custode dell'amore - Pigi Colognesi - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
12) FILOSOFIA/ Dewey, quel mare di paura che separa il pensiero dalla realtà - Redazione - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
13) Scola: «Aiuti alle famiglie? Sì, ma anche nuovi stili di vita» l’intervento - Per il patriarca di Venezia la crisi, oltre che economica, è sociale e culturale: è necessaria maggiore sobrietà a tutti i livelli, compresi quelli governativi E tornano le ombre del terrorismo - DA VENEZIA FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 23 aprile 2009
14) Geltrude Comensoli, apostola dell’Eucaristia - Proseguendo nella presentazione dei bea­ti che verranno canonizzati domenica da Benedetto XVI, oggi conosciamo la figura di Geltrude Comensoli, la fondatrice del­le Suore Sacramentine di Bergamo. - DI MATTEO LIUT – Avvenire, 24 aprile 2009

Benedetto XVI alla Plenaria della Pontificia Commissione Biblica - La Scrittura si comprende all'interno della Chiesa
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 23 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo giovedì in udienza i partecipanti alla Plenaria della Pontificia Commissione Biblica, dedicata quest’anno al tema “Ispirazione e verità della Bibbia”.
* * *
Signor Cardinale, Eccellenza,
cari Membri
della Pontificia Commissione Biblica,
sono lieto di accogliervi ancora una volta al termine della vostra annuale Assemblea plenaria. Ringrazio il Signor Cardinale William Levada per il suo indirizzo di saluto e per la concisa esposizione del tema che è stato oggetto di attenta riflessione nel corso della vostra riunione. Vi siete nuovamente radunati per approfondire un argomento molto importante: l'ispirazione e la verità della Bibbia. Si tratta di un tema che riguarda non soltanto la teologia, ma la stessa Chiesa, poiché la vita e la missione della Chiesa si fondano necessariamente sulla Parola di Dio, la quale è anima della teologia e, insieme, ispiratrice di tutta l'esistenza cristiana. Il tema che avete affrontato risponde, inoltre, a una preoccupazione che mi sta particolarmente a cuore, poiché l'interpretazione della Sacra Scrittura è di importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa.
Come Ella ha già ricordato, Signor Presidente, nell'Enciclica Providentissimus Deus Papa Leone xiii offriva agli esegeti cattolici nuovi incoraggiamenti e nuove direttive in tema di ispirazione, verità ed ermeneutica biblica. Più tardi Pio xii nella sua Enciclica Divino afflante Spiritu raccoglieva e completava il precedente insegnamento, esortando gli esegeti cattolici a giungere a soluzioni in pieno accordo con la dottrina della Chiesa, tenendo debitamente conto dei positivi apporti dei nuovi metodi di interpretazione nel frattempo sviluppati. Il vivo impulso dato da questi due Pontefici agli studi biblici, come Lei ha anche detto, ha trovato piena conferma ed è stato ulteriormente sviluppato nel Concilio Vaticano ii, cosicché tutta la Chiesa ne ha tratto e ne trae beneficio. In particolare, la Costituzione conciliare Dei Verbum illumina ancora oggi l'opera degli esegeti cattolici e invita i Pastori e i fedeli ad alimentarsi più assiduamente alla mensa della Parola di Dio. Il Concilio ricorda, al riguardo, innanzitutto che Dio è l'Autore della Sacra Scrittura: «Le cose divinamente rivelate che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute e presentate, furono consegnate sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Dei Verbum, 11). Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, invisibile e trascendente Autore, si deve dichiarare, per conseguenza, che «i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (ibid., 11).
Dalla corretta impostazione del concetto di divina ispirazione e verità della Sacra Scrittura derivano alcune norme che riguardano direttamente la sua interpretazione. La stessa Costituzione Dei Verbum, dopo aver affermato che Dio è l'autore della Bibbia, ci ricorda che nella Sacra Scrittura Dio parla all'uomo alla maniera umana. E questa sinergia divino-umana è molto importante: Dio parla realmente per gli uomini in modo umano. Per una retta interpretazione della Sacra Scrittura bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare tramite parole umane. «Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile agli uomini» (Dei Verbum, 13). Queste indicazioni, molto necessarie per una corretta interpretazione di carattere storico-letterario come prima dimensione di ogni esegesi, richiedono poi un collegamento con le premesse della dottrina sull'ispirazione e verità della Sacra Scrittura. Infatti, essendo la Scrittura ispirata, c'è un sommo principio di retta interpretazione senza il quale gli scritti sacri resterebbero lettera morta, solo del passato: la Sacra Scrittura deve «essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12).
Al riguardo, il Concilio Vaticano ii indica tre criteri sempre validi per una interpretazione della Sacra Scrittura conforme allo Spirito che l'ha ispirata. Anzitutto occorre prestare grande attenzione al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura: solo nella sua unità è Scrittura. Infatti, per quanto siano differenti i libri che la compongono, la Sacra Scrittura è una in forza dell'unità del disegno di Dio, del quale Cristo Gesù è il centro e il cuore (cfr. Lc 24, 25-27; Lc 24, 44-46). In secondo luogo occorre leggere la Scrittura nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa. Secondo un detto di Origene, «Sacra Scriptura principalius est in corde Ecclesiae quam in materialibus instrumentis scripta» ossia «la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che su strumenti materiali». Infatti la Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Parola di Dio ed è lo Spirito Santo che le dona l'interpretazione di essa secondo il senso spirituale (cfr. Origene, Homiliae in Leviticum, 5, 5). Come terzo criterio è necessario prestare attenzione all'analogia della fede, ossia alla coesione delle singole verità di fede tra di loro e con il piano complessivo della Rivelazione e la pienezza della divina economia in esso racchiusa.
Il compito dei ricercatori che studiano con diversi metodi la Sacra Scrittura è quello di contribuire secondo i suddetti principi alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura. Lo studio scientifico dei testi sacri è importante, ma non è da solo sufficiente perché rispetterebbe solo la dimensione umana. Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l'esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all'interno della stessa fede della Chiesa. In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resterebbe incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di essere ridotta ad una lettura puramente letteraria, nella quale il vero Autore — Dio — non appare più. Inoltre, l'interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma deve essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa. Questa norma è decisiva per precisare il corretto e reciproco rapporto tra l'esegesi e il Magistero della Chiesa. L'esegeta cattolico non si sente soltanto membro della comunità scientifica, ma anche e soprattutto membro della comunità dei credenti di tutti i tempi. In realtà questi testi non sono stati dati ai singoli ricercatori o alla comunità scientifica «per soddisfare la loro curiosità o per fornire loro degli argomenti di studio e di ricerca» (Divino afflante Spiritu, EB 566). I testi ispirati da Dio sono stati affidati in primo luogo alla comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per alimentare la vita di fede e guidare la vita di carità. Il rispetto di questa finalità condiziona la validità e l'efficacia dell'ermeneutica biblica. L'Enciclica Providentissimus Deus ha ricordato questa verità fondamentale e ha osservato che, lungi dall'ostacolare la ricerca biblica, il rispetto di questo dato ne favorisce l'autentico progresso. Direi, un'ermeneutica della fede corrisponde più alla realtà di questo testo che non una ermeneutica razionalista, che non conosce Dio.
Essere fedeli alla Chiesa significa, infatti, collocarsi nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, ha riconosciuto gli scritti canonici come parola rivolta da Dio al suo popolo e non ha mai cessato di meditarli e di scoprirne le inesauribili ricchezze. Il Concilio Vaticano ii lo ha ribadito con grande chiarezza: «Tutto quello che concerne il modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la Parola di Dio» (Dei Verbum, 12). Come ci ricorda la summenzionata Costituzione dogmatica esiste una inscindibile unità tra Sacra Scrittura e Tradizione, poiché entrambe provengono da una stessa fonte: «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente, formano, in un certo qual modo, una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo; invece la sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono esser accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza» (Dei Verbum, 9). Come sappiamo, questa parola «pari pietatis affectu ac reverentia» è stata creata da San Basilio, è poi stata recepita nel Decreto di Graziano, da cui è entrata nel Concilio di Trento e poi nel Vaticano ii. Essa esprime proprio questa inter-penetrazione tra Scrittura e Tradizione. Soltanto il contesto ecclesiale permette alla Sacra Scrittura di essere compresa come autentica Parola di Dio che si fa guida, norma e regola per la vita della Chiesa e la crescita spirituale dei credenti. Ciò, come ho già detto, non impedisce in nessun modo un'interpretazione seria, scientifica, ma apre inoltre l'accesso alle dimensioni ulteriori del Cristo, inaccessibili ad un'analisi solo letteraria, che rimane incapace di accogliere in sé il senso globale che nel corso dei secoli ha guidato la Tradizione dell'intero Popolo di Dio.
Cari Membri della Pontificia Commissione Biblica, desidero concludere il mio intervento formulando a tutti voi i miei personali ringraziamenti e incoraggiamenti. Vi ringrazio cordialmente per l'impegnativo lavoro che compite al servizio della Parola di Dio e della Chiesa mediante la ricerca, l'insegnamento e la pubblicazione dei vostri studi. A ciò aggiungo i miei incoraggiamenti per il cammino che resta ancora da percorrere. In un mondo dove la ricerca scientifica assume una sempre maggiore importanza in numerosi campi è indispensabile che la scienza esegetica si situi a un livello adeguato. È uno degli aspetti dell'inculturazione della fede che fa parte della missione della Chiesa, in sintonia con l'accoglienza del mistero dell'Incarnazione. Cari fratelli e sorelle, il Signore Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato e divino Maestro che ha aperto lo spirito dei suoi discepoli all'intelligenza delle Scritture (cfr. Lc 24, 45), vi guidi e vi sostenga nelle vostre riflessioni. La Vergine Maria, modello di docilità e di obbedienza alla Parola di Dio, vi insegni ad accogliere sempre meglio la ricchezza inesauribile della Sacra Scrittura, non soltanto attraverso la ricerca intellettuale, ma anche nella vostra vita di credenti, affinché il vostro lavoro e la vostra azione possano contribuire a fare sempre più risplendere davanti ai fedeli la luce della Sacra Scrittura. Nell'assicurarvi il sostegno della mia preghiera nella vostra fatica, vi imparto di cuore, quale pegno dei divini favori, l'Apostolica Benedizione.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Il Papa presenta Ambrogio Autperto, monaco benedettino dell’VIII sec.
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 22 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Ambrogio Autperto.

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Cari fratelli e sorelle,
la Chiesa vive nelle persone e chi vuol conoscere la Chiesa, comprendere il suo mistero, deve considerare le persone che hanno vissuto e vivono il suo messaggio, il suo mistero. Perciò parlo da tanto tempo nelle catechesi del mercoledì di persone dalle quali possiamo imparare che cosa sia la Chiesa. Abbiamo cominciato con gli Apostoli e i Padri della Chiesa e siamo pian piano giunti fino all’VIII secolo, il periodo di Carlo Magno. Oggi vorrei parlare di Ambrogio Autperto, un autore piuttosto sconosciuto: le sue opere infatti erano state attribuite in gran parte ad altri personaggi più noti, da sant’Ambrogio di Milano a sant’Ildefonso, senza parlare di quelle che i monaci di Montecassino hanno ritenuto di dover rivendicare alla penna di un loro abate omonimo, vissuto quasi un secolo più tardi. A prescindere da qualche breve cenno autobiografico inserito nel suo grande commento all’Apocalisse, abbiamo poche notizie certe sulla sua vita. L’attenta lettura delle opere di cui via via la critica gli riconosce la paternità consente però di scoprire nel suo insegnamento un tesoro teologico e spirituale prezioso anche per i nostri tempi.
Nato in Provenza, da distinta famiglia, Ambrogio Autperto – secondo il suo tardivo biografo Giovanni – fu alla corte del re franco Pipino il Breve ove, oltre all’incarico di ufficiale, svolse in qualche modo anche quello di precettore del futuro imperatore Carlo Magno. Probabilmente al seguito di Papa Stefano II, che nel 753-54 si era recato alla corte franca, Autperto venne in Italia ed ebbe modo di visitare la famosa abbazia benedettina di san Vincenzo, alle sorgenti del Volturno, nel ducato di Benevento. Fondata all’inizio di quel secolo dai tre fratelli beneventani Paldone, Tatone e Tasone, l’abbazia era conosciuta come oasi di cultura classica e cristiana. Poco dopo la sua visita, Ambrogio Autperto decise di abbracciare la vita religiosa ed entrò in quel monastero, dove poté formarsi in modo adeguato, soprattutto nel campo della teologia e della spiritualità, secondo la tradizione dei Padri. Intorno all’anno 761 venne ordinato sacerdote e il 4 ottobre del 777 fu eletto abate col sostegno dei monaci franchi, mentre gli erano contrari quelli longobardi, favorevoli al longobardo Potone. La tensione a sfondo nazionalistico non si acquietò nei mesi successivi, con la conseguenza che Autperto l’anno dopo, nel 778, pensò di dare le dimissioni e di riparare con alcuni monaci franchi a Spoleto, dove poteva contare sulla protezione di Carlo Magno. Con ciò, tuttavia, il dissidio nel monastero di S. Vincenzo non venne appianato, e qualche anno dopo, quando alla morte dell’abate succeduto ad Autperto fu eletto proprio Potone (a. 782), il contrasto tornò a divampare e si giunse alla denuncia del nuovo abate presso Carlo Magno. Questi rinviò i contendenti al tribunale del Pontefice, il quale li convocò a Roma. Chiamò anche come testimone Autperto che, però, durante il viaggio morì improvvisamente, forse ucciso, il 30 gennaio 784.
Ambrogio Autperto fu monaco ed abate in un’epoca segnata da forti tensioni politiche, che si ripercuotevano anche sulla vita all’interno dei monasteri. Di ciò abbiamo echi frequenti e preoccupati nei suoi scritti. Egli denuncia, ad esempio, la contraddizione tra la splendida apparenza esterna dei monasteri e la tiepidezza dei monaci: sicuramente con questa critica aveva di mira anche la sua stessa abbazia. Per essa scrisse la Vita dei tre fondatori con la chiara intenzione di offrire alla nuova generazione di monaci un termine di riferimento con cui confrontarsi. Uno scopo simile perseguiva anche il piccolo trattato ascetico Conflictus vitiorum et virtutum ("Conflitto tra i vizi e le virtù"), che ebbe grande successo nel Medioevo e fu pubblicato nel 1473 a Utrecht sotto il nome di Gregorio Magno e un anno dopo a Strasburgo sotto quello di sant’Agostino. In esso Ambrogio Autperto intende ammaestrare i monaci in modo concreto sul come affrontare il combattimento spirituale giorno per giorno. In modo significativo egli applica l’affermazione di 2 Tim 3,12: "Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati" non più alla persecuzione esterna, ma all’assalto che il cristiano deve affrontare dentro di sé da parte delle forze del male. Vengono presentate in una specie di disputa 24 coppie di combattenti: ogni vizio cerca di adescare l’anima con sottili ragionamenti, mentre la rispettiva virtù ribatte tali insinuazioni servendosi preferibilmente di parole della Scrittura.
In questo trattato sul conflitto tra vizi e virtù, Autperto contrappone alla cupiditas (la cupidigia) il contemptus mundi (il disprezzo del mondo), che diventa una figura importante nella spiritualità dei monaci. Questo disprezzo del mondo non è un disprezzo del creato, della bellezza e della bontà della creazione e del Creatore, ma un disprezzo della falsa visione del mondo presentataci e insinuataci proprio dalla cupidigia. Essa ci insinua che "avere" sarebbe il sommo valore del nostro essere, del nostro vivere nel mondo apparendo come importanti. E così falsifica la creazione del mondo e distrugge il mondo. Autperto osserva poi che l’avidità di guadagno dei ricchi e dei potenti nella società del suo tempo esiste anche nell’interno delle anime dei monaci e scrive perciò un trattato intitolato De cupiditate, in cui, con l’apostolo Paolo, denuncia fin dall’inizio la cupidigia come la radice di tutti i mali. Scrive: "Dal suolo della terra diverse spine acute spuntano da varie radici; nel cuore dell’uomo, invece, le punture di tutti i vizi provengono da un’unica radice, la cupidigia" (De cupiditate 1: CCCM 27B, p. 963). Rilievo, questo, che alla luce della presente crisi economica mondiale, rivela tutta la sua attualità. Vediamo che proprio da questa radice della cupidigia tale crisi è nata. Ambrogio immagina l’obiezione che i ricchi e i potenti potrebbero sollevare dicendo: ma noi non siamo monaci, per noi certe esigenze ascetiche non valgono. E lui risponde: "È vero ciò che dite, ma anche per voi, nella maniera del vostro ceto e secondo la misura delle vostre forze, vale la via ripida e stretta, perché il Signore ha proposto solo due porte e due vie (cioè la porta stretta e quella larga, la via ripida e quella comoda); non ha indicato una terza porta ed una terza via" (l. c., p. 978). Egli vede chiaramente che i modi di vivere sono molto diversi. Ma anche per l’uomo in questo mondo, anche per il ricco vale il dovere di combattere contro la cupidigia, contro la voglia di possedere, di apparire, contro il concetto falso di libertà come facoltà di disporre di tutto secondo il proprio arbitrio. Anche il ricco deve trovare l’autentica strada della verità, dell’amore e così della retta vita. Quindi Autperto, da prudente pastore d’anime, sa poi dire, alla fine della sua predica penitenziale, una parola di conforto: "Ho parlato non contro gli avidi, ma contro l’avidità, non contro la natura, ma contro il vizio" (l. c., p. 981).
L’opera più importante di Ambrogio Autperto è sicuramente il suo commento in dieci libri all’Apocalisse: esso costituisce, dopo secoli, il primo commento ampio nel mondo latino all’ultimo libro della Sacra Scrittura. Quest’opera era frutto di un lavoro pluriennale, svoltosi in due tappe tra il 758 ed il 767, quindi prima della sua elezione ad abate. Nella premessa, egli indica con precisione le sue fonti, cosa assolutamente non normale nel Medioevo. Attraverso la sua fonte forse più significativa, il commento del Vescovo Primasio Adrumetano, redatto intorno alla metà del VI secolo, Autperto entra in contatto con l’interpretazione che dell’Apocalisse aveva lasciato l’africano Ticonio, che era vissuto una generazione prima di sant’Agostino. Non era cattolico; apparteneva alla Chiesa scismatica donatista; era tuttavia un grande teologo. In questo suo commento egli vede soprattutto nell’Apocalisse riflettersi il mistero della Chiesa. Ticonio era giunto alla convinzione che la Chiesa fosse un corpo bipartito: una parte, egli dice, appartiene a Cristo, ma c’è un’altra parte della Chiesa che appartiene al diavolo. Agostino lesse questo commento e ne trasse profitto, ma sottolineò fortemente che la Chiesa è nelle mani di Cristo, rimane il suo Corpo, formando con Lui un solo soggetto, partecipe della mediazione della grazia. Sottolinea perciò che la Chiesa non può mai essere separata da Gesù Cristo. Nella sua lettura dell’Apocalisse, simile a quella di Ticonio, Autperto non s’interessa tanto della seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi, quanto piuttosto delle conseguenze che derivano per la Chiesa del presente dalla sua prima venuta, l’incarnazione nel seno della Vergine Maria. E ci dice una parola molto importante: in realtà Cristo "deve in noi, che siamo il suo Corpo, quotidianamente nascere, morire e risuscitare" (In Apoc. III: CCCM 27, p. 205). Nel contesto della dimensione mistica che investe ogni cristiano, egli guarda a Maria come a modello della Chiesa, modello per tutti noi, perché anche in noi e tra noi deve nascere Cristo. Sulla scorta dei Padri che vedevano nella "donna vestita di sole" di Ap 12,1 l’immagine della Chiesa, Autperto argomenta: "La beata e pia Vergine … quotidianamente partorisce nuovi popoli, dai quali si forma il Corpo generale del Mediatore. Non è quindi sorprendente se colei, nel cui beato seno la Chiesa stessa meritò di essere unita al suo Capo, rappresenta il tipo della Chiesa". In questo senso Autperto vede un ruolo decisivo della Vergine Maria nell’opera della Redenzione (cfr anche le sue omelie In purificatione s. Mariae e In adsumptione s. Mariae). La sua grande venerazione e il suo profondo amore per la Madre di Dio gli ispirano a volte delle formulazioni che in qualche modo anticipano quelle di san Bernardo e della mistica francescana, senza tuttavia deviare verso forme discutibili di sentimentalismo, perché egli non separa mai Maria dal mistero della Chiesa. Con buona ragione quindi Ambrogio Autperto è considerato il primo grande mariologo in Occidente. Alla pietà che, secondo lui, deve liberare l’anima dall’attaccamento ai piaceri terreni e transitori, egli ritiene debba unirsi il profondo studio delle scienze sacre, soprattutto la meditazione delle Sacre Scritture, che qualifica "cielo profondo, abisso insondabile" (In Apoc. IX). Nella bella preghiera con cui conclude il suo commento all’Apocalisse sottolineando la priorità che in ogni ricerca teologica della verità spetta all’amore, egli si rivolge a Dio con queste parole: "Quando da noi sei scrutato intellettualmente, non sei scoperto come veramente sei; quando sei amato, sei raggiunto".
Possiamo vedere oggi in Ambrogio Autperto una personalità vissuta in un tempo di forte strumentalizzazione politica della Chiesa, in cui nazionalismo e tribalismo avevano sfigurato il volto della Chiesa. Ma lui, in mezzo a tutte queste difficoltà che conosciamo anche noi, seppe scoprire il vero volto della Chiesa in Maria, nei Santi. E seppe così capire che cosa vuol dire essere cattolico, essere cristiano, vivere della Parola di Dio, entrare in questo abisso e così vivere il mistero della Madre di Dio: dare di nuovo vita alla Parola di Dio, offrire alla Parola di Dio la propria carne nel tempo presente. E con tutta la sua conoscenza teologica, la profondità della sua scienza, Autperto seppe capire che con la semplice ricerca teologica Dio non può essere conosciuto realmente com’è. Solo l’amore lo raggiunge. Ascoltiamo questo messaggio e preghiamo il Signore perchè ci aiuti a vivere il mistero della Chiesa oggi, in questo nostro tempo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina con l’Arcivescovo Mons. Salvatore Ligorio; della diocesi di Mondovì, con il Vescovo Mons. Luciano Pacomio; e dell’Arcidiocesi di Lanciano-Ortona, con l’Arcivescovo Mons. Carlo Ghidelli. Cari fratelli e sorelle, come afferma san Paolo, nessuna difficoltà può separarci dall’amore di Cristo, (cfr. Rm 8,35-39). Per questo, testimoniate con fervore la vostra comune adesione a Cristo ed edificate la Chiesa nella carità e nella verità. Saluto i Seminaristi dei Seminari Maggiori, partecipanti al convegno promosso dalla Pontifica Unione Missionaria, ed i rappresentanti del Movimento dei Laici Missionari della Carità, esortando ciascuno a riscoprire il dono della sequela di Cristo, aderendo sempre, con il suo aiuto, alla volontà del Padre. Saluto con affetto gli esponenti dell’Unione mutilati per il servizio istituzionale, ed auspico che la loro visita alle tombe degli Apostoli susciti in tutti un rinnovato desiderio di testimonianza cristiana. Un saluto speciale rivolgo ai soci dell’Associazione Nazionale S. Paolo Italia, qui convenuti così numerosi. Cari amici, vi incoraggio a proseguire generosamente la vostra importante opera in favore dell’animazione dei ragazzi e dei giovani, mediante gli Oratori e i Circoli giovanili. Come l’Apostolo delle genti, siate ferventi annunciatori del Vangelo. Il mio particolare pensiero va pure agli studenti della scuola "Giuseppe Susanna" del I° Circolo didattico "Don Lorenzo Milani" di Galatone, come pure agli alunni dell’Istituto professionale alberghiero di San Pellegrino Terme.
Saluto, ora, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Il Signore risorto riempia del suo amore il cuore di ciascuno di voi, cari giovani, perché siate pronti a seguirlo con l'entusiasmo e la freschezza della vostra età; sostenga voi, cari malati, nell'accettare con serenità il peso della sofferenza; guidi voi, cari sposi novelli, a fondare nella fedele donazione reciproca, famiglie impregnate del profumo della santità evangelica.
Desidero infine rivolgere una speciale parola ai Giovani del Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo, che ricordano oggi il 25° anniversario della consegna della croce dell’Anno Santo ai giovani del mondo. Era, infatti, il 22 aprile del 1984, quando alla fine dell'Anno Santo della Redenzione, l’amato Giovanni Paolo II affidò ai giovani del mondo la grande croce di legno che, per suo stesso desiderio, era stata tenuta presso l'altare maggiore della basilica di San Pietro durante quello speciale Anno Giubilare. Da allora, la croce fu accolta nel Centro internazionale giovanile San Lorenzo, e da lì cominciò a viaggiare per i Continenti, aprendo i cuori di tanti ragazzi e ragazze all'amore redentore di Cristo. Questo suo pellegrinaggio prosegue ancora, soprattutto in preparazione delle Giornate Mondiali della Gioventù, tanto da essere ormai nota come "Croce delle GMG". Cari amici, vi affido di nuovo questa croce! Continuate a portarla in ogni angolo della terra, perchè anche le prossime generazioni scoprano la Misericordia di Dio e ravvivino nei loro cuori la speranza in Cristo crocifisso e risorto!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Sri Lanka: il direttore di Caritas Vanni ferito negli scontri - Bombe contro una chiesa, ferito anche un sacerdote
ROMA, giovedì, 23 aprile 2009 (ZENIT.org).- Il direttore della Caritas di Vanni (Sri Lanka), fr. T.R. Vasanthaseelan, è stato gravemente ferito questo giovedì mattina durante i combattimenti degli ultimi giorni tra le forze governative e i ribelli delle Tigri Tamil (LTTE).
Varie bombe hanno raggiunto la chiesa di Sant'Antonio, a Valaignarmadam, dove ha trovato rifugio una parte delle 10.000 persone rimaste intrappolate tra i due fronti.
La gravità delle ferite ha costretto il direttore di Caritas Vanni a subire l'amputazione di una gamba. Al momento del ferimento, il sacerdote stava coordinando il lavoro di assistenza umanitaria alle vittime del conflitto, molte delle quali vengono usate dai ribelli tamil come scudi umani di fronte all'avanzata delle forze governative.
Secondo quanto ha reso noto Caritas Sri Lanka, nei combattimenti registrati questo mercoledì è rimasto ferito anche il sacerdote James Pathinatham, membro della Commissione Nazionale Giustizia e Pace dello Sri Lanka.
Informato dell'accaduto, il segretario generale di Caritas Internationalis, Lesley-Anne Knight, ha ricordato al Governo dello Sri Lanka e ai ribelli tamil “il dovere di difendere la vita dei civili e di permettere l'accesso umanitario” alle vittime. “Le Nazioni Unite e la comunità internazionale – ha segnalato – devono esortarli a rispettare questi principi”.
La Knight ha inoltre ribadito il suo “appello per un cessate il fuoco immediato”, oltre a denunciare “l'indescrivibile sofferenza dei lavoratori e dei volontari locali della Caritas, testimoni di come donne e bambini innocenti siano assassinati o feriti in questa guerra”.
Di fronte all'escalation di violenza che si vive nel Paese asiatico, Caritas Internationalis ha lanciato un appello d'emergenza a tutte le Caritas del mondo per sostenere le azioni di emergenza che la Caritas locale sta realizzando per soccorrere le decine di migliaia di persone fuggite dalle proprie case a causa degli scontri.


Gerusalemme: proibito ai cristiani l'accesso al Santo Sepolcro - Alla vigilia della Pasqua ortodossa
GERUSALEMME, giovedì, 23 aprile 2009 (ZENIT.org).- Sabato 18 aprile, vigilia della Pasqua ortodossa, Israele ha impedito ai cristiani di Gerusalemme di accedere liberamente alla chiesa del Santo Sepolcro e alla Città Vecchia.
Nel giorno che precede quello in cui i fedeli ortodossi celebrano la Pasqua, avviene nella chiesa del Santo Sepolcro il cosiddetto miracolo della discesa del Fuoco Santo, attestato in modo documentato dal 1106. Il Fuoco viene poi portato in vari Paesi, dove viene ricevuto con tutti gli onori.
Per il quinto anno, le forze armate israeliane hanno istituito dei check point nella zona circostante la chiesa, non permettendo ai cristiani locali di pregare e seguire le proprie tradizioni.
“E' ovvio che i palestinesi locali, e soprattutto i palestinesi cristiani, vengono presi di mira”, ha affermato il Comitato Laico in Terra Santa/Gerusalemme Est in un comunicato inviato a ZENIT.
Mentre per la festa di Pesach, la Pasqua ebraica, Israele ha garantito il pieno accesso ai fedeli ebrei che desideravano arrivare nella Città Santa, per i palestinesi cristiani che si recavano a Gerusalemme non è stato così.
“Gerusalemme non dovrebbe mai essere lasciata a una sola parte che possa governare”, spiega il testo. “I bambini e gli anziani sono stati umiliati ed è stato loro impedito di celebrare questo giorno santo”.
“La chiesa del Santo Sepolcro ha ospitato tutti i fedeli (locali, pellegrini e turisti) senza alcun incidente”.
Il Comitato constata anche che “la mancanza di coordinamento tra le varie Chiese a Gerusalemme sta andando a favore delle autorità israeliane, che hanno agito per tanto tempo in base al divide et impera”.
“Oggi il prezzo viene pagato caro dai cristiani di Gerusalemme, che vengono spinti a lasciare le proprie case e i Luoghi Santi”.
“Queste violazioni da parte dello Stato di Israele dovrebbero cessare – dichiara il Comitato –. I passi intrapresi contro i cristiani palestinesi sono illegali. Chiediamo ai consolati, alle ambasciate, alle Chiese e alle organizzazioni cristiane e alle organizzazioni per i diritti umani di intervenire immediatamente, perché la libertà di religione e di culto a Gerusalemme sia garantita a tutte le fedi”.


Il Papa: l'obbedienza in famiglia insegna la vera libertà - Riceve gli organizzatori dell'ultimo Incontro Mondiale delle Famiglie
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 23 aprile 2009 (ZENIT.org).- La vera obbedienza alla volontà di Dio all'interno della famiglia trasforma quest'ultima in un ambito di vera libertà. Lo ha affermato Benedetto XVI nella breve omelia della Messa che ha celebrato questo giovedì mattina nella Cappella Redemptoris Mater del Vaticano con gli organizzatori dell'ultimo Incontro Mondiale delle Famiglie (Città del Messico, gennaio 2009).
Il Papa ha voluto ricevere i membri del comitato organizzatore, in questi giorni a Roma in pellegrinaggio, accompagnati dal Cardinale Norberto Rivera Carrera, Arcivescovo di Città del Messico.
Riferendosi alle letture del giorno, in cui l'apostolo Pietro afferma che bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini, il Papa ha spiegato che l'obbedienza “non è una semplice soggezione, né un mero mettere in pratica degli ordini, ma nasce da un'intima comunione con Dio”.
L'obbedienza, ha aggiunto, “consiste in uno sguardo interiore che sa discernere ciò che viene dall'alto ed è al di sopra di tutto. E' frutto dello Spirito Santo che Dio concede senza misura”.
In questo senso, ha osservato che l'uomo di oggi “ha bisogno di scoprire questa obbedienza, che non è teorica ma vitale ed è un optare per comportamenti concreti, basati sull'obbedienza alla volontà di Dio, che ci fanno sentire pienamente liberi”.
“Le famiglie cristiane, con la loro vita domestica semplice e allegra, condividendo giorno dopo giorno le gioie, le speranze e le preoccupazioni, vissute alla luce della fede, sono scuole di obbedienza e ambito di vera libertà”.
“Lo sanno bene coloro che hanno vissuto il proprio matrimonio secondo i piani di Dio”, ha aggiunto.
Questo mercoledì, al termine dell'Udienza generale, il Papa ha salutato in modo particolare gli organizzatori del VI Incontro Mondiale delle Famiglie.
“Il vostro soggiorno a Roma vi confermi nella fede degli Apostoli e vi incoraggi a essere discepoli e missionari di Gesù Cristo, che con la sua resurrezione ha vinto il peccato e la morte e ci esorta ad essere testimoni della verità del Vangelo che cambia la nostra vita”, ha auspicato nel suo saluto in spagnolo.
I pellegrini provenienti dal Messico formavano un gruppo di circa 100 persone. Questo giovedì hanno donato al Papa un ritratto che rappresenta la sua immagine formata da 7.182 fotografie di persone di 261 città di 25 Paesi.
I pellegrini messicani hanno anche consegnato al Papa il materiale emerso dall'Incontro Mondiale delle Famiglie, come le conferenze e le conclusioni delle tavole rotonde


Anselmo d'Aosta: "formidabile ragionatore" tra i moderni profeti del niente - Novecento anni dopo, la sua "intelligenza della fede" è ancora la via maestra "in questa nostra epoca di proliferazione dei dubbi". La graffiante omelia con cui il cardinale Giacomo Biffi, a nome del papa, ha aperto le celebrazioni del grande dottore della Chiesa - di Sandro Magister

ROMA, 23 aprile 2009 – Per celebrare il "doctor magnificus" Anselmo nel nono centenario della sua morte, Benedetto XVI ha delegato un vescovo teologo come lui, il cardinale Giacomo Biffi.

E questi ha svolto il compito da par suo. Nella cattedrale di Aosta, città natale del santo, e nell'omelia della sua festa liturgica, il 21 aprile, ha rivendicato la straordinaria attualità del grande Anselmo: "formidabile ragionatore" e uomo di fede tra tanti falsi maestri del dubbio, fedelissimo al successore di Pietro fra tanti, anche vescovi, che lo lasciano solo.

L'omelia del cardinale Biffi è riprodotta integralmente più sotto.

Nell'occasione, papa Joseph Ratzinger ha inviato due messaggi: il primo all'abate primate dei benedettini confederati, Notker Wolf, e il secondo al cardinale Biffi, suo inviato speciale alle celebrazioni.

Il secondo di questi messaggi è stato letto nella cattedrale di Aosta, il 21 aprile, subito prima dell'omelia di Biffi. In fondo a questa pagina trovi il link al testo integrale.

Di Anselmo è divenuta celebre l'espressione: "Non quæro intelligere ut credam, sed credo ut intelligam"; non cerco di capire per credere, ma credo per capire.

Ma ancor più famosa, nella storia del pensiero, è diventata la sua via per affermare l'esistenza di Dio: come coincidenza evidente, inoppugnabile, tra "ciò di cui non si può pensare il maggiore" e l'essere che non può non essere pensato esistente.

Questa via fu criticata e respinta da Tommaso d'Aquino e da Kant ma considerata valida da Duns Scoto, Cartesio, Leibniz, Hegel. Propriamente, però, la riformulazione che Cartesio e altri dopo di lui diedero di tale "argomento ontologico" non corrisponde al pensiero autentico di Anselmo.

Secondo i più attenti studiosi delle sue opere, per Anselmo l'esistenza di Dio non deve essere "dimostrata". La "prova" evidente riguarda piuttosto la sua negazione: chi nega l'esistenza di "ciò di cui non si può pensare il maggiore" si pone in insuperabile contraddizione e quindi nell'impossibilità stessa di pensare.

Anselmo fu uomo d'Europa. Al suo nome si associano Aosta, sotto le vette delle Alpi, l'abbazia benedettina del Bec in Normandia, di cui fu abate, e Canterbury, di cui fu vescovo. Le celebrazioni interessano tutte e tre queste località.

Ecco dunque l'omelia del cardinale Biffi, pronunciata nella cattedrale di Aosta il 21 aprile, festa di sant'Anselmo:


"Tre doni opportuni per questa nostra epoca confusa e inquieta" di Giacomo Biffi
Mi è caro e doveroso manifestare la mia riconoscenza al Padre del cielo, elargitore di ogni "buon regalo e ogni dono perfetto" (cfr. Giacomo 1, 17), per la gioia che mi è data di presiedere questo rito che ricorda ed esalta un uomo di Dio straordinario e affascinante come sant'Anselmo, gloria inalienabile di questa Chiesa e di questa città di Aosta, nel nono centenario del suo beato transito alla vita eterna. E sono grato al nostro papa Benedetto, che mi ha riservato il privilegio di rappresentarlo, come suo inviato speciale, in questa bella circostanza.

La splendente e fervida avventura umana di Anselmo, pur connotata sempre da un’assoluta coerenza interiore, si sviluppa in tre tempi, tra loro dissimili e lontani per diversità di compiti, di attenzioni, di responsabilità.

All’inizio ci sono gli anni vissuti in questa sua terra natale, gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza. In essi egli si rivela già un instancabile ricercatore di Dio, anelante a un’esistenza ricca di senso e soprannaturalmente motivata.

Il secondo periodo, che si protrae per trent’anni, si colloca nell’abbazia di Bec, in Normandia, dove è prima di tutto un monaco esemplare. Poi. come priore e come abate, ha modo di manifestare le sue doti di educatore e pedagogo originale, di sapiente maestro nella vita di preghiera, di formidabile ragionatore, oltre che di indagatore intelligente e geniale della verità rivelata.

Infine, negli ultimi sedici anni, divenuto arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra, si rivela pastore coraggioso e saggio, innamorato della sua Chiesa, che egli difende dalle prepotenze e dall’avidità dei re normanni Guglielmo il Rosso ed Enrico I, eredi in questo e degni figli di Guglielmo il Conquistatore.

L’intero suo pellegrinaggio terreno è stato fecondo di insegnamenti mirabili e di esempi preziosi. È naturale perciò formulare oggi l’auspicio che questo centenario sia occasione per quanti aspirino a essere davvero "teologi", per la multiforme schiera degli uomini di cultura, per l’intero popolo dei credenti, di tornare ad ascoltare con nuova diligenza il suo magistero e di esplorarne con cura i tesori di verità e di grazia che egli ci offre.

Noi però, nel breve spazio di un’omelia, dobbiamo limitarci a considerare solo tre ammonimenti, dei quali Anselmo ci può oggi gratificare, uno per ogni tratto del suo itinerario ecclesiale: quasi tre "doni", singolarmente opportuni per questa nostra epoca confusa e inquieta.

***

Fin dalla sua prima età Anselmo ebbe acutissima la percezione del mondo invisibile, cioè di quella realtà che vive e palpita di là dalla scena appariscente e chiassosa delle cose e degli accadimenti di quaggiù: è il mondo dove regna la Trinità augustissima; è il mondo affollato da schiere di creature felici; è il mondo che ci trascende, ma anche ci è vicino e dà senso e scopo alla nostra vicenda di creature mortali.

Egli era – nota il suo biografo Eadmero – "un fanciullo cresciuto tra i monti" e si figurava che le alte cime innevate che circondavano la sua città fossero i fondamenti e i pilastri di sostegno della casa misteriosa dove il Signore dimorava con i suoi angeli e con tutti i santi. Una notte sognò addirittura di essere riuscito ad ascendere fin lassù e di essere arrivato al cospetto della maestà divina.

Questa è la prima lezione che vogliamo raccogliere. Quando nel "Credo" affermiamo che Dio è creatore di tutte le cose "visibili e invisibili", richiamiamo non solo la verità di fede dell’origine di ogni essere da colui che è causa di tutto, ma anche esprimiamo una persuasione, per così dire, preliminare e complessiva: e cioè che la realtà totale è molto più vasta di quella che attingiamo con la semplice conoscenza naturale, sostanziata solo di esperienza sensibile, di ragionamento induttivo e deduttivo, di calcolo matematico. Anselmo oggi dunque ci dice: è indispensabile che non vi sfuggano mai le vere dimensioni dell’esistente.

Per chi sa mantenere vivace e pungente nella sua consapevolezza l’idea del mondo invisibile, diventa naturale un abituale atteggiamento di ascolto: ascolto della divina Rivelazione su quanto sta di là dalla ridda di ombre, di figure, di casi fortuiti, di aberrazioni, nella quale siamo immersi; e, più ampiamente, ascolto di ciò che ci viene detto in vari modi dallo Spirito Santo, che è l’attore nascosto ma primario della nostra storia più vera.

Quando ci prende, come può capitare, la depressione e lo scoraggiamento alla vista di ciò che avviene sotto il cielo, dentro e fuori la cristianità, il rimedio più decisivo davanti a tale spettacolo deludente sta proprio nel ripensare all’effettiva estensione dell’universo, che comprende appunto il mondo invisibile; quel mondo invisibile che è già vittorioso sul male ed è già nostro; quel mondo invisibile che è colmo ed esuberante di una sovrumana energia da cui (anche quando non ce ne accorgiamo) viene senza soste investita la terra.

***

Un secondo non trascurabile insegnamento concerne il rapporto tra fede e ragione. Ai nostri giorni non sono pochi – e non sono tra i meno sicuri di sé e i meno loquaci – quelli che giudicano fede e ragione due forme di cognizione tra loro incompatibili e del tutto alternative: chi ragiona, essi affermano, non ha bisogno di credere; e chi crede, per ciò stesso esce dall’ambito della razionalità: così ritengono con irremovibile e dogmatica convinzione.

Anselmo rabbrividirebbe davanti a questo atteggiamento mentale. Per lui – e per ogni cristiano adeguatamente informato – la fede non solo non è separabile dalla ragione e non la mortifica, ma è addirittura l’esercizio estremo e più alto della nostra facoltà intellettiva.

D'altro canto nella cultura odierna, condizionata e dominata da un soggettivismo assoluto, si va affermando altresì una visione pessimistica della naturale conoscenza umana. L'uomo – così pensano in molti – non è in grado di approdare a nessuna verità, che non sia provvisoria e intrinsecamente relativa.

Quando si tratta delle questioni che contano – sulla nostra origine, sulla sorte ultima dell’uomo, su una qualche persuasiva ragione del nostro esistere – le certezze oggi vengono addirittura irrise e persino colpevolizzate. Le domande più serie, quando non sono censurate sul nascere dalle varie ideologie dominanti, sono consentite solo come premessa e impulso alla proliferazione dei dubbi. Ma così si estingue nell’uomo ogni necessaria fiducia: come possiamo rassegnarci ad aggrappare la nostra unica vita ai punti interrogativi che non hanno risposta?

Anselmo invece riconosce la dignità e l’efficacia della ragione. Per lui – e per tutti i discepoli di Gesù – la ragione va onorata già per se stessa come un grande dono di Dio. In più, essa entra come elemento costitutivo indispensabile nell’atto di fede, e resta come elemento costitutivo indispensabile di quella "intelligenza della fede" nella quale Anselmo è riconosciuto maestro.

***

C’è un terzo ammonimento che Anselmo rivolge alla vita ecclesiale dei nostri giorni: non perdete mai di vista, egli ci esorta, la funzione primaria e insostituibile della sede di Pietro.

Durante la lunga e aspra lotta per salvare la "libertas Ecclesiae" dalle invadenze arbitrarie del potere politico, il primate d’Inghilterra rimane solo. "Anche i miei vescovi suffraganei – egli scrive con qualche malinconia – non mi davano altri consigli che quelli conformi alla volontà del re" (Epistola 210). Allora cerca, e ottiene, l’appoggio, l’incoraggiamento, la difesa del vescovo di Roma, cui fiduciosamente ricorre.

Anselmo sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ad altri) Gesù ha detto: "Conferma i tuoi fratelli" (Luca 22, 32); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ai vari opinionisti nella "sacra doctrina", per quanto dotti e geniali) Gesù ha promesso: "Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo 16, 19); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non all’una o all’altra colleganza ecclesiastica o culturale) Gesù ha dato il compito di pascere l’intero suo gregge (cfr. Giovanni 21, 17).

Egli lo sa, e anche noi non dobbiamo mai dimenticarlo: la sede apostolica è sempre il normale punto di riferimento e l’ultimo insindacabile giudizio per ogni problema che riguarda la verità rivelata, la disciplina ecclesiale, l’indirizzo pastorale da scegliere.

L'arcivescovo di Canterbury ricambiò poi l’aiuto ricevuto dal romano pontefice con una fedeltà intemerata, che tra l’altro gli costò a più riprese il disagio e l’amarezza dell’esilio.

***

Anselmo d'Aosta, come si vede, ha un posto prestigioso e benefico nella storia della Chiesa, nella storia della santità, nella storia del pensiero umano; e noi diciamo grazie al Signore che ce lo ha suscitato.

Oggi ancora è una figura e una personalità davvero attuale. Sicché ci viene spontaneo contare sulla sua intercessione presso Dio a favore di questi nostri tempi; di questi nostri tempi che così spesso sono costretti ad ascoltare dai più diversi pulpiti la voce baldanzosa dei molti profeti del niente e i discorsi dei compiaciuti assertori di un destino umano senza plausibilità, senza significato, senza speranza.


TESTAMENTO BIOLOGICO/ Perché usare il dramma di Ravasin a fine politico? - Alberto Gambino - giovedì 23 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Non è la prima volta che si utilizza un caso pietoso e drammatico per una battaglia ideologica finalizzata a sostenere che con la nuova legge sulle Dat il paziente sarà sottoposto forzosamente all’alimentazione e all’idratazione artificiale anche quando non lo voglia.
La vicenda che ha riacceso il tema è quella di Paolo Ravasin, da dieci anni affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), che ha dichiarato in un video-appello che la legge approvata al Senato sarebbe “anticostituzionale” perché non consente di rifiutare l’idratazione e l’alimentazione. Si sostiene che questa legge renderebbe “carta straccia” le dichiarazioni del paziente ed in particolare la decisione di non sottoporsi ad alimentazione e nutrizione artificiale quando non fosse più in grado di farlo.
E’ subito il caso di chiarire che - al contrario di quanto sostenuto da Ravasin - sulla dolorosa vicenda dei malati di SLA non inciderà affatto, ove fosse definitivamente approvata, la legge attualmente votata dal Senato. Per tre motivi, piuttosto evidenti.
Primo. Il paziente, nel caso della SLA, è capace di intendere e di volere, dunque può rifiutare qualunque intervento: il testo Calabrò, infatti, non reca alcuna novità rispetto alla prassi oggi attuata con riferimento al consenso informato. La sclerosi laterale amiotrofica, come noto, è una malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso che influisce in modo predominante sui neuroni motori e nella maggioranza dei casi, la malattia non danneggia la mente, la personalità, l'intelligenza o la memoria del paziente. Dunque il paziente potrà sempre coscientemente rifiutare trattamenti sul proprio corpo e ciò sarà consentito anche dopo l’approvazione definitiva della legge sulle Dat.
Secondo. Anche laddove il paziente perdesse conoscenza, nel caso della SLA - trattandosi come detto di una malattia progressivamente degenerativa - continuerà a rilevare il consenso o dissenso espresso a seguito delle informazioni fornite dal medico, che comprendono anche l’evoluzione della malattia. In questo caso, dunque, il paziente può certamente rifiutare in anticipo gli interventi che ritenga invasivi. Siamo infatti fuori dall’ipotesi delle DAT che, come dispone il testo di legge ora approdato alla Camera, riguarda dichiarazioni di soggetti che non hanno ancora assunto lo stato di “pazienti”, cioè non sono ancora affetti da patologie. I malati di SLA sono invece pazienti che devono ricevere con continuità informazioni sulla loro malattia e di conseguenza dare o meno il consenso ai trattamenti che vengono via via proposti dal medico. L’alleanza tra medico e paziente in questo caso segue, perciò, le regole del consenso informato, in cui si può rifiutare qualsiasi trattamento indesiderato.
Terzo. Anche per il caso di rifiuto di alimentazione e idratazione – che il testo approvato al Senato limita esclusivamente al non potersi esprimere all’interno di una DAT – quando il paziente è in grado di esprimere la sua volontà, restano invece ferme le attuali prassi, e anche con riferimento ad uno futuro stadio degenerativo della malattia. Dunque, nel caso della SLA, il paziente potrà rifiutare nell’ambito del consenso informato anche il presidio che veicola il sostentamento, ove questo implichi un trattamento medico.
E’ infine opportuno ricordare che - in ogni caso - quando l’alimentazione e l’idratazione configurano forme di accanimento terapeutico, esse potranno essere sospese dai medici. Anzi questa legge proprio nei “casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente”, stabilisce un vero e proprio obbligo giuridico in capo al medico dall’astenersi da “trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura” (art. 1, lett. f). Piuttosto si tratterà di spiegare meglio quale sia la differenza tra “fine vita” e “imminenza della morte”, anche al fine di scongiurare interpretazioni che facciano rientrare nel primo proprio gli stati vegetativi persistenti.
Dunque l’unico caso in cui non si potrà sospendere l’alimentazione e l’idratazione è quello relativo a quei pazienti che per un trauma improvviso cadano in uno stato di incoscienza e, come nel caso Englaro, non sono davanti a stadi terminali di una patologia che non consenta più l’assorbimento dei liquidi, ma anzi vedano provocata la loro morte proprio attraverso l’interruzione del sostentamento. Ma questo, come detto, non riguarda il caso dei malati di SLA.
Altro tema collegato, ma su cui la legge nulla dice, è piuttosto a chi spetti l’interruzione del trattamento ove questa interruzione sia legittimamente richiesta dal paziente. In assenza di una espressa previsione su questo punto, resta ferma – salvo diverso avviso dei giudici investiti di nuovi casi - la soluzione giudiziaria del caso Welby, che aveva ritenuto non punibile il medico adempiente ad una richiesta di interruzione di trattamento da parte del paziente cosciente.
Ora, se così stanno le cose, non può certo tacersi la strumentalità di usare un caso pietoso, del tutto estraneo ai contenuti del provvedimento normativo di cui si discute, con lo scopo di asserire l’incostituzionalità dello stesso e – come sostiene Emma Bonino - la necessità di riportare “il problema del biotestamento nel suo ambito naturale, quello dalla libertà". In questa vicenda, infatti, di biotestamento non ce ne è nemmeno l’ombra.


ELEZIONI/ In cosa sperare? - Roberto Fontolan - giovedì 23 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Ogni volta che si avvicina una scadenza elettorale è giusto domandarsi perché. Cosa cerchiamo, cosa speriamo, a cosa miriamo con un voto, con quel voto. Prima del 6 e 7 giugno ci porremo la domanda in alcune centinaia di milioni di europei, visto che da quella data uscirà la nuova composizione del Parlamento di Bruxelles. E dunque, perché? Influire sulle prossime normative sull’agricoltura? Spingere nella direzione di una politica estera comune? Dare un esempio alle nuove generazioni continentali di quel che le vecchie hanno saputo costruire? Messa così, la faccenda sembra destinata ad un vicolo cieco. Sinceramente: può un europeo razionale pensare che il suo voto possa concretamente determinare qualcosa dell’agricoltura o della politica estera? E d’altra parte in molti nutrirebbero dubbi anche sull’esemplarità della laboriosissima costruzione comunitaria. L’Europa del dopoguerra è sempre stata un misto di grandiose speranze, parziali realizzazioni e consistenti disillusioni, ma da un periodo ormai troppo lungo il terzo ingrediente del cocktail ne ha pesantemente alterato il sapore. L’oltraggioso rifiuto opposto alla citazione delle radici cristiane da parte di una incredibile Convenzione (nel senso proprio di non credibile, come si è visto successivamente con i referendum bocciati). Lo svuotamento dei valori e dei diritti sostanziali. L’assalto vincente delle lobbies dei “nuovi costumi”. La crescita della tecno- e della buro-crazia. Il malriuscito allargamento a Est. Davvero non sarebbe difficile andare avanti per qualche decina di righe ad elencare questioni irrisolte o risolte tremendamente male. E il voto di giugno, è bene saperlo, non cambierà le tendenze dell’Europa del XXI secolo. Di nuovo, dunque, dobbiamo chiederci perché: a cosa servirà il mio voto? Ma se questa è la domanda, le risposte sono obbligate, e sono quelle date, destinate soltanto ad accrescere il fossato tra le aspettative e la politica reale, nel migliore dei casi rinviando l’appuntamento ad un’altra scadenza, o ad un altro partito, o ad un’altra strategia.
Occorre invece un’altra domanda: quale sfida lanciano le elezioni europee, quale occasione offrono alla vita di ciascuno di noi abitanti del Vecchio Continente, quale protagonismo è possibile in un evento di simili proporzioni? Percorrendo le strade delle nostre città e delle nostre campagne la risposta si fa semplice. La libertà, la famiglia, il lavoro, l’impresa, l’educazione, la carità, l’accoglienza, la giustizia. Ogni giorno camminiamo con questo bagaglio appresso o, per meglio dire, dentro. Non solo le elezioni, ma in particolare le elezioni e quelle europee ancor più (anche per i fattori che la valentissima costituzionalista Marta Cartabia non si stanca di mai di spiegare), chiamano a “dire” della libertà, della famiglia, del lavoro e così via. Con i vicini, nei circoli culturali, nelle tavolate con gli amici, nelle aule universitarie, nelle pause caffè degli uffici. Una esperienza che si aggiri per l’Europa, ecco la formidabile provocazione che il primo week end di giugno mette nella nostra giornata (l’ho imparato in questi anni seguendo il lavoro dell’eurodeputato Mario Mauro, che spero di rivedere a Bruxelles all’indomani delle elezioni: prendetelo come un invito a votarlo, lettori del collegio Nordovest, non solo voi ma tutti gli europei che hanno a cuore l’Europa hanno bisogno di lui).
Una domanda diversa, risposte vere: l’occasione fa l’uomo protagonista.


SPAGNA/ Zapatero vuole il silenzio della Chiesa sull’aborto - Redazione - giovedì 23 aprile 2009 - ilsussidiario.net
È sorprendente la capacità che ha il ministro dell’Uguaglianza, Bibiana Aído, di rispondere a tutte le opinioni contrarie alla posizione del Governo sull’ampliamento dell’aborto che vuole approvare prima dell’estate. Lo fa così frequentemente e in modo così aggressivo che si è guadagnata il titolo di ministro che parla di più tra tutti quelli che siedono al Consiglio dei Ministri.
Le sue ultime parole sull’aborto sono state queste: «La Chiesa può solo dire che è peccato e non che si tratta di un delitto». Queste dichiarazioni della giovane ministro sono deboli. In primo luogo perché sono antidemocratiche. Da quanto un governo si permette di indicare cosa dovrebbe o non dovrebbe dire la Chiesa? Chi ha concesso questo potere alla Aído? Il Ministro non permette alla Chiesa la libertà di esprimersi e di giudicare quello che vuole? La beniamina del Governo Zapatero non lascia prendere posizione alla Chiesa su temi sociali che sono sul tavolo? Le vuole togliere questo diritto fondamentale?
Questa è la vera ossessione dell’“era Zapatero”: escludere la Chiesa dal dibattito pubblico. Non permettere che la Chiesa giudichi questioni che ci riguardano tutti. Sembra che alla Chiesa sia vietato entrare in determinati dibattiti o polemiche.
Ma continuiamo a esaminare le parole del ministro. Effettivamente, per la Chiesa cattolica l’omicidio è un peccato. Si tratta né più né meno del quinto comandamento: «Non uccidere». E l’aborto, così come hanno ricordato i quasi mille firmatari del manifesto di Madrid da una posizione lontana da principi morali, è la morta di una vita, quella dello zigoto. E il ministro Aído, volendo confinare la Chiesa esclusivamente alla definizione di ciò che è peccato, in fondo sta riconoscendo che l’aborto è un omicidio.
Ci sono verità che continueranno a essere tali anche se gli si cambia il nome e bugie che non saranno altro che menzogne, per quanto legali siano. E l’aborto, per quanto legale sia, non smetterà di essere ciò che è, cioè un omicidio. E la Chiesa ha il dovere, l’obbligo di gridarlo ai quattro venti. Inoltre, la Chiesa non solo definisce o può definire, come vuole il ministro, ciò che è peccato o meno. La Chiesa sostiene, solitaria in questi momenti e controcorrente, verità che più nessuno ormai considera tali.
Qui sta la radice, il nocciolo della questione. Che la vita non ce la diamo da noi stessi, non è nostra, non siamo signori e padroni della realtà. In questo modo, questo “grido” espresso dalla Chiesa non è una condanna, è un richiamo all’apertura della ragione per arrivare a riconoscere la positività dell’esistenza, per quanto sia difficile la circostanza di ognuno.
Caro ministro, non è un problema di peccare o non peccare, è un problema di esistere o non esistere, di vivere o uccidere. E se si uccide, c’è un delitto, non un diritto che lei vuole ora imporre.
(Raquel Martín)


DOPO ELUANA/ Astrarre la persona: il “diritto” a morire si trasforma in “dovere” - Elisa Buzzi - giovedì 23 aprile 2009
La questione della “posta in gioco nella battaglia biopolitica” – indicata da due interventi di M. Niola e R. Esposito apparsi su La Repubblica pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro - pone l’interrogativo su quale sia l’istanza morale assoluta che protegge il singolo dalle pretese del potere (R.Guardini). Oggi siamo di fronte a un profondo rivolgimento teorico, per cui improvvisamente la nozione di persona gioca un ruolo fondamentale nella distruzione dell’idea che gli uomini, proprio in quanto esseri umani, avrebbero dei diritti e una dignità inviolabile. Così, in nome delle “dignità della persona” si uccidono degli esseri umani. Infine il discorso sulla dignità della persona e sulla sua adeguata fondazione, ci riconduce sempre allo stesso punto: a chi appartiene l’uomo, a chi appartengo io? Solo “l’ipotesi della trascendenza”, la “dipendenza dal mistero come costitutiva del valore dell’io”(Giussani), costituisce una fondazione adeguata della dignità della persona, che protegge il singolo dalle pretese del potere.
Come è possibile che questa affermazione o ipotesi della trascendenza, che costituisce la punta di diamante del pensiero occidentale e la stessa origine dell’idea di persona, venga distrutta, cancellata dalla coscienza dell’io e di un’intera società o cultura?
Il sociologo americano Peter Berger sostiene che: «Il fondamentale potere di coercizione di una società non risiede nei suoi meccanismi di controllo sociale, ma nel suo potere di costituire e imporre se stessa come la realtà. La legittimazione come pretesa di definizione della realtà non è solo questione di valori, essa implica sempre anche la conoscenza» (P. Berger, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, 1967, 92).
Il problema è sempre, anzitutto di conoscenza: di un modello (relativo), di un punto di vista (parziale), di una interpretazione (riduttiva) che si autodefinisce e si impone come realtà, tutta la realtà e l’unica realtà. Tanto per fare un esempio direttamente rinvenibile negli articoli di La Repubblica: entrambi gli autori a un certo punto introducono espressioni del tipo “minimo comune denominatore biologico”, “nuda vita” e il linguaggio vagamente scientifico di cui si ammantano tende a comunicarci l’impressione che stiamo toccando qualcosa di reale, che stiamo camminando sul terreno solido della “realtà oggettiva”. Ma a che cosa corrispondono veramente queste espressioni? Dove mai incontriamo, vediamo, tocchiamo il “minimo comune denominatore biologico”, la “nuda vita”? La vita, come ricorda Hans Jonas, si presenta sempre a noi, in tutte le sue espressioni, anche le più elementari, «con l’abito di gala», di infinite e irriducibili qualità e differenze, spesso meravigliose e affascinanti, talvolta terribili e spaventose, sempre stupefacenti. Non è mai amorfa, nuda, semmai “denudata” «per ben ponderati fini conoscitivi e […] in funzione di un determinato modello di sapere» (Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, 1997, 61), cioè, per le esigenze metodologiche di oggettivazione scientifica, di misurazione esatta e riproducibilità sperimentale. La “nuda vita” non corrisponde ad alcuna esperienza, è un postulato, «l’estrapolazione concettuale al limite di una serie di osservazioni empiriche», come dice Giorgio Israel a proposito del principio di inerzia, che costituisce il fondamento della meccanica classica e il cuore concettuale del riduzionismo metodologico della scienza moderna (G. Israel, Medicine between Humanism and Mechanism, JMP, 1/2008, 6). Il riferimento di Esposito a Xavier Bichat, uno dei fondatori della medicina scientifica moderna, per chi abbia qualche nozione della storia della medicina e del suo, controverso statuto epistemologico, è, in questo senso, assolutamente emblematico. Comunque, la “nuda vita”, il “minimo comune denominatore biologico”, il corpo/oggetto, pura “cosa”, di volta in volta identificato con la “mera fisiologia”, o vanificato nel flusso proteiforme delle interpretazioni simboliche e dei valori culturali – i due lati assolutamente simmetrici e necessariamente complementari della stessa riduzione -, non sono esperienze, “realtà”, sono concetti, così come un concetto, filosofico-politico, è l’individuo autonomo, come autoposizione assoluta di una volontà formale, vuota, che si attualizza unicamente nella scelta e nella rivendicazione di diritti. Sono concetti entro certi limiti funzionali a legittime esigenze metodologiche e conoscitive, oltre certi limiti letteralmente “creatori di idoli”, in senso biblico, o, per usare un’espressione più attuale, creatori di ideologie.
Corpo/oggetto e coscienza/soggetto così concepiti, concettualizzati, rappresentano due elementi centrali di quella che G. Maddalena , in un intervento su ilsussidiario.net di qualche tempo fa, indicava come la “koyné naturalistica” che definisce la cultura dominante, filosofica e non solo, del nostro tempo e si esprime nel paradigma del “mondo causalmente chiuso”: una visione in cui la realtà non funziona mai come “segno” e, perciò, la ragione, smarrita la sua essenziale funzione analogica, si riduce a misura, calcolo razionale. In effetti, il punto focale, il perno, su cui si regge l’ipotesi della trascendenza è l’esperienza della realtà come segno, che innesca la dinamica affetivo-conoscitiva dell’io, la dinamica della libertà e della ragione alla ricerca del significato, di ciò cui il segno rimanda. Ciò che in me, nel rapporto con la realtà, sperimento come limite è, secondo l’espressione classica della filosofia e della teologia, segno della “contingenza”, termine che indica una nozione concettualmente più ricca e profonda di quella di limite ed anche esistenzialmente più densa, più vicina alla nostra esperienza. Contingenza significa, appunto, il carattere di una realtà che non ha in sé la ragione del suo essere, non ha il potere di farsi: io non ho il potere di farmi, non mi faccio da me, dunque sono fatto, dipendo all’origine e in ogni istante da una sorgente, da un quid, che è altro da me, dalla realtà che sperimento – “trascendente” -, che è la realtà nel senso più pieno, l’essere vero, che ha il “potere” nel senso più radicale, il potere di trarre dal nulla. Proprio la “realtà” del corpo, ciò che noi veramente sperimentiamo come dimensione della nostra esistenza personale, condizione nel duplice senso di limite e possibilità, il fatto di nascere e morire – prima non c’ero, ora ci sono, domani non ci sarò –, l’evidenza del mutare nel tempo, della fragilità, vulnerabilità, dipendenza, più o meno grande, ma realisticamente inevitabile, l’evidenza della finitudine, del nostro niente, che continuamente ci assedia e di cui la malattia, come ha affermato un grande medico, Edmund Pellergrino, è un “brutale promemoria”, insieme all’inesauribile esigenza di vivere, di bene, di felicità, di ragione, di giustizia, di compimento, sono segno di questa contingenza, che non segna solo il corpo, ma tutto l’io, definendone ad un tempo il limite e la trascendenza: quella continua, inesauribile “sporgenza” del cuore - «l’incondizionata esigenza del bene e del ragionevole che si afferma nell’uomo [e] non è connessa a un destino naturale, [non è] una faccenda di geni e di educazione» (R. Spaemann, Persone, 22-23) - che definisce, appunto, originariamente la persona.
Ricordare che il problema è anzitutto di conoscenza non significa consegnarsi ancora una volta al relativismo delle interpretazioni o alla rassegnata constatazione della nostra impotenza nei confronti dei meccanismi impersonali – i “processi di normalizzazione” - di un potere che «squalifica […] la nostra umanità, fin le radici dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, che sono dettati a nostra insaputa » (Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana, 24). Può aiutarci a intuire la radicalità del problema e, quindi, a formulare in maniera più vera e adeguata la domanda davvero essenziale, cogliendo tutto lo spessore e l’intensità di una risposta già presente: l’esperienza di una appartenenza che (ci) libera.
«A noi, a questo punto – momento in cui si nota l’imperversare del potere che squalifica la nostra epoca e la nostra umanità, fin le radici dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, che sono dettati a nostra insaputa – che cosa manca, che cosa manca a una sensibilità umana vigile? Manca una cosa, la coscienza del carisma […] Noi cristiani non abbiamo l’esperienza che ci dica, che ci faccia sentire esistenzialmente, l’appartenenza nell’oggi a Cristo […] vale a dire l’esperienza della appartenenza alla Chiesa come avvenimento.» (Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana, 24)
P.S. Non credo che nessuno, neppure chi oggi lo sostiene come unica alternativa politicamente percorribile alla jungla, si illuda che il testamento biologico sia realmente una soluzione. Tanto per restare nell’ambito degli esempi, così cari ai bioeticisti, il 21/2/2009, più o meno negli stessi giorni in cui venivano pubblicati gli articoli di Repubblica, sull’edizione on-line di Telegraph (Telegraph.co.UK) compariva un pezzo di Wesley Smith, dal titolo più concretamente urgente degli omologhi italiani: Il “diritto di morire” può diventare un “dovere di morire”. La storia è questa: Barbara Wagner e Randy Stroup, due cittadini dell’Oregon, stato americano in cui il suicidio assistito è legalizzato, sono malati di cancro in fase terminale, dipendono entrambi da Medicaid, il piano di assicurazione sanitaria statale per i poveri. Nel 2008 richiedono il sostegno per le spese necessarie per cure chemioterapiche che, se non possono guarirli, possono almeno prolungare la loro vita, cosa che evidentemente, al di là di tutti i calcoli sulla qualità della vita e di tutte le considerazioni “pietose” di quelli che per eliminare la sofferenza auspicano di eliminare i sofferenti, essi stessi considerano un’opzione desiderabile. Notiamo, inoltre, che neppure Maffettone o Parfit potrebbero, in base ai loro criteri, negare a questi esseri umani lo status di persone aventi diritti: sono adulti, perfettamente consapevoli, non sono “feti”, e neppure, al momento della richiesta, privi di coscienza. Qui, il “soggetto” abita ancora senza alcun dubbio il corpo, non c’è bisogno di discutere su chi sia il “proprietario naturale”. Il loro unico handicap è che sono malati e non hanno i soldi per le cure. La loro volontà non si esprime in una dichiarazione rispetto a circostanze lontane e solo indirettamente ipotizzabili, un “testamento”, ma in una precisa richiesta rispetto a una circostanza presente e direttamente sperimentata. Entrambi ricevono la stessa risposta: le risorse economiche, si sa, sono limitate e la spesa prevista per la cura risulta ingiustificata rispetto alla quantità limitata di tempo (extra-time) che potrebbe garantire. Tuttavia, dal momento che lo Stato non è del tutto insensibile alla pietà, ad entrambi viene assicurato che, non appena si sentano pronti, verrà loro garantito ben volentieri il sussidio economico necessario a coprire le spese del suicidio assistito. La signora Wagner, che ora è morta, quando il suo caso è diventato di pubblico dominio, ha ricevuto gratuitamente i farmaci dalla casa produttrice. Il caso del signor Stroup è stato impugnato in tribunale. Nessun commento mi sembra necessario.


Confronti - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 23 aprile 2009
Ho visto immagini sulla condizione giovanile nelle scuole inglesi. In alcune sono stati assunti dei buttafuori per affrontare il problema disciplinare di studenti violenti nei confronti dei propri compagni e dei docenti. Si è aperto un dibattito sull’opportunità di introdurre in classe delle telecamere che osservino il comportamento degli studenti. Aula scolastica in stile “grande fratello”!. Perché i giovani fanno sempre più fatica a rispettare loro stessi e gli altri? Nelle scuole la distanza generazionale è avvertita come tragicamente insuperabile. Il problema disciplinare è sempre più invadente e rilevante. Molte difficoltà sono legate alla mancanza di rapporto empatico tra docente e discente e l’educazione è prigioniera di una concezione dell’uomo meccanicistica, di un tecnicismo sterile. L’esperienza dice che si impara dalle persone, da maestri, ma “la persona nella nostra epoca non è contemplata come strumento di conoscenza e di cambiamento, essendo intesi, la prima come riflessione analitica e teorica, il secondo come prassi e applicazione di regole” (L.Giussani). Riflettere sulla disciplina mi ha portato a pensare all’esperienza storica più significativa a tale riguardo, quella dei monasteri, a partire da quelli benedettini che diffusi su tutto il territorio europeo sono stati protagonisti della nascita di una cultura che ha unito popoli, tradizioni e lingue diverse. “Quaerere Deum” era lo scopo di quei monaci, ha ricordato il Papa, affermando che “ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”. Nei monasteri l’obbedienza era vissuta come una virtù e la disciplina come uno strumento facilitante la sua acquisizione. Per mettere ordine sono state scritte le Regole che disciplinavano la vita di monasteri, piccole città sia per le dimensioni, sia per il numero di monaci ospitati. Quando vennero redatti gli Statuti Comunali si guardò a questi luoghi di convivenza esemplare, disciplinata e libera. Senza libertà non c’è obbedienza e neppure pratica disciplinare che possa edificare la persona. In un articolo Socci ricorda che l’Accademia delle scienze sociali della Repubblica popolare cinese ha individuato nel fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale la ragione della superiorità dell’Occidente su tutto il mondo. Noi stentiamo a credere che sia così, tanto siamo condizionati dalla patologia della modernità. Non c’è altra strada per l’educazione che tornare alle nostre radici. Nell’educazione dell’uomo accade la stessa dinamica che regola il rapporto con Dio: “Quando da noi sei scrutato intellettualmente, non sei scoperto come veramente sei; quando sei amato, sei raggiunto”. (Ambrogio Autperto)


Il custode dell'amore - Pigi Colognesi - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, lo scrittore Alessandro Piperno ha riproposto ai lettori il libro che un giovanissimo Samuel Beckett aveva dedicato a Marcel Proust. «Beckett – scrive Piperno – vede in Proust un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri. Che si sente immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfortante nonché beffardo succedersi di fraintendimenti». A conferma di ciò, cita due frasi folgoranti del drammaturgo irlandese. La prima: «L’amicizia è la negazione di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano». La seconda: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione di bidoni delle immondizie». La conclusione è radicalmente nichilista (e, infatti, l’articolo si intitola: E Beckett smascherò il Proust nichilista): «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti».
Queste frasi, ho detto, sono folgoranti; ma mi sono chiesto se sono anche vere. Vere per quanto posso desumere dalla mia esperienza e chi mi legge trarre dalla propria. Ho concluso che non lo sono. Partiamo dalla prima frase. È vero che spesso mi sono sentito condannato ad una «solitudine senza rimedio». Ma, appunto, l’amicizia è stata per me la «negazione» di questa condanna; non perché mi ha fatto fingere di non vederla, ma perché ha dimostrato che essa non è «senza rimedio». Il rimedio è proprio la possibilità di condividere con altri il cammino verso il proprio compimento; in ciò consiste l’amicizia.
Ma allora l’altra affermazione di Beckett, quella secondo cui l’amicizia è un puro «espediente sociale» rappresenta una conclusione indebita. Certo che ogni rapporto può essere vissuto con una superficialità che deborda nello sfruttamento. Tutti noi abbiamo avuto esperienza di nessi che chiamavamo amicizia ed invece non erano che una semplice vicinanza casuale o addirittura connivenza. Ma abbiamo anche sperimentato qualcosa di radicalmente diverso: una comunanza di destino così profonda che fa sentire il compagno di cammino realmente come un sostegno indispensabile, un amico.
Per questo mi sembra che la conclusione nichilista sia una opzione a cui mancano delle ragioni, parziale. Sento molto più vicina alla mia storia la posizione vissuta e descritta da tanti uomini del medioevo, impregnati di cristianesimo. Uno di loro, Aelredo di Rievaulx (1110-1167) ha scritto uno splendido trattato intitolato L’amicizia spirituale. Aelredo è un realista, sa che «l’amicizia può essere carnale, mondana, spirituale. Quella carnale nasce dalla sintonia del vizio; quella mondana si accende per la speranza di un guadagno; quella spirituale si cementa tra coloro che sono buoni, in base a una somiglianza di vita, abitudini, gusti, aspirazioni». Ma, proprio perché realista, sa anche che «fin dal principio la natura ha impresso nello spirito umano il desiderio dell’amicizia, un desiderio che il sentimento interiore dell’amore presto intensificò dandogli un certo gusto di dolcezza», per cui «un uomo senza amici è come una bestia». Bestie sono «quanti pensano che l’ideale sia vivere senza dover consolare nessuno, senza essere di peso o causa di dolore per alcuno; senza trarre gioia alcuna dal bene degli altri, né amareggiarli con i propri sbagli; stando bene attenti a non amare nessuno, e non curandosi di essere amati da qualcuno».
L’opzione nichilista nega in definitiva la possibilità dell’amore, che Aelredo definisce «un sentimento dell’anima razionale per cui essa, spinta dal desiderio, cerca qualcosa e brama di goderne, ne gode con una certa dolcezza e soavità interiore, abbraccia poi l’oggetto di questa ricerca, e conserva quello che ha trovato». Per concludere che «l’amico è come un custode dell’amore».


FILOSOFIA/ Dewey, quel mare di paura che separa il pensiero dalla realtà - Redazione - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Uno dei più grandi storici della filosofia americana, John McDermott, sostiene che tra i filosofi americani «Peirce era un genio, James uno scrittore, ma Dewey uno che ti aiuta a sopravvivere».
C’è chi dice anche che il nostro sarà il secolo di Dewey. Finita la diatriba analitici-continentali – i difensori del metodo (scientifico, se possibile) e del senso comune contro gli araldi dell’interpretazione, precisione contro significato – sarebbe l’ora del «pragmatic turn», la svolta pragmatista. In effetti, le due correnti principali della filosofia novecentesca hanno inserito nei loro discorsi molti elementi che devono considerare il contesto pratico, l’azione, la narrazione, gli effetti interpretativi, l’applicazione.
Dewey, c’è poco da discutere, l’aveva detto con un mezzo secolo di anticipo, come ben si ricorda nel seminario a scadenza mensile organizzato a Napoli da Maura Striano, una delle più brillanti studiose di Dewey, in occasione del centocinquantenario della nascita. Ciò che Dewey aveva anticipato era la necessità di non dividere la teoria e la pratica, le scienze umane da quelle naturali, il metodo della conoscenza dalle sue applicazioni. Aveva provato a dare un quadro della ricerca umana che fosse unitario e applicabile a tutte le occasioni della vita, dal cercare le chiavi di casa alla ricerca del senso dell’esistenza, dalla scienza alla metafisica.
L’idea era titanica e Dewey un grande scrittore. Il metodo di ricerca si basa su un lungo cammino che porta i dati a diventare oggetti e poi esperimenti di verifica. Forse c’era un comportamentismo di base o un retaggio positivista nell’uso dei dati. Ma non è questo l’essenziale: Dewey come tutti i pragmatisti era un fiero avversario del positivismo proprio per quel mito del “dato” puro, scevro da interpretazioni concettuali che era loro intollerabile perché «bloccava la via della ricerca». Non ci sono dati che parlano di per sé, i dati parlano dentro un’esperienza e possono farsi capire perché sono segni. L’essenziale del metodo è qui: a un certo punto esso implica che il dato diventi segno. È solo a questo livello che il dato può essere “trattato” dall’intelligenza. Ed è qui la grande debolezza del mirabile progetto.
Il segno di Dewey non “nasce” dalla realtà e non la rappresenta per similarità (come invece diceva Peirce), ma è solo sovrapposto a essa meccanicamente (tecnicamente, è un indice). Da questa sovrapposizione si sviluppa il trattamento intelligente che trasforma il segno in simbolo, cioè in pensiero. La realtà però è già infinitamente lontana, non c’è nessun rapporto tra essa e la nostra mente. È per questo che Rorty e molti altri neo-pragmatisti sostengono che in fondo Dewey era favore di una totale arbitrarietà delle interpretazioni. Non leggono le intenzioni del filosofo americano ma forse, più degli altri, ne intuiscono – al di là delle dichiarazioni di realismo metafisico del suo autore – quel gap, quel salto tra realtà e pensiero che connota la radice profonda di ogni nominalismo. Per il nominalismo così inteso la realtà è in fondo inconoscibile non perché «non ci sia» ma perché il metodo per arrivarvi deve comunque fare un “salto” dalla mente alle “cose”.
La realtà rimane in ultimo estranea e perciò potenzialmente nemica. Come dicono le prime bellissime e inquietanti pagine di The Quest for Certainty, che spiegano il sorgere della filosofia come “controllo” in un mondo “estraneo”: «La fortuna determina il nostro successo e il nostro fallimento più dei nostri atti e delle nostre intenzioni. Il patos di aspettative incompiute, la tragedia della sconfitta dei nostri ideali o propositi, la catastrofe degli accidenti, sono all’ordine del giorno. Controlliamo le condizioni, facciamo le scelte più sagge che possiamo pensare, agiamo e poi dobbiamo affidarci al fato, alla fortuna o alla provvidenza. I moralisti ci dicono di agire conformemente ai fini ma poi ci informano che i fini sono sempre incerti. Giudicare, pianificare, scegliere, per quanto condotti con attenzione ed eseguiti con prudenza, non sono mai i soli determinanti dell’esito. Forze naturali indifferenti ed estranee, condizioni imprevedibili intervengono e sono decisive». Dewey forse aiuta a sopravvivere, ma non a vivere senza paura.
(Giovanni Maddalena)


Scola: «Aiuti alle famiglie? Sì, ma anche nuovi stili di vita» l’intervento - Per il patriarca di Venezia la crisi, oltre che economica, è sociale e culturale: è necessaria maggiore sobrietà a tutti i livelli, compresi quelli governativi E tornano le ombre del terrorismo - DA VENEZIA FRANCESCO DAL MAS – Avvenire, 23 aprile 2009
Perfino il gemellaggio tra famiglie garantite sul piano del lavoro e del reddito con le famiglie che, invece, sono state impoverite dalla crisi, fra le azioni virtuose della Chiesa veneziana a sostegno di chi è in difficoltà.
Partecipazione al Fondo di garanzia promosso dalla Cei, triplicazione del microcredito (fino a 150 mila euro) che la Caritas ha attivo da anni, contributi straordinari «a perdere», rilancio di tutti i servizi di contrasto della povertà e di sostegno delle famiglie, fondi straordinari di garanzia per particolari emergenze, aiuti all’Africa, in particolare alla parrocchia diocesana per la formazione dei giovani e per supportare gli immigrati: queste ed altre ancora le misure presentate a Mestre dal cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, dal vescovo ausiliare Beniamino Pizziol e dal direttore della Caritas, monsignor Dino Pistolato. Misure che potranno variare nei prossimi mesi, qualora si ponessero altre urgenze. Per Scola, infatti, la crisi va puntualmente interpretata, anche nella sua evoluzione, per cui le forme d’intervento devono essere di volta in volta adeguatamente mirate. Oltre che economica, infatti, la crisi è sociale e culturale.
Molti esperti dicono che la caduta si è fermata e c’è qualche segno che apre alla speranza. A me pare che, al momento, «siano destinate ad accrescere le difficoltà (perdita di posti di lavoro, cassa integrazione, immigrati da trattenere). Bisogna pertanto affrontare con decisione questa situazione per evitare che si innestino fenomeni di protesta che rischiano di degenerare».
Da questo punto di vista il patriarca ha detto di «non sottovalutare i segnali di temporanei sequestri di manager che sono avvenuti specialmente in Francia».
Per Scola «è bene non essere superficiali, perché momenti di involuzione sociale hanno sempre una configurazione inedita.
Non possiamo guardare alla triste stagione del terrorismo italiano pensando che si riproponga nelle stesse forme. Bisogna essere avvertiti perché il futuro non è anticipabile, non è prevedibile. Si deve pertanto essere sempre responsabili e vigilanti nel cogliere tutti i segnali di disagio e nel darvi risposta».
Quanto all’aspetto culturale, va bandita l’illusione che «il progresso lineare» sia «inarrestabile». E va, per contro, messo in moto «un grande processo educativo mirando a stili di vita integrali che riguardino la persona e la collettività, e che coinvolgano contemporaneamente gli affetti, il lavoro e il riposo». La sobrietà, dunque. E a tutti i livelli, compresi quelli governativi. Magari dando più spazio alla società civile. I vari livelli di governo «non devono gestire la società civile – ha precisato il cardinale – ma devono amministrare creando una proporzione tra i bisogni, le risorse, gli investimenti». Bisogna, dunque, avere il coraggio di cambiare.
Vanno riscritte, ad esempio, le regole della finanza. «Io credo – ha esemplificato Scola – che una dimensione critica fondamentale che è connessa al messaggio cristiano sia avere sempre una coscienza chiara, capace anche quando è il caso, in una forma misurata, di denuncia delle contraddizioni di ciò che non va».
È proprio il caso della finanza. Per cui - secondo il patriarca - è importante che «le regole del mondo della finanza vengano riscritte, come mi pare stanno tentando di fare».
E il criterio di fondo è quello «di non dimenticare, come si è dimenticato, che il valore numero uno anche nell’intrapresa finanziaria deve essere la persona e la persona in relazione, a cui deve essere subordinato il resto».


Geltrude Comensoli, apostola dell’Eucaristia - Proseguendo nella presentazione dei bea­ti che verranno canonizzati domenica da Benedetto XVI, oggi conosciamo la figura di Geltrude Comensoli, la fondatrice del­le Suore Sacramentine di Bergamo. - DI MATTEO LIUT – Avvenire, 24 aprile 2009
Figlia di un popolo laborioso e ma­dre di una spiritualità dell’Eucari­stia che diventerà il motore di un’o­pera caritativa, educativa e sociale che prosegue tutt’ora. Questi i tratti essenzia­li di Geltrude Comensoli, al secolo Cate­rina, la fondatrice dell’Istituto delle Suo­re del Santissimo Sacramento, note come Suore Sacramentine di Bergamo. Una donna cresciuta alla luce del Pane spez­zato e condividendo le difficoltà della sua gente, in Val Camonica. Un’esempio di fe­de profondamente incarnata nel suo tem­po, che verrà riconosciuto ufficialmente domenica, quando Benedetto XVI la pro­clamerà santa, assieme ad altri tre italia­ni e una portoghese. Caterina, questo il suo nome prima di ve­stire l’abito religioso, nasce a Bienno (Ber­gamo) il 18 gennaio 1847: il papà Carlo, ar­tigiano del ferro, e la mamma Anna Ma­ria Milesi crescono una famiglia nume­rosa con dieci figli in una fede semplice ma radicata. Fin da piccola Caterina si sente attratta dal mistero dell’Eucaristia e farà di tutto per viverlo a pieno. Due le esperienze di vita religiosa, nel 1862 a Bre­scia e nel 1867 a Bienno come maestra delle novizie del locale gruppo della Com­pagnia di Sant’Orsola. Interrotta la prima esperienza per motivi di salute, la secon­da dovrà essere sospesa perché, dopo u­na malattia del padre, Caterina è costret­ta a contribuire al mantenimento della fa­miglia. Dal 1870 si troverà allora come do­mestica presso il prevosto di Chiari e poi dal 1874 come governante per la famiglia Fè-Vitali a San Gervasio d’Adda e Milano. In questi anni è promotrice della Guardia d’Onore, associazione nata per promuo­vere la devozione al Sacro Cuore, e scrive un «Regolamento di vita» che non ab­bandonerà mai. Durante un pellegrinaggio a Roma nel­l’inverno tra il 1880 e il 1881 ottiene un’u­dienza con Leone XIII al quale parla del suo desiderio più forte: fondare una con­gregazione dedita all’adorazione perpe­tua dell’Eucaristia. Il Pontefice accoglie con favore il proget­to, indirizzando il carisma della Co­mensoli verso la dif­ficile situazione so­ciale e religiosa in cui versa il mondo operaio, in particolare le giovani lavoratrici. La saggezza del Papa in questo senso sarà «profetica»: Cateri­na a Bergamo incontra don Francesco Spinelli, un giovane prete che cerca una religiosa per fondare una «Cittadella del­la carità». Al cuore della nuova istituzio­ne la Comensoli «donerà» la forza del­l’Eucaristia.
La congregazione nasce il 15 dicembre 1882 a Bergamo. Nel 1884 Caterina pren­de l’abito religioso e il nome di suor Ma­ria Geltrude del Santissimo Sacramento e guiderà le Sacramentine fino alla morte, avvenuta il 18 febbraio 1903, attraverso le difficoltà dei primi anni che furono pre­ludio a una crescita che continua tutt’o­ra. L’ultimo sguardo fu per il Santissimo Sacramento, che poteva vedere dalla sua stanza attraverso una breccia che aveva voluto verso l’altare dell’adorazione.
Nel 1928 si apre il processo per la cano­nizzazione: 1° ottobre 1989 viene procla­mata beata da Giovanni Paolo II. E il 26 a­prile è una data «speciale» in questo cam­mino, perché nel 1961 in questo giorno Giovanni XIII ne riconosceva le virtù eroiche; nella stessa data nel 2009 Benedetto XVI la pro­clama santa. «Questa data cele­bra il “mistero di morte e di ri­surrezione” coerentemente vis­suto da madre Comensoli, nella grazia del Mistero eucaristico», commenta la superiora genera­le Germana Crotti, che invita tut­ti a far festa e «a pregare insieme il Signore, perché anche per in­tercessione di santa Geltrude, ri­desti in noi e nel nostro mondo il desiderio, il gusto, la gioia del­la santità». Parole con le quali la superiora invita alla partecipazione del «pellegrinaggio» promosso dal­la congregazione a Roma dove domani sera alle 21, nella Basilica dei Santi XII A­postoli si terrà una Veglia eucaristica di preghiera. Domenica la partecipazione alla canonizzazione in piazza San Pietro e lunedì alle 9 la Messa di ringraziamen­to nella Basilica di San Pietro. Un evento il cui significato è stato affidato anche a un logo ideato da Valter Dadda. Un dise­gno che «parla» della Comensoli, il cui ri­tratto è affidato a una grande «c», una co­lomba, la Croce e il pane spezzato.

Il piccolo Vasco, salvo dalla meningite il miracolo – Avvenire, 24 aprile 2009
La guarigione di uno dei «suoi» bimbi di Agnosine ottenuta grazie alla preghiera di un’intera valle.
È una storia che commuove e che «in­segna » quella del miracolo il cui rico­noscimento ha portato alla canoniz­zazione di Geltrude Comensoli. È la storia di un bambino, Vasco, la cui malattia, una me­ningite aggravatasi rapidamente, ha unito un paese intero nella preghiera. Un’orazio­ne comune e intensa rivolta proprio alla Comensoli, fondatrice delle Sacramentine di Bergamo, che gestiscono anche la scuola del­l’infanzia «Dario Bernardelli» di Agnosine, nel Bresciano, frequentata dal piccolo Vasco. Il 29 settembre 2001 il bimbo viene ricove­rato d’urgenza nel reparto in pediatria agli O­spedali civili di Brescia. Senza coscienza, nel reparto di rianimazione viene intubato e sot­toposto a ventilazione meccanica. Il 2 otto­bre i medici parlano di «sindrome multior­gano con polisierosite», cui si aggiungeva la «compromissione del tronco encefalico». Un quadro disperato, che i medici non nascon­dono al papà Ettore e alla mamma Rita. E a chiamare suor Bianca, la superiora della co­munità delle Sacramentine di Agnosine, è proprio il padre. Da qui la lunga catena di preghiera non fa che crescere coinvolgendo prima la comunità di religiose, poi i genito­ri della scuola di Vasco e poi tutto il Paese, che quasi spontaneamente si riunisce la sera del 3 ottobre 2001 in chiesa per pregare per Va­sco. «Un’intera valle pregava per mio figlio e per noi, e questo non lo dimenticheremo mai», ha detto poi la mamma. Suor Bianca visita anche il bimbo all’ospedale e gli por­ta le reliquie della Comensoli; poi tenta di consolare e incoraggiare i genitori.
La notte tra il 3 e il 4 ottobre, però, Vasco a­pre gli occhi. È l’inizio della guarigione. Verrà dimesso il 17 ottobre: la ripresa è «rapida, completa e duratura, senza reliquati nono­stante le specifiche e riscontrate alterazioni cerebrali». Un fatto che la scienza non sa spiegare e che la Chiesa poi riconoscerà co­me miracolo. Un miracolo nato in seno a un’attenzione tutta par­ticolare della Comensoli e delle Sacramentine ver­so i bambini, i ragazzi e i giovani. Accanto alle scuole gestite in Italia, la Congregazione propone anche itinerari di pastorale giova­nile, come l’animazione vocazionale itine­rante o i ritiri «Oreb» per ragazze dai 23 an­ni o gli incontri per adolescenti. Iniziativa particolare quella che rivolta alle ragazze di prima superiore dal 4 al 6 agosto prossimi, con un pellegrinaggio a piedi da Bienno, luogo natale di Geltrude Comensoli, a Ber­gamo, città dove la santa pronunciò le sue ultime parole.
Matteo Liut