martedì 7 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL CRISTIANO FA DOMANDE IN FACCIA A DIO - Abruzzo visitato dal Mistero nei giorni della croce - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 7 aprile 2009
2) TERREMOTO/ Che senso ha? - Pigi Colognesi - martedì 7 aprile 2009 – ilsussidiario.net
3) TERREMOTO ABRUZZO/ Come aiutare la popolazione: l’iniziativa del Banco Alimentare - Redazione - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
4) La persecuzione dei cristiani in Cina - Conferenza a Roma di padre Bernardo Cervellera
5) C'è chi all'ONU considera la fertilità fattore di povertà - di Alessandra Nucci*
6) Chi è l’uomo della Sindone? - Il vaticanista Marco Tosatti racconta l’inchiesta sul telo più visitato al mondo - di Antonio Gaspari
7) I documenti dimostrano che il telo fu custodito e venerato dai cavalieri dell'ordine nel XIII secolo - I templari e la sindone - di Barbara Frale - I templari e la sindone di Cristo è il titolo di un nuovo libro che Il Mulino pubblicherà prima dell'estate. L'autrice, addetto dell'Archivio Segreto Vaticano che ha studiato il processo contro il famoso ordine militare del medioevo, ha già pubblicato sul tema altri volumi
8) Basta chiamarlo blastocisti... - Autore: Vernizzi, Achille Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 5 aprile 2009 - Una discutibile intervista alla prof.ssa Elena Cattaneo
9) 06/04/2009 12:59 – IRAQ - Uccisi cinque cristiani. Arcivescovo di Kirkuk perplesso sul ritiro Usa - Mons. Sako lancia l’allarme: la partenza dell’esercito statunitense rischia di far precipitare il Paese “in una guerra civile”. Tra il 31 marzo e il 4 aprile assassinati cinque cristiani a Kirkuk, Baghdad e Mosul. Nella Settimana santa il prelato chiede di pregare “perché il sangue dei martiri riporti la pace”.
10) IL RICORDO/ Marta Sordi: l’ultima conferenza la volle dedicare a San Paolo - Redazione - martedì 7 aprile 2009 – ilsussidiario.net


IL CRISTIANO FA DOMANDE IN FACCIA A DIO - Abruzzo visitato dal Mistero nei giorni della croce - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 7 aprile 2009
Quando accade un terremoto il Mistero prende posto tra gli uomini. O meglio, rivela d’essere tra gli uomini. Perché il Mistero, se avessimo gli occhi e il cuore aperti, lo vedremmo tra noi anche in ogni nascita di bambino o di foglia, in ogni evento minimo che procura gioia o stupore. Ma quando il petto ci viene così scosso allora siamo tutti disposti a riconoscere la sua presenza. Siamo tutti richiamati. E in questi casi alziamo gli occhi per vedere se questo Mistero che ci tiene in mano ha gli occhi o è cieco. Se ha le orbite vuote, piene di buio, o se ha un volto buono. Se fa le cose a caso.
O se ci guarda con predilezione. Nel dolore è più difficile guardare. Lo sappiamo, è più difficile.
Il dolore tende a far calare le tenebre sullo sguardo e siamo portati a vedere solo la nostra pena. È naturale, è umano che sia così. E a veder le case, quelle costruite magari con pena e sudore di anni chiudersi addosso agli abitanti, ai ragazzi, ai piccoli traditi nel sonno lo sguardo si appanna.
Viene quasi da pensare che se si abitava ancora in capanne, meno agi meno morte... Ma sono pensieri inutili. Vani.
Mentre arrivano le notizie orrende dall’Abruzzo, terra cristiana, piena di luoghi di miracoli, dove vive tanta bella gente, viene da fissare il fondo delle cose, il fondo dei perché dei terremoti, come il perché delle gemme e dei bambini, il fondo del fondo delle cose che vediamo con i nostri occhi, pronti a illuminarsi di gioia o a velarsi di pianto. Viene da affacciarsi a un pozzo che ora ci appare buio e cieco e gridare: cosa vuol dire tutto questo? Occorre farlo.
Se non lo facciamo significa che la nostra coscienza e la nostra intelligenza fatta per leggere i segni della vita sono ottuse. Se non lo facciamo, pur a costo di avere capogiri dell’anima, significa solo che siamo meno uomini, non più cristiani. Perché il cristiano non è fatalista. Il cristiano fa domande in faccia a Dio.
Tratta Dio come Dio. Non crede a una natura madre che diventa matrigna così, tanto per gioco.
Francesco, il santo e poeta, lo sapeva bene. Loda le creature, ma non chiama mai madre la natura.
Sapeva che gli uccellini sono belli, ma anche che il lupo è feroce, che l’acqua è chiara ma sapeva che la lebbra da baciare è orrenda lebbra. Che la natura è sorella, ha bellissimi pregi che indicano una creazione buona, ma è anche piena di difetti, come noi. Sorella, non madre. E Francesco loda gli uomini, tra le creature, che sanno perdonare e sopportare il male in nome di Dio. Perché sono suoi. Perché non sono della natura, ma di Dio.
I cristiani di Abruzzo prendano Francesco come guida in queste ore dolenti. Il cristiano nella settimana in cui Cristo si fa esporre sanguinoso sulla Croce dove grida in faccia a suo Padre «perché mi hai abbandonato?», grida con lui. E chi grida al Padre, anche nelle ore del dolore, non solo nelle ore della pace, sarà ascoltato. Invece il vento, le macerie, un cielo pensato come vuoto no, non ascoltano nessuno. E ricacciano ciascuno nella propria disperazione soltanto. Già lo straordinario impeto di amicizia, di soccorso di queste ore è il primo segno che il cuore dell’uomo è fatto per il bene, per donare. Il segno che il Mistero che nostro Padre ci ha inciso nel cuore è il bene.
Perché è un Dio buono. Tale affermazione, in queste ore, è la più desiderata e necessaria. Può non essere uno scandalo solo fissando la croce e i segni del bene. Può essere ragionevole e umano, tra le macerie, affidarsi a un Dio buono.
Dall’Abruzzo visitato dal Mistero, terra ferita e splendida, dove dimorano le ossa dell’apostolo Tommaso e i segni di tanti miracoli, può venire a tutti noi, così vacui e distratti troppe volte, un richiamo potente. Ed estremo. A essere uomini.


TERREMOTO/ Che senso ha? - Pigi Colognesi - martedì 7 aprile 2009 – ilsussidiario.net
«Oh! Noi non vogliamo dire di più davanti ai lutti e alle rovine dalle dimensioni tragiche, che sembrano superare ogni misura e rifiutare ogni conforto. Vogliamo comprendere e raccogliere in silenzio riverente il grido ineffabile di questa acerbissima pena. Ma una parola non possiamo tacere per i cuori forti, per gli animi buoni: niente disperazione! Niente cecità del fato! La nostra incapacità a dare una spiegazione, che rientri negli schemi abituali della nostra breve e miope logica, non annulla la nostra superiore fiducia nella misteriosa, ma sempre provvida e paterna presenza della bontà divina, che sa risolvere a nostro vantaggio anche le più gravi e incomprensibili sciagure. La Madonna rimetta col suo fiat, la pazienza, la speranza e anche l’Alleluia pasquale sulle nostre labbra e nei nostri cuori». Sono parole di Paolo VI, pronunciate il 9 maggio 1976, pochi giorni dopo il devastante terremoto del Friuli.
Che altro aggiungere? Forse solo ciò che lo stesso Papa Montini disse in quella stessa occasione, che cioè in questo «male che ci colpisce» possiamo intravvedere qualche barlume: «Il primo bene è la solidarietà; il dolore si fa comunitario, e nel nostro abituale disinteresse, e nelle nostre contese egoiste ci fa sperimentare uno sconosciuto amore. Ci sentiamo fratelli, diventiamo cristiani, comprendiamo gli altri, esprimiamo finalmente l’amore disinteressato, solidale e sociale. E poi impariamo a “vincere il male nel bene”, cioè a far scaturire energie positive di bene dalla stessa sventura che ci affligge».
Due giorni dopo il terremoto in Irpinia del 1980, Giovanni Paolo II si è recato personalmente sul posto. Anche lui attonito di fronte alla tragedia: «Ecco i sentimenti, le espressioni che mi vengono dal cuore. Come vedete, vengono con difficoltà, perché la commozione è maggiore della possibilità di parlare e di formulare bene le idee». Ma anche lui carico di speranza: «Io vengo, carissimi fratelli e sorelle, per dirvi che siamo vicino a voi per darvi un segno di quella speranza, che per l’uomo deve essere l’altro uomo. Per l’uomo sofferente, l’uomo sano; per un ferito, un medico, un assistente, un infermiere; per un cristiano, un sacerdote. Così un uomo per un altro uomo. E quando soffrono tanti uomini ci vogliono tanti uomini, molti uomini, per essere accanto a quelli che soffrono. Non posso portarvi niente più di questa presenza; ma con questa presenza si esprime tutto». Con essa, infatti, «si realizza la presenza di Cristo. E, con la presenza di Cristo, il mondo anche stigmatizzato dalla croce porta in sé la speranza della risurrezione».
E, in questa speranza, la tenacia concreta di tutto l’aiuto operativo che si può dare. E a proposito di aiuto operativo che si può dare vi segnaliamo l’iniziativa di solidarietà del Banco Alimentare.


TERREMOTO ABRUZZO/ Come aiutare la popolazione: l’iniziativa del Banco Alimentare - Redazione - lunedì 6 aprile 2009 – ilsussidiario.net
«Al grido doloroso della popolazione d’Abruzzo, colpita dal terremoto, la Fondazione Banco Alimentare Onlus vuole rispondere immediatamente raccogliendo e distribuendo generi alimentari per aiutare chi è stato colpito da un così grave evento - ha spiegato Monsignor Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus - In questo momento, in cui le necessità principali sono il pane e la casa, la Fondazione Banco Alimentare Onlus vuole essere in prima linea a condividere il dolore di questo popolo, consapevole che dalla gratuita condivisione del bisogno nasce sempre un germoglio di speranza, ora più che mai indispensabile per affrontare la fatica del vivere».
Per aiutare la Fondazione Banco Alimentare Onlus ad aiutare le popolazioni colpite dal terremoto, i privati possono fare una donazione in denaro, mentre non sarà possibile accettare donazioni in generi. Le aziende alimentari potranno invece donare direttamente anche cibo.
COME OFFRIRE AIUTO
La Fondazione Banco Alimentare Onlus ha attivato alcuni immediati canali a sostegno delle popolazioni colpite dal terremoto.
CONTO CORRENTE POSTALE N° 28748200
Intestato a: Fondazione Banco Alimentare Onlus
Causale: emergenza terremoto Abruzzo
CONTO CORRENTE BANCARIO
Banca Prossima
IBAN IT52L0335901600100000003514
Intestato a: Fondazione Banco Alimentare Onlus
Causale: emergenza terremoto Abruzzo
DONA ONLINE (con carta di credito)
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per info e segnalazioni:
terremotoabruzzo@bancoalimentare.it
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La persecuzione dei cristiani in Cina - Conferenza a Roma di padre Bernardo Cervellera
di Omar Ebrahime

ROMA, lunedì, 6 aprile 2009 (ZENIT.org).- Sono ormai cinquant’anni che la Chiesa cattolica cinese è costretta a vivere in condizioni di semi-clandestinità. Per parlarne e sensibilizzare si è svolta il 1° aprile a Roma, organizzata dalla Fondazione Lepanto, una conferenza sulle persecuzioni nei confronti dei cristiani in Cina.
All’incontro, moderato dal professor Roberto de Mattei, docente all’Università Europea di Roma e Vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, hanno partecipato Antonello Brandi, fondatore e presidente dell’Italian Laogai Research Foundation (www.laogai.it), un centro di ricerca che si occupa di informare l’opinione pubblica sull’esistenza dei terribili campi di concentramento cinesi del Terzo millennio, e padre Bernardo Cervellera, missionario del PIME (Pontificio Istituto Misioni Estere) e direttore responsabile dell’agenzia di notizie Asia News (www.asianews.it).
Presentando una ricerca del suo centro studi, dal titolo “I laogai, le esecuzioni capitali e la vendita degli organi umani in Cina”, Brandi ha spiegato che attualmente in Cina diversi milioni di persone sono detenute, sfruttate e torturate nei laogai.
Con questo termine (che letteralmente in cinese significa “riforma attraverso il lavoro”) si designano infatti dei moderni campi di concentramento in cui esseri umani, costretti a vivere in condizioni di assoluta prostrazione, fisica e morale, vengono obbligati a lavorare anche 16 ore al giorno con lo scopo di fabbricare prodotti per il regime comunista cinese in spregio di ogni tutela sociale.
Nel 2008 ne sono stati censiti circa 1400, ma nessuno è al corrente del numero esatto. La loro creazione risale a Mao Zedong (1893-1976) che li istituì nel 1950, sotto consiglio degli alleati sovietici. Vi sono rinchiusi dissidenti del regime (politici e civili) nonché religiosi di ogni genere (monaci tibetani, Vescovi cattolici, pastori protestanti), oltre a criminali comuni.
Per il regime di Pechino i laogai hanno un duplice obiettivo: da una parte opprimere i dissidenti politici e fiaccare la resistenza all’ideologia del partito unico, dall’altra avvalersi di forza-lavoro a costo-zero.
Padre Cervellera si è invece soffermato sui problemi più specificamente religiosi, denunciando che la Cina di oggi “è ancora un Paese comunista perché si rileva ovunque un forte controllo sociale sulla vita delle persone”.
E’ una pressione che tocca tutti gli aspetti più intimi della vita delle persone: dalla libertà di associazione (sottoposta ad autorizzazione governativa) a quella di culto (ugualmente limitata) arrivando perfino ad internet (molti siti considerati non in linea con l’ideologia del regime vengono oscurati).
Particolarmente allarmanti sono le condizioni in cui i Vescovi cattolici che vogliono restare fedeli al Papa devono vivere: l’obbedienza ‘spirituale’ di un cittadino cinese a uno Stato straniero (la Santa Sede) viene infatti considerata come un tradimento della Patria e punita con pene severissime.
A tal proposito va osservato che numerosi sono i vescovi scomparsi da decenni e di cui non si sono più avute notizie: per molti di loro l’ipotesi più probabile è quella della morte violenta con l’immediata cremazione del corpo per far perdere ogni traccia del crimine commesso.
Nonostante tutto, però, all’orizzonte sembra profilarsi comunque la speranza. Cervellera ha infatti sottolineato come negli ultimi anni, a fronte di questa situazione di persecuzione, o forse proprio per questa, ci sia stata una “impressionante rinascita religiosa” che ha visto le chiese riempirsi come non mai.


C'è chi all'ONU considera la fertilità fattore di povertà - di Alessandra Nucci*

ROMA, lunedì, 6 aprile 2009 (ZENIT.org).- La riunione annuale della Commissione ONU su Popolazione e Sviluppo si è svolta, in questo XV anniversario della Conferenza del Cairo, con gli stati del mondo più che mai divisi: da una parte chi considera la popolazione una benedizione, e ritiene prioritario costruire scuole, ospedali, e lottare contro la povertà; dall'altra chi la popolazione la considera un peso, da alleggerire limitando la fertilità delle donne e rendendo universali i “diritti sessuali e riproduttivi", ivi compreso l’aborto “sicuro”.
È quanto scrive C-FAM, benemerita associazione che si è assunta da anni il compito di contrastare le strategie messe in atto dalle lobby de-nataliste presso le istituzioni internazionali, i cui effetti a distanza ricadono su tutto il mondo. La divisione è stata netta, riferisce C-FAM, al punto che si è temuto perfino di non riuscire a redigere un documento condiviso.
Alla fine però al blocco de-natalista, capitanato dall’Unione europea e dal Canada, non è riuscito il tentativo di far ridefinire i “diritti riproduttivi” in modo tale da includere l'aborto, nonostante il nuovo presidente americano Obama avesse portato dalla loro parte anche il peso e l’influenza degli Stati Uniti.
Sono prevalse in questo contrasto le forze pro-vita, a cui il vessillo della Santa Sede, che all’ONU ha la qualifica di Osservatore Permanente, ha dato sempre il coraggio di sfidare le grandi potenze nonostante il potere di ricatto insito negli organismi finanziari internazionali.
Interessante notare che la coalizione pro-“scelta” (nessuno alle Nazioni Unite, fa notare C-FAM, usa apertamente la parola “aborto”) ha dichiarato, come sempre, di parlare a nome delle donne, proclamando l’esistenza di loro “unmet needs”, ovvero “bisogni non soddisfatti”, in riferimento alla pianificazione familiare nei paesi meno sviluppati.
“I dati sulla prevalenza contraccettiva – recitava il documento della Divisione delle Nazioni Unite sulla popolazione (UNPD), presentato alla vigilia della convocazione della Commissione - confermano che l’uso di moderni metodi contraccettivi fra le donne nei paesi meno sviluppati rimane bassa, con appena il 24 per cento delle donne… che usano metodi moderni”.
Automatica quindi l’attribuzione del “bisogno insoddisfatto” di pianificazione familiare, inclusivi di contraccezione e aborto, a tutto il restante 76 per cento, contando quindi anche le donne che i figli li vogliono, oppure non hanno un’intensa attività sessuale, non tollerano gli effetti collaterali della contraccezione, o serbano obiezioni di tipo etico e religioso.
Il documento, intitolato “Cosa occorre per accelerare il declino nella fertilità dei paesi meno sviluppati?” parte dall’assunto maltusiano che ci sia una relazione fra prolificità femminile e povertà, nesso che la storia si è incaricata sempre di smentire: basti pensare che nel XX secolo la popolazione mondiale si è quadruplicata, mentre il Pil globale pro-capite è quintuplicato.
E la popolazione, fa notare Lant Princhett, economista di Harvard e poi economista senior alla banca Mondiale, citato da C-FAM, dipende dal desiderio della gente di avere figli, non da programmi statali.
La vicenda dimostra ancora una volta la facilità con cui si attribuiscono strumentalmente alle donne, come categoria, esigenze e desideri che in realtà riflettono la volontà solamente di una parte di esse.
Il meccanismo scatta, talvolta anche in maniera contraddittoria, ogniqualvolta si intavola il discorso dell’uguaglianza. Un esempio recente è l’ingiunzione dell’Unione europea all’Italia di alzare l’età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni per uniformarla a quella degli uomini. Si è tentato di dire che anche questo corrisponderebbe a un diritto delle donne, e che la discriminazione sarebbe a danno loro e non degli uomini.
L’assunto naturalmente sarebbe che tutti vogliono lavorare, e fuori casa, il più a lungo possibile.
Lo stesso principio sta alla base della spinta ad uniformare gli orari lavorativi, additando le statistiche che rilevano quante donne lavorano part-time come prova di una evidente discriminazione a loro danno, anziché una conquista sindacale fortemente voluta dalle donne stesse per tutelare la maternità e la famiglia.
Il disancoramento delle rivendicazioni politiche dai desideri reali delle donne si riscontra ogni volta che si tasta il polso dell’uguaglianza uomo/donna senza considerare il fattore maternità/famiglia, oppure considerando tale fattore solo come un peso da spartirsi e mai come una legittima aspirazione.
Viceversa, secondo molti studi la minore retribuzione o il “soffitto di vetro” che frena la carriera delle donne riflettono quasi sempre le scelte diverse effettuate da una maggioranza di donne, che preferiscono dedicare più tempo alla famiglia oppure scelgono un lavoro congeniale, anche a scapito dello stipendio.
Interpretare queste scelte come frutto di condizionamenti di cui le donne stesse – anche se colte - non sarebbero consapevoli, e da cui avrebbero massimamente bisogno di essere salvate (“coscientizzate”), si risolve in un atteggiamento di chiaro stampo paternalistico, anche quando ad assumerlo fossero altre donne.
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*Alessandra Nucci, già docente e giornalista, è direttrice del periodico cattolico “Una Voce Grida” e autrice del libro “La donna ad una dimensione. Femminismo antagonista ed egemonia culturale”, che ha vinto Il fiorino d’oro per la saggistica Premio Firenze nel 2007.


Chi è l’uomo della Sindone? - Il vaticanista Marco Tosatti racconta l’inchiesta sul telo più visitato al mondo - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 6 aprile 2009 (ZENIT.org).- Custodito presso il Duomo di Torino c’è un lenzuolo di lino protagonista di una storia fitta di misteri e di colpi di scena. E’ la Sindone, il telo più famoso al mondo, quello che milioni di fedeli ritengono abbia avvolto, duemila anni fa, il corpo di Gesù deposto nel sepolcro.
Alcuni sono però convinti che si tratti di un falso storico perchè il telo, secondo analisi fatte nel 1988 con il metodo del C14, è risalente al tardo medioevo.
Le datazioni sembrano però smentite da quegli stessi scienziati che le eseguirono venti anni fa. A questo si aggiunge la quantità di misteri che riguardano il come e il perchè si sia formata l’immagine sul telo e le innumerevoli somiglianze di quell’immagine con la persona di Gesù che diceva di essere figlio di Dio.
Marco Tosatti, vaticanista de “La Stampa”, ha cercato di rispondere alle mille domande sulla Sindone, con un inchiesta che è diventata un libro: “Inchiesta sulla Sindone” (Piemme, 320 pagine, 15 Euro).
L’autore ha interpellato esperti e storici, ha consultato documenti e fonti, ha esaminato anche le più remote tessere di quello che sembra un vero e proprio mosaico di intrighi, segreti e misteri.
Tosatti non ha esitato a indagare anche tra i poteri occulti. Fu infatti il Cardinale Anastasio Alberto Ballestrero, Arcivescovo di Genova, che accennò ad alcune frange massoniche, interessate a screditare quello che forse è un testimone muto della Resurrezione.
Per conoscere gli esiti dell’inchiesta, ZENIT ha intervistato Marco Tosatti.
Nel libro lei sostiene che l’esame del C14 sulla Sindone era sbagliato. Ci spiega come e perchè è arrivato a queste conclusioni e che cosa cambia nel dibattito in corso sulle origini della Sindone?
Tosatti: I numeri, non io, sono giunti a queste conclusioni. Diciamo intanto che i laboratori e il British Museum non hanno mai fornito, nonostante ripetute richieste da parte del committente, la diocesi di Torino, i “dati grezzi” degli esami compiuti, necessari per capire che cosa è veramente successo.
Ma anche solo esaminando i dati pubblicati su Nature, un ingegnere di Milano, Ernesto Brunati, si è accorto che c’era qualche cosa che non andava. Ho chiesto di rifare i calcoli a due professori di matematica e statistica della Sapienza, che non c’entrano nulla con il mondo della Sindone. Livia De Giovanni e Pierluigi Conti, che hanno confermato: c’era un errore di calcolo, tale da inficiare la validità dell’esame.
La “tolleranza” di errore che i tre laboratori si erano dati era del 5%; e dai numeri di Nature sembrava che si fosse raggiunto proprio il minimo, il 5%. In realtà è stato raggiunto l’uno per cento. L’esame avrebbe dovuto essere rifatto, ma i campioni ormai erano distrutti. Grazie agli esami di alcun professori americani, l’ultimo dei quali è Roberto Villareal, del Los Alamos Center, che ha presentato le sue scoperte nell’agosto 2008, credo che si sia scoperto qual’era il problema.
Una contaminazione fortissima del tessuto, e un “rammendo invisibile” praticato nel Medioevo, o dopo. L’unico risultato scientifico che supporta la tesi del falso medievale è l’esame al C14. Se questo cade, come secondo me è caduto, tutta la discussione si riapre. E’ necessaria certamente una nuova stagione di ricerche scientifiche.
Da questa indagine che idea si è fatta dell’Uomo della Sindone?
Tosatti: L’idea che mi sono fatta (e ho preso in considerazione solo i dati scientifici “duri”, cioè supportati da esami rivisti da “pari” esperti) è che quel telo abbia ospitato il corpo reale di un uomo flagellato durissimamente, e morto in croce. Il sangue è sangue, e l’immagine non è dipinta, e non è neppure ottenuta dal contatto con una superficie molto calda (strinatura), perché non c’è fluorescenza.
Perchè quel telo affascina ancora così tante persone?
Tosatti: Perché è un oggetto incredibilmente suggestivo, enigmatico e maestoso. E non sto parlando di fede o di cattolici; fra i più appassionati ricercatori della Sindone ci sono ebrei come Avinoam Danin, e protestanti come William Meacham, per non citarne che due. Senza tener conto di agnostici come Delage, e altri professori e ricercatori americani. Un qualche cosa di assolutamente unico al mondo.
Quali sono gli argomenti per cui lei crede che quell’uomo fosse il Gesù di cui si parla nei Vangeli?
Tosatti: Perché quello che ci racconta il telo calza come un guanto sui racconti della Passione. Le ferite, la flagellazione, il colpo di lancia (invece del crurifragium lo spezzare le gambe per far morire di asfissia i crocifissi ebrei prima del sabato) addirittura le scorticature sulle ginocchia…Vero o falso, quel telo rappresenta Gesù.
Se l’uomo della Sindone è Gesù, allora dobbiamo pensare che quel telo è un reperto per stupire gli scettici e per spingere gli uomini ad avere più fede? Oppure no?
Tosatti: Mi sono posto questa domanda. Io credo che chi è credente non abbia bisogno della Sindone. Ma certamente chi è credente, sapendo che non è un artefatto, la vede con occhi diversi. Mi è anche venuto in mente un pensiero, che spero non venga giudicato irriverente. Il buon Dio si è “divertito”, se come penso è autentica, lasciandoci un oggetto così “esagerato” nella sua tremenda veridicità. Tremenda perché racconta di una violenza e di una crudeltà enormi.
E’ vero che nel telo ci sono tracce ematiche, cioè il sangue di Cristo?
Tosatti: Nel libro riporto il racconto di come alcuni studiosi americani – uno dei quali, Adler, ebreo – hanno certificato che quello sulla Sindone è sangue. Ma altri, fra cui Baima Bollone, lo hanno confermato. Se non ricordo male sono stati compiuti almeno dodici esami diversi per verificare se si trattava realmente di sangue. E la risposta è positiva.
Ci dia almeno un motivo per convincerci a leggere il suo libro?
Tosatti: Le do un motivo totalmente laico. Quella della Sindone, e dei misteri ad essa collegati, antichi e attuali, comprese non poche cose legate all’esame del C14, è una delle storie più intriganti e affascinanti che mi è capitato di scrivere. In 28 anni da vaticanista me ne sono sempre occupato poco; lavoravo per La Stampa, e di conseguenza il telo era “coperto” da colleghi della città in cui la Sindone è conservata. Sono grato a Piemme per avermi chiesto di scrivere quest’inchiesta, che mi ha obbligatoriamente condotto in un mondo meravigliosamente coinvolgente. E ho cercato di renderne se non altro qualche riflesso.


I documenti dimostrano che il telo fu custodito e venerato dai cavalieri dell'ordine nel XIII secolo - I templari e la sindone - di Barbara Frale - I templari e la sindone di Cristo è il titolo di un nuovo libro che Il Mulino pubblicherà prima dell'estate. L'autrice, addetto dell'Archivio Segreto Vaticano che ha studiato il processo contro il famoso ordine militare del medioevo, ha già pubblicato sul tema altri volumi
I templari e la sindone di Cristo è il titolo di un nuovo libro che Il Mulino pubblicherà prima dell'estate. L'autrice, addetto dell'Archivio Segreto Vaticano che ha studiato il processo contro il famoso ordine militare del medioevo, ha già pubblicato sul tema altri volumi - L'ultima battaglia dei Templari. Dal codice ombra d'obbedienza militare alla costruzione del processo per eresia (Roma, Libreria Editrice Viella, 2001, pagine 337, euro 24, 79); Il Papato e il processo ai Templari. L'inedita assoluzione di Chinon alla luce della diplomatica pontificia (Roma, Libreria Editrice Viella, 2003, pagine 239, euro 20); I Templari (Bologna, Il Mulino, 2004, pagine 193, euro 12; nuova edizione, 2007); Notizie storiche sul processo ai Templari (in Processus contra Templarios, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2007, pp. 103-249) - e anticipa in questo articolo i contenuti del suo ultimo studio.
Nell'anno 1287 un giovane di buona famiglia del meridione francese, chiamato Arnaut Sabbatier, chiese e ottenne di entrare nell'ordine religioso e militare dei templari: qualcosa che nella società del tempo costituiva un gran privilegio sotto molti punti di vista. Nato a Gerusalemme poco dopo la prima crociata, con la missione di difendere i cristiani di Terrasanta, quello del Tempio diventò ben presto l'ordine più potente e illustre del medioevo cristiano.
Durante la sua cerimonia d'ingresso, dopo aver preso i tre voti monastici di povertà, obbedienza e castità, il precettore condusse il giovane Arnaut in un luogo chiuso, accessibile ai soli frati del Tempio: qui gli mostrò un lungo telo di lino che portava impressa la figura di un uomo e gli impose di adorarlo baciandogli per tre volte i piedi.
Questa testimonianza proviene dai documenti del processo ai templari ed è quasi sconosciuta agli storici poiché rappresenta una goccia nel mare per chi debba studiare le intricatissime vicende di quel grande complotto innescato nel 1307 dal re di Francia Filippo IV il Bello ai danni del Tempio, divenuto ormai quasi uno Stato autonomo all'interno del suo regno. Tuttavia quel documento possiede un valore di primo piano per chi sia interessato a indagare le dinamiche di un'altra storia: quella che segue il trasferimento della sindone di Torino dalla corte degli imperatori bizantini - dove era rimasta fino all'anno 1204 - verso l'Europa, dove ricompare a metà del XIV secolo, nelle mani di una nobile famiglia francese.
Nel 1978 uno storico laureatosi a Oxford, Ian Wilson, aveva ricostruito le peripezie storiche della sindone mettendo in evidenza come il telo, considerato la più importante reliquia della passione di Cristo, fosse stato rubato dalla cappella degli imperatori bizantini durante il tremendo saccheggio consumato durante la quarta crociata nel 1204.
Wilson metteva a confronto tante testimonianze rilasciate dai frati del Tempio durante il processo e faceva notare che fra le accuse avanzate contro di loro dal re di Francia c'era quella di adorare segretamente un misterioso "idolo", un ritratto che raffigurava un uomo con la barba.
Grazie a una serie di indizi, l'autore suggeriva come il misterioso "idolo" venerato dai templari altro non fosse che la sindone di Torino, chiusa in una teca speciale fatta apposta per lasciar vedere solo l'immagine del volto, e venerata in assoluto segreto in quanto la sua stessa esistenza all'interno dell'ordine era un fatto molto compromettente: l'oggetto era stato rubato durante un orribile saccheggio, sugli autori del quale Papa Innocenzo iii aveva lanciato la scomunica, e anche per il traffico delle reliquie era stata sancita la stessa pena dal concilio Lateranense IV nel 1215.
Che l'avessero presa direttamente oppure comprata da qualcun altro, dichiarando al mondo di possedere la sindone i templari rischiavano in ogni caso la scomunica. Secondo Wilson, gli "anni oscuri" durante i quali le fonti storiche non parlano della sindone corrispondono in realtà al periodo in cui la reliquia fu custodita in assoluto segreto dai templari. A suo tempo la tesi suscitò molti entusiasmi poiché permetteva di dare risposte coerenti a tanti punti non chiariti che ancora permanevano sulla storia della sindone e sul processo contro i templari, ma la comunità scientifica rimase insoddisfatta in quanto le prove documentarie addotte dallo studioso apparivano tutto sommato scarse.
A distanza di trent'anni ho provato ad aggiungere alla tesi di Wilson molti tasselli mancanti. In questo nuovo libro ho analizzato fonti inedite riguardanti i templari e la storia antica della sindone giungendo a una conclusione: nel corso del Duecento, quando la società cristiana è turbata dalla proliferazione delle eresie che negano la reale umanità di Cristo, l'ordine del Tempio, a causa delle sue molte immunità, rischia di diventare una specie di porto franco per gli eretici di lignaggio cavalleresco che cercano d'intrufolarvisi per mettersi al riparo dalle autorità inquisitoriali.
Se questo fosse successo davvero, il Tempio si sarebbe trovato destrutturato nella sua identità religiosa. I capi dell'ordine frequentavano la corte bizantina per la quale avevano svolto varie mediazioni diplomatiche, conoscevano l'enorme sacrario imperiale di Costantinopoli dove per secoli gli imperatori avevano raccolto con cura minuziosa le più famose e antiche reliquie di Cristo, della Vergine e dei santi. Sapevano anche che i teologi bizantini avevano enfatizzato il potere delle reliquie di Cristo per contrastare la predicazione degli eretici, soprattutto delle sette di stampo docetista e gnostico secondo le quali Cristo era un essere di solo spirito e non aveva mai avuto un vero corpo umano, ma solo l'apparenza di un uomo.
Insomma, i templari si procurarono la sindone per scongiurare il rischio che il loro ordine subisse la stessa contaminazione ereticale che stava affliggendo gran parte della società cristiana al loro tempo: era il miglior antidoto contro tutte le eresie. I catari e gli altri eretici affermavano che Cristo non aveva vero corpo umano né vero sangue, che non aveva mai sofferto la Passione, non era mai morto, non era risorto; per questo non celebravano l'Eucarestia, considerata a loro giudizio un rito privo di senso non avendo Cristo mai avuto una vera carne.
Una volta aperta completamente, la sindone portava l'immagine impressionante di quel corpo massacrato proprio come era avvenuto a Gesù secondo i vangeli: si vedeva tutto, la carne dei muscoli tesi nella rigidità che accompagna le prime ore dopo la morte, il volto gonfio sotto l'effetto delle percosse, la pelle strappata dagli aculei del flagello. E c'era tanto sangue, sangue dappertutto, quello che secondo l'evangelista Matteo era stato "versato per molti in remissione dei peccati" (Matteo, 26, 28). L'umanità di Cristo sopraffatta dalla violenza degli uomini, quell'umanità che i catari dicevano immaginaria, si poteva invece vedere, toccare, baciare.
Questo è qualcosa che per l'uomo del medioevo non aveva prezzo; qualcosa ben più potente dei sermoni dei predicatori e anche della repressione degli inquisitori. I Pontefici più accorti lo avevano capito, e così si comprendono iniziative come quella di Innocenzo iii che promosse il culto della Veronica o quella di Urbano iv che solennizzò il miracolo di Bolsena istituendo la festa del Corpus Domini.
I templari diedero allora vita a liturgie speciali di venerazione della sindone come l'uso di consacrare le cordicelle del loro abito mettendole a contatto con l'inestimabile reliquia, affinché il potere sacro di quell'oggetto li proteggesse sempre dai nemici del corpo e dello spirito; oppure la liturgia descritta dal templare Arnaut Sabbatier ricordata in apertura. E anche Carlo Borromeo, quando nel 1578 si recò pellegrino alla sindone viaggiando a piedi da Milano a Torino, la venerò praticando il bacio sulle ferite dei piedi proprio come usavano fare i dignitari del Tempio.
Questo libro - una ricostruzione di taglio storico-archeologico che non entra in questioni teologiche - rappresenta in realtà la prima parte di uno studio dedicato alla sindone che si completerà con un secondo volume in preparazione di stampa (La sindone di Gesù Nazareno, sempre per Il Mulino). Attraverso una lunga ricerca documentaria provo a rispondere a molti quesiti della storia ma anche a proporre ipotesi di studio che potrebbero aprire nuovi sentieri di ricerca: come quella che riguarda le enigmatiche tracce di scrittura in greco, latino ed ebraico identificate da alcuni esperti francesi sul lino della sindone, parole tracciate in origine su un documento che entrò in contatto con il telo e vi lasciò una specie di impronta.
Osservatore Romano 5-4-2009


Basta chiamarlo blastocisti... - Autore: Vernizzi, Achille Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 5 aprile 2009 - Una discutibile intervista alla prof.ssa Elena Cattaneo
Sul portale di www.unimi.it nelle scorse settimane è stato dato molto risalto all'iniziativa di divulgazione nelle scuole superiori milanesi degli aspetti scientifici inerenti le staminali.
Una delle personalità promotrici di tale iniziativa era la prof.ssa Elena Cattaneo, dell’Università degli Studi di Milano. Sul quotidiano “City” del 3 aprile 2009, a pag. 15, Elena Cattaneo viene intervistata sull’argomento delle staminali. Ecco alcune frasi dell’intervista:
"Per estrarre le staminali embrionali bisogna distruggere la blastocisti. E una parte della società ritiene che questa struttura di 150-200 cellule in vitro, grande meno di un millimetro, sia una persona. E che quindi non si debba usare per fare la ricerca. Ma è una posizione contraddittoria...."
A me viene da pensare che anche Cristo è stato una "struttura di 150-200 cellule", e mi viene da chiedere alla professoressa, che tiene molto a precisare di essere cattolica e credente, se, secondo lei sia diventato vero uomo solo quando ha raggiunto le 500 o le 500.000 cellule, mentre prima era solo vero Dio.
"Solo in Italia ci sono tremila blastocisti (cioè embrioni), congelate nei freezer" ..."Sono le blastocisti in sovrannumero create nei trattamenti per la fecondazione artificiale prima della legge 40. Sono destinate al congelamento distruttivo"..."Se uno pensa che siano persone non so come faccia a dormire la notte. La ricerca chiede che siano messe a disposizione per capire e sperare un domani di curare".
La professoressa, poi, candidamente aggiunge: "Non voglio dare false illusioni per le cure, oggi sono solo tre le terapie mediche possibili...le leucemie... curate col trapianto di staminali da midollo, la cornea... riparata con staminali prese dall'occhio e la pelle", cioè tutte e tre le tecniche, mi sembra di capire, usano staminali NON embrionali. Del resto, come spiega il Professor Angelo Vescovi, del San Raffaele, (http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=14924), dopo che nel giugno 2006 Shinya Yamanaka, un ricercatore giapponese, ha portato a termine il cosiddetto sistema delle iPS, ovverosia l’inserimento in cellule adulte di alcuni geni che le fanno regredire allo stadio embrionale, è la ricerca sulle cosiddette staminali adulte quella che dà maggiori probabilità di successo. Ma tant’è: anche il grande e benemerito Edison lottò con tutte le sue energie a lungo per dimostrare che la corrente continua era quella che doveva avere un futuro e non l’alternata, per il semplice motivo che lui aveva sviluppato la prima, e George Westinghouse la seconda! Poi però sappiamo come è finita...


06/04/2009 12:59 – IRAQ - Uccisi cinque cristiani. Arcivescovo di Kirkuk perplesso sul ritiro Usa - Mons. Sako lancia l’allarme: la partenza dell’esercito statunitense rischia di far precipitare il Paese “in una guerra civile”. Tra il 31 marzo e il 4 aprile assassinati cinque cristiani a Kirkuk, Baghdad e Mosul. Nella Settimana santa il prelato chiede di pregare “perché il sangue dei martiri riporti la pace”.
Kirkuk (AsiaNews) – Il ritiro delle forze di sicurezza americane “crea un vuoto” che potrebbe sfociare “in una guerra civile” e alla “divisione del Paese”. È l’allarme lanciato da mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, il quale conferma “l’assassinio di cinque cristiani irakeni” fra la fine di marzo e i primi di aprile.
“Non si è ancora vista una vera riconciliazione fra i gruppi etnici e religiosi – racconta il prelato – e la sicurezza resta ancora fragile. Esercito e polizia locali non sono in grado di mantenere l’ordine e il controllo del Paese”; la partenza dell’esercito americano potrebbe causare “un ulteriore aumento delle violenze”. Le parole di mons. Sako sono a commento delle ultime notizie riguardanti l’uccisione di alcuni cristiani.
La mattina del 31 marzo a Kirkuk è stato ucciso Sabah Aziz Solaiman: l’uomo, 71enne, è morto in seguito a un tentativo di rapina nella sua abitazione. I banditi sono penetrati all’interno della casa, rubando beni e oggetti, infine hanno ucciso l’uomo senza alcuna pietà. La moglie si è salvata perché era appena uscita per andare al lavoro. Il primo aprile a Baghdad Nimroud Khodir Moshi – proprietario di un ristorante nel quartiere al Mashtal – è stato freddato a colpi di pistola davanti all’ingresso del locale. Gli assassini sono fuggiti facendo perdere le loro tracce. Il due aprile nel quartiere al’ Dora’ Mecanic sono morte due sorelle di 47 e 60 anni. L’ultimo attacco il 4 aprile a Mosul, nel quartiere al Madida: Abudul Aziz Elias Aziz, riparatore di generatori elettrici, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco sulla soglia della sua officina.
L’arcivescovo di Kirkuk conferma la “preoccupazione” che tutte queste violenze spingano i cristiani a un esodo “che pare non finire”; egli ribadisce il “pericolo” che una storia di duemila anni venga “cancellata dal Paese”. La fuga dei cristiani, inoltre, aumenta il pericolo per quanti “decidono di restare”. “In questa Settimana santa – è l’appello di mons. Sako ad AsiaNews – preghiamo per la pace e la stabilità dell’Iraq, preghiamo perché il sangue dei martiri possa riportare la pace. Cristo crocifisso e risorto ci chiede di perseverare e mantenere questa presenza e testimonianza”.
Nei giorni scorsi fonti ecclesiastiche di AsiaNews a Mosul avevano avvertito del pericolo di nuovi attacchi contro i cristiani: “La comunità – conferma un cattolico caldeo – è finita nel mirino delle organizzazioni criminali. Esse colpiscono i cristiani per le loro attività commerciali, attirati dal denaro e dai beni accumulati grazie ad una vita di lavoro e sacrifici”. La fonte spiega che “un tempo i malviventi godevano della copertura e della protezione fornite da al Qaeda”; ora che la matrice “ideologica e confessionale” è stata sconfitta, emerge con “maggiore violenza la criminalità comune e organizzata: essa è attirata dal denaro, ma non si fa scrupoli ad ammazzare a sangue freddo”.


IL RICORDO/ Marta Sordi: l’ultima conferenza la volle dedicare a San Paolo - Redazione - martedì 7 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Con Marta Sordi scompare una delle menti più lucide che gli studi storici italiani hanno avuto negli ultimi decenni. Per chi ha avuto la fortuna di assistere alle sue lezioni di Storia greca e Storia romana all’Università Cattolica di Milano, il ricordo che rimane intatto è quello di una mente vivacissima, capace di maneggiare con una confidenza straordinaria le fonti storiche antiche, conducendo lo studente alla scoperta personale e criticamente raggiunta della verità dei fatti accaduti nei secoli lontani della classicità.
Ma quello che resta è anche l’apporto specifico del magistero di Marta Sordi: gli studi insuperati sulla diffusione del cristianesimo nei primi secoli dell’impero romano, la capacità di leggere nel loro valore storico le fonti neotestamentarie, contro ogni pregiudizio ideologico, la lungimiranza nel seguire senza timidezza strade mai battute da altri. Questo il debito perenne che tutti noi abbiamo nei confronti di questa grandissima studiosa: l’aver tolto dai fumi dello scetticismo ideologico la storia delle origini e dei primi secoli del cristianesimo, restituendone la vera dimensione e il vero portato culturale e sociale. Per tenere vivo il ricordo di tutto questo, abbiamo deciso di proporre qui ai nostri lettori un inedito di Marta Sordi: una lezione/dibattito tenuta al Centro Culturale di Milano sulla figura di San Paolo. Ci sembra un buon modo per ricordarla.
M. SORDI - Noi sentiamo parlare di Paolo ancora persecutore al tempo del martirio di santo Stefano. Questo si data, secondo me, nel 34 d.C. – eventualmente potrei spiegare perché lo dato con certezza nel 34 d.C. – e il testo degli Atti dice che Paolo era neanias, giovane; in latino classico questo “giovane” sarebbe tradotto con adulescens, che vuol dire sotto i trent’anni. Quindi doveva essere nato fra il 6, il 7, l’8 d.C.. Questa è l’unica cosa che si può dire, che sia proprio nato nell’8 d.C. non è certo. Però la data è scelta bene, in sostanza: doveva avere circa ventisei-ventisette anni, e va bene l’adulescens dei Romani. Per fare subito una scaletta della cronologia di Paolo, credo che si possa andare più sul sicuro, anche se sono in contrasto con quella tradizionale. La data del proconsolato di Cipro di Sergio Paolo è attestata da iscrizioni romane ed è tra il 46 e il 48 d.C.. Sergio Paolo è sicuramente anteriore al cosiddetto Concilio di Gerusalemme, per comune accettazione del 49, e si può stabilire sulla base della lettera ai Galati di san Paolo con le indicazioni “tre anni” e poi “quattordici anni”; con il calcolo inclusivo partendo dal 34 viene appunto il 49. Invece la data più importante per cominciare una cronologia di Paolo è il proconsolato di Gallione in Acaia. Giunio Gallione era il fratello di Seneca adottato da un’altra famiglia, ed è arrivato come proconsole in Acaia (e qui abbiamo l’iscrizione precisa) nell’estate del 51. Al momento dell’arrivo di Gallione, san Paolo era già da un anno e mezzo a Corinto, quindi doveva essere arrivato nel 50. Si incontra con Gallione e parte dopo alcuni giorni. Questo quadra perfettamente con l’arrivo di Aquila e di Priscilla da Roma, che erano arrivati prosphàtos, dice il testo, cioè recentemente, da poco, in seguito all’espulsione degli ebrei da Roma da parte di Claudio – attenzione, ho detto degli ebrei, e non dei cristiani e degli ebrei come si ritiene generalmente, perché questo è un falso, è un’interpretazione tarda di Orosio: chrestos non è Cristo, è un normale ebreo di Roma; il nome Crestus era molto diffuso tra gli ebrei, perché voleva dire buono. Quindi nel 49 Aquila e Priscilla, che poi saranno i collaboratori principali di Paolo, erano ancora ebrei; ovviamente si convertono, e diventano i suoi amici più intimi. Erano arrivati da poco; Paolo, dunque, sta a Corinto dal 50 fino all’estate del 51. Da lì parte per l’Asia - si parla di tre mesi e poi di due anni a Efeso: arriviamo al 52-53. Da Efeso egli ha già l’idea di andare a portare le collette a Gerusalemme per la Pentecoste dell’anno successivo, e poi vorrebbe andare a Roma.
Essendo ad Efeso nel 53, la Pentecoste cui lui pensava, evidentemente, è la primavera avanzata del 54. Arriva a Gerusalemme nel 54, effettivamente confermato dal fatto della procuratela di Antonio Felice – potrebbe essere anche Claudio, Felice è comunque il nome del procuratore romano di Giudea – il quale è il primo cui viene denunziato san Paolo e che inizia il processo. A questo punto gli Atti dicono: “essendo passati due anni, Felice ebbe come successore Porzio Festo”. Questi due anni sono la chiave di tutta la cronologia, perché sono stati intesi erroneamente, a mio avviso, come gli anni passati da Paolo in prigionia sotto Felice. Invece già uno studioso tedesco, il Lambertz – io mi sono rifatta a questo studio - sostiene giustamente che questi due anni sono gli anni delle procuratele sotto Claudio dei governatori della Giudea. I predecessori di Felice erano stati in carica tutti per due anni; dopo Porzio Festo avremo un cambiamento perché il procuratore si tratterrà per tutta la Giudea: non si tratta più di Claudio, bensì di Nerone; i governatori del tempo di Claudio, comunque, rimangono in carica tutti due anni, vale a dire dalla fine del 52 alla fine del 54, in questo caso. Questo è confermato dalle monete di Felice del 53 e del 54.
Controprova: sappiamo che gli ebrei accusarono Felice a Roma, perché aveva governato male, mentre Festo poi governò molto bene, e qui fu lasciato sul posto fino alla morte. In seguito al malgoverno di Felice, quindi, arrivò una protesta dei suoi sudditi e l’imperatore avrebbe dovuto punirlo, ma sia Tacito sia Flavio Giuseppe ci dicono che la causa fu insabbiata da Pallante, che era il fratello, uno dei potentissimi liberti di Claudio che era ancora al potere e che riuscì a bloccare la questione. Ora Pallante cadde in disgrazia da Nerone verso la metà del 55, quindi Felice è arrivato a Roma nel 55 e Festo alla fine del 54; Paolo è stato una stagione circa, di nuovo, con Porzio Festo, ha subito un processo sotto di lui e, ad un certo momento, ha fatto l’appello a Cesare per essere mandato a Roma direttamente. Festo, che aveva mandato anche Erode Agrippa per aiutarlo a capire qualcosa in questa faccenda disse: “Noi avremmo anche potuto assolvere, ma siccome si è appellato a Cesare ha diritto di andare a Roma”. La partenza di san Paolo per Roma è dell’anno 55 avanzato: gli Atti raccontano il viaggio che finì in autunno dopo varie soste in diversi punti del Mediterraneo, in seguito a quella a Malta nel 56, con l’arrivo in Sicilia e infine a Roma. La prigionia romana di Paolo, quindi, che è datata due anni interi, va dalla primavera/estate del 56 alla primavera/estate del 58. Un ultimo punto sulla cronologia che mi sembra molto saldo è che, stranamente, le lettere di Paolo a Seneca, di cui poi parleremo parlando di Roma, cominciano esattamente nell’estate del 58 e questo un falsario non poteva saperlo.
J. M. GARCIA - La cronologia più classica è diversa, però ha le sue ragioni. Voglio solo fare una domanda alla professoressa perché anche gli stessi Paolo e Luca, negli Atti degli Apostoli, dicono che Felice era da molti anni giudice di questo popolo, del popolo ebraico; la stessa informazione viene anche da Tacito.
M. SORDI - Rispondo subito, dice da alcuni anni…
J. M. GARCIA – Il greco dice molti anni!
M. SORDI - Il punto è questo: effettivamente Felice era stato anni prima in Samaria, quindi conosceva la zona e quindi è possibile dire che da parecchi anni nel 54…
J. M. GARCIA –Sì, però da parecchi anni non vuol dire due…
M. SORDI - Non so se si può giocare sui numeri… e comunque la data esatta viene riferita.
J. M. GARCIA – Sì, però il problema è che neanche Luca ha tanto interesse nel datare le procuratele dei prefetti… comunque l’unico punto interessante, che secondo me vale la pena indagare (perché la cronologia di Paolo è veramente molto discussa e su di essa, al 100 per cento, non avremo mai certezze, tanto che non siamo neanche sicuri sulla nascita, né sull’anno della morte) sono questi rapporti molto ben stabiliti di Paolo con quelle personalità del mondo politico e culturale; su questo vale la pena fermarci un po’.
M. SORDI – Certamente. Pensavo poi di parlarne in riferimento all’Asia o Roma, però non so se parlarne già adesso…
J. M. GARCIA - Parliamone…
M. SORDI - Una cosa che colpisce è la capacità di Paolo di stabilire i rapporti con Pagani eminenti, sia Romani che Greci a Roma, questa è una cosa che mi ha colpito molto, oppure anche a livello semplicemente di centurioni. Proprio il rapporto con Sergio Paolo, il proconsole di Cipro – su cui in seguito insisteremo - poi ancora il rapporto a Efeso con gli asiarchi. Gli asiarchi erano suoi amici: quando scoppia il tumulto degli argentieri gli asiarchi, che erano amici di Paolo, gli dicono “non ti preoccupare, ci presentiamo noi a placare la folla” ed erano pagani, anzi erano coloro che si dedicavano al culto pagano delle province, erano Greci ma rappresentavano gli uomini di fiducia di Roma; il segretario dell’assemblea, ad un certo punto, dice: «state attenti, se ne occuperà il proconsole che non gradisce queste cose». Paolo, dunque, era in rapporto con gli asiarchi, con il segretario della Boulè che interviene a suo favore. Nel viaggio per Roma nasce il rapporto con un centurione, che si affeziona subito a Paolo. Il centurione doveva portare vari prigionieri a Roma: quando la nave è in pericolo e viene voglia di affondarla e di buttare a mare i prigionieri, non lo fa proprio perché vuole salvare Paolo. C’è, dunque, una capacità notevole di impostare il dialogo con i pagani, anche pagani della classe dirigente sia greca che romana. Questa è una premessa molto importante per il famoso epistolario ritenuto per lo più apocrifo fra san Paolo e Seneca, che invece rivelerebbe una amicizia duratura, un amicizia fra il principale consigliere di Nerone prima del 62 e Paolo. Ritorneremo su questo perché la capacità di dialogo, di discutere con questa gente, è un elemento molto importante.
J. M. GARCIA – Abbiamo fatto un salto sulla formazione di Paolo, e secondo me questo è molto importante. Faccio un riferimento alla nascita e alla formazione di Paolo, perché sicuramente è l’apostolo più conosciuto da tutti, grazie alle sue lettere e ai racconti che abbiamo nel libro degli Atti degli Apostoli. Addirittura Paolo ha scritto qualche notizia autobiografica nelle sue lettere, tutte molto interessanti. Da queste notizie autobiografiche si può dedurre almeno qualche punto fisso della sua origine e formazione. Prima di tutto ci tiene a dire che fa parte della tribù Beniamino, una delle tribù che rimasero fedeli al Patto con Javhé, perché abitava nella Giudea. Fu circonciso nell’ottavo giorno, tutto legale, come stipulato nella legge di Mosè. Ripete parecchie volte che è ebreo, figlio di ebrei. Secondo parecchi studiosi ciò significa che i suoi genitori erano originari della Palestina e addirittura che, probabilmente, parlavano la lingua aramaica. Evidentemente questo lo ripete dappertutto, in quasi tutte le sue lettere, è fariseo, educato proprio nella setta dei farisei. Cosa vuol dire questo? Secondo me è una cosa molto importante, perché significa che non appartiene soltanto a una setta di osservanza stretta della legge e che è uno studioso costante - questo si capisce leggendo le sue lettere: ha una conoscenza enorme dell’Antico Testamento – ma che apparteneva a un’élite religiosa, composta da laici preoccupati soltanto della santità rituale o della purezza rituale. Era impossibile poter vivere come un ebreo ortodosso fuori dalla terra della Palestina. Nella Diaspora non c’erano dei farisei. Questo significa che l’educazione di Paolo è avvenuta all’interno della terra della Palestina. Luca, negli Atti degli Apostoli, scrive questo su Paolo: “Io sono un giudeo (un ebreo), nato a Tarso di Cilicia, ma allevato in questa città (a Gerusalemme), educato ai piedi di Gamalien, nella rigida osservanza della legge dei nostri padri”. Qui usa tre verbi, tre participi, che sono molto interessanti, perché parla della sua nascita, situata a Tarso. Poi la crescita e anche la sua formazione come fariseo avviene a Gerusalemme. Uno studioso, poi seguito da altri, ha studiato filologicamente in modo molto accurato questi verbi: secondo lui Paolo cominciò a vivere nella città sacra prima che potesse guardare fuori dalla porta e camminare per la strada: cioè arriva da bimbo. Cosa vuol dire questo? Che tutta la formazione di Paolo è ebrea. Questo, secondo me, ha delle conseguenze molto interessanti rispetto a quella opinione o ipotesi molto diffusa soprattutto nel XIX e inizio del XX secolo, che afferma che Paolo è stato il vero fondatore del cristianesimo, perché è stato lui a fare questa simbiosi tra la fede cristiana della Palestina con la cultura greca ellenistica che aveva imparato nella città di Tarso. Invece no. Da quello che si deduce dalle sue lettere e da quello che afferma lo stesso Luca, lui è ebreo e la sua formazione non permette di fare questa simbiosi. Dopo mi fermerò un po’ per ragionare che non si può dedurre neanche da quello che lui racconta nella lettera ai Galati. Però è vero che lui sa il greco, anche se riconosce di saperlo male, per due volte lo riconosce (la seconda volta nella lettera ai Corinzi). Questo è normale perché la cultura greca era molto diffusa – su questo può parlare molto bene la professoressa Sordi – era molto diffusa e aveva anche penetrato la lingua e la cultura greca all’interno della Palestina. La cul tura, non tuttavia la religione, perché gli ebrei tenevano tantissimo a rimanere fedeli alla loro religione monoteistica, al loro Patto con Javhé. Quindi dalla sua formazione, dalla sua conoscenza, dal suo sviluppo, dall’infanzia fino a diventare un “rabbino”, lui non ha avuto questo influsso questa conoscenza della cultura ellenica. È vero che fa riferimento a qualche autore greco, che a volte cita, soprattutto nel discorso ad Atene, però uno potrebbe fare riferimenti a frasi e affermazioni di certi filosofi che invece non ha letto. Quindi non è che da lì si può dedurre con chiarezza che lui abbia avuto una formazione greca. Relativamente all’aspetto della formazione, sottolineerei questo aspetto, che è ebraico: lui inizia con Barnaba il suo primo viaggio missionario e infatti arriva al primo posto che loro due scelgono: Cipro. Normalmente gli studiosi dicono che è un’isola dove la presenza ebraica era molto diffusa, e questo potrebbe favorire la diffusione del cristianesimo. Però anche Alessandria era una città molto ebrea. Perché scelgono Cipro e poi il resto del primo viaggio?
M. SORDI – Io sono d’accordo sul fatto che la formazione fondamentale di Paolo sia ebraica: lo dice lui. Però bisogna anche ricordare che era cittadino romano dalla nascita, il che vuol dire che apparteneva a una famiglia di rango piuttosto elevato, che probabilmente aveva avuto la cittadinanza - la cittadinanza l’aveva il padre - sotto Augusto. Infatti una delle ipotesi sul nome vero di Paolo come cittadino romano sarebbe Caius Iulius Saul. Iulius è probabile perché sarebbe il nome della gens di Augusto, e in generale i cittadini romani stranieri che prendevano cittadinanza romana assumevano il nome del patrono, cioè di colui che l’aveva data. Quindi andrebbe benissimo questa ipotesi. Naturalmente è un’ipotesi perché potrebbe essere stato un governatore romano ad avergliela data. Qui di fatto, l’essere cittadino romano dalla nascita presuppone anche un certo tipo di cultura. Indubbiamente sapeva il greco. Le citazioni che fa di Cleante o di Arato, che sono dei poeti greci stoici, di tendenza stoica nel discorso dell’Areopago, non necessariamente rivelano una cultura “appiccicata”, perché più avanti vedremo che lui sa impostare molto bene questo dialogo con gli stoici. Ora veniamo senz’altro alla missione in Asia, che per me è veramente importantissima perché è quella nella quale Paolo prende coscienza della sua missione per le genti. Dunque la prima tappa è Cipro: a Cipro Paolo e Barnaba non hanno intenzione di parlare ai pagani, sembra, ma stanno parlando a una sinagoga ebraica. Il proconsole di Cipro, che aveva presso di sé un mago ebreo, interessato a queste notizie lo chiama, Paolo compie un miracolo davanti a lui, e gli Atti dicono “il proconsole credette”. Non c’è dubbio che qui si tratta di una conversione, visto che il verbo greco pisteuo indica la credenza per fede: accettò la fede.
Da questo momento si stabilisce un rapporto importantissimo fra Paolo e Sergio Paolo. Luca da questo momento dice Paolo, Saul anzi (fino a questo momento lo chiama Saul), era diventato il cognome dei trianomina romani, Saul o Kaipaulos, detto anche Paolo. Da questo momento in poi è solo Paolo. Quindi il cognome diventa da signum cognome e da questo momento è Paolo il nome romano. Poi un altro elemento interessante è che la famiglia dei Sergi Pauli appare legata stranamente alla Chiesa a Roma, perché il figlio di Sergio Paolo fonda un collegium codeste in domo per la sepoltura degli schiavi liberti: con ogni probabilità è una chiesa cristiana. La terminologia è la stessa: al posto della formula “la chiesa che è in casa di…” cui seguiva il nome o i nomi di coloro che ospitavano queste chiese domestiche – tale formula si trova spesso nella Lettera ai Romani - la terminologia ufficiale diventa “collegium codeste in domo”. Questi si trovano sotto il figlio di Sergio Paolo e poi con Sergia Paulina, la nipote, nel II secolo dopo Cristo. Un’altra cosa interessante è che Sergia Paulina si sposa e avvengono matrimoni all’interno di famiglie probabilmente cristiane. Ad esempio gli Aciri Glabiones, un cui membro era morto addirittura martire sotto Domiziano. Quindi si stabilisce indubbiamente un rapporto, ma c’è qualcosa di più importante: la decisione di andare in Asia e non nell’Asia costiera molto nota, Efeso, Mileto, le grandi e civilissime città greche dell’Asia minore, ma nell’Asia interna, che era stata colonizzata di recente dai romani e che faceva parte della provincia della Grazia (l’attuale Turchia) e ci era stata sottomessa nella provincia recente con colonie romane e Paolo va proprio in questa zona, e tocca tutte le colonie romane di Augusto, seguendo la Via Sebaste, che era la via augustea fondata da Augusto. In questa zona, i Sergi Pau li avevano i loro beni perché probabilmente erano discendenti dei coloni augustei di Antiochia di Pisidia: infatti, il primo luogo che Paolo affronta è Antiochia di Pisidia, poi c’è Listri, quindi Conio e Derbe. Proprio lungo la Via Sebaste, che ci porta nel cuore della attuale Turchia, la Galazia antica. Il modo di predicare di Paolo in questa zona: prima di tutto si rivolge agli ebrei nelle sinagoghe. Una cosa interessante è però la composizione etnica di questa regione: era già stata civilizzata dai Macedoni e dai Seleucidi e quindi c’era l’elemento greco, poi c’era stata la colonizzazione romana al tempo augusteo, poi c’era il fondamento indigeno, licaonico, che viene messo in evidenza dagli Atti: gli Istri parlavano ancora la loro lingua. E poi c’erano moltissimi ebrei e colonie ebraiche fortissime. Paolo sceglie di parlare per primo alla sinagoga di sabato. Partecipano anche i cosiddetti timorati di Dio (i cosiddetti seboumenoi) che ascoltano: quindi pagani che non avevano preso la circoncisione (quelli erano i proseliti) ma che apprezzavano le idee fondamentali del giudaismo, soprattutto il monoteismo. A questi Paolo parla un linguaggio assolutamente riservato agli ebrei. Il primo discorso di Paolo ricorda molto quello di Stefano; mette i evidenza tutti i profeti, la storia ebraica, le grandi profezie su Cristo, fino ad arrivare a Cristo come adempimento delle profezie e poi alla sua morte e resurrezione. È la linea che aveva seguito Stefano a Gerusalemme e che Paolo segue regolarmente nel discorso con gli ebrei. La settimana dopo arriva tutta la città di Antiochia di Pisidia compresi i pagani veri, molti si convertono e molti degli ebrei si staccano da Paolo e vannovia. A questo punto Paolo dice che parlerà coi pagani.
La stessa cosa avviene esattamente nelle altre città di Conio e poi a Derbe. L’Istri è un po’ un’eccezione, perché la prevalenza lì è degli indigeni pagani che scambiano Paolo e Barnaba addirittura per degli dei scesi in terra. C’è il discorso che rivela un metodo completamente diverso e che in un certo senso preannuncia quello dell’Areopago ad Atene, con meno cultura ma con le idee sostanziali di Dio creatore, Dio che ha stabilito l’ordine delle stagioni, per cui gli uomini trovano il vitto, possono sopravvivere e poi Cristo che viene. Ma parte dal Dio-creatore, non parte più dalle profezie, non parla più delle vicende del popolo giudaico, ma un discorso che ricorda molto quello di Atene. Questo è il primo viaggio di Paolo. Poi c’è il Concilio di Gerusalemme che nasce proprio dalla protesta di alcuni ebrei circa questa adesione in massa dei pagani e dal fatto che bisognerebbe imporre anche a loro la circoncisione. E invece il concilio, proprio per iniziativa di Pietro (e questo rivela come Paolo non sia il fondatore del cristianesimo e dell’apertura al giudaismo ma segue una linea che era stata anche di Pietro). Pietro ricorda il caso del centurione Cornelio, e quindi il Concilio di Gerusalemme dichiara che i pagani non devono essere circoncisi. Il secondo viaggio, di ritorno da questo, per confermare le chiese già fondate e che hanno già dei presbiteri. Quindi mette persone di sua fiducia alla testa delle singole chiese. Voleva ancora rimanere in Asia ma c’è il famoso messaggio divino dell’immagine del Macedone che viene improvvisamente a Troade e gli dice: «Vieni da noi, abbiamo bisogno di te», e Paolo passa in Europa. E lì il cammino parte dalla colonia romana dei Filippi. La caratteristica romana dei Filippi è calcata da Luca negli Atti: non si parla di arconte e di capi ma di stategorici ederdunviri e ureglavi, poi di vittori e la gente stessa protesta. La cosa interessante è che lì il giudaismo era pochissimo penetrato tanto che Paolo non trova una sinagoga in cui parlare ma deve parlare ad alcune donne pie monache di Dio ma di origine non ebraica che si riunivano per la preghiera intorno a un fiume. A Filippi, poi, si stabilirà un rapporto, dopo il famoso episodio dell’incarceramento e del terremoto, rapporto con lo stesso carceriere e un rapporto con la città, che è fondamentale, perché nella lettera ai Filippesi Paolo dirà che sono gli unici con cui ha un rapporto: erano quelli che mandavano viveri e mezzi a Roma; è molto importante il rapporto di Paolo con questa colonia, che era stata fondata da Marcantonio, risaliva probabilmente alla battaglia di Filippi. Poi c’è la sosta a Tessalonica, quindi a Berea e poi c’è il famoso passo all’Areopago ad Atene, poi Corinto: prima c’è la Sinagoga, poi la sosta nella città (ho già detto la cronologia di Corinto). Tutto finisce dopo una accusa degli ebrei davanti al proconsole, accusa secondo la quale Paolo predicava contro la legge; Paolo risponde “sarà la vostra legge, non la nostra”. Paolo, dopo qualche giorno, parte. La seconda visita di Paolo in Asia lo porta a rivedere le chiese della Galatia cui era molto attaccato, che subivano le pressioni dei giudeizzanti che volevano imporre la circoncisione - pensate alla lettera ai Galati, quella più forte, in cui dice: “Galati insensati, volete tornare indietro da quello che vi ho detto?”. La visita più importante è a Efeso, dove soggiornerà due anni: Efeso era la capitale della provincia d’Asia, città greca. Ora anche questa era una partecipazione indigena molto antica,che si manifestava in questo culto dell’Artemide Fevia, da cui scoppia poi l’insurrezione, contro Paolo, degli argentieri.
(27-5-2008)