martedì 12 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il papa in Israele. Primo giorno, sorpresa doppia - Il mondo lo aspettava al varco sulle questioni più esplosive: l'antisemitismo, la guerra. Ma Benedetto XVI ha fatto a modo suo. Ha estratto dalla Bibbia due parole. E con la prima ha spiegato le condizioni della pace. Con la seconda ha illuminato il mistero della Shoah - di Sandro Magister
2) Cristo sì, Chiesa no? - ROMA, lunedì, 11 maggio (ZENIT.org).- Mons. Raffaello Martinelli, sacerdote della diocesi di Bergamo, dopo aver conseguito il dottorato in Sacra Teologia con specializzazione in pastorale catechistica presso l’Università Lateranense di Roma e la laurea in Pedagogia all’Università Cattolica di Milano, è dal 1980 a servizio della Congregazione per la Dottrina della Fede.
3) Il pazzo di Montfort - San Luigi-Maria Grignion de Montfort elesse san Paolo a suo modello di missionario
4) EUROPEE/ Ornaghi: l’Europa cristiana è la vera novità politica e culturale - INT. Lorenzo Ornaghi - martedì 12 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) TERRORISMO/ La vedova Calabresi: in un abbraccio il perdono atteso da 40 anni - Redazione - martedì 12 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) DIARIO DA ISRAELE/ Il Papa? È venuto anche per il piccolo Mohamed, musulmano e palestinese - Redazione - martedì 12 maggio 2009 – ilsussidiario.net
7) LA CONSULTA NON RINNEGA I PRINCIPI DELLA LEGGE 40 - I medici omaggiati La loro autonomia esaltata - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 12 maggio 2009


Il papa in Israele. Primo giorno, sorpresa doppia - Il mondo lo aspettava al varco sulle questioni più esplosive: l'antisemitismo, la guerra. Ma Benedetto XVI ha fatto a modo suo. Ha estratto dalla Bibbia due parole. E con la prima ha spiegato le condizioni della pace. Con la seconda ha illuminato il mistero della Shoah - di Sandro Magister
ROMA, 12 maggio 2009 – Appena arrivato lunedì in terra d'Israele, Benedetto XVI ha immediatamente preso di petto le questioni più controverse: prima la pace e la sicurezza, poi la Shoah e l'antisemitismo.

Su entrambi i fronti era atteso al varco. Sottoposto a pressioni incessanti e non sempre leali. Per molti suoi critici il copione era già scritto, ed essi aspettavano solo di giudicare se e come il papa l'avrebbe osservato.

Invece Benedetto XVI s'è mosso con sorprendente originalità. In un caso e nell'altro.

L'avvento della pace l'ha legato indissolubilmente a quel "cercare Dio" che era già stato il tema dominante del suo memorabile discorso di Parigi al mondo della cultura: uno dei discorsi capitali del suo pontificato. Mentre il tema della sicurezza – nevralgico per Israele – l'ha svolto a partire dalla parola biblica "betah", che vuol dire sì sicurezza ma anche fiducia: e l'una non può stare senza l'altra.

Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale delle vittime della Shoah con incisi i loro nomi a milioni – il papa ha poi illuminato il senso di un'altra parola biblica: il "nome". I nomi di tutti "sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente". E quindi "non si può mai portar via il nome di un altro essere umano", nemmeno quando gli si vuol toglier tutto. Il grido degli uccisi sale dalla terra come dai tempi di Abele, contro ogni spargimento di sangue innocente, e Dio tutti ascolta, perché "non sono esaurite le sue misericordie". Queste ultime parole, tratte dal libro delle Lamentazioni, il papa le ha scritte firmando il libro d'onore.

Il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem, e prima di questo l'altro pronunciato su pace e sicurezza durante la visita al presidente Shimon Peres, sono riprodotti qui di seguito. Entrambi sono di lunedì 11 maggio 2009, primo giorno della sua visita in Israele.

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"Cercate Dio e la pace vi sarà data" di Benedetto XVI
Signor presidente, [...] oggi desidero assicurare a lei [...] come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità. In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.

La pace è prima di tutto un dono divino. La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità. Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”. Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”. Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (Geremia 29, 11-14).

Ai leader religiosi oggi presenti vorrei dire che il contributo particolare delle religioni nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio. Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista, che Egli agisce nel nostro mondo per il nostro bene, e che il futuro della società è contrassegnato dalla speranza quando vibra in armonia con l’ordine divino.

È la presenza dinamica di Dio che raduna insieme i cuori ed assicura l’unità. Di fatto, il fondamento ultimo dell’unità tra le persone sta nella perfetta unicità e universalità di Dio, che ha creato l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza per condurci entro la sua vita divina, così che tutti possano essere una cosa sola.

Pertanto, i leader religiosi devono essere coscienti che qualsiasi divisione o tensione, ogni tendenza all’introversione o al sospetto fra credenti o tra le nostre comunità può facilmente condurre ad una contraddizione che oscura l’unicità dell’Onnipotente, tradisce la nostra unità e contraddice l’Unico che rivela se stesso come “ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34, 6; Salmo 138, 2; Salmo 85, 11). Cari amici, Gerusalemme, che da lungo tempo è stata un crocevia di popoli di diversa origine, è una città che permette ad ebrei, cristiani e musulmani sia di assumersi il dovere che di godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell’unico Dio; di svelare il piano dell’Onnipotente, annunciato ad Abramo, per l’unità della famiglia umana; e di proclamare la vera natura dell’uomo quale cercatore di Dio. Impegniamoci dunque ad assicurare che, mediante l’ammaestramento e la guida delle nostre rispettive comunità, le sosterremo nell’essere fedeli a ciò che veramente sono come credenti, sempre consapevoli dell’infinita bontà di Dio, dell’inviolabile dignità di ogni essere umano e dell’unità dell’intera famiglia umana.

La Sacra Scrittura ci offre anche una sua comprensione della sicurezza. Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza – "batah" – deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza. Nel libro del profeta Isaia leggiamo di un tempo di benedizione divina: “Infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (32, 15-17). Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili. Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo.

Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace. Naturalmente, ci si aspetta che i leader civili e politici assicurino una giusta e adeguata sicurezza per il popolo a cui servizio essi sono stati eletti.

Questo obiettivo forma una parte della giusta promozione dei valori comuni all’umanità e pertanto non possono contrastare con l’unità della famiglia umana. I valori e i fini autentici di una società, che sempre tutelano la dignità umana, sono indivisibili, universali e interdipendenti. Non si possono pertanto realizzare quando cadono preda di interessi particolari o di politiche frammentarie. Il vero interesse di una nazione viene sempre servito mediante il perseguimento della giustizia per tutti.

Gentili Signore e Signori, una sicurezza durevole è questione di fiducia, alimentata nella giustizia e nell’integrità, suggellata dalla conversione dei cuori che ci obbliga a guardare l’altro negli occhi e a riconoscere il “tu” come un mio simile, un mio fratello, una mia sorella. In tale maniera non diventerà forse la società stessa un “giardino ricolmo di frutti” (cfr. Isaia 32, 15), segnato non da blocchi e ostruzioni, ma dalla coesione e dall’armonia? Non può forse divenire una comunità di nobili aspirazioni, dove a tutti di buon grado viene dato accesso all’educazione, alla dimora familiare, alla possibilità d’impiego, una società pronta ad edificare sulle fondamenta durevoli della speranza?

Per concludere, desidero rivolgermi alle comuni famiglie di questa città, di questa terra. Quali genitori vorrebbero mai violenza, insicurezza o divisione per il loro figlio o per la loro figlia? Quale umano obiettivo politico può mai essere servito attraverso conflitti e violenze? Odo il grido di quanti vivono in questo paese che invocano giustizia, pace, rispetto per la loro dignità, stabile sicurezza, una vita quotidiana libera dalla paura di minacce esterne e di insensata violenza. So che un numero considerevole di uomini, donne e giovani stanno lavorando per la pace e la solidarietà attraverso programmi culturali e iniziative di sostegno pratico e compassionevole; umili abbastanza per perdonare, essi hanno il coraggio di tener stretto il sogno che è loro diritto.

Signor presidente, la ringrazio per la cortesia dimostratami e la assicuro ancora una volta delle mie preghiere per il governo e per tutti i cittadini di questo Stato. Possa un’autentica conversione dei cuori di tutti condurre ad un sempre più deciso impegno per la pace e la sicurezza attraverso la giustizia per ciascuno. Shalom!

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"I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio" di Benedetto XVI
“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 5).
Questo passo tratto dal libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: "yad", memoriale, "shem", nome. Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente.

Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà. Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto. E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano.

La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale. Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Genesi 17, 5). Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr. Genesi 32, 29). I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.

Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata. Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente. Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa!

La Chiesa cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate. Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione: le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia. Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr. Salmo 85, 9).

Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie. Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana. Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr. Salmo 9, 9).

Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome. Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini. Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino!

Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente. Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani:

“Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà. Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero. Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3, 22-26).

Cari amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.


Cristo sì, Chiesa no? - ROMA, lunedì, 11 maggio (ZENIT.org).- Mons. Raffaello Martinelli, sacerdote della diocesi di Bergamo, dopo aver conseguito il dottorato in Sacra Teologia con specializzazione in pastorale catechistica presso l’Università Lateranense di Roma e la laurea in Pedagogia all’Università Cattolica di Milano, è dal 1980 a servizio della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Come Primicerio della Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso in Roma, ha realizzato alcune schede catechistiche su vari argomenti d‘attualità, a disposizione di quanti entrano nella suddetta Basilica. Ne sono state prese oltre 2.000.000 di copie, in circa due anni.
Sono state redatte, in forma dialogica, sulla base di documenti della Santa Sede e, in particolare, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio.
Tutte le 50 schede catechistiche sono state raccolte e pubblicate in un tascabile, 50 Argomenti d’attualità – catechesi dialogica, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, come pure si ritrovano sul sito internet: www.sancarlo.pcn.net.



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Si può separare Cristo dalla Chiesa, o la Chiesa da Cristo?
■ No, assolutamente. Nulla c’è di più assurdo che separare la Chiesa da Cristo. Fra Cristo e la Chiesa non c’è alcuna divisione né contrapposizione. E questo per diversi motivi:
• la Chiesa è fondata sugli Apostoli, scelti direttamente da Cristo. Essi “sono così il segno più evidente della volontà di Gesù riguardo all’esistenza e alla missione della sua Chiesa, la garanzia che fra Cristo e la Chiesa non c’è alcuna contrapposizione” (BENEDETTO XVI, Catechesi del mercoledì, 15/3/06): “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i dodici...” (Mc 3,13-16; cfr. Mt 10,1-4; Lc 6,12-16).
Per mezzo degli Apostoli, risaliamo dunque a Gesù stesso;
• la Chiesa è il Corpo di Cristo, che ne è il Capo (cfr. Ef 5,3). Non si può separare il Capo dal Corpo né viceversa: si avrebbero due realtà snaturate, decapitate. Cristo «è il Capo del Corpo, cioè della Chiesa» (Col 1,18). Cristo e Chiesa formano il “Cristo totale - Christus totus. (…) Pienezza di Cristo: il Capo e le membra. Qual è la Testa, e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa” (Sant’AGOSTINO, In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8); «Capo e membra sono, per così dire, una sola persona mistica» (San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, III, q. 48, a. 2, ad 1). “Come il capo e il corpo formano un unico uomo, così il Figlio della Vergine e le sue membra elette costituiscono un solo uomo e l’unico Figlio dell’uomo. Secondo la Scrittura il Cristo totale e integrale è Capo e Corpo, vale a dire tutte le membra assieme sono un unico Corpo, il quale con il suo Capo è l’unico Figlio dell’uomo, con il Figlio di Dio è l’unico Figlio di Dio, con Dio è lui stesso un solo Dio. Quindi tutto il Corpo con il Capo è Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Dio. Perciò si legge nel Vangelo: Voglio, o Padre, che come io e tu siamo una cosa sola, così anch’essi siano una cosa sola con noi (cfr. Gv 17, 21). Secondo questo famoso testo della Scrittura né il Corpo è senza Capo né il Capo senza Corpo, né il Cristo totale, Capo e Corpo, è senza Dio” (BEATO ISACCO, - monaco cistercense, vissuto nel XII sec.-, Discorso 42);
• se si separasse Cristo dalla Chiesa;
- si avrebbe una falsificazione della realtà e della missione di Cristo stesso: si avrebbe “un Gesù di fantasia. Non possiamo avere Gesù senza la realtà che egli ha creato e nella quale si comunica. Tra il Figlio di Dio fatto carne e la sua Chiesa v’è una profonda, inscindibile e misteriosa continuità, in forza della quale Cristo è presente oggi nel suo popolo” (BENEDETTO XVI, Catechesi del mercoledì, 15/3/06);
- si snaturerebbe sostanzialmente anche la natura stessa della Chiesa, la quale, separata dal Suo fondatore e dal Suo Capo, non sarebbe più la stessa realtà. La Chiesa è di Cristo, è nata dalla Sua volontà, dal Suo cuore, dalla Sua Morte e Risurrezione, dalla effusione del Suo Spirito. “La Chiesa non ha altra luce che quella di Cristo. Secondo un’immagine cara ai Padri della Chiesa, essa è simile alla luna, la cui luce è tutta riflesso del sole” (CCC, 748). La Chiesa pertanto non vive di se stessa e per se stessa, ma di Cristo, con Lui, per Lui e per la missione da Lui affidatale: annunciare il Suo Vangelo e comunicare agli uomini la Salvezza operata da Cristo;
• siamo membra della Chiesa, fratelli gli uni degli altri, proprio e solo in quanto siamo fratelli di Cristo. Formiamo la Chiesa, in quanto Cristo ci unisce intimamente a Sé. E’ Lui che ci fa essere una cosa sola tra noi. Più siamo uniti a Lui e più siamo uniti tra noi. Ciò si realizza in particolare mediante il sacramento del Battesimo, in virtù del quale siamo uniti alla Morte e alla Risurrezione di Cristo, e mediante il sacramento dell’Eucaristia, grazie alla quale “partecipando realmente al Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi” (Lg, 7);
• “Se non si ha la Chiesa per madre, non si può avere Dio per Padre” (San CIPRIANO - inizio del III secolo - , De Ecclesiae catholicae unitate, 6);
• “ Dov'è la Chiesa, è anche lo Spirito di Dio; e dov'è lo Spirito di Dio, è la Chiesa e ogni grazia” (SANT'IRENEO DI LIONE, Contro le eresie III, 24, 1-2);
• la Chiesa è criterio saldo e stabile della canonicità della Sacra Scrittura;
• “Il Figlio di Dio ha assunto la natura umana con una unione così intima da essere l’unico ed identico Cristo non soltanto in colui, che è il primogenito di ogni creatura, ma anche in tutti i suoi santi. E come non si può separare il Capo dalle membra, così le membra non si possono separare dal Capo” (Papa LEONE MAGNO, Disc. 12 sulla passione, 3, 6, 7).
■ Lo slogan: “Gesù sì, Chiesa no” è pertanto del tutto inaccettabile e inconciliabile con la volontà di Cristo e con la natura stessa della Chiesa. “Guardati bene dal separare il capo dal corpo; non impedire a Cristo di esistere interamente (…) «Quello che Dio ha congiunto l'uomo non lo separi. Questo mistero è grande, lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Mt 19, 6; Ef 5, 32). Non voler dunque smembrare il capo dal corpo. Il Cristo non sarebbe più tutto intero. Cristo infatti non è mai intero senza la Chiesa, come la Chiesa non è mai intera senza Cristo. Infatti il Cristo totale ed integro è capo e corpo ad un tempo” (BEATO ISACCO, Omelia 13; Discorso 11).
Tra Cristo e la Chiesa c’è forse identificazione?
■ No. Non c’è identificazione, in quanto:
• ciò che Cristo “è per natura, le membra lo sono per partecipazione; ciò che Egli è, lo è in pienezza, esse lo sono solo parzialmente. Infine ciò che il Figlio di Dio è per generazione, le sue membra lo sono per adozione, come sta scritto: «Avete ricevuto uno spirito di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abba, Padre» (Rm 8, 15)” (BEATO ISACCO, Discorso 42);
• la Chiesa è stata istituita da Cristo, suo fondatore. C’è tra i due quindi la differenza che c’è tra Creatore e creatura;
• la Chiesa è fatta di peccatori, e Cristo invece è senza peccato. “Nel Simbolo degli Apostoli professiamo di credere la santa Chiesa («Credo [...] Ecclesiam»), e non nella Chiesa, per non confondere Dio con le sue opere e per attribuire chiaramente alla bontà di Dio tutti i doni che egli ha riversato nella sua Chiesa” (CCC, 750).
■ Tra Cristo e la Chiesa, non c’è dunque alcuna separazione, contrapposizione e neppure identificazione. C’è “la distinzione dei due in una relazione personale” (CCC, 796). E’ questa particolare relazione con Cristo, che identifica e caratterizza la natura e la missione della Chiesa.
Che cosa significa il termine Chiesa?
“Designa il popolo che Dio convoca e raduna da tutti i confini della terra, per costituire l’assemblea di quanti, per la Fede e il Battesimo, diventano figli di Dio, membra di Cristo e tempio dello Spirito Santo.
Ci sono altri nomi e immagini con cui la Bibbia indica la Chiesa?
Nella Sacra Scrittura troviamo molte immagini, che evidenziano aspetti complementari del mistero della Chiesa. L’Antico Testamento privilegia immagini legate al popolo di Dio; il Nuovo Testamento quelle legate a Cristo come Capo di questo popolo, che è il suo Corpo, e quelle tratte dalla vita pastorale (ovile, gregge, pecore), agricola (campo, olivo, vigna), abitativa (dimora, pietra, tempio), familiare (sposa, madre, famiglia).
Quali sono l’origine e il compimento della Chiesa?
La Chiesa trova origine e compimento nel disegno eterno di Dio. Fu preparata nell’Antica Alleanza con l’elezione d’Israele, segno della riunione futura di tutte le nazioni. Fondata dalle parole e dalle azioni di Gesù Cristo, fu realizzata soprattutto mediante la sua Morte redentrice e la sua Risurrezione. Fu poi manifestata come mistero di salvezza mediante l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste. Avrà il suo compimento alla fine dei tempi come assemblea celeste di tutti i redenti.
Qual è la missione della Chiesa?
La missione della Chiesa è di annunziare e instaurare in mezzo a tutte le genti il Regno di Dio inaugurato da Gesù Cristo. Essa qui sulla terra costituisce il germe e l’inizio di questo Regno salvifico.
In che senso la Chiesa è Mistero?
La Chiesa è Mistero in quanto nella sua realtà visibile è presente e operante una realtà spirituale, divina, che si scorge unicamente con gli occhi della Fede.
La Chiesa “ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che quanto in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati” (Sc, 2).
Che cosa significa che la Chiesa è Sacramento universale di salvezza?
Significa che è segno e strumento della riconciliazione e della comunione di tutta l’umanità con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.
Perché la Chiesa è il Popolo di Dio?
La Chiesa è il Popolo di Dio perché a lui piacque santificare e salvare gli uomini non isolatamente, ma costituendoli in un solo popolo, adunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Quali sono le caratteristiche del Popolo di Dio?
Questo Popolo, di cui si diviene membri mediante la Fede in Cristo e il Battesimo, ha per origine Dio Padre, per capo Gesù Cristo, per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, per legge il comandamento nuovo dell’amore, per missione quella di essere il sale della terra e la luce del mondo, per fine il Regno di Dio, già iniziato in terra.
Perché la Chiesa è detta la sposa di Cristo?
Perché il Signore stesso si è definito come lo «Sposo» (Mc 2,19), che ha amato la Chiesa, unendola a sé con un’Alleanza eterna. Egli ha dato se stesso per lei, per purificarla con il suo sangue e «renderla santa» (Ef 5,26) e madre feconda di tutti i figli di Dio. Mentre il termine «corpo» evidenzia l’unità del «capo» con le membra, il termine «sposa» mette in risalto la distinzione dei due in relazione personale.
Perché la Chiesa è detta tempio dello Spirito Santo?
Perché lo Spirito Santo risiede nel corpo che è la Chiesa: nel suo Capo e nelle sue membra; egli inoltre edifica la Chiesa nella carità con la Parola di Dio, i Sacramenti, le Virtù e i carismi” (Compendio, 147-154; 158-159).
Quali sono le note caratterizzanti la Chiesa?
■ La Chiesa è:
una, “perché ha come origine e modello l’unità di un solo Dio nella Trinità delle Persone; come fondatore e capo Gesù Cristo, che ristabilisce l’unità di tutti i popoli in un solo corpo; come anima lo Spirito Santo, che unisce tutti i fedeli nella Comunione in Cristo. Essa ha una sola Fede, una sola vita sacramentale, un’unica successione apostolica, una comune speranza e la stessa carità” (Compendio, 161);
• santa, “in quanto Dio Santissimo è il suo autore; Cristo ha dato se stesso per lei, per santificarla e renderla santificante; lo Spirito Santo la vivifica con la carità. In essa si trova la pienezza dei mezzi di salvezza. La santità è la vocazione di ogni suo membro e il fine di ogni sua attività. La Chiesa annovera al suo interno la Vergine Maria e innumerevoli Santi, quali modelli e intercessori. La santità della Chiesa è la sorgente della santificazione dei suoi figli, i quali, qui sulla terra, si riconoscono tutti peccatori, sempre bisognosi di conversione e di purificazione” (Com-pendio, 165);
• cattolica, “cioè universale, in quanto in essa è presente Cristo: «Là dove è Cristo Gesù, ivi è la Chiesa cattolica» (SANT’IGNAZIO DI ANTIOCHIA). Essa annunzia la totalità e l’integrità della Fede; porta e amministra la pienezza dei mezzi di salvezza; è inviata in missione a tutti i popoli in ogni tempo e a qualsiasi cultura appartengano” (Compendio, 166);
• apostolica “per la sua origine, essendo costruita sul «fondamento degli Apostoli» (Ef 2,20); per il suo insegnamento, che è quello stesso degli Apostoli; per la sua struttura, in quanto istruita, santificata e governata, fino al ritorno di Cristo, dagli Apostoli, grazie ai loro successori, i Vescovi, in comunione col successore di Pietro” (Compendio, 174).
■ “Questi quattro attributi, legati inseparabilmente tra di loro, indicano tratti essenziali della Chiesa e della sua missione. La Chiesa non se li conferisce da se stessa; è Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua Chiesa di essere una, santa, cattolica e apostolica, ed è ancora lui che la chiama a realizzare ciascuna di queste caratteristiche.
Soltanto la Fede può riconoscere che la Chiesa trae tali caratteristiche dalla sua origine divina. Tuttavia le loro manifestazioni storiche sono segni che parlano chiaramente alla ragione umana” (CCC, 811-812). “La Chiesa – ricorda il Concilio Vaticano I –, a causa della sua eminente santità [...], della sua cattolica unità, della sua incrollabile stabilità, è per se stessa un grande e perenne motivo di credibilità e una inoppugnabile testimonianza della sua missione divina” (Dei Filius, 3).
Perché la Chiesa è sempre bisognosa di purificazione?
Perché è formata da peccatori. Tutti i membri della Chiesa pellegrinante qui sulla terra, compresi i suoi ministri, sono peccatori, devono riconoscersi come tali, accogliere umilmente il perdono Divino e debellare sempre più, in se stessi e negli altri, il peccato. “Mentre Cristo santo, innocente, immacolato, non conobbe il peccato, ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo, la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione - simul sancta et semper purificanda - incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” (Lg, 8).
Chi appartiene alla Chiesa cattolica?
“Tutti gli uomini in vario modo appartengono o sono ordinati alla cattolica unità del popolo di Dio. È pienamente incorporato alla Chiesa cattolica chi, avendo lo Spirito di Cristo, è unito ad essa dai vincoli della professione di Fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione. I battezzati, che non realizzano pienamente tale cattolica unità, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa Cattolica” (Compendio, 168).
Perché Cristo ha istituito la gerarchia ecclesiastica?
“Cristo ha istituito la gerarchia ecclesiastica con la missione di pascere il popolo di Dio nel suo nome, e per questo le ha dato autorità. Essa è formata dai ministri sacri: Vescovi, presbiteri, diaconi (Compendio, 179), ai quali Cristo ha affidato la missione di insegnare, santificare e governare. Essi esercitano tale missione come ‘servi di Cristo” (Rm 1,1), imitando Cristo stesso, “il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Che cosa significa l’affermazione: «Fuori della Chiesa non c’è salvezza»?
“Essa significa che ogni salvezza viene da Cristo-Capo per mezzo della Chiesa, che è il suo Corpo. Pertanto non possono essere salvati quanti, conoscendo la Chiesa come fondata da Cristo e necessaria alla salvezza, non vi entrassero e non vi perseverassero. Nello stesso tempo, grazie a Cristo e alla sua Chiesa, possono conseguire la salvezza eterna quanti, senza loro colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e, sotto l’influsso della grazia, si sforzano di compiere la sua volontà conosciuta attraverso il dettame della coscienza” (Compendio, 171).
Perché la Chiesa deve annunciare il Vangelo a tutto il mondo?
“Perché Cristo ha ordinato: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Questo mandato missionario del Signore ha la sua sorgente nell’amore eterno di Dio, che ha inviato il suo Figlio e il suo Spirito perché «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4)” (Compendio, 172).
Come guardare alla Chiesa?
Dovremmo guardare alla Chiesa come ce lo ha indicato BENEDETTO XVI, il quale nella cattedrale di New York, prendendo spunto dalle sue vetrate neogotiche, ha detto nell’omelia:
“Viste da fuori, tali finestre appaiono scure, pesanti, addirittura tetre. Ma quando si entra nella chiesa, esse all’improvviso prendono vita. Riflettendo la luce che le attraversa rivelano tutto il loro splendore. Molti scrittori – qui in America possiamo pensare a Nathaniel Hawthorne – hanno usato l’immagine dei vetri istoriati per illustrare il mistero della Chiesa stessa” (19-4-08).
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NB: Per approfondire l’argomento, ecco alcuni documenti pontifici:
* CONCILIO VATICANO II, Lumen Gentium (Lg); Sacrosanctum Concilium (Sc);
* CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (CCC), nn. 748-945; Compendio del CCC (Compendio), nn.147-193.


Il pazzo di Montfort - San Luigi-Maria Grignion de Montfort elesse san Paolo a suo modello di missionario
ROMA, lunedì, 11 maggio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito un articolo di padre Santino Brembilla, smm, Superiore generale dei Missionari Monfortani, apparso sull'undicesimo numero della rivista "Paulus" (maggio 2009), dedicato al tema “Paolo il giustificato”.
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Il 6 giugno1706, san Luigi-Maria de Montfort (1673-1716) fu insignito da papa Clemente XI del titolo di Missionario Apostolico, con il compito di ritornare in Francia per rinnovare lo spirito del cristianesimo. Egli lo visse sullo stile di san Paolo, che chiamava familiarmente «l’Apostolo» e gli fu sempre modello. Nelle sue opere troviamo citati oltre duecento versetti paolini da tutte le sue Lettere, eccetto la Seconda ai Tessalonicesi. Ne cogliamo l’eco anche nelle Regole che scrisse per i Missionari della Compagnia di Maria, dove si afferma che il vero missionario deve sempre poter dire con san Paolo: «Il Signore non mi ha mandato a battezzare, ma ad evangelizzare» (1Cor 1,17); e «noi siamo senza fissa dimora» (1Cor 4,11), per poter «correre con san Paolo» senza che nulla ci trattenga (cfr. Regole 2 e 6). Anche san Luigi-Maria era «sempre sul chivalà», spinto dalla missione «come una palla nel gioco della pallacorda» (Lettera 26). E ancora egli chiede ai suoi futuri collaboratori «di compiere fedelmente queste parole traboccanti di amore del grande Apostolo: “Mi sono fatto tutto a tutti”, facendosi tutto a tutti con la carità» (cfr. Regole 49). Un atteggiamento che lo impressiona al punto di ripetere continuamente queste parole nei suoi Cantici sul Santissimo Sacramento. Ed è interessante notare che san Luigi-Maria legga molto spesso in chiave cristologica quei testi dove san Paolo parla della missione apostolica, palesando l’unione e la somiglianza tra il Cristo e il suo apostolo.
Perfetta conformazione a Cristo
Un’altra massima paolina che san Luigi-Maria offre ai suoi missionari è: «Non conformatevi al mondo presente» (Rm 12,2; Regole 38). Questo atteggiamento di distacco è un tratto severo ma necessario, poiché essere conformi al mondo impedisce la conformità a Cristo, «nostro unico modello» (Trattato 61). Tanto da arrivare a scrivere: «Bisogna essere conformi all’immagine di Gesù Cristo o essere dannati» (Lettera agli Amici della Croce 9). Per san Luigi-Maria, la missione di lavorare è «come dice l’Apostolo, quella di rendere ogni uomo perfetto in Gesù Cristo, perché in Lui solo abita tutta la pienezza della Divinità» (Trattato 61; cfr. Col 1,29; 2,9). L’uomo perfetto è colui che giunge «alla pienezza dell’età del Cristo» (Ef 4,13). Quest’ultimo versetto assumerà un’importanza capitale nella spiritualità monfortana: è infatti la prima e l’ultima citazione biblica ne L’Amore dell’Eterna Sapienza, come pure le ultime parole della famosa Consacrazione a Gesù per Maria e la conclusione della sua preghiera allo Spirito Santo (cfr. Segreto di Maria 67). Ma come giungere a questa pienezza perfetta? La risposta è contenuta nel segreto che san Luigi-Maria ricevette quale missione, ovvero rivelare Maria, poiché «dal momento che tocca a Lei generarci in Gesù Cristo e Gesù Cristo in noi, fino alla pienezza della sua età, in modo che Ella può dire di sé, con più verità di san Paolo: “Io vi genero ogni giorno , miei cari figli, finché Gesù Cristo”, mio Figlio, “non sia perfettamente formato in voi”» (Amore della Sapienza 214; Gal 4,19 e Ef 4,13; cfr. Trattato 33; Segreto di Maria 56). Una rapida lettura di questo testo potrebbe far pensare a un abuso d’interpretazione: come applicare alla Vergine Maria ciò che san Paolo dice di se stesso? In Gal 4,19, egli utilizza la metafora del parto riferendola al suo ministero apostolico. Ma san Luigi-Maria trasforma la figura letteraria nel volto personale di una donna concreta: Maria. È la rivelazione che egli ha ricevuto dalla Spirito Santo (cfr. Segreto di Maria 1 e 20; Gal 1,11s): la scoperta della missione e del ruolo di Maria nella nostra vita spirituale. Nella costruzione del Corpo di Cristo (cfr. Ef 2,21; 4,12.13), egli vede Maria all’opera là dove san Paolo vedeva l’organizzazione “ministeriale”della Chiesa. Ed è ancora san Paolo a rivelargli la chiave della maternità spirituale della Vergine. Se Cristo è il Capo di questo corpo che è la Chiesa (Ef 1,22.23; 4,15.16; 5,23; ecc.) e noi le sue membra, allora Maria è nostra Madre: «Poiché Maria ha formato il Capo dei predestinati, che è Gesù Cristo, tocca pure a Lei formare le membra di questo Capo, che sono i veri cristiani» (Segreto di Maria 12; Trattato 17, 20, ecc.). Nel testo appena citato, san Luigi-Maria usa la parola predestinato, termine di marca chiaramente paolina che egli utilizza molto spesso. Tale predestinazione è un mistero di grazia: «Tutto si riduce, dunque, Maria, a trovare un mezzo facile per ottenere la grazia necessaria per diventare santi» (Segreto 6). Certamente egli non rifiuta le opere, i «mezzi di salvezza» (Segreto 3 e 4). Ma cosa sarebbero, senza la grazia divina?
La Santa Schiavitù
Un’altra parola del vocabolario monfortano derivata da san Paolo è l’essere «schiavo». La spiritualità della Consacrazione a Gesù per Maria è infatti chiamata spesso da san Luigi-Maria la «schiavitù di Gesù vivente in Maria». È nel Mistero dell’Incarnazione che si rivela il vocabolario della “Santa Schiavitù”. E tale mistero si fa carne in Maria, la schiava del Signore (Lc 1,38.48). Ma l’influsso paolino non si riduce a una lista di referenze testuali. San Luigi-Maria rilesse la sua vita nelle Lettere dell’Apostolo. La biografia del nostro santo è piena di persecuzioni (Lettera agli Amici 58; 1Cor 4,9.13). Nelle grandi difficoltà incontrate a Parigi nel 1703, poi descritte nella Lettera 16, riconosceva la comunione con l’esperienza dell’Apostolo (2 Cor 6,4-10). A sua sorella, religiosa benedettina, egli scriveva: «Sono contento e pieno di gioia in mezzo a tutte le mie sofferenze» (Lettera 26; cfr. Col 1,24; 2Cor 8,2; 1Tm 1,6). Egli tuttavia, al seguito di san Paolo, si pose fin dai suoi primi anni di sacerdozio la scelta della Sapienza divina (cfr. 1Cor 1,17-2,16). All’ospedale generale di Poitiers, fonda un gruppo di donne, pazze agli occhi della sapienza umana, che egli chiama Figlie della Sapienza (cfr. 1 Cor 1,26-28). Le scelte anticonformiste (cfr. Rm 12,2) gli valsero il soprannome di «pazzo di Montfort», ma egli sapeva che per diventare saggi secondo Dio, bisogna farsi pazzi agli occhi del mondo (cfr. 1Cor 3,18-19). Invitato una volta a predicare nella sua parrocchia natale, quand’era ormai noto quale grande oratore, san Luigi-Maria non proferì una sola parola: si limitò a mostrare il suo Crocifisso. Un gesto silenzioso che voleva dire: «non sono venuto per annunciarvi la testimonianza di Dio con l’eleganza della parola o della sapienza umana. No, non ho voluto sapere nulla tra voi, se non Gesù Cristo, e Gesù Cristo Crocifisso» (1Cor 1,1; cfr. Amore della Sapienza 12; Lettera agli Amici 26). Il grande progetto architettonico che san Luigi-Maria de Montfort realizzò fu proprio un grandioso Calvario eretto vicino a Nantes. Un trionfo nella debolezza, però, alla maniera di san Paolo: lo stesso giorno previsto per la benedizione solenne e inaugurazione dell’opera – il 14 settembre 1710 – giunse da Versailles l’ordine di raderlo al suolo.


EUROPEE/ Ornaghi: l’Europa cristiana è la vera novità politica e culturale - INT. Lorenzo Ornaghi - martedì 12 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una sfida politica e una grande partitica culturale: l’appuntamento delle elezioni europee contiene grandi spunti e profonde occasioni di riflessione. Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica e professore di Scienza politica, al tema dell’integrazione politico-istituzionale dell’Europa e al dibattito culturale intorno alla stesura della Costituzione europea ha dedicato molta parte della propria riflessione teorica. A ilsussidiario.net propone le sue riflessioni per sciogliere il nodo politico-culturale sotteso a questo importante appuntamento elettorale.
Professor Ornaghi, parliamo di europee ponendoci innanzitutto dal punto di vista del cittadino elettore: chi andrà a votare il 6 e il 7 giugno a quale Europa deve guardare?
Il cittadino deve saper ragionare in prospettiva europea e portare, con la propria scheda, un atto di fiducia ragionata, anche se a volte può essere difficile, nei confronti dell’Europa. L’Europa vive sicuramente un momento molto complicato nel suo processo di integrazione politica e istituzionale. Una difficoltà che è resa evidente da tutta una serie di decisioni, prese a Bruxelles, che non sono più solo decisioni di tipo burocratico, ma vere e proprie prese di posizione di carattere fortemente ideologico. Si intravede in questo il rischio che il Parlamento europeo, l’organo che dovrebbe essere rappresentativo dell’Europa nella sua interezza, diventi il luogo in cui si raggruma la parte più vecchia e ideologica dei singoli stati nazionali. Il voto dunque deve essere concepito come una risposta a questa situazione.
Qual è la radice profonda di questo problema culturale che incide sulla decisioni prese in sede europea?
Quando ad esempio si dice che ci siamo staccati, più o meno consapevolmente, dalle radici cristiane del nostro continente si dà già una spiegazione abbastanza chiara del fenomeno culturale che sta alla base di certe decisioni. Questo staccarsi dalle radici ha significato non solo perdere o far sbiadire un elemento unitario molto forte, ma ha significato anche perdere un tratto essenziale che caratterizza il cristiano, cioè l’apertura al nuovo. Come infatti diceva San Paolo, il cristiano guarda al nuovo, e non ne ha paura. Ebbene, l’affievolirsi delle nostre radici cristiane comporta anche una chiusura, porta ad un’Europa ripiegata su se stessa, e sulle idee che la caratterizzano a partire dal tardo ’700. Una società che si ripiega, che non ha più il coraggio di guardare al nuovo che avanza diventa una società stagnante.
Il percorso dell’Europa unita parte dall’aspetto economico (unità economica europea) per arrivare infine all’aspetto politico: a che punto siamo in questo percorso? L’approdo all’unità politica si intravede o è ancora lontano, o addirittura inarrivabile?
Noi siamo certamente giunti al punto di capire con estrema chiarezza che la politica, se ben intesa e altrettanto ben praticata, deve necessariamente guidare i grandi processi e le grandi trasformazioni. Non nasce una grande realtà politica soltanto perché ci si unisce economicamente; la politica – ripeto, se ben praticata – ha una sua funzione essenziale. A tale consapevolezza non è seguita però una concreta attuazione: abbiamo ancora diverse politiche nazionali e siamo molto distanti dall’avere una politica europea, sentita come tale se non proprio da tutta l’Europa, almeno dalla gran parte di essa.
Anche l’attuale crisi ha certamente influito molto sui temi di cui stiamo parlando: al di là del semplice aspetto economico, c’è proprio tutto un sistema sovranazionale che è entrato in crisi. Come cambia l’Europa in questo contesto?
Potrebbe cambiare molto, ma il condizionale è d’obbligo. Intendo dire che l’Europa, se lo volesse, potrebbe proprio in questa situazione ricorrere al suo eccezionale patrimonio di storia e di idee, decisive per ridisegnare le nostre istituzioni. Non possiamo infatti rimanere presi nella tenaglia che vede da una parte lo Stato come era concepito fino al secolo scorso, un’istituzione che è andata via via funzionando con sempre maggiori inconvenienti e difficoltà, e dall’altra parte le forme istituzionali che si approssimino sempre di più a una larga comunità. Dobbiamo saper impostare il problema in modo diverso, riprendendo ad esempio in termini molto più approfonditi il tema del rapporto fra una comunità e il suo territorio, e quali sono le istituzioni che permettono il raccordo tra quelle comunità e quel territorio con le comunità e i territori vicini. Credo che si possano e si debbano costruire forme nuove di unità attraverso i rapporti tra comunità.
Siamo partiti dagli elettori e concludiamo con gli eletti: quale deve essere il compito di un politico eletto al Parlamento europeo?
L’eletto si troverà ad essere carico di molte responsabilità nella misura in cui prenderà chiaramente coscienza delle difficoltà del momento. Il compito principale di un eletto, che è rappresentante di tanti cittadini che si sentono rappresentati in modo diverso, è forse quello di provare lui stesso ad essere un rappresentato. Deve saper dire: io come rappresentato, ponendomi dalla parte del rappresentato, che cosa porto in questo luogo? Quali dei miei valori e dei miei convincimenti porto qui? Solo così, con questo impeto, potrà fare in modo che quel luogo, il Parlamento europeo, non rimanga solo la somma un po’ scomposta di cose vecchie.


TERRORISMO/ La vedova Calabresi: in un abbraccio il perdono atteso da 40 anni - Redazione - martedì 12 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Un incontro personale, ma anche un momento di contatto tra due parti di Italia che finalmente si guardano in faccia con un sentimento nuovo. Lo sguardo e l’abbraccio fra la vedova Calabresi e la vedova Pinelli avvenuto sabato al Quirinale segna una pagina importante nella nostra storia. Una pagina certo non facile da scrivere: ancora ieri lo sfregio delle scritte sui muri a Torino che di nuovo farneticano su un “Calabresi assassino”.
Ma la forza di quelle due donne ha già vinto anche su questi episodi, colpi di coda di un risentimento ideologico duro a morire. Perché quello che è accaduto sabato, come spiega Gemma Calabresi, segna una «pacificazione» ormai definitiva.
Signora Gemma, in queste ore ha forse avuto modi di far sedimentare l’emozione, sua e di molti italiani, per l’evento di sabato: qual è stato per lei, a livello personale, il valore dell’incontro con la vedova Pinelli?
Quello che mi rimane di questo avvenimento è un sentimento di profonda pacificazione interna, di una forte tenerezza. Le emozioni sono state davvero molto forti, così come anche la tensione. Sono passati quarant’anni, e in tutto questo tempo io e la vedova Pinelli non ci siamo mai incontrate. La prima cosa che dunque mi viene da dire adesso, col senno di poi, è semplicemente: «Perché?». Che assurdità! Aspettare quaranta lunghissimi anni, e trovarci in tutto questo tempo ad essere contrapposte, quando in realtà avevamo un dolore che ci accomunava. Perché, come dico sempre, sono profondamente convinta che il dolore e la sofferenza accomunino le persone.
Quale risposta si è data sul motivo per cui è passato tanto tempo prima di questa pacificazione?
Da una parte c’è stata tutta una serie di eventi esterni alla nostra volontà, riconducibili al fatto che si è sempre voluto contrapporre i nostri due nomi, le nostre due famiglie, quasi fossimo i simboli di due idee contrapposte. E poi c’è stato anche una sorta di falso pudore nostro, per cui siamo rimaste a lungo lontane. Quel che posso dire ora è che forse, se avessimo fatto prima questo gesto, ci saremmo anche evitate molte sofferenze.
Lei ha fatto un percorso personale e umano molto intenso, di cui ha anche parlato in una precedente intervista a questo giornale: che passo nuovo nel suo percorso è avvenuto con l’evento di sabato?
Senz’altro un passo gigante, perché ho capito che si possono abbattere anche i tabù che sembrano apparentemente i più incrollabili. Ritornando alla questione del tempo passato, mi viene da dire che forse in un certo senso è necessario anche il tempo: negli anni di sofferenza una persona va al fondo delle questioni che lo tormentano. E a lungo andare la sofferenza non solo ti aiuta a capire, ma ti rende anche più morbido, più dolce. Allora puoi veramente arrivare a demolire certe barriere assurde; anzi, diciamo pure che tutto a un tratto ti accorgi che quelle barriere semplicemente non esistono. Questo è lo stesso percorso che penso abbia fatto anche la signora Pinelli, e quando ci siamo viste è stato facile guardarsi negli occhi, darsi la mani, darsi una carezza… Sì, è stata una cosa emozionante, che mi ha davvero riempito il cuore.
È certo un’emozione che ha toccato molti italiani. Qual è allora il significato anche pubblico di questo evento? Ci sono ancora episodi, come le scritte ieri a Torino, che ci ricordano che l’odio di quegli anni non è del tutto finito.
Io spero che il Paese sappia recepire nel modo giusto questa pacificazione. Certo, mi rendo conto che non tutti sono contenti di quello che è successo sabato, e non posso certo pretendere che altri facciano il percorso che ho fatto io e che ha fatto la signora Pinelli. Però possiamo almeno chiedere che le persone, come abbiamo fatto noi, si incontrino e siano capaci di superare le vicissitudini che si sono verificate a causa del terrorismo. Vorrei veramente che quello di sabato fosse un messaggio per tutti. Ho ringraziato tanto, e non smetterò di ringraziare il presidente della Repubblica Napolitano per averci dato quest’opportunità. Un’opportunità che noi abbiamo accolto, e che vorremmo fosse recepita da tutto il Paese.
Mi permetta ancora un’ultima domanda personale: che effetto le fa vedere anche suo figlio, dalla direzione di un grande giornale nazionale, trattare con tanta dignità un caso come questo che lo coinvolge personalmente?
Un’impressione grande, e veramente molto, molto positiva. Sono contenta per lui, innanzitutto per il grande prestigio del lavoro che svolge; e sono certa che saprà essere all’altezza dell’impegno che questo richiede. Quello che poi vedo e che mi riempie di gioia, anche nel modo con cui ha parlato di questo caso, è il fatto di scorgere in lui la stessa chiarezza, lo stesso impegno e la stessa onestà che aveva suo padre nel fare quello che faceva.


DIARIO DA ISRAELE/ Il Papa? È venuto anche per il piccolo Mohamed, musulmano e palestinese - Redazione - martedì 12 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Caro Mohamed, so che oggi non andrai alla tua scuola vicino Bab el Gedid (quella che noi stranieri chiamiamo la Porta Nuova) e anche domani la scuola sarà chiusa. Già ieri in verità ti hanno fatto uscire due ore prima, perché poi le strade sarebbero state bloccate per l’arrivo del Papa. Alla tua mamma la polizia ha anche detto che quando il Papa verrà vicino alla tua casa, proprio accanto lo Haram al Sharif (quello che noi stranieri chiamiamo la Spianata della Moschee) dovrete rimanere dentro casa e non avvicinarvi alla finestra. Hai nove anni e come i bambini della tua età, che hanno la fortuna di avere un televisore in casa, vedrai il Papa nella tua Gerusalemme attraverso quel teleschermo. Però, io ti devo delle scuse. Non solo perché ti obbligano a stare chiuso dentro casa. Tu sai che faccio il giornalista, e allora voglio essere sincero con te. Un mio collega italiano ha detto alla mia televisione: «Adesso il Papa andrà in Israele ed incontrerà i cristiani e gli ebrei, e poi incontrerà i palestinesi».
Tu vivi a Gerusalemme, sei arabo, sei musulmano, sei palestinese. E tu sai bene che in Israele ci sono tanti musulmani, più di un milione. Sai anche che tra i palestinesi ci sono cristiani e musulmani. Il Papa viene a parlare a tutti, anche a te musulmano di Gerusalemme. Purtroppo, in Italia, ancora, non tutti sanno bene chi vive in questa terra. Allora ti prego di non arrabbiarti e ricordare, soprattutto, la festa dello scorso anno. Era maggio e ci hai fatto felici, soprattutto Francesco, venendo alla sua festa per la prima comunione. E pensa anche alla scuola dei Fréres, cioè alla tua scuola, che da sempre è anche quella di Francesco.
Scusami, ma voglio dirti infine una cosa che mi preme. Hai visto quante bandiere bianche e gialle vicino alla tua scuola, e anche nelle strade? Sono quelle della Città del Vaticano, dove abita il Papa. A me sembrano belle, fanno allegria. E credimi io sono proprio contento che lui sia qui. Ieri poi ha detto alcune cose, che anche tu devi sapere. È andato allo Yad Vashem, dove gli ebrei ricordano i loro morti e ha detto, ascolta: «Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà. Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto. E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano». Cosa dici Mohamed? Queste parole valgono per i bambini ebrei uccisi tanti anni fa. Ma non valgono forse anche per te, che hai un nome ma non un passaporto? Per te che qualcuno ha dimenticato che tu esisti.
(Filippo Landi)


LA CONSULTA NON RINNEGA I PRINCIPI DELLA LEGGE 40 - I medici omaggiati La loro autonomia esaltata - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 12 maggio 2009
Lasciamo ai giuristi le riflessioni tecniche sulle motivazioni con cui la Corte Costituzionale ha giustificato la sentenza in merito alla legge sulla procreazione assistita: la sentenza che, sciogliendo i medici dal vincolo di non creare più di tre embrioni in provetta e da quello di procedere al loro impianto unico e contemporaneo, ha imposto un’interpretazione elastica dell’art. 14, primo comma, della stessa legge. Questo comma vieta il congelamento e la soppressione degli embrioni. Ma, a seguito della sentenza della Corte e delle indicazioni che essa stessa dà, bisogna ipotizzare possibili 'deroghe' a questo divieto: il congelamento diviene lecito, anzi obbligatorio, quando il medico ritiene di non poter impiantare nell’utero della donna tutti gli embrioni da lui creati in provetta e particolarmente quando ne abbia prodotti più di tre, data l’assoluta impossibilità di poter attivare in una donna una gravidanza plurigemellare. Tanto può bastare al giurista. Per il bioeticista le cose vanno lette in una chiave diversa. Il testo della legge 40/2004 era nato in uno spirito di mediazione e di convergenza tra due diverse prospettive etiche in merito allo statuto dell’embrione umano. Chi ritiene doveroso tutelarne la vita, non può infatti che essere assolutamente contrario alla fecondazione in provetta, dato l’inevitabile, alto 'spreco' di embrioni che necessariamente comporta questa pratica: in buona sostanza ritiene bioeticamente accettabile la semplice inseminazione artificiale (che crea sì problemi bioetici non irrilevanti, ma non quello della tutela della vita embrionale). Chi invece valuta l’interesse della donna a procreare prevalente su ogni altro, ritiene che la tutela della vita degli embrioni meriti attenzione solo dopo che l’interesse procreativo sia stato assolutamente soddisfatto: il suo sì alla fecondazione in provetta non può prevedere quindi alcun limite di sorta.
Ne segue inevitabilmente la produzione di embrioni in sovrannumero, destinati prima al congelamento e poi (sempre per i fautori di questa linea) alla loro inevitabile distruzione. La legge italiana aveva cercato di mediare tra queste due linee. Aveva detto di sì alla fecondazione in provetta (dando un grosso dispiacere ai difensori della vita fin dal suo inizio), cercando però di garantire la sopravvivenza di tutti gli embrioni creati in vitro, pur nella consapevolezza che questa garanzia (cioè il dovere di impianto unico e contestuale di tutti gli embrioni prodotti fino a un limite massimo di tre) poteva in alcuni casi limitare le possibilità di successo della pratica. Ma appunto in questo stava la mediazione e il segno di buona volontà bioetica di coloro che avevano approvato la legge. La richiesta di referendum contro la legge 40 era già stato un esplicito segnale di come questa mediazione fosse stata ritenuta inaccettabile da una parte (peraltro molto limitata) della pubblica opinione. L’intervento della Corte sarebbe, ad avviso di molti, un segnale ancora più esplicito in tal senso, anche perché fondato su argomentazioni di rango costituzionale. Non sono d’accordo. Sta di fatto che i giudici della Corte hanno ribadito che non si devono creare embrioni in provetta più dello 'stretto necessario' e hanno affidato non alla volontà della coppia sterile (cui comunque spetta prestare il consenso alla pratica), ma alla scienza e coscienza dei medici l’individuazione del numero degli ovociti da fecondare in vitro. In questo senso la Corte non ha rinnegato i principi costitutivi della legge 40, né ha vuotato di senso lo spirito di mediazione bioetica che la contraddistingue. Semplicemente, ha affidato la tutela dei 'diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito' (secondo il dettato dell’art. 1 della legge) più che a norme vincolanti della legge stessa ai principi della buona pratica clinica. Se i medici percepiranno fino in fondo che con questa sentenza la loro autonomia e la loro responsabilità scientifica e deontologica hanno ricevuto un sincero omaggio da parte della Corte (cosa che personalmente ritengo apprezzabile) e se soprattutto si comporteranno conseguentemente, ne conseguirà che ben poco dovrebbe avere di che lamentarsi il fautore della tutela della vita embrionale. E soprattutto non dovrà sentirsi umiliata la buona volontà di tutti coloro che, in una materia spinosa come la bioetica, vanno alla ricerca di mediazioni realistiche, che consentano nel breve periodo il rispetto reciproco di posizioni percepite come nettamente diverse, ma che nel medio e nel lungo periodo, grazie agli sforzi di tutti, potrebbero (e dovrebbero!) alla fine convergere fino a identificarsi.