sabato 18 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L'Occidentale 20-3-2009 - L'Africa, l'Aids e la scomunica - Il piacere di aggredire il Papa senza capirne il messaggio - di Pietro De Marco
2) Voci fuori dal coro - Oltre il pregiudizio - di Giuseppe Fiorentino – L’Osservatore Romano, 18 Aprile 2009
3) Le università europee e la crisi culturale della modernità - Emmaus e la sfida della ragione ampliata - È in corso a Uppsala l'incontro del Gruppo di coordinamento della sezione università della Commissione catechesi, scuola e università del Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa. Pubblichiamo stralci di uno degli interventi. - di Enrico dal Covolo – L’Osservatore Romano, 18 Aprile 2009
4) Jack London e la sfida dell'uomo alle forze primordiali della natura - Sul ring metafisico del Grande Nord - Pubblichiamo un estratto dall'ultimo quaderno "La Civiltà Cattolica" in uscita in questi giorni. di Antonio Spadaro
5) La clonazione umana Un'abominevole schiavitù biologica - di Wojciech Giertych - Teologo della Casa Pontificia – L’Osservatore Romano, 18 Aprile 2009
6) AFGHANISTAN/ La paura di quel cristianesimo che un tempo le femministe condannavano - Paola Liberace - sabato 18 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) IL CASO/ Quando lo Stato ha il dovere di sostenere le scuole paritarie - Maria Grazia Colombo - sabato 18 aprile 2009 – ilsussidiario.
8) ECCESSI POLEMICI/PRIME AUTOCRITICHE - ZITTIRE IL PAPA IN NOME DI UNA SACCENTERIA IPOCRITA - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 18 aprile 2009
9) LA COLLETTA NELLE CHIESE PER DAR CARNE ALLA SPERANZA - Una mano ai nostri fratelli che ricominciano da capo - MARINA CORRADI – Avvenire, 18 aprile 2009
10) Legge 40, «salvati» 120mila embrioni - Più garantita anche la salute della donna - DA ROMA PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 18 aprile 2009
11) La sharia sbarca anche in Olanda: a teatro posti separati per le donne - DA AMSTERDAM – Avvenire, 18 aprile 2009
12) «Divina Misericordia» il volto della speranza - Domani si celebra la festa voluta da Papa Wojtyla. - Il rettore di Santo Spirito in Sassia, a Roma, don Bart: «Compendio del messaggio di salvezza» - DA ROMA GIULIA ROCCHI – Avvenire, 18 aprile 2009
13) la storia - Nel 1931 Il Signore apparve per la prima volta a una giovane suora polacca. Con uno straordinario messaggio d’amore - Così Gesù si manifestò a Faustina – Avvenire, 18 aprile 2009
14) IL CASO. Da lunedì a Roma un convegno sulla grande scrittrice americana. Caustica, insofferente verso la banalità, odiava l’«happy end» a tutti i costi - Flannery O’Connor, parole che bruciano - Cattolica, intransigente, per lei il vero narratore affronta il mondo senza far finta che tutto abbia un lieto fine. La qualità di un racconto, diceva, non è data dai buoni sentimenti, ma dalla quantità di «vita sentita» - DI DAVIDE RONDONI – Avvenire, 18 aprile 2009


L'Occidentale 20-3-2009 - L'Africa, l'Aids e la scomunica - Il piacere di aggredire il Papa senza capirne il messaggio - di Pietro De Marco
1. La esibita, e sempre più acuta, inintelligenza dell’intelligencija nei confronti dell’azione di Benedetto XVI, ha buona materia su cui esercitarsi in questi giorni. Ma debbo partire partire da più lontano. Osservavo, già nel settembre 2006 (cfr. www.chiesa.espressonline.it 22 settembre ), come vi fosse un taglio inconfondibile nella importante lezione di Benedetto XVI nell’Aula magna dell’Università di Regensburg: la decisione di non evitare la pars critica entro un disegno dialogico.
E sottolineavo come la profonda visione strategica di papa Benedetto sembrasse operare ad integrazione del magistero di Giovanni Paolo II, proprio usando quel discernimento sui temi della verità e della ragione che Joseph Ratzinger cardinale aveva esercitato, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sui disastri teologici maturati entro la Chiesa postconciliare. Un’opera difficile, poiché derive e squilibri nell’intelletto cattolico avevano indotto errori antagonistici, ad esempio nella estesa, differenziata, area delle reazioni “tradizionalistiche”.
Che il discernimento e la sanzione dell’eccesso dovesse essere inteso come leale, fattiva, premessa all’incontro è risultato dagli atti successivi di Benedetto. Poiché la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano è il vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione - “realizzazione” che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato - gli atti di pace iniziano necessariamente dalle aree di sofferente, anche se troppo esibita, ortodossia “tradizionale” che si richiamano alla storia preconciliare. Solo un “uso politico del Concilio”, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, secoli di vitale, autentica Tradizione. La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire, in Benedetto, come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazione soggettivistica, che operano non solo nelle “sperimentazioni” avanzate, ma anche nella pastorale corrente. La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” (ecclesiale) del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un più ampio intervento medicinalis per la chiesa universale.
Le stesse rare, ma violente, reazioni negative al motu proprio Summorum pontificum confermavano senza volerlo l’urgenza dell’azione “medicinale” di papa Benedetto. Ho sottolineato in più occasioni che, come l’attenzione alla integrità della storia liturgica cattolica, anche la nuova apertura alla fraternitas San Pio X è ordinata a ricondurre la vita cattolica alla sua essenziale natura di complexio. La nuova dignità delle comunità “tradizionali” nella Chiesa cattolica di oggi opera da correttivo, se non da risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, prima ancora e più gravemente, ideologica consumata nel recente Novecento (contro la stessa Costituzione Sacrosanctum Concilium) con la cancellazione di fatto dello spirito liturgico, quasi lasciando intendere ch’esso fosse diventato “inattuale”.
Si tratta dunque, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare opportune et importune l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassano soglie estreme di tollerabilità. Da ciò, ogni volta, degli scandala, previsti e non previsti, ma opportuni nel disegno di Dio. Che si tratti dell’intenso confronto con l’Islam, o della dedizione al dialogo con gli ebrei (una riconciliazione, una Versöhnung, grande tema della teologia tedesca, nella chiarezza del peculiare compimento in Cristo), o della cura per l’unità della Chiesa nell’unità della tradizione vivente; o che gli esprima ad extra una critica alle politiche preventive dell’AIDS in quanto esse colpiscono, come effetto sottovalutato o imprevisto, estesamente e profondamente la cultura della sessualità procreativa.
In effetti, i contingenti scandala e il loro sofferto superamento portano a coscienza, entro la Chiesa e tra Chiesa e istituzioni internazionali, proprio le soglie critiche che il cammino di Pietro, e la sollecitudine di Roma, attraversano carismaticamente.
2. “Condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia” (non un dio qualsiasi), priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro, dunque. Questa la missio e questo l’orizzonte, ritornanti anche nell’intervista “concessa ai giornalisti durante il volo verso l’Africa” (17 marzo u.s.). Il Papa ha detto, solamente: "Non si può superare questo problema dell'AIDS solo con il soldi, che sono necessari, ma se non c'è l'anima che sa applicarli, non aiutano; non si può superare [il problema dell'AIDS ] con la distribuzione dei preservativi: al contrario, il rischio è aumentare il problema". Siano di fronte, rigorosamente parlando, ad un argomento contro le politiche e le antropologie del preservativo, non ad una ulteriore argomentazione del divieto del profilattico.
Il dato dell’intrinsece malum delle pratiche contraccettive ovviamente resta, nel quadro di discussioni teologico-morali e di duttili prassi pastorali (non dico “misericordiose”, perché non vi è maggior equivoco che considerare “misericordiosa” solo la remissione della pena; misericordioso è anzitutto il dono della Legge di Dio). Credo si possa dire che 1) tutta una serie di stati di necessità (per i quali sarà utile la ripresa in teologia morale, e nella formazione del confessore, del metodo casistico) operano come scusanti o scriminanti caso per caso, e che, in foro interno, i confessori si comportano lecitamente di conseguenza; 2) la coscienza bene ordinata assume, comunque, a proprio carico la illiceità di una condotta e la condizione “attuale” di peccato (ciò che ha rilievo, anzitutto, è che la coscienza sappia di non poter rivendicare alcun "diritto alla trasgressione" di fronte a Dio, ma che si deve appellare alla Sua misericordia).
La preoccupazione del Papa in quella breve frase non è, comunque, teologico-morale ma antropologica (dunque di diritto naturale). Si tratta di ricordare opportune et importune che la diffusione dei metodi anticoncezionali non “libera”, se non nell’immediato e superficialmente, la sessualità umana, e nel tempo la colpisce a morte in quanto umana. Annientare la stessa eventualità, quindi la corrispondente responsabilità, procreativa in una cultura umana è favorire su larga scala la “neutralizzazione” dell’accoppiamento, fuori da un quadro di valore, contro la forma - profonda e costante nelle società - della sessualità regolata da un Nomos. Né si tratta solo di un esercizio regolato della sessualità da parte degli individui, ma un Ordine che, non secondariamente, porta con sé un primato del pudore e, spesso, l’eccellenza (in condizioni elettive) della verginità e castità. Promiscuità (anche programmatica), assenza di regole, casualità e banalità dell'atto sessuale, come l’allontanamento o l’eccezionalità della procreazione, portati a sistema investono invece la coppia umana e il nodo paternità/maternità nella loro essenza.
Certo, nel caso della diffusione dell’AIDS, siamo in un vero e proprio stato di necessità. Non per questo va da sé, cioè senza critica, un intervento grossier di “riduzione del danno” su scala continentale. Vi è un’analogia col modo sbrigativo e cinico (“almeno non prendono malattie”, quasi fosse problema più importante per l’uomo) con cui su scala minore in Europa, per le strade e magari nelle scuole, si mettono i profilattici a disposizione e incentivo dei fruitori del sesso occasionale, vero servo della pulsione. In ciò risiede, su piccola e grande scala, il “rischio di aumentare il problema”!
Con intensificazione e assuefazione alla sessualità senza criterio aumentano a dismisura, anche indipendentemente dai margini di insicurezza del mezzo profilattico, le occasioni del cammino dell'infezione da una mucosa potenzialmente infestante ad altre. Mentre l’ideale copertura strumentale di un’intera società dai rischi di infezione da HIV separerebbe, in essa, la sessualità dalla fecondazione, lasciando quest’ultima per intero alle tecniche procreative assistite. Questa sì una situazione di surroga e dominio da parte della Techne, non la protezione di un essere umano da derive eutanasiche.
(Su Repubblica del 19 marzo Adriano Sofri osserva che l’argomento della indesiderabilità morale-culturale di un uso generalizzato del profilattico dovrebbe implicare anche la non desiderabilità di un vaccino anti-AIDS, perché l’immunizzazione condurrebbe allo stesso effetto. Ma non è così. L’immunità ridefinisce una normalità; l’emergenza vita/morte non preme più sulle istituzioni che regolano la sessualità; dal praticabile/impraticabile (senza rischio) si ritorna al lecito/non lecito. Può essere, allora, ridotto di molto o abbandonato l’uso dei profilattici per una opzione favorevole alla procreazione; si esce dalla loro dipendenza, direi dalla loro sovranità anche simbolica).
L'opposizione classica alla propaganda anticoncezionale si è attenuata nel tempo solo perché appare un "minor male" di fronte all'imbarbarimento (alla ri-animalizzazione) dell’intimità e della sessualità. Ma oggi la critica di un Papa alla generalizzazione dell'uso del preservativo perché un continente cessi disturbarci con i suoi problemi, manifesta con giusta traumaticità (secondo il metodo di Benedetto XVI) la integrale sollecitudine della Chiesa per l’Africa, e per ogni uomo. L’intelligencija che giudica il Papa in questi giorni non ha più orizzonte del funzionario degli organismi internazionali addetto a compilare le bolle di spedizione delle partite di preservativi. Eppure questa è l'antropologia implicita di chi, propagandando profilattici, si preoccupa della salute (com’è doveroso) di una popolazione – ma solo demograficamente intesa e nel disinteresse per la sua qualità e peculiarità di cultura umana, per la sua concezione della vita, della relazione e della generazione, che certamente appartengono, e non solo nelle culture africane, all'ordine del Sacro. In Europa, ripetiamolo per l’ennesima volta per vedere se entra nelle teste, non vi è la preoccupazione che l’uomo contemporaneo smarrisca il significato trascendente del corpo proprio a vantaggio della cura di sé come mera sussistenza/sopravvivenza di una macchina biologica efficiente e desiderante (desiderante il niente, nel vuoto di significati). Il Papa, la visione cristiana dell'uomo integrale, si oppongono alla automatizzazione di questa “cura” (care) passiva-preventiva per i corpi. Essa può valere solo caso per caso nella responsabile valutazione di chi ne ha autorità; eccezione dunque, di fronte ad assoluta necessità; non regola né tantomeno visione dell'uomo e del suo bene.
La cura cristiana integrale è altra: "rinnovare l'uomo interiormente, (...) dare forza spirituale umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell'altro [che la regolare protezione contraccettiva può permettersi di ignorare], e [la indiscutibile] capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente [da parte della Chiesa, e non guidare ben da lontano grossolane politiche sanitarie] nelle situazioni di prova".
3. La sprungbereite Feindseligkeit, quel piacere di aggredire, che attende solo l’occasione per esprimersi, e che il Papa coglie, senza complimenti, nei suoi critici, ha di nuovo tradito molti in questi giorni, ed anche Adriano Prosperi (Il tabù del Pontefice, in La Repubblica, 18 marzo u.s. che tratta anche della bimba brasiliana stuprata dal patrigno e della scomunica). Supponendo, evidentemente, che alcune considerazioni inconsuetamente moderate del suo articolo non avessero abbastanza sale per i lettori, Prosperi deve terminare il pezzo con il topos della “durezza disumana della condanna ecclesiastica”, quando egli sa benissimo (non i suoi lettori, magari – ma tanto peggio per la sua responsabilità di studioso) quale sia il senso e la ratio di una scomunica. Questo topos è preceduto da una domanda: “Cosa accadrà per chi usa il preservativo”, che suona molto “gotica”; Prosperi vuole prospettarci qualche scenario da auto da Fé? Lo studioso conosce come conosco io la prassi della pena canonica e il legittimo e costante uso dell’epicheia, nonché la vitale dialettica cattolica di peccato, remissione, grazia. Inoltre, poiché accosta uso di un profilattico (ordinato, nel caso che discutiamo, ad impedire la trasmissione del virus) all’aborto (il caso brasiliano), dovrebbe sapere che si tratta di atti di diversissima gravità e diversamente sanzionati.
Adriano Sofri (su Repubblica di oggi 19 marzo), che ho già citato, non sa cosa sia scomunica; pensa che “scomunica misericordiosa” sia un ossimoro. Ma, con la stessa impazienza di “governi e istituzioni internazionali”, vede “offesa la ragionevolezza e sabotata la fatica di tanti professionisti e volontari”, il che è semplicemente falso, come spiegato. Ma Sofri non leggerà opinioni diversa dalla sua; ritiene di sapere già perché e come molti commenteranno favorevolmente gli acta di Benedetto XVI. Non ha dubbi ad associare, sapendosi in buona compagnia, la “durezza della Chiesa, che a volte sembra ottusità, a volte cattiveria”, con una “malattia inguaribile della società italiana”, un’ombra sulla nostra storia. Non è migliore il suo giudizio per il caso Welby, o per i pagani e sanfedisti che “confiscano i corpi dei sudditi”, e intende uomini e donne che hanno formulato e stanno difendendo in Parlamento la legge sul fine vita. Spiace che sotto tanta enfasi non vi sia quasi nulla.
Ma anche la conclusione “femminista” dell’articolo di Prosperi va veramente a vuoto. Secondo lui, l’anima della bambina brasiliana o della donna camerunese sarebbero per la Chiesa, per di più in quanto donne, meno importanti di quella di un vescovo negazionista. Sia la censura canonica latae sententiae (da cui non è stata colpita, ovviamente, la piccola Carmen; eventualmente sua madre, certamente i medici in quanto coscienti e contumaci) da parte della Chiesa, sia la chiara indicazione di una condizione di peccato, sono al contrario medicina, nel primo caso, e guida del fòro della coscienza, nel secondo, proprio e solo in vista della salvezza delle anime. Per di più Benedetto XVI non ha parlato degli individui, destinatari oggi di cura e amore, quanto degli effetti aggregati delle politiche del preservativo. Possibile che una persona intelligente e dotta, che conosce la tradizione dottrinale e spirituale cristiana, creda veramente (alla stregua del laico più sprovveduto e di qualche teologo d’accatto) che si provveda alla salus animarum e all’integrità dell’uomo nascondendo o derubricando il peccato? Come se qualcuno volesse salvarci dai rischi mortali della strada togliendo i cartelli di incrocio pericoloso e annullando le fattispecie di reato previste dal Codice! Ed è plausibile che intellettuali della mia generazione, educati austeramente come ancora avveniva nell’Italia postbellica, possano allinearsi al piagnucolio postmoderno sulla “cattiveria”, la “inumanità” di un’autorità che tangibilmente ama, protegge e sanziona, e sanziona perché ama? Un’autorità che ripete questo senza sosta, come si può verificare nella maggior parte dei testi, spesso bellissimi, di Benedetto XVI, e è vissuta come tale dagli africani che la accolgono in questi giorni.
(Quanto poi al tic Williamson - il senso della scomunica ai vescovi lefebvriani e della sua remissione sono offerti alla riflessione di chi voglia riflettere - valga quanto ho scritto altrove [ www.chiesa.espressoline.it 17 marzo 2009] sulla automatica, e strumentale, costruzione del capro espiatorio).
La Chiesa, che Rémi Brague ha detto profondamente (in occasione del VI Forum del Progetto Culturale della CEI, nel 2004) essere la sola capace di conservare oggi alla ragione gli orizzonti del bene, del vero e dell’essere, ha il compito di chiarire l’errore radicale di chi confonde il Bene col (problematico) “star bene” della nostra animalitas.
Gli organismi internazionali facciano in Africa ciò che debbono, peraltro nella quotidiana contiguità e integrazione con l’azione della Chiesa; ma non usino il dramma africano per fare delle culture dell’Africa una imitazione dell’Occidente invertebrato e della sua anomia (non di tutto l’Occidente, però, poiché per sua fortuna e per disegno divino, la sofriana “ombra dell’eccezione cattolica” non lo abbandona). Proseguiva Benedetto XVI rispondendo a Philippe Visseyrias di France2: “La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità (…), e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità (..) ad essere con i sofferenti”. In una simile integrità assiologica, non nella burocrazia del preservativo, può essere scusata o scriminata l’adozione di una tecnica impeditiva, imposta (e solo in quanto imposta) da uno stato di necessità.


Voci fuori dal coro - Oltre il pregiudizio - di Giuseppe Fiorentino – L’Osservatore Romano, 18 Aprile 2009
Sono state poche le voci che hanno cercato di andare oltre il facile pregiudizio nella polemica sollevata dai mezzi di comunicazione - soprattutto occidentali - per le parole di Benedetto XVI circa la lotta all'aids nel continente africano. Ma non deve essere stato semplice porsi al di fuori del coro, assediati, come si è stati, da una massiccia campagna mediatica che ha travisato le frasi del Papa, proponendo in maniera aggressiva un messaggio distorto. Una forte denuncia di questa operazione messa in atto da tanti organi della stampa internazionale è giunta dai presuli della Conferenza episcopale regionale dell'Africa dell'ovest francofono (Cerao) - comprendente gli episcopati di Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Guinea, Guinea-Bissau, Mali, Mauritania, Niger, Senegal e Togo - i quali, in un messaggio diffuso lo scorso 27 marzo, e che pubblichiamo integralmente in questa pagina, manifestano sorpresa e dolore di fronte a quella che definiscono una manipolazione oltraggiosa pianificata e che ha finito per generare un occultamento sistematico del messaggio di speranza, giustizia e pace lanciato da Benedetto XVI nel suo viaggio. "È assolutamente intollerabile - sottolineano i vescovi - che un piccolo gruppo di operatori dei media, a volte purtroppo africani che attingono senza scrupoli alla ricchezza "sporca" di quanti hanno spogliato i loro popoli, si arroghino il diritto di deformare la verità per presentarsi come benefattori responsabili di fronte alla condizione drammatica dei nostri fratelli e delle nostre sorelle portatori dell'hiv-aids e per trasformare invece il Santo Padre in un personaggio "irresponsabile" e sprovvisto di umanità". Anche i presuli della Conferenza episcopale di Angola e São Tomé (Ceast) hanno lamentato il fatto che i media - soprattutto occidentali - abbiano praticamente "dimenticato la visita del Papa", concentrandosi sulla sterile polemica da essi stessi sollevata e "cancellando il modo estremamente positivo in cui l'avvenimento si è svolto". Gli interventi dei vescovi della Cerao e della Ceast hanno seguito quello in difesa del Papa diffuso dalla Conferenza episcopale del Camerun con una dichiarazione ripresa da "L'Osservatore Romano" del 27 marzo. Attestati di solidarietà a Benedetto XVI sono giunti da molti altri ambienti africani come hanno testimoniato a Roma i tanti studenti del continente che, all'Angelus di domenica 29 marzo, hanno manifestato gratitudine per il messaggio di speranza lanciato dal Papa. Ma anche nei mezzi di comunicazione sociale - una volta placatasi la strumentale polemica - comincia a spuntare qualche articolo, qualche lettera, che potrebbero insinuare un dubbio positivo, portando i lettori a chiedersi se, in definitiva, il Papa non abbia ragione. È il caso di "Le Monde". Il quotidiano parigino, che nei giorni della pellegrinaggio del Papa in Africa ha pubblicato articoli a dir poco disinvolti contro Benedetto XVI definendo "irresponsabili" le sue parole, ha ospitato, nell'edizione di sabato 11, un intervento di alcuni scienziati ed esperti nella lotta contro l'aids che definiscono realistiche le parole del Pontefice. Il testo - a firma dello psicanalista Tony Anatrella, del ginecologo Michele Barbato, degli epidemiologi Jokin de Irala e René Ecochard e del presidente della Federazione africana di azione familiare Dany Sauvage - sostiene che "riflettere sui comportamenti sessuali diventa talmente doloroso da provocare la rabbia di numerosi militanti e ideologi in materia". Non c'è nessun Paese con un'epidemia generalizzata - scrivono - "che sia riuscito a far calare la proporzione di popolazione infettata dall'hiv grazie alle campagne centrate sull'uso del solo preservativo. I casi di minore trasmissione dell'hiv pubblicati nella letteratura scientifica - rilevano inoltre - sono associati all'attuazione dell'astinenza e della fedeltà aggiunte al preservativo, nella triade Abc (abstinence, be faithful, cioè fedeltà e condom). In altri termini - continua l'articolo - soltanto i programmi che hanno seriamente raccomandato il ritardo dell'attività sessuale dei giovani e la monogamia reciproca (quella che i cristiani chiamano fedeltà) sono stati premiati dal successo". I medici ricordano che "la Chiesa cattolica propone a e b da sempre. Gli specialisti sottolineano inoltre che "l'astinenza e la fedeltà hanno finora evitato sei milioni di morti in Africa". Il Papa - concludono - "fa notare che rischiamo di aggravare il problema dell'aids se i programmi di prevenzione si fondano solo sui preservativi. Questo è anche lo stato delle conoscenze in materia di salute pubblica e di epidemiologia". Quello di "Le Monde" non è un caso isolato. Il 29 marzo " The Washington Post" ha pubblicato un articolo che non ha nulla di dogmatico, a firma di Edward C. Green, in cui viene citato uno studio della University of California. Dalla ricerca dell'ateneo statunitense si evince che l'uso del preservativo non si è mostrato efficace come misura di prevenzione primaria dell'aids in Africa. L'articolo dal titolo The Pope may be right (Il Papa potrebbe avere ragione) rileva inoltre come l'Unaids, l'agenzia delle Nazione Unite responsabile per la lotta all'infezione, abbia semplicemente ignorato lo studio. Che in realtà non è unico nel suo genere. "The Washington Post" cita infatti altre ricerche scientifiche pubblicate su autorevoli riviste, quali "Lancet" e "Science", in cui si evidenzia come l'uso diffuso del preservativo anche dopo molti anni non abbia garantito un significativo rallentamento dell'infezione da hiv nell'Africa sub-sahariana. Lo stesso articolo si conclude citando l'esempio dell'Uganda in cui la promozione della fedeltà sessuale ha davvero funzionato come argine contro l'infezione. Sulla stessa lunghezza d'onda è sintonizzato il britannico "The Guardian" nella sua edizione in rete, che già il 19 marzo - quando cioè infuriava l'attacco mediatico contro il Papa - faceva pacatamente notare come il tasso di infezione in Africa sia cresciuto insieme alla diffusione dei preservativi. Perché in Africa il contesto è ben diverso da quello europeo o americano: "La promiscuità - si legge - non è causata dall'edonismo, ma dalla disperazione. L'aids esplode attorno alle miniere, nelle baraccopoli, nelle regioni devastate dalla guerra". In realtà - segnala ancora "The Guardian" - il preservativo minaccia di compromettere la lotta contro l'infezione in Africa, perché incoraggia comportamenti a rischio. Ma al di là degli organi di informazione, di particolare rilievo è l'opinione di chi, africano, si occupa di combattere l'aids in Africa. Rose Busigye, direttrice di un centro di assistenza ai malati di Kampala, in Uganda, in un'intervista pubblicata su "Ilsussidiario.net", ha senza mezzi termini affermato che la polemica sollevata contro il Papa è ridicola. "All'origine della diffusione dell'aids - ha detto - c'è un comportamento, un modo di essere. Il Papa - ha affermato ancora - non ha fatto altro che difendere e sostenere ciò che è veramente necessario, affermando il vero significato della vita e la dignità della persona umana". Sono parole di chi, quotidianamente lotta contro il flagello dell'aids. Di chi non ha interessi da difendere, se non quelli dei malati. Sono parole basate sulla verità dei fatti. Oltre il pregiudizio.
(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)


Le università europee e la crisi culturale della modernità - Emmaus e la sfida della ragione ampliata - È in corso a Uppsala l'incontro del Gruppo di coordinamento della sezione università della Commissione catechesi, scuola e università del Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa. Pubblichiamo stralci di uno degli interventi. - di Enrico dal Covolo – L’Osservatore Romano, 18 Aprile 2009
I due discepoli si fermarono un momento "con il volto triste". La crisi dei discepoli di Emmaus corrisponde per molti aspetti alla crisi che viviamo noi oggi. Più precisamente, in riferimento a ciò che qui ci interessa di più, Benedetto XVI constata che le università europee vivono e operano in un contesto di crisi culturale, che è "la crisi della modernità". Secondo la diagnosi del Papa, tale crisi è causata dalla diffusa adesione a un falso modello di umanesimo, che "pretende di edificare un regnum hominis alieno dal suo necessario fondamento ontologico" (Discorso del 23 giugno 2007). Pertanto, fedele alla metodologia di Emmaus, il Papa invita gli universitari a studiare in maniera esauriente la crisi della modernità. Ancora una volta, bisogna camminare insieme! È importante avviare il dialogo, e saper ascoltare ("Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi?"). In questa direzione il magistero complessivo di Benedetto XVI offre numerosi spunti di riflessione. Possiamo riferirci per esempio al terzo capitolo del suo libro Gesù di Nazaret, dove parla delle tentazioni nel deserto. Le tre tentazioni, spiega il Papa, hanno un "nucleo perverso in comune": si tratta in ogni caso di "rimuovere Dio", stabilendo una falsa gerarchia dei valori. La tentazione - osserva Benedetto - si nasconde sotto "la pretesa del vero realismo. Il reale è ciò che si constata: potere e pane. A confronto, le cose di Dio appaiono irreali, un mondo secondario, di cui non c'è veramente bisogno" (p. 51), e di cui alla fine si può fare tranquillamente a meno. È importante osservare che con questo tipo di discorso Benedetto XVI non intende minimamente svalutare il progresso scientifico e tecnologico, e neppure i valori terrestri, intramondani - come invece gli è stato rinfacciato da qualche parte -. Fra l'altro, pochi pontefici hanno insistito come lui su alcuni valori, come il rispetto della natura e l'ecologia, per un sano sviluppo del pianeta. Piuttosto, egli intende ribadire con forza la giusta gerarchia dei valori, per garantire la speranza autentica dell'uomo. Un mondo che rifiuta Dio come unico assoluto valore, relegandolo nella sfera di un'opzionale pratica religiosa individualistica, precipita fatalmente nel baratro del non senso. I valori intramondani, sganciati dal riferimento all'unico assoluto valore, perdono il loro significato autentico, e - indebitamente assolutizzati - diventano degli idoli, trappole mortali che uccidono la dignità dell'uomo. Questo è il vero dramma del progresso tecnologico nella società avanzata. Quando esso non è opportunamente relativizzato con un riferimento esplicito ai valori assoluti della persona umana, allora il presunto "progresso" si rivela fallace e dannoso per una crescita globale dell'uomo. La concezione del mondo come regnum hominis, decisamente rigettata dal Papa, genera una falsa speranza. Essa si appoggia su una lettura della realtà meramente orizzontalista, nella quale trovano spazio solo alcuni valori terrestri, come la pace, la tolleranza, la giustizia sociale, la salvaguardia del creato, senza alcun riferimento a Dio. È la grande sfida che la modernità nella sua crisi pone al credente: questi valori - perché tali essi sono - quando vengono indebitamente assolutizzati lasciano l'uomo senza salvezza e senza speranza (cfr. Spe salvi). Viceversa, i valori terrestri sopra elencati trovano il più ampio spazio di crescita e di sviluppo in un mondo disposto a riconoscere il proprio limite, in obbedienza a Dio, che svela all'uomo il vero volto dell'uomo e del mondo, e che indica la verità assoluta di Sé - e dell'uomo - nell'amore di chi è disposto a dare la propria vita per coloro che ama. I discepoli "lo riconobbero allo spezzare del pane": allora si ricordarono che le Scritture spiegate da lui "avevano fatto ardere il loro cuore". Ciò significa che per giungere all'incontro più pieno occorre realizzare in profondità l'esperienza viva, realissima di Gesù Cristo, unico Signore e Salvatore della nostra vita. Certo, il racconto di Emmaus insiste per questo sui sentieri assolutamente privilegiati dell'ascolto della Parola e della celebrazione dei sacramenti. Ma, in maniera mirata al nostro tema - ferma restando, in ogni caso, l'indicazione fondamentale del vangelo di Luca - il Papa nei suoi due discorsi indica una via per uscire in maniera positiva dalla crisi, e - in definitiva - per vivere "da cristiani in università". Si tratta in sostanza di ampliare la nostra idea di razionalità, affinché la ragione possa incontrare efficacemente la Verità. Stando a un tema ricorrente soprattutto nelle catechesi patristiche di Benedetto XVI, già i Padri della Chiesa - cioè i primi maestri della nostra fede, dopo gli scritti del Nuovo Testamento - hanno robustamente ampliato la ragione: hanno "ampliato" il lògos dei Greci, di illustre marca platonico-stoica, per esprimere così il Lògos della predicazione cristiana, la seconda Persona della Trinità beata, il Figlio di Dio divenuto carne nel grembo di Maria, l'unico Salvatore del mondo. Alle profonde radici di questo ampliamento della ragione sta la scelta netta della fede cristiana primitiva: "La fede cristiana ha fatto la sua scelta netta: contro gli dei della religione per il Dio dei filosofi, vale a dire contro il mito della consuetudine per la verità dell'essere" (Introduzione al cristianesimo, iii; cfr. Discorso del 7 giugno 2008). Ritornando al nostro oggi, il Papa ci invita a capire che "la crisi della modernità non è sinonimo di declino della filosofia. Anzi la filosofia deve impegnarsi in un nuovo percorso di ricerca per comprendere la vera natura di tale crisi" (era questa la prima istanza), e per "individuare prospettive nuove verso cui orientarsi": ed è precisamente questa la seconda istanza (Discorso del 7 giugno 2008). Ecco dunque la prospettiva nuova raccomandata da Benedetto XVI: "Il concetto di ragione deve essere "ampliato", perché sia in grado di esplorare e di comprendere quegli aspetti della realtà che vanno oltre la dimensione meramente empirica". E prosegue: "Ciò permetterà un approccio più fecondo e complementare al rapporto tra fede e ragione". Tale prospettiva, da lui affacciata nel Discorso del 23 giugno 2007, è stata poi ripresa e sviluppata - monograficamente, per così dire - nel successivo Discorso del 7 giugno 2008: di fatto, esso va riletto interamente in questa prospettiva. A ben guardare, capita qui, nel caso del rapporto tra fede e ragione, qualche cosa di simile a ciò che il Papa stesso insegna in Deus caritas est riguardo alle relazioni tra èros e agàpe: "Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse", scrive il Pontefice nel n. 7 della sua prima enciclica, "trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere". Un po' allo stesso modo, solo una ragione aperta alla fede - una ragione che di fatto approda alla fede, pur nel rispetto delle necessarie distinzioni tra ragione e fede e dei rispettivi itinerari - consente all'uomo di attingere alla verità profonda del suo essere, che è l'Amore. L'uomo infatti è creato "a immagine e somiglianza" di quel Dio, capace di "volgersi contro se stesso" per amore (ivi, n. 12). Questa è la vera "chiave" di interpretazione della storia e dell'esistenza umana. In fondo, rileva ancora il Papa nel discorso del 23 giugno 2007, "il sorgere delle università europee fu promosso dalla convinzione che fede e ragione cooperassero alla ricerca della Verità, ognuna secondo la sua natura e la sua legittima autonomia, ma sempre operando insieme armoniosamente e creativamente al servizio della realizzazione della persona umana in verità e amore". Di fatto, solo l'incontro con Gesù Cristo, Verità e Amore, riaccende il cuore a nuova speranza, che non è solo la speranza di questo mondo, ma quella definitiva, dei cieli nuovi e della terra nuova. Ma non basta ancora. Il progetto della vita nuova, che scaturisce dall'incontro con Cristo, va vissuto e testimoniato nel quotidiano, nell'oggi. È questo il realismo della fede nel quale il Papa individua il contributo fondamentale che la presenza dei cristiani in Università può offrire all'umanesimo del futuro. La Chiesa oggi - afferma infatti Papa Benedetto - è chiamata "a escogitare metodi efficaci di annuncio alla cultura contemporanea del "realismo" della propria fede nell'opera salvifica di Cristo" (Discorso del 23 giugno 2007). Il cosiddetto "realismo della fede" nel pensiero di Papa Ratzinger si fonda sul fatto che al centro della nostra fede non sta un insieme di asserti teorici, ma l'incontro realissimo - proprio come a Emmaus - con una Persona, Gesù di Nazaret, il Salvatore. Così il medesimo realismo della fede si oppone a una visione meramente intellettualistica e astratta di Dio. In questo, il Papa dipende dai suoi maestri prediletti, che sono i grandi scrittori e dottori della Chiesa, da Origene ad Agostino, fino a san Bonaventura. Per tutti loro, la forma più alta della conoscenza è l'amore. L'esperienza vera, "reale" di Gesù Cristo - spiega ancora il Papa - non si può limitare alla semplice sfera intellettuale. Essa "include anche una rinnovata abilità: (...quella) di lasciarci entusiasmare dalla realtà, la cui Verità si può capire (solo) unendo l'amore alla comprensione". Il "realismo della fede" si esprime anzitutto nei santi, testimoni privilegiati della Verità e dell'Amore. Ma un vibrante appello alla testimonianza il Papa lo rivolge a tutti i credenti, e in particolare - fra di loro - ai professori universitari, che sono "chiamati a incarnare la verità della carità intellettuale, riscoprendo la loro primordiale vocazione a formare le generazioni future non solo mediante l'insegnamento, ma anche", appunto, "attraverso la testimonianza profetica della propria vita". In tale prospettiva, oltre a riprendere il discorso dei "laboratori" della cultura e della fede, il Papa auspica "una rete attiva di operatori universitari impegnati a portare la luce del Vangelo alla cultura contemporanea" (Discorso del 23 giugno 2007).
(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)


Jack London e la sfida dell'uomo alle forze primordiali della natura - Sul ring metafisico del Grande Nord - Pubblichiamo un estratto dall'ultimo quaderno "La Civiltà Cattolica" in uscita in questi giorni. di Antonio Spadaro
La biografia di Jack London (1876-1916) è complessa, eppure nella molteplicità delle avventure di terra e di mare, negli alti e bassi affettivi e ideologici, vibra la stessa personalità, insieme riflessiva e avventurosa, che ama immergersi nella lettura e nella scrittura così come esporsi a imprese che richiedono forza di muscoli e di volontà. La sua scrittura e la sua vita sono parte della medesima avventura. Non sappiamo esattamente come nacque la sua vocazione letteraria, certo è che ebbe a che fare con la voglia di conquistarsi uno spazio vitale, sin dagli anni della sua infanzia, per difendere il quale il piccolo London era disposto a venire alle mani. E subito la sua prima piccola avventura, la caccia alle foche del 1893, divenne un racconto.
Da quel momento in poi ogni esperienza di vita diventò materia dei suoi racconti: la realtà è più grande della pura fantasia astratta.
La prima seria avventura che ispirò London fu quella che lo condusse nel Klondike alla ricerca dell'oro. Un vero e proprio viaggio iniziatico alla ricerca di qualcosa che sembra una metafora del significato dell'esistenza, qualcosa per la quale abbia senso essere in vita. Questa ricerca non può che essere vissuta a contatto con la wilderness, con una natura selvaggia che mette l'uomo alle corde, privo del riparo della vita agiata o protetta.
Il pensiero di Darwin, che a London giunge attraverso l'acerbo e militante entusiasmo per il filosofo Herbert Spencer, lo conduce alla visione esasperata di una lotta per la sopravvivenza dove vince sempre il migliore, il più adatto alla vita, il fittest, che alla fine è il cane. A questa ideologia si unisce l'idea nietzschiana del superuomo divenuta all'epoca moda, abbinata all'immagine dell'uomo di successo e del self-made man. L'eruzione vitalistica, muscolare, essenzialmente virile, nutre l'immaginario del giovane London, che è sempre alla ricerca di una vita vissuta fino in fondo in pienezza, anche se in forme parossistiche.
Il "Grande Nord" è stato per London una fucina di ispirazione. Oltre ai due romanzi [Il richiamo della foresta e Zanna Bianca] molte altre pagine ci parlano di cani, lupi, distese di ghiaccio, corsa all'oro. È come se la carta geografica della Gold Rush delimitasse il territorio di un ring metafisico ed esistenziale, dove i personaggi - siano essi uomini o animali, ma persino elementi della natura - pur rimanendo pienamente reali e concreti, diventano posizioni dello spirito, portatori delle tensioni fondamentali e primigenie della natura umana.
Un racconto come, ad esempio, Love of Life (L'amore per la vita) rappresenta drammaticamente il confronto tra l'uomo solo e ferito con l'immensità di una distesa di ghiaccio. Il protagonista cammina con il suo compagno Bill. Sono entrambi deboli e stanchi, col loro carico di masserizie e d'oro sulle spalle. L'uomo si sloga una caviglia e chiede aiuto all'altro che invece se ne va per la sua strada. Davanti all'uomo ferito resta l'immensità della "paurosa e terribile desolazione" pronta a schiacciarlo. Comincia a tremare ma non si ferma né si lascia vincere dal pensiero dell'abbandono. Si convince che Bill lo avrebbe atteso più avanti: "Era costretto ad aggrapparsi a questa convinzione, altrimenti non avrebbe avuto senso tutta quella fatica, e si sarebbe lasciato cadere per morire". Se l'uomo perde la "compagnia" si lascia morire. E il racconto prosegue in un'atmosfera di sospensione e solitudine tra i morsi della fame e gli espedienti per sopravvivere ai lupi: "I loro ululati vagavano avanti e indietro per quella desolazione, tessendo nell'aria un velo di minaccia così tangibile che si trovò con le braccia tese nell'aria per fendere questa minaccia e ricacciarla indietro, come le pareti di una tenda sbattuta dal vento". Such was life, eh? Questa era la vita?, si chiede.
Nel suo tragitto l'uomo incrocia le tracce di un altro uomo. Poi vede un mucchio di ossa. Era ciò che era rimasto di Bill dopo il passaggio dei lupi. L'uomo prosegue come un fantasma, guidato dalla visione, a chilometri di distanza, del mare e di una nave che assume i tratti di un miraggio irraggiungibile. L'ultimo atto sarà la lotta con un lupo, stremato tanto quanto l'uomo: una lotta estrema, lenta, affannata di due corpi senza più energie. L'uomo l'avrà vinta ma senza alcun trionfo. E sarà salvato dai marinai della nave Bedford che lo aiuteranno a riprendere fiducia nella vita.
Ciò che colpisce, fra l'altro, in "L'amore per la vita" è la proiezione di un dramma in un contesto che amplifica il senso di attesa e di sospensione. Il racconto si tende all'estremo in attesa di un compimento che sembra un miraggio. E questo caratterizza altri racconti di London. Pensiamo, ad esempio, a The Sun-dog Track (La pista del sole), dove i personaggi compiono un viaggio faticoso ed estenuante senza che il lettore ne capisca il senso e il motivo, se non nelle battute finali, dove accade un omicidio, che però resta appeso a se stesso, privo di spiegazioni.
Ma accanto a questi racconti dal sapore "metafisico" ve ne sono altri che rappresentano vivaci casi umani, spesso aperti a domande rilevanti, a casi di coscienza. Così nel racconto The Priestly Prerogative (Il privilegio del sacerdote), dove protagonista è un gesuita, padre Roubeau. London deve aver preso spunto dalla figura di William Judge, un gesuita chiamato "il santo di Dawson", che forniva rifugio e cure ai cercatori d'oro nel Klondike, il quale probabilmente gli salvò la vita quando venne colpito dallo scorbuto.
Ma ancor di più il racconto The God of His Fathers (Il Dio dei suoi padri), che mette in scena il confronto tra due uomini: Baptiste the Red, figlio di un gentleman inglese e della figlia di un capo indiano, e Hay Stockard, uno yankee in cerca d'oro e di fortuna.
Il dialogo tra i due verte sulla religione. Il capo meticcio esprime tutto il suo rancore nei confronti della Chiesa e contro il Dio degli uomini bianchi, che la sua esperienza, segnata da discriminazioni, persecuzioni e ostacoli, aveva identificato come malvagio.
Così Baptiste the Red è chiaro: "Per ogni uomo bianco che viene al mio villaggio, che sia chiaro che io lo obbligherò a rinnegare il suo Dio. Tu sei il primo e ti faccio grazia". Ma il giorno dopo ecco arrivare un pastore missionario che manda su tutte le furie Stockard: sapeva che sarebbe stato fonte di guai con il capo meticcio. A te, Hay Stockard, bestemmiatore filisteo, i miei saluti. Nel tuo cuore alberga l'ingordigia di Mammona, nella tua mente i diavoli astuti, nella tua tenda questa donna con la quale vivi in stato di adulterio; eppure di tanti peccati diversi, anche qua in questo deserto, io, Sturges Owen, apostolo del Signore, ti offro il perdono e allontano da te ogni iniquità": è questo il saluto del missionario. Stockard lo conosce e lo spinge ad andar via, ma senza successo: il pastore si dice disposto anche al martirio. Baptiste si infuria e non intende ragioni: se il cercatore d'oro vuole andare libero gli deve consegnare il pastore. Stockard deve fare una scelta, ma "l'etica grossolana del suo cuore" non gli permette lo scambio, nonostante Owen sia per lui soltanto un peso imbarazzante. Non resta che lo scontro, che svelerà il segreto dei cuori. Owen si dice disposto solamente a due cose: o al miracolo della conversione di Baptiste o a morire martire. Il suo coraggio nasceva dal fanatismo e, con l'imminenza dello scontro, cominciava a vacillare: la debolezza fiaccava i suoi propositi. Stockard era mosso da altro, più elementare, ma solido. In quel frangente, a rischio della vita, si decide a "dare una sistemata" alle sue cose: si fa sposare davanti a Dio con la sua donna e fa battezzare il suo bambino. Segue la battaglia tremenda e selvaggia, favorevole agli indiani. Ma Baptiste è ammirato dal coraggio di Stockard, ferito e irto di frecce, e vuole salvargli la vita: "Ecco un vero uomo! Nega il tuo Dio e avrai salva la vita!", gli urla mentre gli viene condotto il missionario appena scalfito da un graffio al braccio ma in un'estasi di paura. Il missionario rinnega il suo Dio e viene lasciato libero di andare con cibo e canoa. Adesso era il turno di Stockard. "Hai tu un Dio?", gli grida Baptiste. "Sì, il Dio dei miei padri", risponde il cercatore d'oro. "Battista il Rosso diede il segnale, e la lancia sfrecciò colpendolo in pieno petto". Nel racconto la coscienza sembra obbedire a messaggi lontani che vengono "dai padri" e che marcano convinzioni che sono ben più solide di fanatismi posticci. La testimonianza di Stockard fonde insieme la dignità dei propri princìpi e una fede abbracciata in extremis, ma avvertita come un istinto insopprimibile. Il Novecento ha visto emergere scrittori di grande popolarità, ma di incerta fortuna critica. Jack London è tra coloro che, come Tolkien, pur avendo schiere innumerevoli di lettori non hanno avuto una simile fortuna in ambito critico. Spesso l'ansia di sperimentazione ha fatto apprezzare autori come Joyce, Proust o Beckett per la loro tecnica e non per la loro capacità di leggere ed esprimere le tensioni essenziali della vita. London è stato invece un narratore incostante, ma di razza, lontano da ansie formalistiche e attratto dal gusto di raccontare storie. Persino i concetti in lui alla fine non producono discorsi ma racconti e personaggi. La penna di London è radicalmente narrativa, anche se si nutre di idee, per altro apprese troppo avidamente e passionalmente per essere chiare e distinte. Per questo, in un'epoca che scopre le sue profondità nel labirinto joyciano o della memoria proustiana, o della desolazione eliotiana, l'artigianato letterario di London è apparso volgare e crudo oppure adatto ai più giovani, purché in edizioni ridotte e purgate. Eppure proprio questa crudezza fa delle sue pagine un appassionante "corpo a corpo" e non una palestra di stile. La natura selvaggia diventa il terreno per verificare i significati dell'esistenza: prova e raffina le motivazioni, saggia i cuori, facendo cadere ciò che non ha fondamento. La prima sfida è contro la vita intesa come una cosa ovvia: "È facile vedere l'ovvio, compiere le azioni previste. La tendenza delle vite individuali è statica, piuttosto che dinamica, e questa tendenza è trasformata in impulso dalla civiltà, dove si vede solo l'ovvio, e dove raramente accade l'imprevisto". London sfida il lettore con l'imprevisto, lo interroga su come abitare il mondo e su come affrontare la vita, cogliendone l'aspetto selvaggio, primordiale. È questa, forse, la più rilevante e impegnativa eredità che London ha lasciato alle generazioni successive.
(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)


Riflessioni sulla «Dignitas personae» La clonazione umana Un'abominevole schiavitù biologica - di Wojciech Giertych - Teologo della Casa Pontificia – L’Osservatore Romano, 18 Aprile 2009
La trasmissione della vita umana è sempre stata considerata un mistero, non nel senso che le funzioni biologiche fossero sconosciute, ma nel senso che in quel momento avviene qualcosa di grandioso e imperscrutabile che non può essere pienamente penetrato dall'osservazione empirica e che merita rispetto. La vita umana è segnata da un'inerente sacralità. Per questo motivo la trasmissione della vita umana si distingue anche dal punto di vista terminologico dalla trasmissione della vita di piante e animali. La prima si chiama procreazione mentre l'altra è la riproduzione. Il prefisso "pro" nella procreazione si riferisce a una funzione vicaria. È Dio che crea dal nulla un'anima umana immortale e la dona a ogni figlio che viene concepito. Questo dono divino viene ricevuto non solo dal bambino che inizia la sua esistenza umana, ma viene ricevuto anche in senso morale dai genitori del bambino che svolgono la missione più impegnativa fra tutte, e cioè quella di trasmettere la vita (cfr. le prime righe dell'enciclica di Paolo VI: Humanae vitae tradendae munus gravissimum) e di amare ed educare il figlio che hanno ricevuto da Dio. E anche se i genitori falliscono nelle loro responsabilità, Dio non fallisce, perché "Dio non si riprende mai i suoi doni o torna indietro sulle sue scelte" (Lettera ai Romani, 11, 29). Quando il concepimento di un figlio avviene a seguito di un peccato di adulterio, incesto, stupro o avviene in vitro, Dio crea ugualmente un'anima immortale per il bambino, anche se la partecipazione dei genitori in questa trasmissione della vita umana avviene secondo modalità condannabili. La trasmissione della vita di piante e di animali è diversa, poiché questi non hanno un'anima immortale e quindi nessuna dignità personale, ed è per questo che viene definita semplicemente riproduzione. Essi esistono non per se stessi, ma per il fine ultimo di soddisfare le necessità dell'umanità (cfr. Genesi, 1, 28-29). L'adattamento dei processi riproduttivi in piante e animali intrapreso per esigenze umane e reso possibile dagli sviluppi della biotecnologia diviene inammissibile se applicato alla procreazione umana. La procreazione non può essere trattata allo stesso livello della zootecnia. Gli interventi tecnici che distorcono la natura e la finalità della procreazione rappresentano un tragico attacco alla dignità umana. Pertanto l'incombente prospettiva della clonazione umana genera giustamente la risposta estremamente allarmata dell'umanità. A causa degli sviluppi scientifici, i modi e i mezzi in cui la dignità umana può essere servita, ma anche attaccata e manipolata, sono largamente aumentati e occorre quindi che la Chiesa non resti in silenzio. L'istruzione Dignitas personae, pubblicata di recente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dedica quindi tre paragrafi alla terrificante prospettiva della clonazione umana. La clonazione è definita come la riproduzione asessuale e agamica di un intero organismo, in modo da produrre una copia che dal punto di vista genetico è identica al suo unico progenitore. Attualmente sono stati sviluppati due metodi di clonazione. Il primo, noto come scissione embrionale, consiste nella separazione artificiale di una singola cellula o di un gruppo di cellule di un embrione al suo stadio di sviluppo iniziale, seguita dal successivo trasferimento nell'utero in modo da ottenere un gemello artificiale dell'embrione originale. Il secondo metodo, a cui si riferisce il termine clonazione in senso stretto, consiste nel trasferimento nucleare della cellula somatica. Il nucleo di una cellula embrionale o somatica, con il materiale genetico da clonare, viene introdotto in una cellula uovo precedentemente denucleata, successivamente attivata chimicamente o attraverso impulso elettrico. La cellula uovo inizia così a svilupparsi come un embrione, con un materiale genetico identico all'originale da cui è stato prelevato il nucleo. Fondamentalmente non vi è alcuna obiezione di tipo morale in merito alla clonazione animale. La clonazione produce individui più deboli che, in quanto mere copie dell'originale, sono soggette a malattie e invecchiamento prematuro, ma potrebbero avere qualità che possono essere richieste per alcuni scopi specifici. Gli animali domestici così come le piante coltivate sono biologicamente più deboli delle loro controparti naturali, e sono quindi incapaci di sopravvivere senza il sostegno dell'uomo, ma la loro riproduzione è più veloce e quindi meno costosa. Frutta, verdura e carne animale possono essere specificamente adattati ai fini della qualità e della capacità di essere trasportati e refrigerati. La clonazione degli animali per produrre carne a minor prezzo o per salvare specie a rischio di estinzione è quindi moralmente accettabile anche se questi cloni saranno sempre più deboli degli animali riprodotti in maniera naturale e rischiano di essere deformi. L'applicazione di questi stessi metodi tecnici di riproduzione agli esseri umani è tuttavia del tutto inaccettabile per ragioni morali. Al riguardo, i sostenitori della clonazione umana operano una distinzione tra clonazione riproduttiva e terapeutica. La prima mira alla riproduzione di esseri umani su misura, i quali, pur essendo deboli dal punto di vista fisico e genetico, potrebbero avere alcune caratteristiche prescelte, come il sesso, la composizione genetica copiata da un'altra persona o altre caratteristiche prestabilite più specifiche. La clonazione terapeutica si dice sia diretta unicamente alla produzione di embrioni con un patrimonio genetico prefissato, da cui si potrebbero raccogliere cellule staminali embrionali per la produzione di farmaci utili a superare il problema dell'incompatibilità immunologica nei trapianti. La clonazione terapeutica equivale alla produzione di embrioni umani in condizioni di laboratorio con l'intenzione dichiarata di ucciderli dopo aver raccolto le cellule staminali. Se venisse accettata la clonazione terapeutica, ci sarebbero difficilmente delle barriere morali alla clonazione riproduttiva, poiché entrambi i metodi sono identici. Dal punto di vista dell'oggetto morale - con ciò non s'intende solo un mero evento fisico, ma l'azione percepita e accertata dalla ragione dell'agente alla luce dei principi morali (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, n. 78) - non c'è dubbio che l'atto della clonazione umana si trova in totale contrasto con i principi fondamentali della procreazione umana. Invece di procreare bambini come risultato del dono reciproco di sé da parte dei coniugi, la clonazione umana consiste nella produzione di un individuo al di fuori del contesto dell'amore coniugale e della finalità intrinseca della sessualità. La clonazione umana è pertanto in diretta contraddizione con la natura dell'atto coniugale e con la dignità della vita familiare. Queste contraddizioni si affermano sul presupposto che un individuo possa essere fatto nascere non come risultato del dono totale di sé da parte dei coniugi e quindi ricevuto come dono di Dio, ma possa essere "prodotto" attraverso l'applicazione di una procedura tecnica. Su questo punto si nota una similitudine con la fecondazione in vitro, con l'aggravante che l'individuo "prodotto" è fin dall'inizio soggetto a profonde manipolazioni biologiche. Se accadrà che il risultato della clonazione umana sia in qualche modo danneggiato, l'inclinazione mentale che sottostà a questo atto di manipolazione è tale che porterà a considerare il clone danneggiato non come un bambino che debba essere accettato e amato indipendentemente dalle sue debolezze, ma come il risultato di un esperimento tecnologico fallito, che può essere quindi eliminato per non aver raggiunto lo standard previsto. Questa riduzione della persona umana al livello di prodotto è totalmente incompatibile con la sua propria dignità. Dal punto di vista dell'effetto dell'atto di clonazione umana, il clone, essendo soggetto a una forma di schiavitù biologica, sarà contrassegnato in permanenza da una fondamentale dipendenza dalle preferenze del suo autore. Un bambino fatto nascere artificialmente non per il suo stesso bene, ma solo per soddisfare i bisogni o le aspirazioni dei suoi "produttori", sarà per sempre contrassegnato da questa schiavitù. Trovandoci ancora nel regno degli atti futuri contingenti, che tuttavia stanno diventando tecnicamente possibili, possiamo solo immaginare il condizionamento psicologico, le limitazioni e le esplosioni di rabbia dei futuri cloni umani. La visione freudiana della ribellione nei confronti del padre e la liberazione da tutti i vincoli educativi e morali in nome di una libertà arbitraria e incontrollata troverà nella rabbia e nel risentimento dei futuri cloni umani un comprensibile humus. Si può ipotizzare quale tipo di impatto psichico avrà la fecondazione in vitro nei bambini portati alla vita in questo modo, e quale tipo di deformazione psichica e morale porterà la clonazione umana. Dal punto di vista dell'intenzione dell'agente, la clonazione umana deve essere vista come un momento di orgoglio intellettuale supremo. Un intelletto che è concentrato unicamente sulla raccolta di dati scientifici misurabili sui fenomeni e sulla messa in atto di ciò che è tecnicamente possibile, e che allo stesso tempo esclude gli interrogativi e i risultati acquisiti dalla ricerca speculativa attenta alle finalità, ai significati e alla natura delle cose, è chiuso di fronte alla pienezza della verità. Le riduzioni positiviste e ancor più le negazioni post-moderne della possibilità di conoscere alcuna verità in nome del relativismo agnostico, chiudono la mente in se stessa. Invece di tendere alla pienezza della verità, come una tensione a cui il dono della fede invita la mente con forza (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Fides et ratio, n. 56) questo tipo d'intelletto è schiavo di se stesso, ed è pertanto incline ad attribuire a se stesso una qualità suprema, non riuscendo a vedere quanto la sua visione sia estremamente limitata. Quando l'intelletto è diretto verso esseri che sono al di sotto della sua natura, esso vi esercita un certo dominio. Quando, invece, tende alle verità universali e a Dio, che è la fonte di tutta la verità e di tutti gli esseri, l'intelletto ha bisogno di essere umile rispetto a ciò che lo supera, ma in quella umiltà esso viene portato al di là dei propri limiti verso la pienezza della conoscenza. Esso può allora vedere ciò che è al di sotto di sé alla luce delle verità universali. Le manipolazioni tecnologiche come la clonazione umana, in cui l'essere umano viene ridotto a livello di pura materia sperimentale, sulla quale lo scienziato desidera avere il pieno dominio, e con manifesto rifiuto della meraviglia contemplativa circa la dignità della persona umana e della sua universalità, sono un segno di profondo orgoglio intellettuale. L'intelletto di coloro che adottano una visione eugenica, aspirando a produrre un'identità umana completamente nuova attraverso le loro tecniche è malato di narcisismo. La storia è piena di tragici esempi di ideologie che sono nate da menti chiuse nell'orgoglio intellettuale, non disponibili ad accettare, con un atteggiamento umile, la verità della realtà. Non vi è dubbio che coloro che sperano di clonare gli esseri umani non possano in alcun modo collegare tale intenzione con la tendenza intrinseca, benché spesso non riconosciuta, della volontà verso il fine ultimo che è la felicità suprema in Dio. San Paolo esortava a fare tutto per la gloria di Dio (cfr. Prima Lettera ai Corinzi, 10, 31). Non è possibile collegare un'apertura verso la gloria più grande di Dio a un'azione che attacca direttamente la dignità della persona umana, poiché la gloria di Dio è la persona umana che fiorisce nella sua umanità. Il cristiano, mosso dalla grazia, collega un intento di amore, che si basa sulla carità ricevuta da Dio, a ogni atto e quindi reca gloria a Dio. La produzione di cloni umani nell'orgogliosa imitazione di Dio è priva di carità e rappresenta un insulto al Creatore. Quanto sia abominevole la clonazione di esseri umani si può percepire con maggiore chiarezza attraverso il confronto con la formazione umana. Mentre è perfettamente normale che gli educatori e ancor più i genitori abbiano delle speranze per i propri figli, la vera formazione umana non è ridotta alla "produzione" di individui progettati in precedenza. Un musicista potrebbe volere che il proprio figlio sia un musicista e un medico potrebbe volere che suo figlio diventi anche lui medico. Nell'educazione, tuttavia, i figli devono poter disporre di varie possibilità per sviluppare le loro diverse potenzialità. Un programma di formazione che neghi l'individualità e lo sviluppo delle virtù personali e che richieda solo un'esatta imitazione di un'identità imposta sarebbe essenzialmente inumano. Ogni qualvolta sono stati tentati questi progetti, nell'istruzione scolastica o nei programmi sociali imposti dai regimi totalitari, giustamente s'è incontrata una reazione di rigetto. In misura anche maggiore, la prospettiva della clonazione umana incontra l'opposizione disgustata di tutti coloro, cristiani e non, che percepiscono spontaneamente l'inalienabile dignità dell'essere umano.
(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)


AFGHANISTAN/ La paura di quel cristianesimo che un tempo le femministe condannavano - Paola Liberace - sabato 18 aprile 2009 – ilsussidiario.net
I manifestanti filotalebani che ieri hanno scagliato sassi contro le dimostranti afghane al grido di “morte alle schiave dei cristiani” hanno in fondo reso un servizio alla religione che intendevano denigrare. Anche se il corteo femminile – che protestava contro la legalizzazione degli stupri coniugali, frutto di una legge firmata di recente dal presidente Karzai – era stato convocato dagli attivisti per i diritti umani, gli oppositori ne hanno attribuito mandanti e ragioni al cristianesimo, identificato tout court con l’Occidente democratico.
E forse, senza volerlo, hanno in fondo colto una parte di verità - per quanto strano possa sembrarci. Per la nostra cultura, cortei simili sono decisamente lontani dalla prospettiva religiosa: in effetti, nella recente storia occidentale, le manifestazioni femminili e femministe si sono piuttosto contraddistinte per il loro messaggio di rottura rispetto al cristianesimo in generale, considerato una forza conservatrice. Nella prospettiva di un certo femminismo, tradizione cattolica e emancipazione viaggiano su due binari differenti: la prima, legittimazione dell’oppressione patriarcale; la seconda, risultato della lotta contro la stessa oppressione. A dare man forte alla divaricazione tra diritti della donna e religione cristiana sono arrivate, negli anni, le stesse organizzazioni internazionali cosiddette umanitarie. Come hanno mostrato bene Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia nel loro libro “Contro il cristianesimo”, dalle parti dell’ONU, e della stessa Unione Europea, il mantra dei diritti umani è risuonato spesso in aperta contrapposizione ai principi cristiani. Per esempio, a proposito della libertà religiosa – ammessa solo per invitare a disfarsi della religione stessa -; della procreazione – vista meramente nell’ottica del controllo delle nascite - persino della famiglia – istituzione da smantellare in quanto responsabile della subordinazione delle donne. A questo punto, femministe e burocrati si sono dati il braccio in nome di una presunta libertà femminile: libertà di non credere, di non fare figli, di non amare.
Ci hanno pensato i filotalebani a restituire al cristianesimo l’identità originaria di strumento di liberazione. Mentre le femministe degli anni ’70 rinnegavano in maggioranza l’istanza religiosa, le loro epigone afghane di oggi vengono insultate nel nome della stessa istanza. Per quanto, in entrambi i casi, questa istanza sia stata chiamata in causa a prescindere dal suo ruolo effettivo, è paradossalmente nella bocca dei fondamentalisti di oggi, di estrazione islamica, e non in quella delle emancipazioniste di allora, di estrazione cristiana, che il richiamo suona più a proposito. Invece di contestare l’ONU o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, con tutti i loro principi umanitari e la loro libertà, i filotalebani se la sono presa con il padre di tutte le oppressioni, con il cristianesimo: reo di prescrivere l’amore al posto della violenza, di ispirare il rispetto per ogni persona – in particolare le più deboli, di riservare una speranza anche a chi crede di averle smarrite ormai tutte. Per difendere un modello di famiglia fondato sull’annullamento della donna, se la sono presa proprio con quel cristianesimo che secondo i suoi detrattori subordinerebbe le donne attraverso la famiglia: guardando evidentemente ai fatti, che raccontano di una realtà diversa, più che alle ideologie. Un dato sul quale gli organismi sovranazionali e i movimenti femminili dovrebbero forse riflettere, chiedendosi se tra la libertà senza amore e la violenza senza amore le donne non possano scegliere una via diversa: quella dell’amore che dà la libertà, anche dalla violenza.


IL CASO/ Quando lo Stato ha il dovere di sostenere le scuole paritarie - Maria Grazia Colombo - sabato 18 aprile 2009 – ilsussidiario.
Con Sentenza n. 15389, del 10 giugno 2008, il Tribunale Ordinario di Roma, II Sezione Civile (depositata in Cancelleria il 15 luglio 2008), ha riconosciuto il diritto istituzionale della Casa Religiosa Istituto di Cultura e di Lingue per l’Educazione e Istruzione nelle Scuole delle Suore Martelline, al rimborso totale del costo per l’insegnante di sostegno sostenuto negli anni scolastici 2002/2003 e 2003/2004, in virtù dell’obbligo dato dalla “parità” e dalle norme inerenti la Legge 104/1992.
Il Giudice del Tribunale Ordinario di Roma, “definitivamente pronunciando sulla causa in epigrafe, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattese, in accoglimento della domanda, condanna il Ministero a pagare alla parte attrice la somma di euro 28.739,22, oltre interessi legali come specificato in motivazione, nonché le spese processuali, le spese generali, contributi ed imposte come per legge”.
Con questa Sentenza il Tribunale di Roma ha inteso correggere una situazione anomala, frutto di una inesatta e contraddittoria interpretazione delle norme che ne regolano il diritto applicativo.
Le scuole “paritarie”, infatti, sono obbligate ad accettare l’iscrizione degli alunni con disabilità, pena la perdita della parità ottenuta. Le scuole che hanno deciso di fruire della Legge 10 marzo 2000, n. 62, “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”, sono tenute ad applicare “le norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizioni di svantaggio”, come previsto dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 104, “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”e successive integrazioni, e pertanto garantire: il diritto allo studio accogliendo anche di un alunno disabile la domanda di iscrizione; l’eliminazione delle barriere architettoniche; il personale ausiliario per l’assistenza igienica e l’igiene personale degli alunni con disabilità.
La Legge 104/1992 pone in essere anche il sostegno economico, sostegno che lo Stato, tuttavia, non garantisce alle scuole paritarie - le quali, se vogliono attenersi agli obblighi dettati dalla legge, devono sopportare l’onere derivato dall’assunzione di insegnanti specializzati di sostegno - venendo meno, se non in misura parziale ed insoddisfacente, ad un preciso obbligo da esso stesso impostosi. I genitori che chiedono di iscrivere propri figli portatori di handicap ad una scuola paritaria sono infatti tenuti a pagare la retta normale prevista per tutti gli altrui alunni, nessun costo aggiuntivo, però, deve essere loro richiesto dalla scuola paritaria per i servizi dovuti per legge a favore dei disabili.
Quindi, diritto soggettivo del portatore di handicap che non muta in base al tipo di scuola prescelta, e diritto istituzionale della scuola paritaria in risposta all’obbligo che è tenuta a rispettare se vuole mantenere la condizione di “scuola paritaria”. Non va dimenticato che lo Stato deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’esercizio dei diritti/doveri educativi, formativi, scolastici di natura personale ed istituzionale.
Di fronte a questa situazione anomala e al tempo stesso complessa, l’AGeSC (Associazione Genitori Scuole Cattoliche) se ne è fatta carico: nel 2002 promuovendo sia una azione di sensibilizzazione presso tutte le scuole cattoliche – nelle quali le richieste di inserimento sono andate sempre più aumentando - e nel 2003 interessando gli avvocati Alessandro Bigoni e Paoloalberto Polizzi - che hanno condiviso l’esigenza di un affronto anche in sede giudiziaria – e ponendosi a fianco delle scuole paritarie e delle famiglie che hanno condiviso l’azione e hanno accettato di farsi assistere. E ciò convinta, l’Agesc, della necessità di una totale integrazione scolastica dei portatori di handicap attuata senza discriminazioni, nel rispetto del loro diritto di scelta degli ambiti in cui promuovere la propria crescita umana e culturale, nonché nel rispetto totale delle leggi vigenti che prevedono sostegni finalizzati a far superare stati di emarginazione e di esclusione.
In quest’ottica, confortata anche da una precedente sentenza del Tribunale di Roma – II Sezione civile, Ordinanza 17/12/2002 – che ha riconosciuto sia “l’obbligo di una scuola non statale di accogliere una bambina portatrice di handicap”, sia “l’obbligo del Ministero e, conseguentemente, del Provveditorato agli Studi di Roma, di assumersi totalmente l’onere economico dell’insegnante di sostegno, rispettando così il diritto della persona portatrice di handicap all’educazione, all’integrazione sociale e alla partecipazione alla vita della comunità, nonché il diritto di crescere in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini”.
Così nel 2004 sono state attivate alcune richieste al Ministero tese a riconoscimento – una volta per tutte – del rimborso degli oneri sostenuti per gli insegnanti di sostegno. Ad una non risposta da parte del Ministero, ne è scaturita la decisione di procedere attivando ricorsi presso l’Autorità Giudiziaria, tra cui il “ricorso” dell’Istituto Marcelline di Milano interessate al sostegno di due alunni della scuola secondaria di I grado (scuola media inf.), per ottenere la condanna del MIUR al pagamento delle spese sostenute, e ciò in diretta applicazione del principio di uguaglianza sostanziale, e nel rispetto dello stesso diritto alla libera scelta dell’istituto di istruzione, di cui all’art. 5 della Legge 104/92, comma 1, let. L) che garantisce, appunto, “ il diritto alla scelta dei servizi ritenuti più idonei”.
Significative le motivazioni della decisione assunta dal Tribunale Ordinario di Roma, che vanno ad invalidare la diffusa convinzione che il diritto alla sussidiarietà economica dello Stato, per l’insegnante specialistico di accompagnamento e sostegno, appartenga solo alla persona del disabile (e alla sua famiglia) e quindi sia solo di natura personale e non anche istituzionale della scuola, come sostenuto dall’Agesc. Così afferma la sentenza:
“La domanda attorea è risultata fondata e va accolta. Invero, preliminarmente va rilevato che il sostegno, nella specie quello scolastico, fornito alla persona in situazione di minorità fisica e/o psicofisica costituisce la concreta attuazione dei principi solidaristici che informano il nostro Ordinamento. Si tratta di un sostegno fornito alla persona che ne necessità su puntuale disposizione della Legge 104 del 1992 ed a carico dello Stato. La persona in situazione di disagio è titolare di un diritto soggettivo avente per oggetto l’apprestamento di tutto quanto necessario per superare (nei limiti del possibile) i limiti imposti dall’handicap. Ciò premesso, nella scuola la presenza di persone disabili impone l’apprestamento di piani di formazione e di sostegno dedicati e ciò tanto nella scuola pubblica che nella scuola privata. Trattandosi, però, di prestazioni ulteriori rispetto all’insegnamento in senso proprio e specificatamente finalizzato alla tutela della persona, esse non possono gravare sul bilancio della scuola privata quale impresa. Ove così non fosse, la scuola privata si troverebbe ad affrontare costi assolutamente imprevisti ed imprevedibili che rischierebbero di vanificare, e il concetto di parità tra il pubblico e il privato e soprattutto, la libertà di scelta delle famiglie. Infatti se i costi del sostegno del disabile dovessero essere sopportati dalla scuola privata essi dovrebbero essere “spalmati” sulle rette pagate da tutte le famiglie. In tal modo la scuola privata finirebbe per essere meno competitiva ed inevitabilmente uscirebbe dal mercato. Infine è da ribadire che il sostegno non è insegnamento in sé, quanto piuttosto è il supporto per rendere l’insegnamento fruibile e tanto costituisce un ulteriore argomento per ritenere che esso debba essere a carico dello Stato sia nelle scuole pubbliche che in quelle private. Neppure va trascurata, ai fini della decisione, la mancata costituzione del Ministero. Se è vero che nel nostro ordinamento la contumacia non assume significati particolari, diversa è l’ipotesi in cui sia convenuta un’Amministrazione obbligatoriamente assistita dall’Avvocatura dello Stato. In tal caso la mancata partecipazione al giudizio non può certamente qualificarsi in termini di disinteresse, né può essere la manifestazione dell’impossibilità di ricorrere al patrocinio di un professionista. Al contrario nella vicenda in esame, la contumacia dell’Amministrazione appare come la volontà di rimettere al altra Autorità la soluzione di una questione problematica. In concreto va, infine, rilevato che la parte attrice ha pienamente provato di aver fornito le prestazioni di cui reclama il rimborso. Il credito può, pertanto, essere riconosciuto nell’esatta misura richiesta con gli interessi legali a capitalizzazione annuale dalla domanda al soddisfo. Le spese processuali segnano la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo”.
Con questa sentenza, viene ribadito che lo Stato italiano, in quanto espressione della comunità nazionale, deve assumere forme di sostegno destinate non soltanto alle famiglie di alunni portatori di handicap ma anche alle scuole paritarie che con sempre maggiore incidenza aggregano disabili nel processo educativo e formativo, e ciò garantendo per tutti – famiglie e scuole – l’effettività dei diritti che sono patrimonio della nostra civiltà.
Evidenziamo infine la piena soddisfazione per il successo ottenuto che vede riconosciuto un importante diritto, esito di una battaglia sostenuta con tenacia e lungimiranza da parte di un’Agesc attenta e sempre più convinta dei principi ispiratori che la caratterizzano.


ECCESSI POLEMICI/PRIME AUTOCRITICHE - ZITTIRE IL PAPA IN NOME DI UNA SACCENTERIA IPOCRITA - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 18 aprile 2009
C’ è voluto un mese, ma alla fine una cre­pa s’è aperta. E sta lasciando filtrare i primi squarci di verità dalla colata di asser­zioni indimostrate e di scandalizzati pregiu­dizi gettata addosso alle parole di Benedet­to XVI sull’Aids in Africa. Parole ragionevoli e documentate, delle quali è stata data una «presentazione talvolta eccessivamente sem­plicistica e affrettata», e che invece «merita­no di essere restituite nella loro complessità». Detto dal ministro degli Interni francese Mi­chèle Alliot-Marie – in una lettera al presi­dente dei vescovi d’Oltralpe resa nota ieri da
Le Figaro – suona come una clamorosa scon­fessione postuma dell’indignata critica mos­sa a caldo dallo stesso governo di Parigi, che aveva definito addirittura «criminale» quan­to detto dal Pontefice. Un cambiamento di rotta mica da poco.
Davanti a questo vertiginoso dietrofront è i­nevitabile che si apra più di una domanda at­torno a una vicenda in cui la saccenteria di chi si crede sempre dalla parte della ragione quando l’interlocutore è la Chiesa s’è intrec­ciata all’ipocrisia di certo laicismo anticat­tolico, anche nostrano, che ha preferito strac­ciarsi le vesti anziché guardare in faccia il fal­limento di politiche anti-contagio (non solo in Africa) basate sul solo uso del preserva­tivo. Erano i fatti a e­sigere che i dubbi a­vanzati dal Papa su scelte rivelatesi illuso­rie andassero sotto­posti a un confronto con la realtà. Ma la fa­tica di quella illumini­stica verifica non è stata fatta, forse sa­pendola esposta al ri­schio di far affiorare perplessità su un as­sioma indiscutibile della cultura egemo­ne come la libertà ses­suale. Si è così lasciato che il furore polemi­co montasse fino a diventare una valanga i­narrestabile, col chiaro intento di usare uno degli ormai troppi tabù della post-moder­nità per costringere Benedetto XVI nella par­te del cattivo globale. Un’operazione pateti­ca che ha subito mostrato il proprio «chiaro intento intimidatorio – come ha rilevato sempre ieri una ferma nota della Segreteria di Stato vaticana – quasi a dissuadere il Pa­pa dall’esprimersi in merito ad alcuni temi, la cui rilevanza morale è ovvia, e di insegna­re la dottrina della Chiesa». Che il destinata­rio di quest’affermazione sia nientemeno che il Parlamento di un Paese che passa per cattolico come il Belgio, estensore di una in­credibile risoluzione di condanna del Santo Padre, è solo un elemento in più nel grotte­sco brogliaccio di questo caso politico-me­diatico.
Il 17 marzo sul volo papale verso il Camerun a un giornalista francese che definiva «non realistica e non efficace» la posizione della Chiesa sul virus, il Papa replicò pacatamen­te che il dramma dell’Aids «non si può su­perarlo con la distribuzione di preservativi» che, «al contrario, aumentano il problema». Da allora numerose voci – a lungo pressoché silenziate – di veri 'innamorati' dell’Africa si sono sforzate di mostrare dati alla mano che il ricorso esclusivo al profilattico non ha af­fatto arrestato l’epidemia, come si continua a far credere. Il 10 aprile persino Le Monde,
che pochi giorni prima aveva accusato il Pa­pa di «insopportabile cinismo», si è piegato a ospitare l’intervento di alcuni uomini di scienza nel quale si spiega con semplice buon senso che «se la gente si sente sicura al cento per cento ha la tendenza a correre ri­schi maggiori», e che solo «astinenza e fe­deltà » hanno mostrato di poter risparmiare vite umane.
È dunque l’«umanizzazione della sessualità» illustrata da Benedetto XVI la chiave per fre­nare la proliferazione del contagio, non il via libera irresponsabile a qualsiasi comporta­mento. Per intuire il realismo di quelle parole era sufficiente essere «veri amici dell’Africa», come appuntava la nota vaticana. Solo da­gli amici di un continente senza pace sono state «capite e apprezzate» le «considerazio­ni di ordine morale sviluppate» dal Papa. Chi si vuole unire a questi coraggiosi?


LA COLLETTA NELLE CHIESE PER DAR CARNE ALLA SPERANZA - Una mano ai nostri fratelli che ricominciano da capo - MARINA CORRADI – Avvenire, 18 aprile 2009
È una questione di speranza. La colletta per i terremotati d’Abruzzo che verrà fatta domani in ogni parrocchia d’Italia è una questione di speranza. Non semplicemente di soldi – per quanti ne occorrano, e molti, per ridare una casa a ventimila senzatetto, una sistemazione provvisoria a chi attende di riparare le tracce degli artigli del terremoto, o una chiesa a chi prega in una tenda. La mano che verrà tesa ai fedeli italiani, a messa, chiede un aiuto concreto, eppure domanda anche altro. Domanda un segno: un essere accanto a queste popolazioni di una regione chiusa tra le montagne, non ricca, una terra da cui da sempre si emigra. Terra spesso rimasta antica. Terra che non ha perduto la sua memoria (su quante, delle pareti in bilico sulle case sventrate, in questi giorni abbiamo visto ancora appese quelle immagini sacre che nelle nostre case moderne ignoriamo). Solidarietà, dunque, certo. Ma perché, una questione di speranza?
Per dirlo dobbiamo ricorrere alle parole che abbiamo sentito, nelle tendopoli, accanto alle rovine, da preti, suore, semplici cristiani. Perché un giornalista arriva da Milano, sa di avere intatta la sua casa, i suoi figli, e davanti a chi ha perso tutto prova quasi una imbarazzata vergogna. Domandi allora, come abbiamo chiesto noi a una suora con i capelli grigi, a Collemaggio, sfollata da un convento duramente lesionato: e adesso? La vostra casa, la vostra scuola, e ora? E quella con i suoi sessant’anni, quieta, risponde: «Se Dio ci ha tolto tutto, significa che vuole che ricominciamo da capo». Semplice, parrebbe quasi (ma quanto atrocemente difficile per noi, gente normale, che fa conto su ciò che possiede). Dio, ci han detto a Collemaggio, vuole che ricominciamo da capo.
Fede antica, ti dici allora, fede d’altri tempi e d’altre generazioni, mormori tra di te andandotene. Ma poi incappi in un altro, un prete del Sud venuto qui a aiutare, don Pasquale, trent’anni e una faccia da ragazzo. Anche a lui chiedi conto, chiedi ragioni davanti a tanto dolore, nelle tende di Onna, il paese della strage. «Un vecchio, ieri – risponde lui – mi ha detto: questo, è un castigo. Non è vero, gli ho risposto. Tutto questo strazio, deve essere per un bene più grande».
(Che è, declinato in poche parole sotto a una tenda, nel freddo di una sera d’Abruzzo, concetto agostiniano: ogni male, è per un bene più grande).
Memoria cristiana, fede ereditata. Ma sentire parlare così uno che potrebbe quasi essere tuo figlio, credeteci, meraviglia e commuove. Come commuove il giovane prete polacco, parroco di Arischia, sull’Appennino, che all’alba di quel lunedì è tornato nella sua chiesa disastrata e pericolante, per portare in salvo le ostie consacrate.
C’è una speranza in Abruzzo, nella chiesa di Abruzzo e nella gente che in questi giorni vedevi a messa, senza che fosse domenica, attorno ad altari improvvisati sulle cucine da campo. La terra li ha traditi, la casa li ha traditi, e in molti hanno addosso un lutto lacerante – un figlio, un padre che non hanno fatto in tempo a salvare. Eppure, più che rabbia, più che ribellione, vedi qualcosa che sembra ora una percossa ma tenace fedeltà, ora un tenere duro da roccia, ora, come in quella suora, in quel prete, una speranza certa. Qui hanno bisogno di case, di scuole, di tutto, e per questo domani nelle chiese verrà stesa la mano.
Ma nel ricostruire, nel ridare – almeno ciò che umanamente può essere ridato – c’è il senso dell’alimentare e abbracciare la speranza di un popolo. «Da questo male, un bene più grande», è il respiro che abbiamo ascoltato in Abruzzo. La speranza degli uomini è fatta anche di case, mattoni, fabbriche. La speranza è anche carne, e va nutrita (anche in tempi stretti, di crisi, ci viene detto: qualcuno è più povero). Occorre dare un segno.
Laggiù ci credono: «Dio, vuole che ricominciamo da capo».


Legge 40, «salvati» 120mila embrioni - Più garantita anche la salute della donna - DA ROMA PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 18 aprile 2009
In tre anni (2005-2007) evitata la morte di 120 mila embrioni. Questo uno dei risultati più importanti della legge 40 sulla pro­creazione medicalmente assistita (mpa), in base al 2° rapporto del Movimento per la vita (Mpv) sul­l’attuazione della norma. Il qua­dro tracciato dal rapporto si basa sulla lettura dei dati ufficiali del mi­nistero della Salute e della Società europea di riproduzione e di em­briologia (Eshre).
Finora gli effetti della legge sono stati per lo più misurati sul piano di uno solo dei due scopi del prov­vedimento (il superamento della sterilità e dell’infertilità): «que­st’anno - ha osservato il presiden­te del Mpv, Carlo Casini – la esa­miniamo sotto il profilo dei diritto alla vita del concepito, sancito dal­l’articolo 1 insieme ai diritti di tut­ti gli altri soggetti coinvolti».
Sulla base dell’ipotesi, fon­data sul rapporto stabilito per il 2007 fra ovociti non utilizzati (un gran numero secondo le relazioni del ministro Livia Turco), ovo­citi non idonei e embrioni ottenuti dagli ovociti ido­nei, si può calcolare che nel triennio 2005-2007 la cifra totale degli embrioni che avreb­bero potuto essere prodotti in so­prannumero è 121.869 (e manca­no i dati di quasi dieci mesi del 2004). Si tratta di vite umane che a­vrebbero potuto essere soppresse o per distruzione diretta o per con­gelamento, morti che invece la leg­ge 40 ha evitato. «Il paradosso è che i sostenitori della legge 194 sull’a­borto sostengono che la paternità responsabile si realizza evitando il concepimento, mentre per la pma gli stessi affermano la libertà di ge­nerare embrioni senza limiti, an­che se poi vengono destinati alla morte», ha evidenziato Casini, sot- tolineando comunque che la pro­creazione assistita resta nell’am­bito di tecniche in sé gravate da ri­serve etiche anche quando gli em­brioni sono tutti trasferiti in utero. Il presidente del Mpv ha indicato anche ciò che «non sarebbe avve­nuto se la normativa fosse stata ap­provata prima». Per esempio 5.349 embrioni sono morti per effetto di scongelamento nel quinquennio 2003-2007, ma si tratta di un resi­duato della crioconservazione an­teriore alla norma.
Dal confronto con altri Paesi e­merge inoltre che sono diminuite le sindromi da iperovulazione (0,44% nel 2007 in Italia, contro l’1,2% della media europea). Effet­to, secondo Casini, «di stimolazio­ni dolci, meno pericolose delle sti­molazioni severe, possibili quando non sia posto un limite alla crea­zione di embrioni e quindi al pre­lievo di ovociti». Il rapporto smentisce quanto di so­lito affermato dai critici della leg­ge, cioè che con il limite di tre em­brioni la percentuale di successo è scarsa, quindi la donna è con­dannata a sottoporsi ad ulteriori stimolazioni. Questa tesi è con­traddetta non solo dalla diminu­zione delle sindromi di iperovula­zione, ma anche dal fatto che la probabilità che la donna nella fe­condazione in vitro si debba più volte sottoporre a trattamento i­perovulatorio e prelievo, è andata calando. Si passa dal 30,5% dei ci­cli e dal 14,3% dei prelievi del 2003 al 20,6% dei cicli e al 7% dei prelievi nel 2007, in netta controtendenza con quanto accade nell’insemina­zione semplice, che non produce embrioni in provetta, dove la sti­molazione plurima è andata cre­scendo (20,4% nel 2005 e 34,7% nel 2007). Ed in contrasto anche con quanto avviene nella pma in altri Paesi. «Grazie alla legge, con po­chi ovociti prelevati, che esigono una somministrazione di farmaci più modesta, meno rischiosa per la donna, si possono ottenere em­brioni più vitali», ha spiegato il pre­sidente del Mpv. Quanto al 'successo' in termini di gravidanze e parti, la percentuale in Italia è andata migliorando. An­che se è vero che i dati percentua­li di altri Paesi europei sono mi­gliori, ma bisogna tener conto del fatto che, già nel 2003, il nostro Paese, prima della legge 40, si tro­vava al 24° posto tra trenta nazio­ni, con riferimento alla percen­tuale di parti per trasferimento da Fivet e al 20° per trasferimento da Icsi. La percentuale di suc­cesso è poi migliorata nel nostro Paese, nonostante due fattori che rendono meno vantaggiose le con­dizioni. L’Italia ha il record assoluto e percentuale per numero di centri che effet­tuano la pma: «Questo si­gnifica che sono numerosi i pic­coli centri che non hanno l’espe­rienza sufficiente per raggiungere le percentuali di successo che sa­rebbero auspicabili». Un altro fat­tore che rende difficile il successo della pma nel nostro Paese è che il numero di donne ultratrentacin­quenni è andato crescendo nel tempo fino a raggiungere nel 2007 il 65,1% mentre nel 2003 era del 56,4%. In Francia la percentuale è del 38,5%. L’Italia è in seconda nel­la classifica europea per anzianità delle donne che ricorrono alla p­ma, preceduta soltanto dal Mon­tenegro.
In vista della pubblicazione della motivazione della sentenza della Corte costituzionale, che nel di­spositivo tra l’altro ha dichiarato illegittimo il limite di tre embrioni prodotti, Casini ha sottolineato che il rapporto vuole essere «comun­que uno stimolo ad una riflessio­ne, affinché qualunque cosa affer­mi la Consulta si continui ad ap­plicare le regole della legge 40 co­me più scientificamente e etica­mente accettabili. In ogni modo non ci può essere un obbligo a pro­durre più di tre embrioni. Già pri­ma della legge moltissimi centri non superavano quel limite».
Carlo Casini: analizziamo i dati sotto il profilo del diritto alla vita del concepito, che è uno degli scopi della norma, come sancisce l’articolo 1 Smentito che il limite dei tre embrioni riduca il successo Invece crescono gli esiti positivi nonostante l’età delle donne aumenti


La sharia sbarca anche in Olanda: a teatro posti separati per le donne - DA AMSTERDAM – Avvenire, 18 aprile 2009
La sharia è “sbarcata” in Olanda. A Rotterdam, piegandosi a presun­te prescrizioni della legge islami­ca, un’intera balconata in un teatro è stata riservata alle sole donne. La deci­sione nasce da un’iniziativa del comico di origine marocchina, Salaheddine Benchikhi, che ha formulato la sua ri­chiesta alla direzione del teatro Zuid­plein, dove si svolge il suo spettacolo, ed è stato accontentato. Alle donne sono state così riservate le prime cinque file della balconata, e cioè 50 posti su un to­tale di 590. Salaheddine, 29 anni, è noto per la sua opposizione all’integrazione dei mu­sulmani nelle società occidentali, un te­ma al quale aveva dedicato la serata. Il tutto in una città dove la quota di resi­denti di origini non olandesi supera il 40%. E che da febbraio ha un sindaco di origine marocchina, Ahmed Aboutaleb. La vicenda ha scatenato violente pole­miche, avviate dalla destra populista o­landese. Ma il Consiglio municipale ha difeso la scelta: «Secondo i nostri valori occidentali – è stato spiegato – la libertà di vivere la propria vita in funzione del­le proprie convinzioni è un bene prezio­so ». E così ha fatto un portavoce del tea­tro: «Siamo un teatro popolare rivolto a persone con un livello di istruzione non elevato. È difficili farli venire a teatro, per questo siamo pronti ad adattarci».
Il governo olandese, invece, non è d’ac­cordo. Il ministro dell’Interno, Eberhard van der Laan, ha definito «inaccettabile» creare file di posti riservati alle donne in un teatro che per di più è finanziato dal Comune e dallo Stato. Secondo il mini­stro, si tratta di una violazione della leg­ge sul diritto sull’eguaglianza dei tratta­menti.
Polemiche sull’integrazione anche in Francia. Il tribunale di Tolosa ha infatti giudicato «legittima» la decisione dell’U­niversità di Tolosa-III di interrompere il contratto di ricercatrice a una giovane francese, Sabrina Trojet, 25 anni, per la sua perseveranza, nonostante i nume­rosi richiami, «nel voler portare il velo. La giovane si era rivolta al tribunale per l’annullamento della decisione dell’ate­neo.
( R.E.)


«Divina Misericordia» il volto della speranza - Domani si celebra la festa voluta da Papa Wojtyla. - Il rettore di Santo Spirito in Sassia, a Roma, don Bart: «Compendio del messaggio di salvezza» - DA ROMA GIULIA ROCCHI – Avvenire, 18 aprile 2009
Raggi rosa, arancioni e azzurri sgorgano dal cuore di Cristo. Il passo è appena accennato. Lo sguardo dolce, diretto a chi guarda. È l’immagine di Gesù misericordioso, di­pinta seguendo le indicazioni di santa Faustina Kowalska, che, proprio insie­me a quella della santa polacca, è affissa sulla facciata della chiesa di Santo Spi­rito in Sassia, a Roma. Accanto, sul lato destro del portone, il volto di Benedetto XVI. E sotto la frase pronunciata dal Papa il 6 aprile dello scorso anno, a conclusione del primo Congresso apostolico mondiale della Divina Misericordia: «Andate e siate te­stimoni della misericordia di Dio, sor­gente di speranza per ogni uomo e per il mondo intero». Nella chiesa di via dei Penitenzieri, a pochi passi da San Pie­tro, è tutto pronto per celebrare, do­mani, la Domenica della Misericordia – la prima domenica dopo la Pasqua – istituita da Giovanni Paolo II.
«La festa quest’anno coincide con il quarto anniversario di elezione di Be­nedetto XVI – ricorda don Joseph Bart, rettore di Santo Spirito in Sassia –. Men­tre, nel 2007, il Santo Padre compì ot- tant’anni proprio nella Domenica del­la Misericordia». Si intrecciano le date e gli anniversari, attorno alla celebra­zione. «Per la giornata di domani la Chiesa italiana ha indetto la colletta straordinaria per i terremotati in A­bruzzo – sottolinea il sacerdote –; così si compie una concreta opera di mise­ricordia e carità». E ancora: «Non è un caso che Giovanni Paolo II, definito da Papa Ratzinger 'vero apostolo della mi­sericordia' e autore dell’enciclica Dives in misericordia (1980, ndr), sia 'torna­to alla casa del Padre' proprio alla vi­gilia di questa festa». Per l’occasione il cardinale Agostino Vallini celebrerà – domani alle 9,30 – la Messa a Santo Spirito in Sassia, che o­spita il Centro di spiritualità della Di­vina Misericordia. «Quest’anno è una grazia particolare avere con noi il vica­rio dell’Urbe – osserva don Joseph – perché la nostra chiesa è profonda­mente romana. Giovanni Paolo II, quando nel 1994 la scelse come sede del Centro, consegnò questo culto alla diocesi capitolina». Quindi, al termine della liturgia, i fedeli si sposteranno nel­la vicina piazza San Pietro, per parteci­pare, idealmente, al Regina Coeli di Be­nedetto XVI, che verrà recitato da Ca­stel Gandolfo. «Una nostra rappresen­tanza sarà anche lì», assicura il rettore. «La Divina Misericordia è il compendio del messaggio della salvezza – spiega poi don Joseph – ed esplode con parti­colare forza grazie a santa Faustina, che ebbe delle visioni di Gesù misericor­dioso. Fu Lui a chiederle di far dipingere l’immagine con i raggi che partono del Suo cuore». Dalla Polonia il culto si è diffuso, anche in seguito alla canoniz­zazione della beata, il 30 aprile del 2000 ad opera di Papa Wojtyla. E oggi sono sparsi in tutta Europa i devoti alla Di­vina Misericordia. Per la festa di domani si attendono pul­lman da diverse zone d’Italia, dalla Francia, dalla Spagna, dalla Germania. «Come ogni anno – anticipa don Bart – apriremo il portone alle 5,30 perché c’è chi aspetta fin da prima dell’alba. I­noltre, per consentire a tutti di seguire la liturgia, monteremo un maxischer­mo nello spazio antistante la chiesa». Per i fedeli della Polonia verrà celebra­ta la Messa in polacco alle 16, come av­viene tutte le domeniche. Domani alle 15, come sempre, si celebrerà l’Ora del­la Misericordia. «Il Centro di spiritualità accoglie quo­tidianamente numerosi fedeli – rac­conta infine il sacerdote –. In tanti in­vocano la misericordia di Dio e offro­no a Lui le loro sofferenze; c’è chi arri­va dai vicini ospedali, come il Santo Spi­rito e il Bambino Gesù, per fermarsi a pregare». Chiedono una grazia al Si­gnore e poi tornano per lasciare un og­getto personale nel Santuario. Nella cappella si vedono gli ex voto, segni di drammi ormai passati, di storie con­cluse con un lieto fine. «A Santo Spiri­to in Sassia celebriamo pure molti ma­trimoni – testimonia don Joseph – e non solo perché è una bella chiesa del centro. Ogni coppia che si sposa qui viene consacrata alla Divina Miseri­cordia ».


la storia - Nel 1931 Il Signore apparve per la prima volta a una giovane suora polacca. Con uno straordinario messaggio d’amore - Così Gesù si manifestò a Faustina – Avvenire, 18 aprile 2009
«O mio Gesù, io desidero rispecchiare il Tuo cuore compassionevole e pieno di misericordia... La tua misericordia, o Gesù, sia impressa nel mio cuore e nella mia anima come un sigillo, e ciò sarà il mio segno distin­tivo in questa e nell’altra vita». Così pregava suor Faustina, al secolo Elena Kowalska, nel monastero di Plock delle Suore della Congregazione del­la Beata Vergine Maria della Miseri­cordia. Qui, la sera del 22 febbraio 1931, mentre si trovava nella sua cella, le apparve per la prima volta la fi­gura di Cristo con indosso una veste bianca, due raggi colorati all’altezza del cuore. «Dipingi un’immagine se­condo il modello che vedi», le disse Gesù, come annotò santa Faustina nel suo diario.
Fu solo la prima di una lunga seria di visioni, di cui la giovane suora – nata nel 1905 da una famiglia contadina a Glogowiec, in Polonia – ha lasciato te­stimonianza. Nel corso di questi in­contri Cristo parlò a santa Faustina e le insegnò a pregare secondo la Co­roncina della Misericordia. «Figlia mia – così Gesù si rivolse a lei – se per tuo mezzo esigo dagli uomini il culto del­la mia misericordia, tu devi essere la prima a distinguerti per la fiducia nel­la mia misericordia. Esigo da te atti di misericordia, che debbono derivare dall’amore verso di me. Devi mostra­re sempre e dovunque la misericordia verso il prossimo: non puoi esimerti da questo, né rifiutarti né giustificar­ti ». E davvero suor Faustina fu fedele alle richieste del Signore, non rispar­miandosi nella carità e nell’assisten­za. Le fatiche finirono per minarne ancora di più la salute già cagionevo­le, tanto da portare la Kowalska alla morte, nel 1937. Il 18 aprile del 1993 è stata beatificata a Roma da Giovan­ni Paolo II. «La missione di santa Fau­stina sta portando frutti sorprenden­ti – disse Papa Wojtyla in quell’occa­sione –. È meraviglioso il modo in cui la sua devozione a Gesù misericor­dioso si fa strada nel mondo contem­poraneo e conquista tanti cuori u­mani ». Devozione che si è propagata ancora di più dopo il 30 aprile 2000, giorno della sua canonizzazione. Su­gli altari anche il confessore e direttore spirituale di Faustina, Michal Sopocko (1888-1975), beatificato il 28 settem­bre 2008 a Bialystok, in Polonia.
Giulia Rocchi


IL CASO. Da lunedì a Roma un convegno sulla grande scrittrice americana. Caustica, insofferente verso la banalità, odiava l’«happy end» a tutti i costi - Flannery O’Connor, parole che bruciano - Cattolica, intransigente, per lei il vero narratore affronta il mondo senza far finta che tutto abbia un lieto fine. La qualità di un racconto, diceva, non è data dai buoni sentimenti, ma dalla quantità di «vita sentita» - DI DAVIDE RONDONI – Avvenire, 18 aprile 2009
C’è una donna terribile e affascinante nella letteratura contemporanea. Uno di quei tipi che ti andrebbe veramente di incontrare per farci due chiacchiere, sapendo che mai la darà vinta ai luoghi comuni. Una che non poteva indulgere a niente che non fosse, persino nel lampo estremo di gioia o di terrore, essenziale. Una che trafficava col grottesco e con Dio. E che aveva alcune idee decisamente controcorrente. Sapeva di averle, non si stupiva se era arduo trovare sostenitori. Ma non era il tipo di scoraggiarsi. Del resto, la tenacia non doveva mancare a una che da ragazzina aveva insegnato a un pollo a camminare all’indietro e che era malata di un terribile male che la spense a 39 anni dopo una vita artisticamente fertilissima.
Flannery O’Connor è un nome che ormai circola diffusamente.
Non solo perché a lei, concittadina di Oliver Hardy (il mitico Olio della coppia di comici) hanno reso tributo il cinema di Houston, la penna di Carver, e la musica di diversi rocker americani. Non solo perché senza O’Connor probabilmente non avremmo Cormac McCarthy. E non solo perché certi lettori dalla mente a radar – come Bertolucci – parlarono di lei in Italia ben prima che gli importanti studi o gli interventi di Elisa Buzzi, di Antonio Spadaro, di Ottavio Fatica (suo traduttore, come M. I. Caramella) di Luca Doninelli, di Andrea Monda e di Carola Susani arrivassero a illustrare questo profilo. Il suo nome gira perché i suoi racconti, per così dire, ti lasciano sul posto. A fissare l’aria o chissà cosa davanti alla sedia dove sei stato a leggere. Ti sembra di aver visto qualcosa. Per lei un racconto deve avere innanzitutto una qualità di visione. Del resto, diceva, «Per lo scrittore di narrativa tutto trova verifica nell’occhio». E aggiunge altrove che l’occhio è «organo che alla fin fine implica l’intera personalità, e quanto più mondo riesce a contenere. Implica il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine nell’atto di visione, e quando non parte da lì, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferisce nel racconto».
L’occhio ha radici nel cuore, secondo Guardini. «Comunque sia, per il cattolico si diramano addirittura fino a quelle profondità del mistero rispetto alle quali il mondo moderno è diviso: una parte cercando di rimuoverlo, mentre l’altra cerca di riscoprirlo in discipline che, dalla persona, pretendono meno della religione». Non amava la teoria intorno all’arte – che chiamava, con san Tommaso, 'ragione in atto', subito osservando quanto nella nostra epoca il termine ragione ha sofferto una restrizione. I racconti della O’Connor, cattolica e molto attenta nell’indagare i rapporti tra fede e narrativa, spesso non finiscono bene. Non sopportava il fatto che molti lettori, compreso il lettore medio cattolico, si aspettassero dei finali consolatori. Non sopportava il dolciastro.
Come non lo aveva sopportato Péguy. Lo scrittore, diceva lei, racconta il mondo che è senza far finta di non vedere che molte cose finiscono male, ma, se dotato di un certo senso del mistero, vedrà come nelle vicende agisca il misterioso dramma di apertura o chiusura alla grazia. E la qualità morale di un racconto, osservò più volte, non sta in tesi o in fervorini esposti, ma in quel che Henry James chiamava quantità di «vita sentita», percepibile drammaticamente nella storia.
Questi furono alcuni dei motivi che spinsero don Giussani, studioso del protestantesimo americano, ad accogliere nella collana che dirigeva presso Rizzoli il volume a oggi più venduto della O’Connor in Italia: un’antologia di racconti e di scritti, La schiena di Parker. Lei non sopportava molte cose: gli scrittori sciatti, per esempio. A chi le chiedeva se le scuole di scrittura e i corsi universitari non avessero tarpato le ali a troppi aspiranti scrittori, rispondeva che l’avevano fatto a troppo pochi. E dei suoi contemporanei della beat generation osservò acutamente la componente spirituale del movimento, accusandola di essere al proposito 'facile', incline a misticismo a basso costo. Al proposito ebbe un’intuizione geniale quando disse che l’interesse di molti alle pratiche orientali si deve al fatto che un cristianesimo senza centralità dell’incarnazione e senza Chiesa somiglia parecchio allo zen. E che se il protestantesimo avesse avuto forme monacali probabilmente queste avrebbero attirato l’attenzione che invece deviò sullo zen. La sua attenzione ironica (e davvero allegra, direi, d’un’allegria da santi, da traversatori del 'territorio del diavolo') e la l’acutezza del suo sguardo rendono memorabili alcuni dei suoi racconti. Incisi nel cuoio del cuore, e nel legno delle anime che si lasciano segnare.