martedì 28 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Carrón: la fede come metodo per l’esistenza - In 26mila a Rimini per gli esercizi spirituali della Fraternità di Cl Rilanciata la sfida del Papa e di Giussani contro la separazione tra fede e ragione - DI GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 28 aprile 2009
2) TERREMOTO ABRUZZO/ Cora: ho perso moglie e due figlie, ma sono convinto che tutto ha un senso - Redazione - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
3) LETTURE/ La "coscienza” di Ratzinger contro il falso mito dello Stato neutro - Renato Farina - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
4) “Gesù Cristo: mito o storia?” - A Salerno, Andrea Tornielli sulla storicità di Cristo e dei Vangeli - di Fabio Piemonte
5) Gesù Cristo: come è vero Dio e vero uomo? - Mons. Raffaello Martinelli, sacerdote della diocesi di Bergamo , ha realizzato alcune schede catechistiche su vari argomenti d‘attualità, a disposizione di quanti entrano nella suddetta Basilica. Ne sono state prese oltre 2.000.000 di copie, in circa due anni. Tutte le 50 schede catechistiche sono state raccolte e pubblicate in un tascabile, 50 Argomenti d’attualità – catechesi dialogica, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, come pure si ritrovano sul sito internet: www.sancarlo.pcn.net.
6) L'Ordine benedettino in festa con il suo nuovo santo - Bernardo Tolomei, canonizzato questa domenica - di Carmen Elena Villa
7) Contrapposizioni superabili tra scienza e teologia - La direzione finale del cosmo - Il 28 aprile presso l'istituto Veritatis Splendor si tiene una conferenza intitolata "La questione del finalismo nei processi della natura". Ne pubblichiamo alcuni stralci. - di Marc Leclerc -Pontificia Università Gregoriana Roma - L’Osservatore Romano, 27-28 aprile 2009
8) Riflessioni sulla «Dignitas personae» - Possibilità e limiti della terapia genica - di Kevin L. Flannery, s.i. - Professore di Filosofia, Pontificia Università Gregoriana, Roma - L’Osservatore Romano, 27-28 aprile 2009
9) La religiosa docente e ricercatrice di ostetricia e ginecologia - Anna Cappella al servizio della vita - di Cesarina Broggi – L’Osservatore Romano, 27-28 aprile 2009
10) SPAGNA/ Le ragioni per un manifesto contro l’aborto - Nicolás Jouve de la Barreda - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
11) SEVESO/ La Brianza chiama l’Abruzzo: nel disastro, la forza di ricostruire - Redazione - lunedì 27 aprile 2009 – ilsussidiario.net
12) POESIA/ Carlo Michelstaedter, la disperata ricerca di un significato per la vita - Laura Cioni - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
13) LIBERI PER VIVERE, NON MORIRE - L’ITALIA RINVIGORITA DA UN MOVIMENTO DI POPOLO - DOMENICO DELLE FOGLIE – Avvenire, 28 aprile 2009
14) «L’obiezione sempre un diritto» - DA MILANO – Avvenire, 28 aprile 2009


Carrón: la fede come metodo per l’esistenza - In 26mila a Rimini per gli esercizi spirituali della Fraternità di Cl Rilanciata la sfida del Papa e di Giussani contro la separazione tra fede e ragione - DI GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 28 aprile 2009
«Professore, è inutile che venga qui a insegnarci religione e a parlare di fede. Per fare scuola bisogna ragiona­re, e la fede non c’entra niente con la ragione, sono due rette sghembe che non s’incontrano mai». Nel 1954, ap­pena salito in cattedra per la sua pri­ma lezione al liceo Berchet di Milano, don Luigi Giussani era stato apostro­fato così da uno studente: mica male come inizio d’anno. E dalla decisione del giovane prete brianzolo di ri­spondere a quella sfida è nata l’espe­rienza di Comunione e liberazione, che scommette tutto sulla ragione­volezza della fede. A distanza di cin­quant’anni quella sfida (che Giussa­ni aveva profeticamente intercettato in un’Italia formalmente cattolica ma già minata dall’avanzata del secolari­smo) si è fatta molto più acuta. E ri­comporre la separazione tra sapere e credere, è la battaglia più ardua con cui oggi la cristianità si cimenta. Og­gi che le antiche sicurezze religiose sono crollate, oggi che la fede è ridot­ta a sentimento, a presidio morale di valori sempre meno praticati, a di­mensione che nulla c’entra con la co­noscenza.
Per tre giorni, da venerdì a domenica, don Julián Carrón – guidando gli an­nuali esercizi spirituali della Frater­nità di Comunione e liberazione da­vanti a 26mila persone convenute a Rimini da tutta Italia e in collega­mento via satellite con 63 Paesi – ha rilanciato la scommessa di Giussani: «Dalla fede il metodo» è stato il titolo della tre giorni. Di fronte alle sfide del­la vita – la crisi economica, la trage­dia dell’Abruzzo, la vicenda di Eluana Englaro e dell’eutanasia – abbiamo tutti bisogno di incontrare una diver­sità umana, nella quale il cristianesi­mo si rende incontrabile come avve­nimento, qualcosa che ri-accade og­gi come risposta alla domanda di fe­licità che abita il cuore di ognuno. Co­me ha di recente detto Benedetto X­VI, i cui interventi sono più volte riecheggiati in questi giorni di lavoro e di preghiera: «Nel mi­stero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto che Dio si è fatto uomo co­me noi, sta sia il conte­nuto che il metodo del­l’annuncio cristiano». La fedeltà a questo metodo scelto da Dio, argo­menta il presidente della Fraternità di Cl, rende testimoni della novità cri­stiana di fronte alla crisi generata dal­la frattura tra fede e ragione. E può rendere presente all’uomo di oggi – tanto apparentemente sicuro di sé nella rivendicazione della sua auto­nomia quanto smarrito e vittima di un’'anestesia dell’io', di una trascu­ratezza di sé – il volto misericordioso di Cristo.
La separazione tra il sapere e il crede­re, tra la ragione e la fede, non è frut­to soltanto di una dinamica esterna alla Chiesa. È un germe che si è insi­diosamente annidato nel suo stesso corpo, e ha reso il cristianesimo sem­pre più estraneo alle attese dell’uo­mo. Una realtà magari riconosciuta come fatto storico ma che non inci­de, non morde, in ultima analisi non conta. Carrón dice provocatoriamen­te che «è come se la fede avesse una data di scadenza». Cristo diventa un soprammobile da esporre nel salotto buono dei valori, piuttosto che una presenza viva incontrabile e a tutti proponibile. Un devoto ricordo, piut­tosto che una realtà che accade 'qui e ora'. Invece l’uomo ha bisogno di qualcosa che gli sia contemporaneo, che fondi la sua speranza. E per spe­rare, scrive Péguy, bisogna avere rice­vuto una grande grazia.
Perché il cristianesimo continui a es­sere un’attrattiva vivente servono te­stimoni credibili, gente che seguendo Gesù renda credibile che, come reci­ta il titolo del libro di Giussani che quest’anno guida la catechesi del Mo­vimento, Si può vivere così. Il cardi­nale Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i laici, inter­venuto sabato alla celebrazione eu­caristica, ha rilanciato l’ammoni­mento di Benedetto XVI: «Il cristia­nesimo non può essere ridotto a una morale, cristiani si è solo se si incon­tra Cristo. Per questo servono testi­moni che lo rendano incontrabile, e voi oggi lo siete».


TERREMOTO ABRUZZO/ Cora: ho perso moglie e due figlie, ma sono convinto che tutto ha un senso - Redazione - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il terremoto gli ha portato via la moglie, Patrizia, e le due figlie, Alessandra, di 22 anni, e Antonella, 27. Maurizio Cora, avvocato dell’Aquila, è l’unico ad essersi salvato. Alessandra era una giovane promessa della musica, hanno anche istituito un premio in suo onore. Se n’è andata subito, con la mamma, travolte dal primo crollo. Antonella no, ha lottato per un po’ tra la vita e la morte, in ospedale, ma poi neanche lei ce l’ha fatta. Maurizio è rimasto solo. Non ha più nulla, con la casa ha perso anche lo studio, ma lo troviamo intento al lavoro, fuori dell’Aquila. Risponde in modo pacato, sereno, apparentemente senza emozionarsi. Non è però distacco, ma un abbandono, fiducioso, a quello che non possiamo mutare.
Avvocato Cora, oggi a L’Aquila ci sarà la visita di Benedetto XVI. Dopo eventi così drammatici che l’hanno coinvolta personalmente, e che hanno travolto una città, famiglie, legami, rapporti, cosa si attende?
La visita del Papa è un grande conforto per quanti, come me, soffrono profondamente. Le sembrerà poca cosa ma altro, mi creda, non saprei dire. Sentire vicina la Chiesa in un momento come questo ci conforta nella fede e nella speranza che tutto questo comunque possa avere un senso.
Neanche sua figlia Antonella ce l’ha fatta. Lei è sopravvissuto ai suoi cari…
Sì purtroppo è così. Dico purtroppo perché sopravvivere ai propri figli e alla propria moglie è qualcosa di tremendo, di assolutamente tremendo. Ho perduto in un attimo gli affetti più cari. Ora rimane la dolcezza che non c’è più. È l’evidenza di una dolcezza che hai sempre percepito, ma quasi come sottofondo della tua esistenza. Ora ne senti la mancanza, ma senti anche la forza di questa dolcezza che non hai più.
È questo sentimento a darle la forza di andare avanti?
Se non ti agganci con la fede a Dio ma rimani sul piano del contingente, finisci per crollare. L’alternativa alla fede, per me, sarebbe la disperazione. Ora ringrazio il Signore per avermi regalato, per un pezzo della mia vita, Patrizia, Alessandra e Antonella. Persone meravigliose che mi hanno gratificato della loro presenza, del loro affetto, del loro sorriso. Ora non sono più con me, ma questa mancanza mi permette di constatare quanto grande era il dono che avevo ricevuto.
Lei ha perso la casa, lo studio, tutto. Ora ha ripreso a lavorare. Dove ha trovato la forza di ricominciare?
Sì, ho perso tutto. Questo naturalmente non è nulla rispetto alla scomparsa di mia moglie e delle ragazze. Ho trovato forza, come le dicevo, solo nella fede. Qui c’è ben poco da fare, umanamente parlando. Devi accettare, mi sono detto, come volontà di Dio quello che è accaduto.
Lei prega, dunque?
Sì, costantemente.
Tornerà dove ha sempre vissuto?
No. Penso che resterò in Abruzzo ma non all’Aquila, perché non ho una casa dove tornare e non vorrei ricostruirla là dove ho vissuto questi anni con mia moglie e le mie figlie. Sarebbe uno stillicidio di dolore. Non ce la farei e già adesso sono provato. Sarebbe una grandissima difficoltà andare avanti.
Come lei tanti altri suoi concittadini stanno lottando per tornare, lentamente ma con enorme fatica, alla normalità della vita e del lavoro. Cosa ha significato per lei questa prova?
In me non è cambiato nulla, sono così com’ero prima. Ma hai una visione molto più relativa delle cose, vedi in maniera chiara ciò che conta veramente nella vita, che sono gli affetti e non le cose. I drammi li comprendi soltanto nel momento in cui li attraversi, quando ti trapassano lo stomaco e vivi la tragedia. E la tendenza è quella di allontanarsi rapidamente dalla dimensione del dolore e della sofferenza mentre, invece di fuggirla, bisognerebbe parteciparla.
Una prova drammatica come quella che ha vissuto come interroga la sua ragione, la sua fede e la sua speranza? Che risposta si è dato alla domanda sul perché? Perché tutto questo?
Indagare il perché di quello che è accaduto sarebbe un atto di presunzione. Perché è successo non lo sappiamo, non è nelle nostre possibilità. A meno che non si confonda tutto questo con la spiegazione di un terremoto. Quanto dolore accade ed è puntualmente dimenticato? Io anzi mi considero un privilegiato, perché ho la possibilità di raccontare la mia storia e il mio dramma. Altre persone hanno vissuto, e stanno vivendo, drammi tremendi nel silenzio.
Lei ha detto prima che il Papa conforterà la speranza della gente. Cosa voleva dire?
Il papa non toglierà nulla alle sofferenze della gente, ma porterà un annuncio di speranza. Le sofferenze si stemperano dinanzi certezza della paternità divina e alla speranza che viene annunciata dal Vangelo. La lezione di tutto questo è che nella vita bisogna sempre operare per il bene, e fare il bene, perché Dio ci chiama da un momento all’altro e l’importante è essere in grado di poter stare davanti a Lui.
Nonostante il dramma che sta vivendo, lei dà comunque un’impressione di grande forza.
Mi viene solo dall’accettare la volontà di Dio. Quello che accade lo dobbiamo accettare. Io sono convinto nella fede che tutto ha un senso, e nel momento in cui l’esistenza si pone in questi termini va accettata comunque. Nel lavoro, nella nostra famiglia, siamo sempre stati aiutati dalla Provvidenza, alla quale ci siamo sempre affidati. Se non possiamo comprendere questo evento - e come potremmo? - possiamo soltanto accettarlo. E starci dentro mi fa condividere la situazione di tutti.


LETTURE/ La "coscienza” di Ratzinger contro il falso mito dello Stato neutro - Renato Farina - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Esce un nuovo libro del Papa, “Elogio alla coscienza dell’uomo” (Cantagalli), ed è una raccolta di lezioni scritte nel decennio scorso. Le persone attente non troveranno sorprese, erano lezioni già rintracciabili qua e là. Ma le persone davvero attente al mondo e alle domande che il nostro tempo lancia verso il cielo, anche quando crede sia vuoto, resteranno meravigliate. Perché Joseph Ratzinger ha sempre con sé la novità, l’incantevole certezza che il tempo è positivo, la ragione è capace di attingere addirittura Dio (è “capax Dei” come dice Agostino), avendo per sua misura l’infinito.
Questo libro ha un titolo preso dal cardinale Newman, il quale brindava prima alla coscienza e poi al Papa. Perché il primato prima che del Papa è della coscienza. Infatti senza l’io che giudica, che accetta, che obbedisce, dire di sì alla verità sarebbe un atto meccanico, in fondo stupido, indegno dell’uomo. Il razionalismo taglia via dalla ragione proprio la sua dimensione più interessante: l’apertura e il desiderio dell’infinito.
Inevitabile se si è uomini paragonate la proposta cristiana (qualsiasi proposta) alle nostre esigenze elementari, al cuore in senso biblico, alla coscienza. Non la coscienza comunque la si intenda, che viene fatta equivalere all’istinto, al piacere immediato, ma alla coscienza “retta”, purificata cioè dalle incrostazioni e dai veleni della cultura dominante
Evidente il legame che esiste tra le posizioni dottrinali ed esistenziali di Benedetto XVI e quelle di don Giussani. Così come saranno di grande interesse le riflessioni sul rapporto tra laicità e Stato, sulla difesa della vita, sulla politica che questo libro offrirà a chi voglia cimentarsi con la logica incantevole di Ratzinger teologo e filosofo, non a caso oggi Papa. Il suo tentativo è quello di dare alla dottrina una sua stabilità cattolica, contro il “fumo di Satana” e il “pensiero non cattolico” che secondo Paolo VI era penetrato nelle mura della Chiesa. Ma questa dottrina non è qualcosa da mettere in bacheca o in biblioteca, è una riflessione sull’esperienza, ad essa si lega e ad essa rimanda.
Interessante una affermazione di Ratzinger posta alla base delle considerazioni politiche, come anticipato dalle agenzie: «Lo Stato non è di per sé fonte di verità né di morale», si legge nel testo. Questo concetto riprende in chiave post-moderna il “Sillabo” di Pio IX, là dove viene condannata la proposizione secondo cui sarebbe lo Stato la fonte del diritto.
Da questa impostazione viene eliminata la pretesa di uno Stato etico, che – tradotto in termini moderni – pretende di sancire con una tavola dogmatica dei diritti umani vecchi e nuovi i soggetti degni di partecipare alla libertà democratica, tra cui non può esserci la Chiesa cattolica perché ritiene che non sia un diritto umano, ad esempio, il matrimonio gay (ho personale amara esperienza di questa discriminazione della Chiesa al Consiglio d’Europa). Ma anche viene demolito il falso mito dello Stato neutro. Non può essere neutro, la politica non può promuovere una vuota libertà, non si può essere pilateschi davanti al bene e al male…
Che questo libro non sia una teoria lo si capisce guardando il Papa oggi. Va in Abruzzo, condivide la vita degli uomini. Obbedisce alla sua coscienza di uomo: guarda la realtà e vi si immerge commuovendosi alla maniera di Cristo dinanzi alla vedova di Naim. Non c’è distanza tra riconoscimento del vero e mossa della carità: appartengono all’unico movimento umano. La verità su cui si regge l’universo non è una formula appresa sui libri, ma una persona che – questa è la pretesa cristiana – è risorta ed è contemporanea, come dimostra lo sguardo del Papa e la sua carezza ai bimbi terremotati, così differente ma così identica a quella del Nazareno, così egualmente bella e commossa.



“Gesù Cristo: mito o storia?” - A Salerno, Andrea Tornielli sulla storicità di Cristo e dei Vangeli - di Fabio Piemonte
ROMA, lunedì, 27 aprile 2009 (ZENIT.org).- Si è tenuta a Salerno il 23 aprile, in una gremita Aula Magna del Convento dell’Immacolata, una conferenza del giornalista Andrea Tornielli, organizzata dall’Associazione culturale salernitana “Veritatis Splendor”, sul tema: “Gesù: mito o storia?”.
Il vaticanista e inviato speciale de “Il Giornale” è anche autore di numerosi saggi sull’argomento, tra cui “Inchiesta su Gesù Bambino”, “Inchiesta sulla Risurrezione”, “Processo al Codice da Vinci”, nonché di una documentata biografia di Pio XII, pubblicata di recente negli Oscar Mondadori.
Andrea Tornielli, dopo una breve introduzione del prof. Marco Di Matteo, presidente dell’Associazione “Veritatis Splendor”, ha esordito affermando che nessuno studioso serio ormai mette più in dubbio la storicità di Gesù di Nazareth, confermata fra l’altro anche dagli “Annales” dello storico latino Tacito, mentre ancora viene messa in discussione l’attendibilità dei racconti evangelici.
Successivamente si è soffermato ad evidenziare la coerenza intrinseca di questi racconti, che non si può ritenere siano stati inventati di sana pianta da una setta ebraica misticheggiante del II sec. d.C., altrimenti non sarebbe spiegabile perché gli evangelisti abbiano dato al loro protagonista il nome più diffuso nella Palestina dell’epoca, e ancora perché abbiano posto come primi annunciatori della nascita di Cristo e come prime testimoni della sua risurrezione rispettivamente i pastori e le donne, le categorie più disprezzate nel mondo ebraico del tempo.
Ma basterebbe anche solo ricordare, come ulteriore prova della veridicità dei Vangeli, l’episodio del rinnegamento di Pietro, e domandarsi semplicemente per quale ragione i diversi autori non abbiano omesso nemmeno quest’infamante vicenda che ha come protagonista colui che sarebbe poi divenuto il vicario di Cristo sulla terra.
Non si troverà altra risposta possibile che l’esigenza di raccontare tutta la verità, una verità tra l’altro confermata più volte anche dalle recenti scoperte archeologiche: basta richiamare la pietra rinvenuta a Cesarea marittima con l’iscrizione del nome del procuratore Ponzio Pilato e la piscina con i cinque portici di Betzaeta, ritrovata conforme alla descrizione che ne fa Giovanni nel suo Vangelo (Gv 5).
D’altronde, l’unica caratteristica richiesta per poter essere considerati discepoli autentici è semplicemente l’esser stati testimoni oculari della vita pubblica di Gesù (At 1,21). Ecco perché non possono meravigliare neppure le apparizioni del Risorto, che non sono descrizioni di visionari, perché colui che ha una visione non dubita di essa, anzi proprio nell’atto stesso del suo manifestarsi la ritiene profondamente vera, cosa che invece non accade ai discepoli che dubitano di Gesù, credendo di vedere un fantasma.
Sarebbe quasi impossibile infatti giustificare, anche solo sociologicamente, il cambiamento repentino degli apostoli, da persone sconfitte e deluse il Venerdì Santo ad instancabili annunciatori del Cristo fino alla morte, senza postulare quell’evento pasquale che ha trasformato radicalmente la loro vita.
Dunque se è vero che, nella logica cristiana, per dirla con Pascal, c’è sempre tanta luce per credere ma anche altrettanta oscurità per non credere, l’esposizione di Tornielli ha sicuramente contribuito a diradare molte tenebre e a confermare che, come riconosce la costituzione conciliare “Dei Verbum”, “i Vangeli trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza”.


Gesù Cristo: come è vero Dio e vero uomo? - Mons. Raffaello Martinelli, sacerdote della diocesi di Bergamo , ha realizzato alcune schede catechistiche su vari argomenti d‘attualità, a disposizione di quanti entrano nella suddetta Basilica. Ne sono state prese oltre 2.000.000 di copie, in circa due anni. Tutte le 50 schede catechistiche sono state raccolte e pubblicate in un tascabile, 50 Argomenti d’attualità – catechesi dialogica, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, come pure si ritrovano sul sito internet: www.sancarlo.pcn.net.
ROMA, lunedì, 27 aprile 2009 (ZENIT.org).- Mons. Raffaello Martinelli, sacerdote della diocesi di Bergamo, dopo aver conseguito il dottorato in Sacra Teologia con specializzazione in pastorale catechistica presso l’Università Lateranense di Roma e la laurea in Pedagogia all’Università Cattolica di Milano, è dal 1980 a servizio della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Come Primicerio della Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso in Roma, ha realizzato alcune schede catechistiche su vari argomenti d‘attualità, a disposizione di quanti entrano nella suddetta Basilica. Ne sono state prese oltre 2.000.000 di copie, in circa due anni.
Sono state redatte, in forma dialogica, sulla base di documenti della Santa Sede e, in particolare, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio.
Tutte le 50 schede catechistiche sono state raccolte e pubblicate in un tascabile, 50 Argomenti d’attualità – catechesi dialogica, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, come pure si ritrovano sul sito internet: www.sancarlo.pcn.net.
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In che modo Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo?
Lo è in modo unico e singolare.
□ La Fede Cattolica sottolinea con forza la particolarità dell’ammirabile unione della natura divina e della natura umana nell’unica Persona divina del Verbo: “L’evento unico e del tutto singolare dell’incarnazione del Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano. Egli si è fatto veramente uomo, rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi secoli ha dovuto difendere e chiarire questa verità di Fede contro eresie che la falsificavano” (CCC, 464).
□ Ecco come il Concilio di Calcedonia (anno 451) esprime questa verità: Gesù Cristo è «un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità; vero Dio e vero uomo, composto di anima razionale e di corpo; consostanziale al Padre per la divinità, consostanziale a noi per l’umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15); generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e, in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l’umanità».
□ Gli stessi appellativi con cui viene indicato Gesù Cristo evidenziano la sua dimensione divina-umana:
• Gesù significa “Dio salva” l’uomo e l’universo;
• Cristo = l’unto, il Messia che “Dio ha consacrato in Spirito Santo e potenza” (At 10,38) e “colui che deve venire” (Lc 7,14) nel mondo;
• Figlio di Dio esprime la relazione filiale, tipica, unica ed eterna di Cristo con Dio suo Padre;
• Signore indica la sua signoria, sovranità divina sull’uomo e sull’universo (cfr. CCC, 430-455).
Come avviene questa misteriosa unione nell’incarnazione natalizia?
“La natura umana di Cristo appartiene in proprio alla Persona divina del Figlio di Dio che l’ha assunta. Tutto ciò che egli è e ciò che egli fa in essa deriva da «uno della Trinità». Il Figlio di Dio, quindi, comunica alla sua umanità il suo modo personale d’esistere nella Trinità. Pertanto, nella sua anima come nel suo corpo, Cristo esprime umanamente i comportamenti divini della Trinità” (CCC, 470).
Il suo corpo stesso pertanto è un vero corpo umano, attraverso il quale il “Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne” (Prefazio di Natale, II: Messale Romano). “Il Figlio di Dio [...] ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (GS 22).
Come si attuano la conoscenza e la volontà in Gesù Cristo Uomo-Dio?
“La conoscenza veramente umana del Figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua persona” (CCC, 473). “Il Figlio di Dio conosceva ogni cosa; e ciò per il tramite dello stesso uomo che egli aveva assunto; non per la natura (umana), ma per il fatto che essa stessa era unita al Verbo” (San MASSIMO IL CONFESSORE, Quaestiones et dubia, Q. I, 67). Parallelamente “Gesù ha una volontà divina e una volontà umana. Nella sua vita terrena, il Figlio di Dio ha umanamente voluto ciò che ha divinamente deciso con il Padre e lo Spirito Santo per la nostra salvezza. La volontà umana di Cristo segue, senza opposizione o riluttanza, la volontà divina, o, meglio, è ad essa sottoposta” (Compendio del CCC, 91).
Anche la maternità della Vergine Maria è un segno di questa mirabile unione divino-umana di Cristo?
Certamente.
“Colui che Maria ha concepito come uomo per opera dello Spirito Santo e che è diventato veramente suo Figlio secondo la carne, è il Figlio eterno del Padre, la seconda Persona della Santissima Trinità. La Chiesa confessa che Maria è veramente Madre di Dio” (CCC, 495).
È questo anche il significato della concezione verginale di Gesù nel grembo della Madonna: “Gesù è stato concepito nel grembo della Vergine per la sola potenza dello Spirito Santo, senza intervento dell’uomo. Egli è Figlio del Padre celeste secondo la natura divina e Figlio di Maria secondo la natura umana, ma propriamente Figlio di Dio nelle due nature, essendoci in lui una sola Persona, quella divina” (Compendio del CCC, 98).
Come il mistero pasquale di Cristo evidenzia la mirabile unità del suo essere vero Dio e vero Uomo?
□ Se il Figlio di Dio ha potuto soffrire, essere crocifisso, morire, essere sepolto… è perché Egli è vero uomo.
D’altro canto, se la sua Morte ha potuto avere un valore redentivo, salvifico, giustificativo per tutti gli uomini e se soprattutto la sua Risurrezione ha potuto realizzarsi, è perché Egli è veramente Figlio di Dio.
□ La stessa accusa, che alcuni capi d’Israele rivolgono a Gesù e per cui lo consegnano a Pilato perchè venga condannato a Morte è che Egli, un uomo come gli altri, ha osato proclamarsi Figlio Dio, si è rivolto a Dio come a suo Padre, si è attribuito prerogative proprie soltanto di Dio. “Gesù ha suscitato scandalo soprattutto per aver identificato il proprio comportamento misericordioso verso i peccatori con l’atteggiamento di Dio stesso a loro riguardo. È arrivato a lasciar intendere che, sedendo a mensa con i peccatori, li ammetteva al banchetto messianico. Ma è soprattutto perdonando i peccati, che Gesù ha messo le autorità religiose di Israele di fronte a un dilemma. Costoro non erano nel giusto quando, costernati, dicevano: «Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,7)? Perdonando i peccati, Gesù o bestemmia perché è un uomo che si fa uguale a Dio, oppure dice il vero e la sua persona rende presente e rivela il nome di Dio” (CCC, 589).
□ “La sua sofferenza e la sua Morte manifestano come la sua umanità sia lo strumento libero e perfetto dell’Amore divino che vuole la salvezza di tutti gli uomini (…) La volontà umana del Figlio di Dio aderisce alla volontà del Padre: per salvarci, Gesù accetta di portare i nostri peccati nel suo corpo «facendosi ubbidiente fino alla Morte» (Fil 2,8). (…) Gesù ha liberamente offerto la sua vita in sacrificio espiatorio, cioè ha riparato le nostre colpe con la piena obbedienza del suo amore fino alla Morte. Questo «amore fino alla fine» (Gv 13,1) del Figlio di Dio riconcilia con il Padre tutta l’umanità. Il sacrificio pasquale di Cristo riscatta quindi gli uomini in modo unico, perfetto e definitivo, e apre loro la comunione con Dio” (Compendio del CCC, 119.121.122).
□ La Risurrezione di Cristo, in ben quattro aspetti, evidenzia il suo essere Uomo-Dio:
a) “La Risurrezione, in quanto entrata dell’umanità di Cristo nella gloria di Dio, trascende e supera la storia, come mistero della Fede”;
b) “Il suo corpo risuscitato è quello che è stato crocifisso e porta i segni della sua Passione, ma è ormai partecipe della vita divina con le proprietà di un corpo glorioso”;
c) “La Risurrezione di Cristo è un’opera trascendente di Dio. Le tre Persone agiscono insieme secondo ciò che è loro proprio: il Padre manifesta la sua potenza; il Figlio «riprende» la vita che ha liberamente offerto (Gv 10,17) riunendo la sua anima e il suo corpo, che lo Spirito vivifica e glorifica”;
d) “La Risurrezione è il culmine dell’Incarnazione. Essa conferma la divinità di Cristo, come pure tutto ciò che Egli ha fatto e insegnato, e realizza tutte le promesse divine in nostro favore” (Compendio del CCC, 128-131).
Pertanto, “la verità della divinità di Gesù è confermata dalla sua Risurrezione. Egli aveva detto: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono» (Gv 8,28). La Risurrezione del Crocifisso dimostrò che egli era veramente «Io Sono», il Figlio di Dio e Dio egli stesso. San Paolo ha potuto dichiarare ai Giudei: «La promessa fatta ai nostri padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo: Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato» (At 13, 32-33)” (CCC, 653).
□ La sua stessa Ascensione al cielo “rimane strettamente unita alla prima, cioè alla discesa dal cielo realizzata nell’incarnazione. Solo colui che è «uscito dal Padre» può far ritorno al Padre: Cristo. «Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13). Lasciata alle sue forze naturali, l’umanità non ha accesso alla «casa del Padre», alla vita e alla felicità di Dio. Soltanto Cristo ha potuto aprire all’uomo questo accesso «per darci la serena fiducia che dove è lui, Capo e Primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria» (CCC, 661).
In che senso la Chiesa, nel suo essere insieme visibile e spirituale, trova la sua giustificazione nell’essere il suo fondatore vero Dio e vero Uomo?
□ “Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di Fede, di speranza e di carità, come un organismo visibile; incessantemente la sostenta e per essa diffonde su tutti la verità e la grazia. La Chiesa è ad un tempo:
• «la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo»;
• «l’assemblea visibile e la comunità spirituale»;
• «la Chiesa della terra e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti».
Queste dimensioni «formano una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino».
□ La Chiesa «ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che quanto in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati» (CCC, 771).
In che modo la mirabile unione della natura divina e umana di Cristo fonda tutta l’economia sacramentale della Chiesa?
□ “Assiso alla destra del Padre» da dove effonde lo Spirito Santo nel suo corpo che è la Chiesa, Cristo agisce ora attraverso i sacramenti, da lui istituiti per comunicare la sua grazia. I sacramenti sono segni sensibili (parole e azioni), accessibili alla nostra attuale umanità” (CCC, 1084). E giustamente il Compendio del CCC riporta la bella citazione di San Leone Magno: «Ciò che era visibile nel nostro Salvatore è passato nei suoi sacramenti».
□ “Una celebrazione sacramentale è intessuta di segni e di simboli. Secondo la pedagogia divina della salvezza, il loro significato si radica nell’opera della creazione e nella cultura umana, si precisa negli eventi materiali dell’Antica Alleanza e si rivela pienamente nella persona e nell’opera di Cristo” (CCC, 1145).
□ Circa i segni sacramentali: “Alcuni provengono dal creato (luce, acqua, fuoco, pane, vino, olio); altri dalla vita sociale (lavare, ungere, spezzare il pane); altri dalla storia della salvezza nell’Antica Alleanza (i riti della Pasqua, i sacrifici, l’imposizione delle mani, le consacrazioni). Questi segni, alcuni dei quali sono normativi e immutabili, assunti da Cristo, diventano portatori dell’azione di salvezza e di santificazione” (Compendio del CCC, 237).
□ Anche le immagini sacre, che trascrivono il messaggio che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola, sono riferite a Cristo. Infatti “l’imma-gine di Cristo è l’icona liturgica per eccellenza. Le altre, che rappresentano la Madonna e i Santi, significano Cristo, che in loro è glorificato” (Compendio del CCC, 240).
□ “La catechesi liturgica mira a introdurre nel mistero di Cristo (essa è infatti mistagogica), in quanto procede dal visibile all’invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai «sacramenti» ai «misteri»” (CCC, 1075).
Come la vita morale del cristiano è vita in Cristo, Uomo-Dio?
Il CCC evidenzia tale verità in vari modi.
□ Ad esempio introduce la terza parte, riportando la bella testimonianza di San GIOVANNI EUDES: “Vi prego di considerare che [...] Gesù Cristo nostro Signore è il vostro vero Capo e che voi siete una delle sue membra. [...] Egli sta a voi come il capo alle membra; tutto ciò che è suo è vostro, il suo Spirito, il suo cuore, il suo corpo, la sua anima e tutte le sue facoltà, [...] e voi dovete usarne come se fossero cose vostre, per servire, lodare, amare e glorificare Dio. Voi appartenete a lui, come le membra al loro capo. Allo stesso modo egli desidera ardentemente usare tutto ciò che è in voi, al servizio e per la gloria del Padre, come se fossero cose che gli appartengono” (Le Cœur admirable de la Très Sacrée Mère de Dieu, 1, 5: Oeuvres completes, v. 6 (Paris 1908) p. 113-114.)
□ Nel presentare poi l’uomo come immagine di Dio, lo mette subito in relazione con Cristo, secondo l’indicazione della GS: “Cristo [...], proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». È in Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), che l’uomo è stato creato ad «immagine e somiglianza» del Creatore. È in Cristo, Redentore e Salvatore, che l’immagine divina, deformata nell’uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio” (CCC, 1701). E pochi paragrafi dopo, si afferma: “Chi crede in Cristo diventa figlio di Dio. Questa adozione filiale lo trasforma dandogli la capacità di seguire l’esempio di Cristo. Lo rende capace di agire rettamente e di compiere il bene. Nell’unione con il suo Salvatore, il discepolo raggiunge la perfezione della carità, cioè la santità. La vita morale, maturata nella grazia, sboccia in vita eterna, nella gloria del cielo”(CCC, 1709).
□ Le stesse beatitudini, che indicano all’uomo la strada per dare la piena e vera risposta al suo desiderio innato di felicità, “dipingono il volto di Gesù Cristo e ne descrivono la carità; esse esprimono la vocazione dei fedeli associati alla gloria della sua Passione e della sua Risurrezione” (CCC, 1717).
□ E anche nel presentare il Decalogo che costituisce l’ossatura della seconda sezione della terza parte del Catechismo, questi la colloca direttamente in relazione a Gesù Cristo: “Seguire Gesù implica l’osservanza dei Comandamenti. La Legge non è abolita, ma l’uomo è invitato a ritrovarla nella persona del divino Maestro, che la realizza perfettamente in se stesso, ne rivela il pieno significato e ne attesta la perennità” (Compendio del CCC, 434).
Cristo è dunque colui che, durante la sua vita terrena come uomo fra gli altri uomini, ha potuto, proprio in virtù della speciale e unica autorità che gli derivava dal suo essere Figlio di Dio, sia confermare la Legge Antica, sia darne la giusta e piena interpretazione e attuazione.
La stessa preghiera del cristiano trova il suo fondamento nell’essere Gesù Cristo Uomo – Dio?
Certamente. Infatti:
□ La preghiera cristiana è anzitutto “una relazione di alleanza tra Dio e l’uomo in Cristo. È azione di Dio e dell’uomo; sgorga dallo Spirito Santo e da noi, interamente rivolta al Padre, in unione con la volontà umana del Figlio di Dio fatto uomo” (CCC, 2564).
Anzi, “l’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera” (CCC, 2598).
□ La preghiera cristiana è in tal modo pienamente rivelata e attuata in Gesù, il quale “secondo il suo cuore di uomo, ha imparato a pregare da sua Madre e dalla tradizione ebraica. Ma la sua preghiera sgorga da una sorgente più segreta, poiché è il Figlio eterno di Dio che, nella sua santa umanità, rivolge a suo Padre la preghiera filiale perfetta” (Compendio del CCC, 541)
□ La stessa preghiera per eccellenza della Chiesa, che è il Padre nostro, la preghiera del Signore, è così chiamata perché ci è stata insegnata dallo stesso Signore Gesù.
“Questa preghiera che ci viene da Gesù è veramente unica: è «del Signore». Da una parte, infatti, con le parole di questa preghiera, il Figlio unigenito ci dà le parole che il Padre ha dato a lui: è il maestro della nostra preghiera. Dall’altra, Verbo incarnato, egli conosce nel suo cuore di uomo i bisogni dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità, e ce li manifesta: è il modello della nostra preghiera” (CCC, 2765).


Il Primicerio della Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma
Monsignor Raffaello Martinelli


NB: Per approfondire l’argomento, si leggano:
* Concilio Vaticano II, Lumen Gentium; Gaudium et Spes (GS);
* Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC);
* Compendio del CCC.
* Scheda: In che modo Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo?


L'Ordine benedettino in festa con il suo nuovo santo - Bernardo Tolomei, canonizzato questa domenica - di Carmen Elena Villa
ROMA, lunedì, 27 aprile 2009 (ZENIT.org).- Il suo nome di battesimo era Giovanni Tolomei, ma quando iniziò la vita monastica prese il nome di Bernardo, facendo onore a San Bernardo di Chiaravalle, anch'egli benedettino (1090-1153).
Questa domenica Bernardo Tolomei, fondatore del monastero di Santa Maria del Monte Oliveto, è stato canonizzato da Papa Benedetto XVI insieme ad altri quattro beati.
Bernardo nacque a Siena nel 1272 in una famiglia nobile. Dopo una profonda crisi di fede, per intercessione della Madonna guarì da una malattia agli occhi.
Nel 1313 decise di dedicarsi alla vita eremitica con due amici che in precedenza erano stati commercianti: Patrizio Patrizi e Ambrosio Piccolomini. Lasciarono Siena e si ritirarono ad Accona, in una proprietà della sua famiglia.
“Insegnava all'università, aveva un'attività pubblica: si ritira, rinuncia a tutto perché vuole servire unicamente Dio”, ha spiegato a ZENIT il postulatore della sua causa, il sacerdote Reginaldo Grégorie, membro della Congregazione benedettina di Santa Maria del Monte Oliveto.
I tre uomini cambiarono il proprio nome, si dedicarono alla preghiera, alla penitenza e alla solitudine eremitica. Realizzavano lavori manuali e facevano meditazioni bibliche con il metodo della lectio divina.
Anime dedicate a Gesù e a Maria
Sei anni dopo, mentre era in preghiera, Bernardo ebbe la visione di alcuni monaci vestiti di bianco che erano aiutati a salire una scala dalla mano di Gesù e Maria. Si rivolse quindi al Vescovo di Arezzo, monsignor Guido Tarlati, per ottenere l'autorizzazione canonica a creare una nuova comunità.
Nacque così nel 1319 ad Accona il monastero di Santa Maria del Monte Oliveto. Il nome ricorda il Monte degli Ulivi, dove Gesù pregò e vegliò con i discepoli prima della sua Passione. I monaci di questa nuova comunità erano guidati dalla Regola di San Benedetto e adottarono l'abito bianco in onore di Maria.
“I nostri monasteri sono luoghi di silenzio assoluto. Sono luoghi di preghiera, studio, solitudine e rinuncia che colpiscono i giovani”, ha affermato padre Reginaldo.
Attualmente questo ramo del Benedettini ha comunità in Brasile, Francia, Gran Bretagna, Guatemala, Irlanda, Israele, Italia, Corea del Sud e Stati Uniti.
Pur essendo il fondatore, Bernardo non voleva essere l'abate. Il primo fu Patrizio Patrizi. Ogni anno il monastero avrebbe dovuto avere un abate diverso. Tre anni dopo, Bernardo fu nominato abate e i monaci lo rinnovarono in questo incarico per 27 anni, come ha constatato Benedetto XVI nell'omelia della canonizzazione.
“Aveva un senso del governo, sapeva guidare le anime, aveva grande autorità morale”, ha dichiarato il postulatore.
Il 21 gennaio 1344 Bernardo ottenne da Papa Clemente VI, residente allora ad Avignone, l'approvazione pontificia. La nuova Congregazione aveva già 10 monasteri.
Una grande peste sconvolse l'Italia nel 1348, e Bernardo abbandonò la vita eremitica per assistere i monaci malati. Morì nello stesso anno, contagiato dalla malattia.
Fu sepolto con altri 82 monaci morti di peste in una fossa comune. Gli scavi non hanno permesso di riconoscere i suoi resti, motivo per il quale al momento non esiste la tomba del santo.
Un lungo processo di canonizzazione
Bernardo Tolomei non è stato propriamente beatificato. Nel 1644 Papa Urbano VIII promulgò il culto “ab immemorabili”, riconoscimento che oggi equivale alla beatificazione. Nel 1768 un decreto pontificio dichiarò l'eroicità delle sue virtù.
La sospensione di alcuni Ordini religiosi durante il movimento di unificazione d'Italia portò al ritardo della sua canonizzazione. La richiesta per questo processo venne ripresa nel 1968.
Si presentavano quattro miracoli attribuiti all'intercessione di Tolomei, ma il postulatore ha ricordato che le prove di questi vennero perse alla fine del XVIII secolo, durante la Rivoluzione francese.
Il miracolo che ha permesso che Bernardo fosse dichiarato santo è avvenuto nel 1946 al giovane Giuseppe Rigolin, di 18 anni, che soffriva di peritonite.
I suoi familiari si raccomandarono al beato Bernardo e dopo poche ore i sintomi scomparvero senza che fosse necessario alcun intervento chirurgico. Alcuni anni dopo il giovane entrò come monaco nella Congregazione con il nome di Placido.
Bernardo ha lasciato vari scritti: 48 lettere e un'omelia. Vari frammenti sono stati pubblicati questa domenica in occasione della sua canonizzazione. “Questi scritti attestano la sua sapienza spirituale e una notevole competenza amministrativa e giuridica; rivelano il suo temperamento e lo definiscono implicitamente un monaco che della Regola di S. Benedetto si era fatto seguace sincero”, ha affermato padre Reginaldo Grégorie.
“Consentono di percepire la sua umiltà, la sua sensibilità, il suo spirito ecclesiale e comunitario, la sua conoscenza della S. Scrittura”, ha aggiunto.


Contrapposizioni superabili tra scienza e teologia - La direzione finale del cosmo - Il 28 aprile presso l'istituto Veritatis Splendor si tiene una conferenza intitolata "La questione del finalismo nei processi della natura". Ne pubblichiamo alcuni stralci. - di Marc Leclerc -Pontificia Università Gregoriana - L’Osservatore Romano, 27-28 aprile 2009
Secondo la visione del mondo che regge da quasi due secoli la concezione dominante delle scienze positive, queste costituiscono l'unica conoscenza legittima e verificabile, pur essendosi formate tramite il rifiuto sistematico di ogni causalità finale. Per il Circolo di Vienna, il ruolo della filosofia si limita praticamente a "eliminare le scorie metafisiche e teologiche accumulate da millenni" - secondo l'espressione del Manifesto del 1929 - per purificarne e liberarne le scienze sperimentali e consentire loro di raggiungere la piena maturità, nella perfetta autosufficienza. Liberare l'uomo dall'illusione delle cause finali diviene un obiettivo essenziale dei neopositivisti. La natura è perfettamente obiettiva e può essere conosciuta a posteriori tramite esperimenti controllabili, con l'aiuto della logica e della matematica, prettamente analitiche e quindi "tautologiche", secondo questa epistemologia. I tre aspetti indissociabili che costituiscono il postulato fondamentale della "concezione scientifica del mondo" sono l'esclusione sistematica di ogni finalità naturale che accompagna la struttura puramente obiettiva del metodo scientifico e dalla riduzione di ogni conoscenza a ciò che esso può determinare. Di tale postulato, Jacques Monod offre un'espressione molto chiara e esplicitamente antifinalista, che chiamerà "il postulato d'obiettività": "La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell'obiettività della natura. Cioè il rifiuto sistematico di considerare come capace di condurre a una conoscenza "vera" ogni interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di "proietti"". Esclusa dal metodo scientifico, unico capace di portare ad una vera conoscenza, la finalità nella natura si riduce ad una pura illusione antropomorfica. La "teleonomia" riconosciuta nel comportamento degli esseri viventi non può quindi che ridursi al risultato aleatorio di un meccanismo cieco. Come superare l'aporia del positivismo, rifuggendo allo stesso tempo un finalismo ingenuo? Su questa via il pensiero critico di Joseph Maréchal (1878-1944) sembra insostituibile. La finalità dell'intelligenza ha un ruolo fondamentale in questo pensiero, che supera l'agnosticismo kantiano tramite l'analisi rigorosa delle implicazioni del dinamismo intellettuale, fondamento immediato della conoscenza obiettiva. In un dialogo fecondo fra la critica filosofica e le scienze sperimentali, Maréchal riannoda i legami tra la "conoscenza d'oggetto" nel senso fenomenale della parola, e l'affermazione necessaria dell'essere, livello questo in cui si può ritrovare criticamente una vera finalità naturale. Secondo Maréchal "ogni movimento tende verso un fine ultimo, secondo una legge, o forma specificatrice, che imprime a ogni tappa del movimento il segno dinamico del fine ultimo". "Questa finalità interna del movimento - precisa - lungi dall'entrare in conflitto con il determinismo causale, ne è, al contrario, la prima condizione razionale". Nell'ambito dell'affermazione realista, che supera le scienze avvolgendole per intero, lo studioso sostiene che "ogni divenire, ogni movimento che non sia un semplice spostamento passivo, tende, di per sé, verso un riposo finale o verso un fine ultimo". Per progredire in questa articolazione tra scienze e metafisica, si deve ricorrere alle prospettive complementari di Pierre Scheuer e di Gaston Isaye. Scheuer analizza il tipo di rapporto che unisce, nella distinzione, la metafisica alle scienze positive. Ecco l'intuizione centrale: la metafisica è "immanente per modum formae al sapere scientifico, nel modo in cui l'anima è immanente al corpo". Sembra essenziale di riconoscere detta immanenza della metafisica alle scienze, in modo di preservare queste ultime dalla tentazione ricorrente di pretendere all'autofondazione, all'autosufficienza. Una tentazione illusoria come rivela la storia recente delle scienze alla ricerca dei propri fondamenti. Infatti se bisogna evitare la pura giustapposizione di campi senza comunicazione, il rischio maggiore sarebbe che la scienza si erga indebitamente in una forma di metafisica, interamente dogmatica, pretendendo dire l'ultima parola de omni re scibili. A questo punto la scienza si muta in ideologia, che è il suo contrario. Per ritrovare il cammino della vera finalità della natura, integrando i dati principali delle scienze, occorre sviluppare la prospettiva d'interazione accennata da Scheuer. In questo senso si è mosso Gaston Isaye (1903-1984), che ha delineato un'interazione reciproca, senza circolo vizioso, tra le scienze e la filosofia. La chiave si trova nella giustificazione dell'induzione. Non si può dedurre legittimamente, da premesse scientifiche, alcuna conclusione di portata metafisica, e nemmeno il contrario. Se si vogliono evitare la pura giustapposizione sterile di campi, come pure le confusioni dannose, l'unica via praticabile sembra quella induttiva, da definire precisamente, via che permetterà in particolare alla riflessione filosofica di raccogliere tutti gli insegnamenti che può ricevere, non solo dalla forma, ma anche dai principali risultati della ricerca scientifica. Bisognerà però giustificare l'induzione, prima all'interno delle scienze sperimentali, poi a livello dell'interpretazione metafisica del sensibile. Per Isaye l'induzione appare come un primo principio della conoscenza sperimentale. In questo caso ogni dimostrazione si rivela impossibile, pena la petizione di principio. Tuttavia, come per il principio di non contraddizione, ciò non significa che debba rimanere arbitraria o che sia legittimo di farne a meno. L'esempio più chiaro è forse quello della percezione induttiva dell'intenzione soggiacente al comportamento degli altri esseri umani: l'intenzione in quanto tale non è sensibile, ma l'induciamo legittimamente dalla percezione sensibile di certi comportamenti osservabili, nel mondo fenomenale. Certo ci possiamo sbagliare sulle intenzioni particolari di qualcuno, ma non sul carattere fondamentalmente intenzionale di ogni comportamento umano deliberato. È poi sulla stessa base induttiva che si potrebbe stabilire l'esistenza di una finalità naturale reale, partendo da ciò che si osserva al livello dei fenomeni del mondo vivente, quali descritti dalla biologia. Per concludere, vorremmo indicare brevemente alcuni punti di riferimento per una rilettura critica della finalità nella natura. Come punto di partenza, bisogna considerare la finalità deliberata dei nostri propri comportamenti e le sue condizioni di possibilità. L'esistenza di tale finalità è evidente: la induciamo inevitabilmente dal comportamento altrui. D'altra parte, la realtà di una finalità naturale nell'uomo, intrinseca alla stessa natura della sua intelligenza e della sua volontà, è stata ampiamente stabilita dalle analisi di Maréchal. Questa finalità naturale si manifesta anche al livello della vita biologica nell'uomo, che ne costituisce una condizione di possibilità e l'accomuna nello stesso tempo al mondo animale: ogni atto umano dell'intelligenza e della volontà è condizionato dalla sua natura di essere vivente, legato a tutti gli altri e sottomesso alle stesse leggi fondamentali. La finalità intelligibile dell'uomo appare difatti come il fine prossimo della sua costituzione biologica, essa stessa attraversata da una finalità naturale, anteriore a ogni uso della libertà. Un segno indubitabile di questa finalità spontanea, inconscia e non deliberata, sta nel fenomeno del sogno, che condividiamo con gli altri mammiferi. Nell'uomo, il suo senso particolare legato al linguaggio, è rivelato tra l'altro dall'analisi freudiana dell'inconscio, supponendo certo che questi abbia una finalità obiettiva e decifrabile, per chi ne possieda le chiavi. In ogni caso, la nostra vita biologica, condizione necessaria ma non sufficiente della nostra esistenza consapevole, non è pensabile se non in stretto legame con tutto il mondo vivente, esso stesso condizionato dalla struttura globale dell'universo: ritroviamo così il principio antropico su un altro piano. La nostra finalità, vista in modo retrospettivo, è quindi sospesa a quella di tutto il mondo vivente, dove sembra legittimo leggere la nostra emergenza come un fine particolare. Il mondo della vita appare come il risultato di un'immensa evoluzione, che sulla Terra è durata almeno tre miliardi e mezzo di anni. In quanto condizione di possibilità della nostra presenza come esseri finalizzati, questo ampio processo sembra attraversato da un'analoga finalità. Infine, la condizione fisica di possibilità dell'evoluzione del mondo vivente, come della sua apparizione sulla Terra, è costituita dall'intera evoluzione cosmologica, partendo dalle sue condizioni iniziali nel modello standard del big bang. Sembra quindi legittimo di leggere questa ultima a partire dalla nostra situazione, quindi all'interno di una finalità reale, che dà senso e unità all'insieme del processo e dei complessi meccanismi in cui esso si realizza. L'insieme delle scienze positive, animate dall'interno da una ricerca metafisica che le fonda superandole, ci offrono sulle condizioni biologiche e cosmologiche della nostra esistenza un ampio organismo sempre più integrato di conoscenze decisive, di cui la riflessione filosofica non potrebbe fare a meno. I pochi elementi di una critica realista qui suggeriti, nella linea di Maréchal, Scheuer e Isaye, indicano una delle direzioni che potrebbe prendere una feconda interazione tra ricerca scientifica e riflessione filosofica, permettendoci di superare in atto le aporie ricorrenti del positivismo e delle sue vicissitudini. Tale articolazione critica ci acconsente di riconoscere una vera unità finale del cosmo, supponendo una teleologia criticamente fondata.
(©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)


Riflessioni sulla «Dignitas personae» - Possibilità e limiti della terapia genica - di Kevin L. Flannery, s.i. - Professore di Filosofia, Pontificia Università Gregoriana, Roma - L’Osservatore Romano, 27-28 aprile 2009
I tre numeri dell'istruzione Dignitas personae dedicati alla terapia genica (n. 25-27) operano una serie di utili e importanti distinzioni circa i diversi modi di affrontare la terapia genica, evidenziando nel contempo i principi di bioetica che stanno alla base delle sue possibili applicazioni cliniche. Quanto alle distinzioni, nel primo paragrafo del n. 25 viene riconosciuto che la portata del termine "terapia genica" è aumentata negli ultimi anni e comprende la cura non solo delle malattie ereditarie. Nella terapia genica per le malattie ereditarie può essere annoverata, per esempio, la cura della malattia dalla quale era affetto il cosiddetto "bambino nella bolla", che non era in grado di sviluppare un sistema immunitario efficace e poteva sopravvivere solo in un'atmosfera sigillata. In una sperimentazione clinica, dieci bambini hanno ricevuto cellule staminali derivate dal loro stesso midollo, che precedentemente erano state geneticamente modificate in modo da poter trasportare una copia normale del gene che, nel caso fosse difettoso, causava la malattia. Su dieci, nove pazienti hanno manifestato miglioramenti a lungo termine nella risposta immunitaria. Un esempio, invece, della cura che potrebbe essere praticabile in ordine a una malattia non ereditaria sarebbe quella, ancora in fase di sperimentazione nei topi, che ha dato successo nel caso del tumore allo stomaco. Al riguardo, sono stati utilizzati organismi - i cosiddetti "vettori" - contenenti virus con una particolare dotazione genetica per infettare le cellule del tumore allo stomaco per rallentarne la crescita. La terapia genica inoltre può essere di due tipi: quella "germinale", che mira a correggere difetti genetici presenti appunto nelle cellule della linea germinale, e quella "somatica", che interviene sui difetti genetici presenti a livello delle cellule somatiche, e cioè che compongono i tessuti e i singoli organi del corpo. I due tipi di terapia sopra citati rientrano nella terapia genica somatica. Da un punto di vista etico, questa terapia solleva relativamente poche obiezioni, dato che, di per sé, curare una persona ammalata è una cosa buona. Tuttavia, i rischi sono sempre presenti e possono avere un peso nella valutazione della moralità circa l'applicazione di una cura particolare. Questo è rilevante se si pensa che, nel caso dei bambini soprammenzionati che avevano ricevuto cellule staminali, tre anni dopo l'intervento i due più piccoli hanno sviluppato la leucemia. La moralità della terapia genica germinale, invece, dal momento che potrebbe riguardare persone non ancora esistenti, rappresenta una questione più complessa, da discutere di seguito. Entrambi i tipi di terapia genica - germinale e somatica - possono essere realizzati prima o dopo la nascita. Un esempio di terapia somatica realizzata prima della nascita sarebbe quella promessa da recenti successi nella sperimentazione sul topo, con il trasferimento in utero di un gene che consente la produzione di cellule pilifere funzionali nell'orecchio interno - la presenza di cellule pilifere non funzionali nell'orecchio interno costituisce la causa più frequente di danni all'udito nell'uomo. Gli esperimenti con queste terapie geniche somatiche in utero hanno tuttavia sollevato il timore che si potrebbero avere effetti involontari anche sulle linee germinali, con conseguenti problemi circa una possibile compromissione del patrimonio genetico trasmesso all'eventuale discendenza. Fino a questo momento non ci sono risultati sperimentali, neanche sugli animali, quanto a terapie geniche germinali prenatali, ma i timori espressi da scienziati e da altri circa il fatto che le modifiche alla struttura genica somatica potrebbero influenzare le cellule germinali costituiscono già un riconoscimento che tali terapie sono teoricamente possibili e problematiche. Come già menzionato, la prospettiva della terapia genica germinale - prima e dopo la nascita - solleva numerose questioni etiche che l'istruzione affronta sulla base di principi che sono a fondamento della ricerca bioetica. Alcune di tali questioni etiche non attengono alla terapia genica germinale in sé, ma, in quanto possono comportare la distruzione - o il rischio di distruzione - degli embrioni che sarebbero molto probabilmente utilizzati per qualsiasi esperimento sulle cellule della linea germinale umana, viene affermata l'illiceità di tali procedure. Inoltre, se a questo si aggiunge il fatto che a tutt'oggi i rischi legati alla manipolazione genetica possono avere pesanti ricadute, incontrollate o incontrollabili, sulle future generazioni, l'istruzione Dignitas personae a ragione afferma che "allo stato attuale, la terapia genica germinale, in tutte le sue forme, è moralmente illecita" (n. 26). Nel numero successivo (n. 27), il documento afferma che la terapia genica con finalità "diverse da quella terapeutica" favorisce "una mentalità eugenetica", introduce "un indiretto stigma sociale nei confronti di coloro che non possiedono particolari doti" e enfatizza "doti apprezzate da determinate culture e società, che non costituiscono di per sé lo specifico umano". Ci si può qui chiedere quali siano i principi alla base di queste affermazioni. Innanzitutto, occorre riconoscere che la Chiesa non si oppone di per sé alle azioni che possono avere effetti naturali sulle linee germinali. Come si sa, essa vieta i matrimoni tra parenti stretti e il motivo di questo divieto, almeno in parte, ha a che fare con le conseguenze genetiche negative che simili matrimoni comporterebbero. Nell'enciclica Casti connubii, Pio XI mette in guardia da interventi con "fini eugenici", riconoscendo nel contempo che "non è contrario alla retta ragione" tentare di procurare "la salute e il vigore della futura prole". Similmente, nel discorso all'Associazione Medica Mondiale, pronunciato il 29 ottobre 1983, Giovanni Paolo II esprime un forte ammonimento su quella che definisce "manipolazione genetica", ma riconosce che "un intervento strettamente terapeutico che si ponga come obiettivo la guarigione di diverse malattie, come quelle che riguardano le deficienze cromosomiche, sarà considerato, in linea di principio, auspicabile, purché tenda alla vera promozione del benessere personale dell'uomo, senza intaccare la sua integrità o deteriorare le sue condizioni di vita" (n. 6). Il Pontefice prosegue lodando coloro che preferiscono al termine "manipolazione genetica" quello di "chirurgia genetica" in modo da mostrare che "il medico interviene non per modificare la natura ma per aiutarla a svilupparsi secondo la sua essenza, quella della creazione, quella voluta da Dio" (n. 6). Così, se la Chiesa non si oppone di per sé all'intervento genetico, che cosa fonda le sue obiezioni alla terapia genica germinale, in particolare a quella proposta per finalità diverse da quelle terapeutiche? Una risposta valida è suggerita dalle parole stesse di Giovanni Paolo II appena riportate. La differenza tra i mezzi legittimi e illegittimi è che le pratiche legittime curano delle malattie, mentre quelle illegittime non lo fanno. Questa impostazione trova sostegno nel richiamo di Giovanni Paolo II, nel succitato discorso, al giuramento di Ippocrate. La formulazione originale (del v secolo prima dell'era cristiana) di quel giuramento parla del rapporto tra medico e malato o coloro che soffrono. Il giuramento quindi concepisce la medicina come cura delle malattie. Tenendo conto di questa visione, la Chiesa e coloro che insegnano in suo nome sono in grado di distinguere la buona terapia da quella cattiva. La terapia genica va rifiutata quando non è al servizio della salute, la cui definizione è fissata da Dio e non dall'uomo. Volendo pertanto fare qualche esemplificazione, la terapia genica opera assolutamente al di fuori di questa finalità quando coinvolge la distruzione di embrioni umani, poiché tale distruzione non protegge né promuove la loro salute. Ma lo stesso avviene quando, tra le caratteristiche possibili di un essere umano, seleziona quelle da preferire e tenta così di far nascere persone con preordinate caratteristiche. L'intento di tali procedure chiaramente non è quello di promuovere la salute combattendo la malattia, dal momento che queste metodiche iniziano con una selezione da una serie di futuri soggetti sani, alcuni di essi con caratteristiche apprezzate da determinate culture e società. Lo scopo di tali procedure non è certo la salute, che l'intera gamma di questi esseri umani futuri si suppone possieda, ma le caratteristiche prescelte. Nel favorire alcune caratteristiche umane come distinte dalla natura umana in se stessa e la salute relativa a essa, tali procedure tradiscono una mancanza di rispetto per le stesse persone umane e per l'umanità. Per riprendere le parole cruciali della Dignitas personae, "tali manipolazioni favoriscono una mentalità eugenetica e introducono un indiretto stigma sociale nei confronti di coloro che non possiedono particolari doti e enfatizzano doti apprezzate da determinate culture e società, che non costituiscono di per sé lo specifico umano (...) Nel tentativo di creare un nuovo tipo di uomo si ravvisa una dimensione ideologica, secondo cui l'uomo pretende di sostituirsi al Creatore" (n. 27).
(©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)


La religiosa docente e ricercatrice di ostetricia e ginecologia - Anna Cappella al servizio della vita - di Cesarina Broggi – L’Osservatore Romano, 27-28 aprile 2009
"Si ricordi che questa è casa sua" disse Giovanni Paolo II ad Anna Cappella, la mattina del 4 gennaio 1980, dopo la Messa alla quale aveva partecipato con la dottoressa Wanda Poltawska, da lei conosciuta per espresso desiderio del Santo Padre e con la quale lavorò poi assiduamente. Queste parole furono per Anna la conferma che quanto stava facendo per l'insegnamento dei metodi naturali, con particolare riferimento al metodo dell'ovulazione Billings, era volontà di Dio. Da quel momento il Papa la sostenne e le fu sempre vicino nel suo cammino di apostola dei valori evangelici sulla vita e la famiglia. La chiamava "la mia Anna", la stimava per la sua preparazione scientifica, per il suo amore alla vita e per quella sua anima candida e buona, piena di Dio e capace di misericordia e di fiducia. La mite, discreta creatura, di salute cagionevole e di una eccezionale sensibilità, sapeva imporsi con forza e determinazione quando c'era da difendere la verità e da sostenere il magistero della Chiesa. Quando Anna Cappella fu conosciuta da Giovanni Paolo II aveva già percorso una lunga strada. Uscita dalla guerra che l'aveva privata tragicamente degli affetti più cari, era approdata come pensionante al centro universitario Regina Mundi di Roma, il più vicino alla sua facoltà, e vi aveva trovato nelle Missionarie sue compagne di università un'umanità accogliente e attenta alla sua sofferenza. Dio, sempre presente nella sua vita, le fece sentire la chiamata: la risposta di Anna nel 1947 fu immediata e totale. Fu Missionaria della Scuola: la "sua" scuola sarà la formazione alla vita. Diceva: "Educare significa anche far conoscere ciò che c'è nella natura", riferendosi al suo studio sulle leggi che regolano la fertilità della coppia. Alla formazione religiosa seguì la laurea nel 1952 e la specializzazione in ostetricia e ginecologia a Roma; successivamente approfondì le sue conoscenze in importanti centri clinici e di ricerca degli Stati Uniti. Presso il St. Francis Hospital ad Hartford nel Connecticut visse un periodo di particolare impegno di lavoro, studio, preghiera, molta solitudine e silenzio. I primi tempi furono duri per la difficoltà della lingua che stava imparando - si dedicava con particolare comprensione alle pazienti di lingua italiana e spagnola che non conoscevano una parola di inglese - per l'orario di lavoro che la impegnava anche la notte. In una pausa di ritiro spirituale scriveva: "Leggo, medito, prego e... dormo. Sono tutte le notti passate ad assistere le mamme che davano alla luce i loro piccini che vogliono nascere tutti di notte! Sono sola, eppure non mi sento affatto sola". Tutto ciò contribuiva a rendere sempre più viva in Anna la fede nell'amore di Dio, sua virtù caratteristica. Lavorò in seguito a Boston, presso il St. Elizabeth Hospital. Tornò in Italia per discutere alla Sapienza la tesi di specializzazione. Dopo un periodo di pratica in ospedali di Roma, ripartì per l'America dove il 1º gennaio 1960 incominciò l'anno di internato al Mary Inmaculate Hospital-Jamaica 32 a New York. Fece il post graduate course al New York Poly-Clinic. Sostenne gli esami di Stato richiesti e nel gennaio 1962 incominciò un corso di sei mesi di Ginecologia al Bellevue Hospital di New York. In seguito lavorò al Carney Hospital di Boston fino al 1969. Nel maggio 1972, aderendo all'invito del vescovo di Multan, andò come missionaria in Pakistan, nel St. Dominic's Hospital di Bahawalpur e in Pakistan conobbe i coniugi Billings di passaggio a Karachi. Il 28 giugno 1974 partecipò in Australia, a Sydney, a un corso sulla regolazione delle nascite appunto secondo il metodo naturale dei coniugi Billings di cui divenne subito diretta collaboratrice. Nell'udienza concessa da Paolo VI a Madre Tincani e a tutte le sue Missionarie nel cinquantesimo di fondazione, il 28 agosto 1974, Anna Cappella fu presentata al Pontefice che, sentendola parlare con entusiasmo della sua scoperta, affermò: "Questo è un lavoro molto importante: diffondetelo!". Anna fece conoscere il metodo in Pakistan e poi in Italia, dove rientrò nel dicembre 1975. La dottoressa Lyn Billings, nell'intervista rilasciata al giornalista Angelo Montonati nel 1998, chiamava Anna Cappella una collaboratrice davvero meravigliosa e diceva fra l'altro: "Fin dal nostro primo incontro - in Pakistan - la vedemmo particolarmente interessata alla filosofia della pianificazione naturale delle nascite: in effetti, si era subito resa conto che si trattava soprattutto di un messaggio di attenzione e di amore per le famiglie. Anna ha svolto in questi anni uno straordinario lavoro, insegnando il metodo ai missionari e alle missionarie che passavano da Roma - perché a loro volta lo divulgassero - e organizzando conferenze e convegni per l'Africa, l'Europa, e insegnando in varie parti del mondo. Inoltre ha dato vita a concreti programmi d'insegnamento in tutta Italia, riunendo intorno a sé un gruppo validissimo di donne motivate e altamente qualificate per quanto riguarda la filosofia del metodo e fedeli all'insegnamento della Chiesa". Incoraggiata da Giovanni Paolo II, sostenuta dai coniugi Billings, fu prima direttore del consultorio familiare presso la facoltà di medicina del Policlinico Gemelli, poi, dal luglio 1980, direttore del Centro studi e ricerche sulla regolazione naturale della fertilità all'università Cattolica del Sacro Cuore. Nel 1980 fu invitata a partecipare ai lavori del Sinodo dei vescovi che si svolgeva a Roma su "La famiglia. Educazione all'amore e alla vita". Preparò congressi internazionali e fece molti viaggi in tutto il mondo: America, Asia, Africa, Australia, per diffondere il metodo Billings. All'udienza durante il congresso del 1981, Giovanni Paolo II salutò paternamente Anna per prima: "Come stai, Anna?". E il rettore magnifico della Cattolica rispose: "È il genio di questa organizzazione". In quello stesso anno avrà la grazia di visitare, come medico del Gemelli, il Papa dopo l'attentato del 13 maggio. Il 31 agosto 1981 il Papa chiamava Anna a Castel Gandolfo per una importante riunione relativa alla fondazione dell'Istituto per la famiglia Giovanni Paolo II. Qualche giorno dopo tornava da lui con il programma da svolgere nell'Istituto dove avrebbe tenuto anche lei un corso regolare. Nel marzo 1991 il Santo Padre nominò Anna Cappella membro del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari. Il 25 novembre 2005, nell'aula Francesco Vito del policlinico Agostino Gemelli, fu consegnata ad Anna Cappella da monsignor Elio Sgreccia, già ordinario di bioetica all'università Cattolica e presidente della Pontificia Accademia per la Vita, una targa, premio alla carriera, con la seguente motivazione: "Per l'incalcolabile contributo alla diffusione del metodo Billings in Italia e nel mondo, promuovendo sempre, instancabilmente, i valori comuni a cui si ispirano le diverse metodiche naturali". Spesso lontana dalla sua comunità, affaticata da un lavoro sfibrante, anche se appassionato, Anna viveva momenti intensi di raccoglimento: "Sto meditando sulle verità con le quali si va all'essenza delle cose che ci devono portare a Dio, a cercare Lui solo e attraverso Lui le creature".
(©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)


SPAGNA/ Le ragioni per un manifesto contro l’aborto - Nicolás Jouve de la Barreda - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Lo scorso 17 marzo abbiamo presentato e diffuso un manifesto in difesa della vita umana nascente, chiamato anche Dichiarazione di Madrid, di cui sono onorato di essere primo firmatario e che ha raccolto l’approvazione e l’adesione di oltre 2.200 professori universitari, ricercatori e medici di tutte le specialità, alte cariche dello Stato, direttori di enti sociali e scrittori.
Nonostante un così grande appoggio, l’attenzione con cui è stato redatto e l’impegno nel mettere in chiaro l’opposizione dei firmatari all’aborto, siamo coscienti che alcuni aspetti del manifesto potrebbero essere mal interpretati. In primo luogo, vi sono stati alcuni commenti o interpretazioni sull’intento politico che non corrispondono alla realtà di un tema cosi esecrabile come l’aborto, né alla volontà e al modo di pensare di noi promotori e sottoscrittori del manifesto, lontani da qualsiasi motivazioni politica.
Noi firmatari lasciamo da parte le politiche di partito, già abbastanza ambigue in molti casi, dato che per noi i voti contano meno di una sola vita di quei bambini sacrificati. Inoltre siamo coscienti del fatto che in tutti i partiti ci sono persone che difendono la vita, anche se molti non sono capaci di sostenere pubblicamente questa posizione. Ai firmatari del manifesto non è stata chiesta nessuna tessera politica, e forse per questo siamo arrivati a 2.000 adesioni dopo due settimane dalla presentazione.
Il manifesto deve intendersi come una dichiarazione con fini educativi destinata ai politici e alla società, dove abbiamo cercato di far rientrare gli aspetti scientifici riguardanti la realtà della vita e le conseguenze di carattere medico e sociale di una legge ingiustificata, che forse non sarà approvata. La dichiarazione di Madrid cerca di indebolire le ragioni politiche che sembrano essere le uniche a muovere l’attuale Governo, forse convinto che questo impulso rinnovatore gli darà risultati nelle prossime elezioni.
Rispetto all’appoggio ricevuto, è evidente che il nostro bilancio è molto positivo, data la quantità e la tipologia di adesioni ricevute. Tuttavia sarebbero potute essere di più se persone di buona volontà che, come noi, si oppongono al tremendo problema dell’aborto in Spagna non avessero fatto degli errori di interpretazione. Mi riferisco alla delirante interpretazione secondo cui il manifesto contiene alcune dosi di relativismo morale, tesi non meno pericolosa di quella che ci vede favorevoli all’aborto con dei limiti temporali. Un giudizio, quest’ultimo, che si basa probabilmente su un’errata interpretazione del punto f) in cui si dice che «è bene che la donna a cui si propone di abortire, prenda liberamente la sua decisione dopo una conoscenza informata e precisa sul procedimento e sulle sue conseguenze». Coloro che hanno incontrato in questo punto una difficoltà per aderire al manifesto, sbagliano ad interpretarlo come un’accettazione della legge attuale quale “male minore”.
Occorre ricordare che la situazione attuale è quella che è e che può diventare decisamente peggiore, come sembrerebbe emergere dalla legge che sta preparando il ministero dell’Uguaglianza. Siamo convinti che informare una donna per cercare di dissuaderla dall’abortire sia più realista e pratico che dire un semplice no all’aborto. Quel che facciamo è denunciare l’inosservanza della legge attuale in qualcosa di così elementare come l’obbligo di avere il consenso informato, come deriva
dalla Dichiarazione dei diritti umani e dal Trattato di Helsinki. La realtà è che oggi molte donne sono ingannate, spinte o forzate all’aborto, fondamentalmente vittime di una bugia e ignare del fatto che quel che faranno è niente meno che uccidere il proprio figlio.
Per tutto questo ci è sembrato ragionevole ricordare nel manifesto che nell’attuale legge sull’aborto vi è una prescrizione che non viene osservata e che, se venisse rispettata, salverebbe molte vite.
Nel manifesto è implicita la nostra posizione antiabortista anche quando ci opponiamo all’assurdo ed egoista slogan “noi partoriamo, noi decidiamo”, poiché in nessun caso abortire equivale a togliersi un neo o un dente. Perciò abbiamo voluto mettere ben in chiaro che «l’embrione (dalla fecondazione fino all’ottava settimana) e il feto (dopo l’ottava settimana) sono le prime fasi dello sviluppo di un nuovo essere umano e che nel ventre materno non fanno parte della sostantività di nessun organo della madre, anche se dipendono da essa per il proprio sviluppo». Nel manifesto segnaliamo anche che l’aborto non è solamente «l’interruzione volontaria della gravidanza, ma un atto semplice e crudele di interrruzione della vita umana», «un dramma con due vittime: il bambino che muore e la madre che sopravvive e soffrirà ogni giorno le conseguenze di una decisione drammatica e irreparabile».
Quel che sembra evidente è che per molti la riforma sull’aborto, che si basa sulle conclusioni del gruppo dei deputati socialisti, aggraverebbe la situazione attuale e che con azioni come la Campagna in favore della vita della Conferenza episcopale spagnola, la Dichiarazione di Madrid, la grande manifestazione del 29 marzo e le molte azioni che continuano a svilupparsi, si è evidenziato che molti cittadini, pressati dall’allarme sociale che implica l’escalation dell’aborto in Spagna, non vogliono una nuova legge per legittimare un atto violento contro il nascituro e sua madre, e non vogliono l’aborto. Per noi che abbiamo promosso il manifesto è implicita l’abolizione dell’aborto in Spagna. Occorre promuovere la protezione e l’aiuto alle donne incinte perché portino avanti la vita dei propri figli. Se non possono mantenere il figlio, occorre promuovere leggi che aiutino l’adozione. Una donna non è libera quando è condizionata dal fatto di non avere una famiglia che accolga la gravidanza, o dal fatto che quando nascerà il bambino non potrà lasciarlo in un asilo o che non troverà un posto di lavoro. Con tutti questi condizionamenti una donna non può scegliere liberamente.
È anche nato un contro-manifesto (così si fa chiamare senza nascondere il suo intento), sottoscritto da un numero ridotto di ricercatori, nel quale senza tante spiegazioni si accusano i firmatari della Dichiarazione di Madrid di cercare di confondere l’opinione pubblica, presentando come argomentazioni scientifiche cose che apparterrebbero all’ambito delle credenze personali, ideologiche o religiose. In questo contro-manifesto si arriva ad affermare che la scienza è neutrale di fronte all’aborto.
È evidente che l’aborto riguarda la coscienza individuale e quella collettivo-sociale, e per quanto possibile la scienza è neutrale di fronte all’aborto, ma non lo è davanti al fenomeno biologico della vita esistente nel nascituro che si cerca di eliminare. La società spagnola di ginecologia e ostetricia definisce l’aborto come «l’espulsione o l’estrazione dalla madre di un embrione o di un feto di meno di 500 grammi di peso (peso che si riferisce aprossimativamente alle 22 settimane complete di gravidanza)». Davanti a questa precisa definizione è chiaro che, per giudicare moralmente l’atto di compiere un aborto, si tratta della distruzione di un embrione o di un feto, senza riguardo per il significato biologico del soggetto che si distrugge.
Per quanto si cerchi di dire il contrario, la biologia è chiara nel dire che ciò che si distrugge è la vita di un essere umano nelle sue prime tappe di sviluppo, ragione per cui nel manifesto sosteniamo che la scienza non è estranea all’aborto e questo non è una questione di credenze personali, ideologiche o religiose. Di fatto, la definizione di embrione che possiamo trovare nei trattati di biologia è inequivocabile: «La prima tappa dello sviluppo di un essere pluricellulare, a partire dalla fecondazione dell’ovocita da parte di uno spermatozoo, che nello sviluppo umano arriva fino all’ottava settimana, dopo la quale diventa feto».
La scienza non dice nulla a livello morale sul fatto di distruggere la vita di un essere umano, questo è compito della coscienza di coloro che vogliono prenderlo in considerazione. Ci dice però quando e come inizia la vita, cosa che abbiamo voluto mettere in chiaro nel manifesto. Quel che sembra chiaro nel tema dell’aborto, come abbiamo avuto occasione di dire personalmente al ministro Bibiana Aído, è che questo spaventoso tema è qualcosa di tanto importante e riguarda tanti punti di vista, che non deve restare esclusivamente nelle mani dei politici, come una guerra non deve restare solamente nelle mani dei militari. Ci sono tanti aspetti scientifici, medici, sociali, etici e giuridici che sono quelli che abbiamo ricordato nel nostro manifesto e che hanno meritato un ampio appoggio da parte dell’elite intellettuale del nostro paese.
Abbiamo detto al ministro che stiamo parlando della vita e della morte. Che occorre sostenere e aiutare l’adozione. Che bisogna aiutare la donna incinta a essere madre. Che l’aborto non è la soluzione, ma una pratica insensata che deve essere abolita e che al momento deve restare fuori da qualsiasi confronto politico e attenersi al campo del significato biologico, della dignità della vita umana nascente, della prassi medica e delle conseguenze per il non nato, la madre e la società.
Tutto quello detto sopra si riassume in un grande Sì alla vita e in un No all’aborto.


SEVESO/ La Brianza chiama l’Abruzzo: nel disastro, la forza di ricostruire - Redazione - lunedì 27 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il 10 luglio 1976 Seveso divenne improvvisamente nota in tutto il mondo. Dal reattore di una fabbrica svizzera nella vicina Meda, l’Icmesa, si era liberata nell’aria una nube di diossina, una sostanza di cui poco si conosceva se non l’alto grado di tossicità. Seveso si ritrovò sotto i riflettori del mondo come teatro del primo rilevante incidente industriale in Europa. Centinaia di persone persero la casa, il lavoro, la serenità, e gli sciacalli ideologici di turno provarono ad approfittare della confusione per scardinare il tessuto sociale del paese e dell’Italia intera, con campagne allarmiste e pro-aborto.
Come oggi accade per la popolazione dell’Abruzzo, ogni calamità – indotta dall’uomo o meno poco importa – svela non solo il bisogno delle persone di essere sostenute nei bisogni quotidiani, ma anche e soprattutto la necessità che qualcuno abbia il coraggio di riaffermare, con forza e passione, la fiducia nell’altro, il desiderio di costruire a partire da qualcosa di vivo, fecondo, ricco di certezza. Che qualcuno, cioè, possa esprimere un impeto educativo vero, per sé e per gli altri. Proprio questo accadde, a Seveso.
Ambrogio Bertoglio allora era un giovane medico trentenne. «Non solo l’incidente - ricorda oggi - ma anche la campagna ideologico-mediatica colpiva pesantemente le famiglie in vario modo. Soprattutto le centinaia di bambini, che da un giorno all’altro trovarono le strade, i prati, i cortili delle zone infestate interdetti al gioco e le scuole chiuse senza sapere quando avrebbero potuto tornarci. Per certi aspetti uno straniamento paragonabile, con le dovute differenze, a quello che vediamo oggi per i terremotati».
«Con gli amici ci rendemmo conto - racconta Bertoglio - che i problemi che si aprivano a Seveso erano di tale portata, mettevano in gioco valori personali e sociali tali, che solo un nostro impegno in prima persona avrebbe potuto rispondere con vera creatività e responsabilità. Forti solo dell’esperienza di bene e positività totale vissuta negli ambiti cristiani delle parrocchie e dei movimenti ecclesiali, ci inventammo una segreteria per coordinare tutte le energie che liberamente si sprigionavano fra le persone e ci buttammo senza riserve a sostenere con “incosciente” coraggio la speranza nostra e delle persone più colpite dall’incidente».
Un’esperienza che subito si allarga, coinvolge altre persone nei dintorni. «Le parrocchie di altri paesi - continua Bertoglio - misero a disposizione gli spazi per le persone bisognose. Ci si mise in moto per organizzare centri educativi e ricreativi dove i bambini potessero passare la giornata per poi la sera tornare dai propri genitori. Era cominciata un’opera educativa permanente che sarebbe continuata in questa forma fino al 1980».
«Nel ’76 avevo 17 anni - ricorda Rosalinda Pivetta, oggi maestra elementare - e con altri amici più grandi passai quell’estate e quelle successive collaborando ai centri diurni che avevamo organizzato per allontanare i più piccoli dalle zone inquinate e offrire loro una compagnia dove sperimentare un po’ di serenità, che, per ovvie ragioni, i famigliari con la preoccupazione della casa e della salute a rischio non riuscivano a garantire. Dopo un breve tragitto in pullman si raggiungeva un bel posto in Brianza dove si trascorreva la giornata giocando, cantando, pregando e cimentandoci in laboratori creativi. Ricordo quel periodo con vera gratitudine. Io, e come me i miei amici, non ho guadagnato nulla dal punto di vista economico, ma ho imparato che rispondendo al bisogno di altri si trova risposta anche al proprio bisogno più grande: stare di fronte a ciò che accade, soprattutto se drammatico e doloroso, con la certezza che tutto ha senso e che, misteriosamente, questo senso è buono».
«Ricordo nitidamente - riprende Bertoglio - la gratitudine di molte famiglie, che ci dicevano: “Abbiamo scoperto una vita più umana di cui sentivamo il bisogno. Abbiamo capito che non si può essere uniti solo con quelli della propria famiglia, cui si è legati per motivi di affetto, ma che è possibile trasferire la fraternità anche fuori dalle mura di casa, nel quartiere e con tutta la società”».
Qualcosa cioè che sembrava impossibile, ma che ha tenuto insieme le persone e di fatto fecondato la storia di un paese, che oggi non solo è vivo e in continua crescita, ma che esprime una ricchezza di opere educative, sociali e assistenziali gestite “dal basso” difficilmente reperibile altrove.
Seveso, come il Friuli, oggi dice questo all’Abruzzo: che solo l’educazione ricostruisce un popolo, perché il bisogno di qualcuno che ci introduca a scoprire il significato buono di tutto è essenziale alla vita quanto il mangiare e il bere.
(Giovanni Toffoletto)


POESIA/ Carlo Michelstaedter, la disperata ricerca di un significato per la vita - Laura Cioni - martedì 28 aprile 2009 – ilsussidiario.net
È appena uscita un’interessante monografia di Maurizio Pistelli su Carlo Michelstaedter. Poesia e ansia di assoluto (Donzelli editore).
Se si potesse inscrivere la personalità di Carlo Michelstaedter in due elementi della natura, quelli più adeguati potrebbero essere la nebbia e il mare.
Vita breve la sua: nasce a Gorizia nel 1887 e lì muore suicida nel 1910, partecipe di quella svolta tra due secoli che, per molteplici ragioni culturali e sociali, fece avvertire a numerosi intellettuali lo smarrimento che di lì a poco avrebbe travolto l’Europa. È tra i maggiori esponenti di un gruppo di personalità dell’estremo lembo orientale della penisola (basti pensare a Svevo, a Saba, a Slataper, a Jahier, a Marin) che, grazie agli scambi con la cultura mitteleuropea e con l’ambiente toscano, elabora l’appartenenza alle proprie radici in opere così significative da trasformare la terra natale in uno dei punti più fecondi della produzione letteraria di quel periodo.
Il poeta nasce da una agiata famiglia ebraica di origine tedesca, ma italiana per lingua e sentimenti, ultimo di quattro fratelli. È l’unico ad avere propensione per gli studi, che compie dopo il liceo nella città natale, dapprima a Vienna e poi a Firenze, dove raccoglie l’insegnamento di studiosi di alta statura come Villari, Comparetti, Rajna, Parodi, Mazzoni.
Rimane affascinato dalla parlata toscana, dalla sua arte, dalla vivacità umana di una città così differente dalla serenità veneta e dalla compostezza austriaca della natia Gorizia. È qui che si compie la sua maturazione culturale. Anche gli amori sbocciati a Firenze, di cui resta precisa traccia nelle poesie di quel periodo, hanno una decisa componente intellettuale. Legge molto. Se le sue prime rime rivelano, come è naturale, debiti carducciani e dannunziani, gli studi e le amicizie di Firenze gli schiudono il mondo letterario di Foscolo, di Leopardi, di Balzac, di Zola, di Goethe, di Ibsen, di Tolstoj, ma anche quello musicale del prediletto Beethoven, degli sport praticati con grande gioia, delle letture filosofiche dei greci, di Hegel, di Marx, di Nietzsche, di Schopenhauer.
Tornato a Gorizia nel 1908 per completare la tesi, ritrova gli amici e per breve tempo ricostruisce con loro un sodalizio che alterna escursioni in montagna e discussioni filosofiche. Ma ben presto rimane solo con la propria inesauribile ricerca intellettuale, in cui l’istanza etica prevale sempre più sull’estetismo dannunziano ancora dominante, come rivelano le sue critiche teatrali.
In molte sue liriche compaiono la nebbia e il mare, come in questa, intitolata All’Isonzo, scritta pochi giorni prima della morte:
Dalle nevose gole, dai torbidi
monti lontani con lena rapida,
con aspro sibilo soffia la raffica,
rompe la densa greve nebbia,
stringe le basse grigie nubi
e le respinge in onde gravide.
Passa radendo sui pioppi tremoli
sul nero piano incombe il peso
della ciclopica lotta dell’etere.
Ma a lei più forte risponde l’impeto
selvaggio e giovine del fiume rapido
cui le corrose rive trattengono. …
E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.
La nebbia allude al conflitto tra il pensiero e l’onda malinconica del sentimento della vita, il mare segna l’approdo sperato di tale conflitto nella vastità della conoscenza. Si rivela qui una personalità pugnace, che malgrado le sconfitte non rinuncia a cercare un senso, a inoltrarsi nel grande mare del significato delle cose.
La sua sventurata fine non è stata probabilmente una resa. In un periodo in cui l’eroe è l’inetto a vivere, la sua figura appare, grazie al coraggio e alla nobiltà intellettuale, non quella di uno sconfitto, ma quella di un vincente. Non è la velleità un po’ dannunziana degli esordi; in una precoce maturità è la ricerca della verità al di là degli accomodamenti borghesi. Il titolo della sua tesi di laurea, dedicata alla madre amatissima e in seguito morta ad Auschwitz, “La persuasione e la rettorica”, dice molto dei vasti interessi di un intellettuale al confine tra poesia e filosofia.


LIBERI PER VIVERE, NON MORIRE - L’ITALIA RINVIGORITA DA UN MOVIMENTO DI POPOLO - DOMENICO DELLE FOGLIE – Avvenire, 28 aprile 2009
I n tempi nei quali la libertà è usa­ta a mo’ di clava contro chiunque abbia solo l’ardire di richiamare il valore delle regole nella conviven­za civile; nei quali la libertà è di­ventata, per troppi, il totem al qua­le sacrificare persino il rispetto nel­le relazioni umane; nei quali la li­bertà si spinge nei territori sino a ieri inviolati e inviolabili della vita umana… ebbene, in questi tempi difficili, poter esprimere in modo forte e alto il nostro ' Liberi per Vi­vere' è una scommessa sul futuro di tutti noi. Di tutti noi italiani che a­miamo e apprezziamo profonda­mente la libertà dei moderni, ma che siamo convinti che essa ci sia data per un fine altissimo: vivere. E che non possa mai tradursi in un i­nesistente e improponibile « diritto di morire » .
La nostra libertà, e quella di tutti gli uomini e le donne che animano questo straordinario Paese che è l’I­talia, crediamo debba essere indi­rizzata al bene, al sommo bene che ci è stato affidato: la vita. Quella vi­ta che ci precede solo perché qual­cuno, un giorno, ce ne ha fatto un dono generoso. Una vita da spen­dere e da far fruttare per il bene di tutti e di ciascuno. Una vita che noi crediamo possa essere vissuta, sino alla fine, senza pagare pegno a quel­le forme di nichilismo pratico che ammorbano il nostro scorrere quo­tidiano e insinuano nelle coscienze il dubbio che, in fondo, alcune vite non siano degne di essere vissute. Magari solo perché qualcuno, lassù in alto nella scala dei poteri, ha sta­bilito che non corrispondano ad al­cuni parametri arbitrari sui quali misurare la loro qualità. Quasi che la qualità della vita possa giustifi­care la rinuncia all’esistenza.
È questo e tanto altro l’operazione ' Liberi per Vivere' che sta decol­lando in tutta Italia, sotto la spinta di quel Manifesto valoriale che sta raggiungendo ogni angolo del Pae­se, e che reca la firma dei presiden­ti di quarantatré fra reti, associa­zioni, movimenti e nuove realtà ec­clesiali italiane. Una dimensione di popolo che investe milioni di uo­mini, donne e ragazzi che vogliono offrire al Paese intero, ma soprat­tutto alle proprie realtà locali, la possibilità di riflettere su un pas­saggio essenziale del dibattito pub­blico. Se cioè, da cattolici si possa e si debba suggerire a tutti i cittadini che la vita, soprattutto la più fragi­le, è meritevole di cure. Ma soprat­tutto che nessuno debba essere condannato alla solitudine nel mo­mento del dolore, così da cercare la morte come la risposta, sbagliata, a una grande domanda di solidarietà. In queste ore e nei prossimi giorni, in tutta Italia si moltiplicheranno gli incontri e verranno diffusi mi­lioni di dépliant, nei circoli come nelle associazioni, nelle parrocchie come in tanti eventi pubblici. È u­na grande occasione, offerta a tutti gli italiani, per farsi interrogare da quello sguardo intensissimo che campeggia sui poster e sui dépliant. Uno sguardo che parla e suggerisce: «Si può vincere la solitudine». Quel­la condizione umana nella quale si insinua la domanda di morire. Per chiudere con il proprio dolore e ma­gari anche per non pesare su chi ci sta attorno. Noi, invece, vogliamo che con ' Liberi per Vivere' spicchi il volo la richiesta di cure palliative per tutti, perché nessuno sia con­dannato a morire nel dolore. E so­prattutto nessuno sia lasciato solo e venga abbandonato. Chiediamo troppo? Se amiamo la vita, e non vogliamo che l’eutanasia e l’acca­nimento terapeutico trovino citta­dinanza nella nostra società libera, ci sembra davvero il minimo.


«L’obiezione sempre un diritto» - DA MILANO – Avvenire, 28 aprile 2009
«Dubito che la con­traccezio­ne possa essere anno­verata tra i diritti fonda­mentali, e tanto meno che possa essere un’au­torità regionale a detta­re regole in materia». Al­berto Gambino, docen­te di Diritto privato al­l’Università Europea di Roma, mostra tutte le perplessità del giurista rispetto alla lettera del direttore dell’Azienda sanitaria delle Marche che impone ai medici la prescrizione della pillo­la del giorno dopo: « Sembra addirittura che la vita sia vista come un disvalore, qualcosa da rifiutare, anziché da promuovere come un bene fondamentale».
Nessun tipo di legame con la legge 194, quin­di nessuna obiezione di coscienza è possibile. È davvero così?
In realtà poiché l’obie­zione di coscienza è un diritto di libertà, è un di­ritto di rango costitu­zionale. Ma ciò non si­gnifica che se non c’è la legge, non esiste possi­bilità di obiezione. Ca­so mai si faccia la legge.
Ma nelle Marche si ne­ga anche la possibilità della clausola di co­scienza. Si può?
Il preteso bilanciamen­to tra gli articoli 20 e 22 del Codice deontologi­co dei medici sembra inserire tra i diritti fon­damentali della perso­na quello di evitare una gravidanza. Qui non c’entra più la salute, si dà per acquisito che e­sista un diritto a non di­ventare madre: siamo ben al di là di quanto prevede la 194, che ve­de il bilanciamento so­lo in relazione alla salu­te della donna. Siamo alle prese con l’amplia­mento delle libertà che diventano pretese giu­ridiche, cui però devo­no dare risposte istitu­zioni pubbliche, in que­sto caso personale sa­nitario, anche se si le­dono i diritti di qualcun altro.
Cosa significa che pre­vale il diritto alla con­traccezione?
In fondo c’è l’idea che la vita è un disvalore, qualcosa da rifiutare. Anziché promuoverla come il bene fonda­mentale, la vita diventa un male da estirpare. Siamo al capovolgi­mento dell’arte medica: il medico non fa più il suo mestiere di tutelare la salute, ma deve for­nire un farmaco per e­vitare quello che social­mente è visto come un male.
Nella lettera si richia­ma anche il possibile ri­sarcimento. Ma quale?
Il danno si risarcisce quando viene leso un diritto soggettivo (per­lopiù di contenuto pa­trimoniale). Qui invece sembra profilarsi il di­ritto alla contraccezio­ne, che invece non c’è. In più se si toccano i di­ritti fondamentali della persona, ci si può chie­dere se siano di compe­tenza regionale. E non credo che una regione possa stabilire un prin­cipio, e un’altra il con­trario.
Ma il medico può esse­re obbligato a una pre­scrizione?
Certo che no, il medico prescrive o meno anche in relazione agli effetti collaterali. Ma secondo la lettera, se ci fossero controindicazioni al­l’assunzione del farma­co, il medico avrebbe lo stesso l’obbligo di pre­scrizione? E a chi toc­cherebbe risarcire il danno eventuale? Qui non viene lasciato mar­gine alla valutazione del medico in scienza e co­scienza.
Enrico Negrotti