giovedì 7 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Va a Lourdes e riprende a camminare - Fa gridare al miracolo il caso di una donna di Frosinone affetta da sclerosi multipla: dopo essersi bagnata nell’acqua benedetta della grotta della Vergine, la malattia è improvvisamente sparita… - di Andrea Tornielli
2) L'impresa più difficile per il papa in Terra Santa: conquistare i cristiani - Gli israeliani l'hanno invitato, i musulmani l'hanno voluto. Ma i suoi fedeli del posto no, le maggiori opposizioni al viaggio sono venute da loro. I motivi del rifiuto. E le incognite - di Sandro Magister
3) EUROPEE/ Qual è oggi il volto dell'Europa? - Marta Cartabia - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) EUROPEE/ Galli della Loggia: l’Europa? Un vicolo cieco politico - INT. Ernesto Galli della Loggia - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) TERRA SANTA/ C'è qualcosa che viene prima (di Tel Aviv) - Roberto Fontolan - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) SCUOLA/ Stefano a sua madre: "non capisco le maestre, che ne sarà di me alle elementari?" - Cristina Casaschi - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
7) Il Papa presenta la figura di san Giovanni Damasceno - Durante l'Udienza generale del mercoledì
8) La NaProtecnologia, una soluzione etica per le coppie non fertili - Sviluppata in Irlanda dalla dottoressa Caroline Guindon - di Nieves San Martín
9) Confidenze del cardinale arcivescovo emerito di Bologna - A vent'anni mi sono innamorato di Sofia - È in uscita il volume di Inos Biffi In dialogo sul cristocentrismo. Lettura dei saggi di Giacomo Biffi (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 122, euro 13). Pubblichiamo il testo della premessa. - di Giacomo Biffi
10) L'uomo, la ragione e la ricerca di Dio - Non fermiamoci alla penultima stazione - Mercoledì 6, nell'aula magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, il cardinale arcivescovo di Bologna ha tenuto una lectio magistralis sul tema "Dio e ragione: alleati, estranei, nemici?". Ne pubblichiamo uno stralcio. - di Carlo Caffarra
11) Mauro: «Un’operazione di carattere elettorale» - DI ENRICO LENZI – Avvenire, 7 maggio 2009
12) Quei figli «diversi», amati e accolti – Avvenire, 7 maggio 2009
13) Montini e Giussani, l’amicizia che non ti aspetti - DI ANDREA GALLI – Avvenire, 7 maggio 2009


Va a Lourdes e riprende a camminare - Fa gridare al miracolo il caso di una donna di Frosinone affetta da sclerosi multipla: dopo essersi bagnata nell’acqua benedetta della grotta della Vergine, la malattia è improvvisamente sparita… - di Andrea Tornielli
Una donna di cinquant’anni residente nel Frusinate e affetta dalla sclerosi multipla è tornata apparentemente guarita da un pellegrinaggio a Lourdes. Ha avvertito uno strano formicolio alla gamba poco dopo essersi immersa nell’acqua benedetta che sgorga dalla grotta di Massabielle e subito dopo ha ripreso a camminare bene, come non faceva da anni, gettando via la stampella. Se sarà confermato dal Bureau Medical di Lourdes, che ha già acquisito le cartelle cliniche, questo caso potrebbe diventare il sessantottesimo miracolo avvenuto nel santuario mariano più famoso del mondo e ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa cattolica.
La donna che ha ripreso a camminare si chiama Rosa Mollica, vive a Ripi, paese di cinquemila abitanti vicino Frosinone. E la notizia della sua inspiegabile guarigione è stata raccontata per la prima volta ieri da Igor Traboni sul quotidiano La Provincia. Sposata con un impiegato e madre di due figli, Rosa era stata colpita vent’anni fa da una grave forma di sclerosi multipla. Quest’anno la donna ha deciso di andare in pellegrinaggio a Lourdes, con il «treno bianco» organizzato dall’associazione di volontariato Siloe di Frosinone, insieme con altri 350 pellegrini, tra i quali una dozzina di malati iscritti all’Aism, l’associazione italiana sclerosi multipla.
Il 27 aprile scorso, il giorno dopo l’arrivo nel paesino dei Pirenei dove la piccola Bernadette Soubirous ebbe le apparizioni nel 1858, la comitiva ciociara si è recata nella grotta di Massabielle per partecipare alla Messa. I malati sono stati quindi accompagnati nelle vicine piscine per essere immersi nell’acqua. Poi, tutti i pellegrini si sono avviati verso la casa albergo dov’erano ospitati. Fino a quel momento tutto appare normale e anche la signora Rosa sale in camera per riposare. Appena uscita dall’ascensore, però, si tocca una gamba e alle persone che ha vicino comincia a dire di sentire qualcosa all’arto, come una specie di grande formicolio. «Mi pare di sentire qualcosa alla gamba… sì, sento qualcosa», ha detto emozionata. Quindi ha gettato la stampella, divenuta da anni inseparabile compagna, e ha iniziato a camminare da sola.
La notizia si diffonde immediatamente a Lourdes. Il capo della comitiva frusinate, Enrico Esposito, responsabile dell’associazione Siloe, ha subito avvisato il Bureau Medical, il collegio di medici incaricati di vagliare le segnalazioni di grazie e guarigioni avvenute nel santuario francese, e ha consegnato la documentazione che Rosa Mollica, come gli altri malati, aveva portato con sé. La donna ha continuato a camminare, ha sorpreso tutti scendendo da sola dal treno, senza usare l’apposita passerella per i malati e ieri a Ripi erano molti i curiosi che cercavano di incontrarla. «Sì, confermo tutto - ha dichiarato Paola Mastronardi, presidente della sezione Aism di Frosinone - la nostra amica all’improvviso ha lasciato il bastone e ha iniziato a camminare da sola. Qualcosa di prodigioso è avvenuto, ma non sta a noi parlare di miracolo. Saranno i medici a chiarire ogni cosa».
Gioia, ma anche prudenza, emerge anche dalle parole del vescovo di Frosinone, Ambrogio Spreafico: «Siamo molto contenti, anzi felici che la signora stia meglio. Siamo vicini con simpatia a questa donna e alla sua famiglia. Ma prima di parlare di miracolo dobbiamo attendere il responso del Bureau Medical di Lourdes, e quindi istituire una commissione diocesana. Soltanto al termine di questo iter, dopo aver vagliato ogni elemento, ci si potrà pronunciare su quanto avvenuto».
Il Giornale n. 107 del 2009-05-05 pagina 18


L'impresa più difficile per il papa in Terra Santa: conquistare i cristiani - Gli israeliani l'hanno invitato, i musulmani l'hanno voluto. Ma i suoi fedeli del posto no, le maggiori opposizioni al viaggio sono venute da loro. I motivi del rifiuto. E le incognite - di Sandro Magister
ROMA, 6 maggio 2009 – La domenica prima di partire per la Terra Santa, in una piazza San Pietro gremita di fedeli, Benedetto XVI ha detto in poche parole quale sarà l'obiettivo del suo viaggio:

"Con la mia visita mi propongo di confermare e di incoraggiare i cristiani di Terra Santa, che devono affrontare quotidianamente non poche difficoltà. Quale successore dell’apostolo Pietro, farò loro sentire la vicinanza e il sostegno di tutto il corpo della Chiesa. Inoltre, mi farò pellegrino di pace, nel nome dell’unico Dio che è Padre di tutti. Testimonierò l’impegno della Chiesa Cattolica in favore di quanti si sforzano di praticare il dialogo e la riconciliazione, per giungere a una pace stabile e duratura nella giustizia e nel rispetto reciproco. Infine, questo viaggio non potrà non avere una notevole importanza ecumenica e interreligiosa. Gerusalemme è, da questo punto di vista, la città-simbolo per eccellenza: là Cristo è morto per riunire tutti i figli di Dio dispersi".

Da queste parole – ribadite nell'udienza generale di mercoledì 6 maggio – si ricava che per promuovere la pace e il dialogo in Terra Santa, tra i popoli e le religioni, il papa si affida in primo luogo ai cristiani che vivono là.

Una scommessa audace. Non solo, infatti, in quella regione i cristiani sono ridotti a un'esile minoranza, inferiore al 2 per cento della popolazione ebrea ed araba. Va anche tenuto conto che proprio i cristiani del luogo sono stati i più scettici, nel reagire all'annuncio del viaggio del papa. Molti di loro, anche sacerdoti e vescovi, si sono espressi contro l'opportunità della sua visita.

Si è dovuto faticare molto per smussare questo fronte del rifiuto. Il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, l'ha confermato in un'intervista: le ragioni degli oppositori sono state esposte anche a Benedetto XVI in persona.

Il timore principale degli oppositori era che il viaggio del papa – anche per le sue posizioni molto avanzate nel dialogo religioso con l'ebraismo – si risolvesse in un vantaggio politico per Israele.

Benedetto XVI ha resistito con fermezza. Da parte sua, la diplomazia vaticana ha fatto di tutto per tranquillizzare gli oppositori.

Questo spiega, ad esempio, la benevolenza mostrata dal Vaticano nei confronti dell'arcinemico di Israele, l'Iran, durante e dopo la controversa conferenza di Ginevra sul razzismo: una benevolenza giudicata da molti osservatori fuori misura.

E questo spiega, forse, anche il silenzio delle autorità vaticane e dello stesso papa sulla proditoria impiccagione a Teheran della giovane iraniana Delara Dalabi. In casi del genere, di risonanza mondiale, quasi sempre la Santa Sede alza la voce in difesa delle vittime delle violazioni dei diritti umani: ma questa volta ha deciso di tacere.

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Va detto che l'Iran, a sua volta, tratta la Santa Sede con inusuale benevolenza. Ricevendo, l'anno scorso in aprile, l'arcivescovo Jean-Paul Gobel, nuovo nunzio apostolico a Teheran, il presidente Ahmadinejad definì il Vaticano una forza positiva per la giustizia e la pace nel mondo.

E poco dopo inviò a Roma una delegazione di alto profilo capeggiata da Mahdi Mostafavi, discendente diretto del profeta Maometto, presidente dell'Islamic Culture and Relations Organization di Teheran e già viceministro degli esteri: un suo uomo di fiducia e "consigliere spirituale", con il quale si incontra "almeno due volte a settimana".

La delegazione iraniana intrattenne con un'autorevole delegazione vaticana un colloquio a porte chiuse di tre giorni, dal 28 al 30 aprile, sul tema "Fede e ragione nel cristianesimo e nell'islam", concluso con un incontro con Benedetto XVI.

In Iran vive una piccolissima comunità cattolica, sottoposta ad asfissiante controllo. Anche questo spiega il "realismo" di cui dà prova la diplomazia vaticana, in questo e in altri paesi musulmani. Per salvare il salvabile, il riserbo è ritenuto più efficace dell’aperta denuncia.

Una sola volta, ad esempio, e in forma velata, il Vaticano ha stigmatizzato i ripetuti anatemi di Ahmadinejad contro l'esistenza di Israele. L'ha fatto con un comunicato della sala stampa del lontano 28 ottobre 2005. Dopo di allora, silenzio.

Ma il "realismo" diplomatico non spiega tutto. A una parte consistente dei cristiani arabi che vivono in Terra Santa gli anatemi antiebraici di Ahmadinejad suonano familiari. Anche per costoro è l'esistenza stessa di Israele la causa di tutti mali.

Va tenuto presente che simili pensieri corrono non soltanto tra i cristiani arabi, ma anche tra esponenti di rilievo della Chiesa cattolica che vivono fuori della Terra Santa e a Roma.

Uno di questi, ad esempio, è il gesuita Samir Khalil Samir, egiziano di nascita, libanese d'adozione, esperto tra i più ascoltati in Vaticano, che in un suo "decalogo" di due anni fa per la pace in Medio Oriente ha scritto:

"La radice del problema israelo-palestinese non è religiosa né etnica; è puramente politica. Il problema risale alla creazione dello stato d’Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione organizzata sistematicamente contro gli ebrei – decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa. È questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebrea mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei".

Detto questo, padre Samir sostiene comunque che l'esistenza di Israele è oggi un dato di fatto che non può essere rifiutato, indipendentemente dal suo peccato d'origine. Ed è questa anche la posizione ufficiale della Santa Sede, da tempo favorevole ai due stati israeliano e palestinese.

Non solo. Per padre Samir i cristiani arabi che vivono in Terra Santa, pur pochi di numero, sono "gli unici che possono promuovere la pace nella regione, perché non vogliono affrontare la questione religiosamente ma secondo giustizia e legalità".

Secondo padre Samir, infatti, il conflitto arabo-israeliano non cesserà fino a che continuerà ad essere una guerra religiosa tra ebraismo ed islam. Solo se ricondotto ai suoi connotati politici e "laici" potrà trovar pace. E i cristiani sono i più attrezzati allo scopo.

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Alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, padre Samir ha sviluppato queste sue idee sul ruolo dei cristiani nella regione in un'intervista al settimanale italiano "Tempi".

Ha detto tra l'altro:

"Già la Nahdah, il rinascimento arabo che si è verificato tra l’Ottocento e la prima parte del Novecento, fu essenzialmente frutto dei cristiani. Di nuovo, oggi, un secolo dopo, sta succedendo lo stesso, sebbene i cristiani siano in minoranza nei paesi arabi. Oggi il 'nuovo' nel pensiero arabo arriva dal Libano, dove l’interazione tra cristiani e musulmani è più viva. Qui ci sono cinque università cattoliche, oltre a quelle islamiche e quelle statali. Funzionano radio, televisioni, giornali e riviste di matrice cristiana, sulle quali scrivono tutti, musulmani, laici, cristiani. Oggi l’impatto culturale dei cristiani in Medio Oriente avviene tramite i mezzi di comunicazione: il Libano è diventato il primo centro di pubblicazione di libri di tutto il mondo arabo, ove vengono stampati libri sauditi, marocchini… Anche i musulmani capiscono che i cristiani sono i gruppi più attivi e gli elementi culturalmente più dinamici, come spesso avviene per le minoranze. I cristiani libanesi o degli altri paesi mediorientali hanno poi legami e contatti con l’Occidente, e per questo il loro ruolo culturale è fondamentale. Molti musulmani, anche autorevoli leader, sia in Libano che in Giordania, ma anche in Arabia Saudita, lo hanno dichiarato pubblicamente: non vogliamo che i cristiani se ne vadano via dai nostri paesi perché sono una parte essenziale delle nostre società".

A questa visione ottimista, padre Samir accompagna naturalmente l'avvertenza che nei paesi musulmani i cristiani sono quasi ovunque sotto minaccia. A cominciare dall'Arabia Saudita, un altro stato con il quale la Santa Sede intrattiene una politica spregiudicatamente "realista", culminata il 6 novembre 2007 nell'accoglienza con tutti gli onori in Vaticano del suo re, tenendo in ombra le sistematiche violazioni dei diritti umani in quel paese.

Più pessimista, tornando al quadrante israelo-palestinese, è il giudizio che dà del ruolo dei cristiani un altro profondo conoscitore della regione, il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa. A suo parere, nel conflitto israelo-palestinese oggi "i cristiani non contano più nulla, politicamente".

E per giunta sono i più freddi nell'accogliere la visita del papa, nonostante egli li abbia messi al primo posto nelle finalità del suo viaggio.

Difficile impresa, quella di Benedetto XVI in Terra Santa. Più che gli israeliani che l'hanno invitato, più che la monarchia di Giordania che gli ha spalancato le porte, dovrà anzitutto conquistare i cristiani del posto.


EUROPEE/ Qual è oggi il volto dell'Europa? - Marta Cartabia - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Più Europa o meno Europa? Europeisti o euroscettici? Frequentemente il dibattito sull’Europa scade in questo tipo di semplificazioni. Pro o contro l’Europa, sembra questa la questione da decidere. Di Europa si parla pochissimo, ma occasionalmente occorre prendere posizione: un trattato da ratificare, un voto da esprimere, talvolta un referendum popolare, tra poche settimane le elezioni del Parlamento europeo.
Ma qual è il volto dell’Europa nel XXI secolo? Questo è un interrogativo che ci poniamo meno frequentemente. Per le più giovani generazioni l’idea di Europa si associa alla moneta unica e alla libertà di circolare liberamente su tutto il continente, senza formalità alle frontiere. Euro e Schengen sono i simboli dell’Unione europea più diffusamente percepiti.
Ma l’Unione europea non è solo questo e non è sempre stata solo questo. L’integrazione europea è un processo che ha percorso un lungo cammino dal lontano 1950, l’anno della famosa dichiarazione Schuman che diede effettivamente avvio alle istituzioni comuni: «L’Europa non si farà d’un tratto», si disse allora. E infatti si sarebbe fatta per piccoli passi. Grande realismo e grandi ideali animavano i padri fondatori negli anni ’50. Grandi obiettivi politici – la pace e la prosperità per l’intero continente – e strumenti circoscritti, ma ben mirati: inizialmente solo la produzione comune del carbone e dell’acciaio. Un’apparente sproporzione tra gli ideali e gli strumenti. Ma gli strumenti toccavano il punto nevralgico di tutti i problemi dell’epoca – la produzione del carbone e dell’acciaio, la materia prima ed essenziale dell’industria bellica. E, decisivo, univano in un patto d’acciaio i nemici storici di sempre: Francia e Germania. Un passo piccolo, ma efficace rispetto al grande obiettivo di riportare la pace in un continente continuamente devastato dalle guerre. E una grande magnanimità nell’unire su interessi comuni i nemici storici dell’epoca. Come se oggi, per dire, si unissero le grandi potenze occidentali e tutti i paesi arabi per la produzione del petrolio o l’occidente stringesse un accordo con tutti i paesi del Medio oriente sul problema del nucleare sottoponendosi ad una autorità comune.
Dopo i primi anni fondativi, a partire dalla seconda metà degli anni ’60 l’Europa visse anni di stallo e di freddezza nelle relazioni politiche al suo interno. Solo vent’anni più tardi si poté tentare il rilancio del mercato interno, con l’atto unico europeo del 1986. Poi finalmente gli anni gloriosi dell’Europa di Maastricht, l’avvio della unificazione monetaria, l’Europa delle banche e del controllo sulle politiche di bilancio degli stati nazionali. L’Europa diventava il motore della concorrenza, del mercato e del liberismo economico in tutti i paesi dell’Unione ormai in fase di allargamento anche a est. Il neo-liberismo di matrice europea sembrava una risposta efficace ai problemi del vecchio continente alla fine del secolo scorso.
Forti del successo, si è osato il grande passo verso l’unificazione politica. Ma la grande operazione simbolica del Trattato costituzionale è fallita, ferita mortalmente per mano di uno dei grandi paesi fondatori. E così, quello che avrebbe potuto costituire il salto di qualità nell’unificazione politica, ha lasciato spazio ad un decennio in cui l’integrazione europea è proseguita lontano da enfasi politiche e riflettori mediatici, su un piano totalmente diverso e più nascosto, anche se non meno penetrante: l’Europa del XXI secolo è stata finora l’Europa dei giudici e dei diritti individuali, delle burocrazie e dei “rami bassi” delle amministrazioni.
L’Europa ha espresso dunque molte sfaccettature nel corso del più che cinquantennale cammino di integrazione. Ma quale sarà il volto dell’Europa dei prossimi anni? Le sfide storiche che si sono profilate negli ultimi anni sono davanti agli occhi di tutti: il terrorismo internazionale, l’imponenza dei flussi migratori, la crisi energetica e da ultimo l’inaspettata crisi economica di proporzioni mondiali. Queste sfide non sono meno ardue di quelle delle origini. Ed è probabilmente ritornando allo spirito delle origini che si può trovare lo slancio per affrontarle. Grandi ideali, grande realismo è l’insegnamento dei Padri fondatori, andando dritti al cuore dei problemi più scottanti dell’epoca contemporanea.
Di fronte alla dimensione dei problemi contemporanei, l’Europa non può rimanere piegata su se stessa, ad occuparsi soltanto di micro-normazione di rilievo interno che gli Stati e i cittadini europei sopportano sempre più a fatica, ma deve trovare la capacità di collocarsi sulla scena internazionale e globale come interlocutore autorevole delle grandi potenze mondiali. Occorre uno slancio politico di respiro internazionale, perché i problemi del mondo contemporaneo si collocano in quella dimensione. Nessuno stato nazionale europeo può pensare di poter affrontare e risolvere da sé i problemi dell’immigrazione, del terrorismo, dell’energia, della crisi economica. Da questo punto di vista l’Europa non è una opzione, ma una vera necessità. In questa prospettiva di grandi ideali e di grande respiro forse risulterà più agevole constatare che ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide, come fu ai tempi della fondazione.
L’errore sarebbe pensare che per far questo occorra prima rafforzare le strutture interne dell’Unione. Un ennesimo processo di riforma complessiva dell’architettura istituzionale dell’Unione assorbirebbe tutta l’agenda politica e paralizzerebbe ogni altra azione. Non sembra necessario, né pare auspicabile, che l’Europa spenda le sue energie per trasformarsi dal punto di vista interno in una struttura di tipo federale e meno che mai in una organizzazione di tipo statale. La specificità dell’unificazione del continente europeo è che essa non nega, ma valorizza gli stati nazionali, e non procede a discapito di essi. Ogni volta che si è dimenticata questa specificità il processo di integrazione si è arenato.
È vero piuttosto che l’Europa degli ultimi decenni ha sofferto di un deficit politico, oltre che democratico, e ne è prova la totale disaffezione dei popoli europei alle istituzioni dell’Unione, in primis al Parlamento europeo, che tali popoli dovrebbe rappresentare. Ma anche a questo scopo, forse i cittadini europei e i soggetti politici si mobiliteranno più volentieri e con maggiori energie per una Unione europea proiettata sullo scenario mondiale, decisa ad affrontare senza esitazione i problemi maggiormente sentiti e patiti da tutti.


EUROPEE/ Galli della Loggia: l’Europa? Un vicolo cieco politico - INT. Ernesto Galli della Loggia - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Le elezioni europee sono alle porte. Il rito politico col quale gli italiani manderanno a Bruxelles i propri rappresentanti è l’occasione per riflettere sull’Europa, non solo sul suo ruolo e sulle sue istituzioni, ma sul significato stesso dell’Unione europea. Una cosa che è necessario fare - dice Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere - senza timore di andar contro l’ideologia europea del politicamente corretto, che vieta a proposito dell’Europa di porsi troppe domande. Perché, se lo si facesse con un minimo di lucidità e di obiettività, si scoprirebbe che l’Europa si trova in un vicolo cieco di portata storica. «L’intera costruzione europea sostiene Galli della Loggia - è stata fatta su una scommessa: che dall’economia si arrivasse alla politica. Ma questa scommessa è fallita».
Il 6 e 7 giugno gli italiani voteranno per le europee. Lei vede negli elettori italiani un reale interesse per la politica europea?
Ma che vuol dire interesse politico per l’Europa? L’unico interesse legittimo sarebbe giustificato se un governo, un partito o un politico facesse una proposta su come fare uscire l’Europa dall’impasse. Ma siccome non c’è governo, partito o politico che lo faccia, di cosa dovrebbero mai interessarsi gli elettori? Questo è il vero problema. La realtà è che l’Europa è soltanto di fatto un grande meccanismo erogatore di risorse. Per i quali invece l’interesse è massimo. A fianco di questa Europa c’è l’Europa della chiacchiera politica.
Ha parlato di impasse dell’Europa. Qual è allora la sua interpretazione del lungo processo di costruzione europea?
L’intera costruzione europea è stata fatta su una scommessa: che dall’economia si arrivasse alla politica. Questa scommessa è fallita. Nel frattempo si è sviluppata una chiacchiera politica europeista, divenuta opinione dominante. E si comminano scomuniche a chi non la condivide, accusato di essere euroscettico. Ma è più che comprensibile che uno sia scettico di fronte alle cose che non funzionano, e quindi proprio l’euroscetticismo è il frutto compiuto del fatto che questo progetto è fallito.
Il fallimento di un progetto storico istituzionale durato sessant’anni…
La forza dell’europeismo e diametralmente speculare all’entità di questo fallimento. Un colossale fallimento di cui non si vuole prendere atto perché farlo implicherebbe una serie di conseguenze molto pesanti e difficili. E allora cosa si fa? Poiché nessuno è in grado di rispondere, cioè non c’è nessuna proposta reale su come far esistere l’Europa, la chiacchiera europeista dice: non vi preoccupate, si risolverà tutto, l’importante è crederci. Un perfetto esempio di volontarismo senza senso.
Immagino che pesi sulla sua convinzione il fatto che non vediamo un federalismo compiuto, quello che voleva essere l’ideale europeo agli inizi, non è così?
C’è stato un grande allargamento ma di ordine economico. Sul piano politico invece passi avanti non ce ne sono stati. Questo perché il progetto iniziale di una unione politica era un progetto sbagliato. I soggetti politici non nascono per accordi di quel tipo. Un’unione politica poteva nascere soltanto subito dopo la guerra, sull’onda della sconfitta. Ma Francia e Inghilterra si sentivano tutt’altro che nazioni sconfitte. Solo il tempo ha permesso di capire che l’Europa era stata sconfitta e che usciva di scena, ma sul momento Francia e Inghilterra pensavano di essere tra i vincitori e allora che cosasi poteva fare, forse un’Europa di soli paesi sconfitti?
In un dibattito sull’Europa con Giuliano Amato pubblicato sulla rivista Il Mulino lei ha scritto che “il continuo appello ad essa, e la continua difesa della sua versione esistente in quel momento, non sia altro, alla fine, che un sintomo di debolezza”. Una transizione infinita verso quale assetto?
Verso nessun assetto, perché l’immobilismo più assoluto caratterizza l’Europa, che si trova in un vero e proprio vicolo cieco politico. Perché un’Europa come soggetto politico può nascere solo da una drastica rinuncia di sovranità da parte dei vari paesi, ma questa non può essere senza dar luogo ad una profonda situazione antidemocratica perché mentre l’azione del governo italiano è sottoposta al giudizio degli elettori italiani, nel momento in cui ci fosse una drastica riduzione di sovranità bisognerebbe creare una nuova autorità politica sovranazionale, la quale per essere veramente tale non dovrebbe più passare attraverso i governi, com’è adesso, ma essere in rapporto diretto con gli elettori.
Questo è il vicolo cieco di cui ha parlato, no?
Mi dice lei come può esserci un autorità politica in rapporto diretto con gli elettori se tra essi non c’è nemmeno un’unione linguistica? Il presidente degli Stati Uniti viene eletto da persone che lo comprendono. Non mai è esistito al mondo un soggetto politico i cui sudditi o abitanti o cittadini non potessero capirsi reciprocamente. È questo il problema centrale.
E condanna anche l’ipotesi federale?
Di federalismo ce ne sono tanti tipi, ci si può mettere d’accordo, ma è comunque un’ipoteca negativa anche sul federalismo. Ma invece di arrovellarsi intorno a questo non facile problema…
Se l’Europa fosse innanzitutto un compito, centrato essenzialmente non sull’unità politica, ma su una base culturale? In altri termini, l’Europa ha senso se riscopre la sua identità culturale, nella quale le sue radici ebraico cristiane sono fondanti e restano l’unica possibilità data all’Europa per non andare contro se stessa...
Ma questa unità spirituale dell’Europa non la costruisce la politica. Sarebbe un’ambizione eccessiva per le spallucce dei politici europei. È un compito che spetta alla cultura, agli scrittori, agli intellettuali, alle università. La politica dovrebbe poi raccogliere tutto questo e portarlo al livello delle istituzioni.
La politica dei diritti umani può essere un trait d’union tra l’ispirazione che viene dai valori e l’attuazione politica?
È vero: la difesa dei diritti umani è un fatto politico, ma non mi pare che l’Europa brilli particolarmente in difesa dei diritti umani, anche perché non ha nessuno strumento politico per farli valere. Può fare quello che ha fatto fino ad ora: emettere comunicati. Non mi sembra che nei luoghi e nelle occasioni in cui ci sono state violazioni clamorose di diritti umani, dalla Cecenia alla ex Jugoslavia, l’Europa abbia svolto un ruolo decisivo. Lo ha svolto solo al seguito degli americani, come in Kosovo, oppure non lo ha svolto per nulla.
Gli sforzi dell’Europa di darsi una politica estera comune sono giustificati?
Ogni politico avveduto sa benissimo che si va a Berlino o a Parigi a parlare non con l’Europa ma con la signora Merkel o con Sarkozy.
Quali prospettive intravede di fronte al “problema Europa”?
Non ho ricette, ma la prima cosa da fare di fronte ai problemi è rendersi conto che c’è un problema. Siamo invece ancora alla tappa precedente, cioè si nega l’esistenza del problema. Quello che io chiamo discorso europeista è esattamente questo: la negazione del problema. Per questo è una ideologia vera e propria, che come ogni ideologia divide il campo in amici e nemici. Per molti versi oggi l’europeismo ha sostituito quello che un tempo era il comunismo. Non ci sono certamente le prigioni europeiste… ma ideali - come l’ideale europeista - che in politica hanno una utilità pratica: quella di gestire la rappresentanza monopolistica del bene.


TERRA SANTA/ C'è qualcosa che viene prima (di Tel Aviv) - Roberto Fontolan - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
In un dialogo avvenuto in Giordania nell’ambito di un incontro del Comitato della rivista Oasis, un rappresentante di un Centro studi musulmano di Amman raccontava come nel suo Paese non si potesse assolutamente parlare di problemi relativi alla libertà religiosa. I cristiani, diceva, sono certo una minoranza, ma sono totalmente liberi di professare la propria fede. E aggiungeva che per questa situazione di chiara libertà non c’era nemmeno la necessità di tematizzare il “dialogo interreligioso”, dal momento che per lo Stato cristiani e musulmani erano uguali cittadini. Gli vennero poste due domande: la prima sull’ammissibilità del matrimonio “misto”, la seconda sulla liceità della conversione dall’Islam a un’altra fede. Rispondendo alla prima domanda l’interlocutore citò il caso della propria figlia, chiesta in sposa da un giovane cristiano. Egli chiamò dunque il futuro genero e gli disse che “doveva” convertirsi all’Islam, poiché altrimenti il matrimonio, che pure è normativamente laico, non sarebbe stato coerente con il principio che qualunque legge dello Stato non può contraddire la sharia (la quale non prevede un matrimonio religiosamente misto). E di fronte ai dubbi del giovane gli disse: ma in fondo che cosa te ne importa? tu dichiaralo e poi fa’ quello che vuoi. La seconda risposta: dal punto di vista dello Stato la conversione dall’Islam a un’altra fede è ammessa, ma l’esperienza dice che per non turbare l’ordine sociale, per evitare la pressione dell’ambiente che può essere disturbato da una tale scelta, è bene che il convertito vada a vivere altrove.
La conversazione fu illuminante. Per l’immediatezza e il “candore” con cui vennero date le risposte (sulle quali è facile ironizzare, ma totalmente inutile), e per la evidenza rivelatrice di una mentalità diffusissima nel Paesi a maggioranza musulmana: una mentalità per nulla fondamentalista o estremista, anzi ovvia, borghese e persino moderata.
Mi è tornata in mente pensando al viaggio del Papa in Terra Santa, in vista del quale gli occhi di tutti sono puntati sul nodo israeliano-palestinese, eventualmente con l’aggiunta da parte dei più attenti dell’annosissimo problema dell’Accordo tra Vaticano e Israele, tuttora non raggiunto (ed è piuttosto pazzesco). Però il viaggio comincia domani, ma solo lunedì l’aereo atterrerà a Tel Aviv: prima c’è la Giordania, dove sono previsti ben sette discorsi oltre a omelie e interventi brevi. E non sarà per nulla un “prologo” di cerimonie e saluti di circostanza. La Giordania è in prima linea su tanti fronti: nel mondo arabo, nel rapporto tra Islam e Cristianesimo (da lì venne l’impulso della celebre lettera dei 138), nel rapporto tra gli Islam, nella lotta al terrorismo, nel complessissimo equilibrio microregionale Siria-Egitto-Libano e naturalmente in tutta la storia tragica della guerra dei sessanta anni tra gli arabi e gli israeliani, nella quale essa stessa ha preso parte più volte (’48, ’67, ’73) prima di arrivare alla pace con Israele, pace che appare piuttosto stabile. Che la posizione del piccolo regno hashemita sia delicata lo fa capire il ritorno negli ambienti governativi e militari israeliani della vecchia teoria secondo la quale “uno Stato palestinese già c’è ed è la Giordania”. Teoria che negli stessi ambienti si accompagna pericolosamente alla critica del principio dei due Stati (prontamente rilanciata in Italia dallo schieramento progovernativo israeliano): un insieme filosofico che preoccupa la diplomazia vaticana.
Dunque, Benedetto XVI inizierà a vivere la Terra Santa secondo una prospettiva che non è quella ovvia e usuale della madre di tutte le questioni internazionali (o quasi), ma piuttosto quella di una piccola cristianità molto rispettata ma non per questo serena, che vive in un piccolo Paese molto rispettato ma non per questo sereno. Una situazione cruciale per tanti aspetti, inclusa quella mentalità comune in tutto il mondo arabo.


SCUOLA/ Stefano a sua madre: "non capisco le maestre, che ne sarà di me alle elementari?" - Cristina Casaschi - giovedì 7 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Quando mio figlio Stefano frequentava la scuola dell’infanzia, le insegnanti del gruppo dei cinque anni, i cagnolini, programmarono come attività didattica “forte” dell’anno tutto un lavoro articolato e assai ricco dal titolo “Introduzione scientifica e mitologica all’Universo”.
Mio figlio, reduce da un’estate “stellatissima”, accolse di buon grado la proposta, e la seguì. Durante un’assemblea intermedia di confronto con i genitori, per la maggiore entusiasti che i loro figli affrontassero cotanta tematica, una mamma riferì nel seguente modo le parole della figlia: «Mamma, io non capisco niente, non so di cosa ci parlano le maestre…. Se è così adesso, cosa sarà di me alla scuola elementare?».
Cosa sarà di me alla scuola elementare…
Le insegnanti ribatterono prontamente e placidamente, all’unisono: «Ma signora, questo è un problema di sua figlia!». Qualcosa non andava, è evidente.
Cosa non andava? L’affannarsi delle insegnanti - colte e scientificamente preparate - a smontare il giocattolo prima ancora che i bambini potessero scoprirne la bellezza. Di più - e forse più gravemente - l’indurre nel bambino il pensiero (pensiero, ricordiamo, in formazione; un pensiero che sta imparando a pensare e a pensarsi) che ciò che vede, sente, tocca, gusta, percepisce non è poi così interessante, poiché quel che gli deve interessare è una simbolizzazione (introduzione mitologica) e una spiegazione (scientifica) della realtà (universo).
Ma questo, si obietterà, non è sbagliato poiché noi interagiamo fra noi e con il reale attraverso i sistemi simbolico culturali. Ed infatti è (anche) così che effettivamente accade, è innegabile ed è esperienza comune di tutti.
Tuttavia, anteporre questi sistemi al dato, lo svilisce, lo sbiadisce ai nostri occhi che, crescendo, rischiano di vagare disorientati in una nebbia che vela ciò che si sta cercando, e ciò che è compito dell’uomo scoprire.
Il fascino del reale, espresso attraverso curiosità e stupore, è il tasto d’accensione del motore della conoscenza.
La scoperta - che precede, accompagna e alimentaquesto fascino - nella scuola dell’infanzia è una dinamica fondamentale, personale e condivisa.
La scoperta comprende l’incontro, il paragone con sé, il disvelamento, che più avanti avverrà anche grazie alla lente di ingrandimento favorita dall’approccio disciplinare.
Da qui l’importanza della cura del gesto, compito precipuo dell’insegnante di scuola dell’infanzia che, con la sua presenza (inter-esse) innanzitutto, e attraverso il suo delicato e comunque incisivo operare, favorisce -meglio- condivide con il bambino questa continua e nuova scoperta.
Ma la dinamica della scoperta, l’incontro con il dato, mette in moto il bambino che, entusiasta e interessato, sulla realtà interviene, che con essa si paragona, e da qui nasce in lui il desiderio di comprendere meglio (cum prehendere), e di intervenire più efficacemente (cum petere e competentia).
E’ qui che gli vengono in soccorso l’adulto e il suo maestro, veicoli di cultura e di tradizione, ovvero delle coordinate che illuminano il significato e di significato il nostro agire.
Il bambino percepisce per natura ciò che gli corrisponde; attraverso l’atto dell’educazione impara piano piano a muoversi sempre più consapevolmente verso ciò che gli corrisponde. E se ha paura, se si disorienta, non é solo; un maestro segna la via (in-segna), e la percorre con lui.
Allora cosa chiedere ad un insegnante e alla sua formazione?
Che sia colto, certo. Ma colto di una cultura che permetta che avvenga un’esperienza, non che la predetermini o che la artefaccia (l’artificio é il peggior nemico dell’educazione autentica).
Un insegnante dalla coscienza viva, presente ed operante (vedi articolo Cicardi), che introduca in un orizzonte di senso attraverso la meraviglia del reale favorendo «l’avventura amorosa col mondo» (M. Mahler) e strumentando via via il cavallo dei sistemi simbolico culturali, che, cavalcato dal bambino (personalizzazione), potrà percorrere un’esplorazione più ampia ed attenta ed una progressiva decodifica senza censure del panorama di realtà che si dipana innanzi al soggetto (contesto). Credere durante l’infanzia (come allora affermò mio figlio) che “Le stelle sono gli occhi del cielo, e si vedono solo di notte perché il cielo ci guarda quando c’è pace, e silenzio”, oppure che piove perché gli angeli piangono, non impedirà a nessuno di diventare astronomo o metereologo, ma non avere accanto alcuno che condivida e dia credito a questo moto di pensiero, forse sì.
Un insegnante che sia consapevole, e che presti attenzione al tutto nel dettaglio e al dettaglio nel tutto.
La formazione dell’insegnante di scuola dell’infanzia è innanzitutto una questione di metodo, non di numero di anni o numero di nozioni acquisite.
E se la formazione si curerà di educare l’insegnante a guardare il bambino, la realtà e il loro rapporto, anziché programmi e proposte didattico-predisciplinari, avremo insegnanti veri professionisti che prima di sapere, e insegnare, che le stelle (sidera) son fatte di idrogeno, elio e radiazioni, sappiano de-siderare, e de-siderino ammirare ancora, e ancora Sirio e Aldebaran. «…E quindi uscimmo a riveder le stelle».


Il Papa presenta la figura di san Giovanni Damasceno - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 6 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su san Giovanni Damasceno.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre - di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: "In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?... E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?... E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole" (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: "Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)" (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: "Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)" (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: "Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro" (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, "fosse rinforzata e rinnovata" dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’"essere", ma nel "bene-essere" (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: "Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)…" E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: "Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio" (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Missionarie Clarisse del Santissimo Sacramento che partecipano al loro Capitolo generale, come pure le Religiose di diverse Congregazioni convenute a Roma per un incontro formativo promosso dall’USMI. Care Sorelle, vi assicuro la mia preghiera perché lo Spirito del Risorto vi aiuti a discernere i segni dei tempi, così da testimoniare il Vangelo con fedeltà e gioia. Saluto con affetto il gruppo degli Alpini ed auguro loro di seguire gli eroici esempi di vita cristiana dei fedeli discepoli di Cristo, appartenenti al Corpo degli Alpini, tra i quali mi piace ricordare il Venerabile don Carlo Gnocchi e il Servo di Dio Teresio Olivelli. Un particolare pensiero dirigo ai numerosi Medici cattolici presenti all’Udienza. Cari amici, la vostra opera, che si pone al servizio dell’essere umano dal suo concepimento fino al suo termine naturale, sia sempre eloquente testimonianza di solidarietà umana e cristiana. Proseguite pertanto con generosità nel vostro prezioso servizio alla vita, valore fondamentale nel quale si rispecchiano la sapienza e l’amore di Dio. Il vostro lavoro sia arricchito ogni giorno di profondo spirito di fede e animato da fedeltà e coerenza con i principi che debbono ispirare l’attività di ogni medico.
Desidero, infine, rivolgermi ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Da pochi giorni è iniziato il mese di maggio, che il popolo cristiano dedica in modo speciale alla Madre del Signore. Cari giovani, vi invito a porvi alla scuola di Maria per imparare ad amare Dio sopra ogni cosa ed essere sempre pronti a compiere la sua volontà. La contemplazione della Madonna Addolorata aiuti voi, cari ammalati, a guardare con fede al mistero del dolore, cogliendo il valore salvifico nascosto in ogni croce. Affido voi, cari sposi novelli, alla materna protezione della Vergine, perché possiate vivere nella vostra famiglia il clima di preghiera e di amore della casa di Nazaret.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


La NaProtecnologia, una soluzione etica per le coppie non fertili - Sviluppata in Irlanda dalla dottoressa Caroline Guindon - di Nieves San Martín
PARIGI, giovedì, 7 maggio 2009 (ZENIT.org).- In un intervento inserito on line sul blog di bioetica della Conferenza Episcopale Francese dal sacerdote Olivier Bonnewijn si affronta il tema dell'assistenza medica nella procreazione, aprendo un dibattito che continuerà con altri articoli.
Bonnewijn, presbitero della Diocesi di Malines-Bruxelles e docente di Etica presso l'Istituto Teologico di Bruxelles, allude nella sua nota alla prova dell'infertilità per le coppie e apporta un chiarimento su ciò che la Chiesa cattolica afferma sul ricorso alle tecniche di produzione di embrioni umani.
Con chi parlare?, si chiede Bonnewijn nel suo articolo. “Dalla seconda metà del XX secolo – osserva –, il progresso della scienza permette di mettere a punto cure efficaci. I medici assistono casi di infertilità, dando così a molte coppie la possibilità di realizzare il desiderio di essere genitori. La Chiesa si è sempre rallegrata di questo progresso. Lo ha esortato e vi ha contribuito ampiamente. Lo sviluppo attuale della 'NaProtecnologia' offre un esempio tra gli altri. La medicina della procreazione ha fatto così irruzione tra le coppie mettendosi al loro servizio prima, durante o dopo la loro unione coniugale”.
Facendo eco alla nota di Olivier Bonnewijn, Caroline Guindon affronta nel suo apporto all'interno dello stesso blog il tema della NaProtecnologia.
“A differenza delle tecniche di assistenza medica alla procreazione, che aggirano le cause di infertilità e sostituiscono l'atto coniugale, la NaProtecnologia ricerca e tratta le cause soggiacenti all'infertilità, sia nella donna che nell'uomo, per permettere il concepimento in una relazione sessuale normale”, afferma la Guindon.
“L'obiettivo è, quindi, aiutare le coppie a concepire un bambino, ma non a qualsiasi prezzo: mai al prezzo della salute mentale e fisica della donna, del rapporto di coppia, della distruzione di altri embrioni o della svalutazione della persona del concepito”, aggiunge.
Caroline Guindon, medico, esercita la NaProtecnologia dal settembre 2005 presso la Clinica della Fertilità della Clinica Galway, in Irlanda.
La dottoressa spiega che la NaProtecnologia può aiutare le coppie che affrontano l'infertilità a concepire un bambino nel rispetto della loro relazione e dell'embrione.
Accessibile in Irlanda dal 1998, questo metodo ha permesso a più di 800 coppie irlandesi e inglesi di portare a termine una gravidanza. Finora sono state seguite 3.000 coppie.


Confidenze del cardinale arcivescovo emerito di Bologna - A vent'anni mi sono innamorato di Sofia - È in uscita il volume di Inos Biffi In dialogo sul cristocentrismo. Lettura dei saggi di Giacomo Biffi (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 122, euro 13). Pubblichiamo il testo della premessa. - di Giacomo Biffi
A vent'anni anch'io mi sono innamorato: mi sono innamorato della "divina Sofia". Però lei, quando mi si è fatta conoscere, non mi si è presentata con questo suo nome insolito e arcano, che mi avrebbe sconcertato e prevedibilmente volto in fuga. Mi ha dato il nome con cui la chiamavano tutti: "teologia". Era il suo nome usuale; ed era un nome antico e splendido che a nessun costo, oggi come ieri, è lecito disattendere o mettere fuori gioco. Ma sopravvenne poi sui miei giovani anni una stagione in cui quel nome è andato banalizzandosi, disperso nelle attenzioni più varie e piegato agli interessi più disparati (teologia delle realtà terrestri, teologia politica, teologia ecumenica, teologia per i lontani, teologia del lavoro, teologia dello sport, eccetera). In quel contesto non era remoto per me il pericolo di disamorarmi e di darmi ad altri svaghi. Per fortuna la divina Sofia nel frattempo aveva pensato di rivelarmi qualcosa di più dell'intima sua natura, facendomi conoscere il cristocentrismo. Mi è stata cioè fatta la grazia di capire che il cristocentrismo - se lo si intende senza superficialità e senza ingiustificate ritrosie - è il contenuto pertinente e l'intelligenza adeguata dell'intera sacra doctrina: la teologia, quando è autentica - quando decide di essere solo se stessa - è intrinsecamente e totalmente cristocentrica. In tal modo, l'amore dei miei vent'anni si è salvato ed è rimasto sostanzialmente intatto, pur se sono andato crescendo nella comprensione della bellezza che mi aveva ammaliato e nella scoperta delle sue molteplici implicazioni col nostro esistere. L'amore dunque è rimasto immutato anche se poi il mio linguaggio è andato accogliendo qualche arricchimento concettuale e terminologico. Per esempio, alla scuola della lettera agli Efesini, la teologia mi è apparsa anche vagheggiamento ed esplorazione di un "disegno": "il disegno (oikonomìa) di ricapitolare in Cristo tutte le cose" (Efesini, 1, 10); "il disegno eterno (pròtesis) che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore" (Efesini, 3, 11).
Il "guadagno" di tale apporto non è irrilevante: con la categoria del "disegno" è dato miglior risalto all'iniziativa del Padre, che preordina e decide tutto; e anche il cristocentrismo ha la sua prima origine nella divina preconoscenza e nella divina predestinazione. A prevenire inoltre qualche malinteso intellettualistico e a cogliere tutta la concretezza della divina Sofia, ho cominciato a un certo punto a sottolineare che la teologia è contemplazione ed esperienza di una "res" (vale a dire, di una "realtà"): il "disegno" non è solo un'intenzione che vive nella mente e nella libera elezione del Padre; è altresì l'universalità organica e compaginata in Cristo di tutto ciò che effettivamente esiste. Sicché l'oggetto della teologia è anche l'ideale cristocentrico del Creatore in quanto progressivamente si realizza in conformità col suo progetto eterno. Non potrebbe essere altrimenti: la res trascendente - che noi sappiamo essere cristocentrica - è, secondo una celebre sentenza di san Tommaso, l'approdo ultimo di ogni conoscenza di fede: Actus fidei non terminatur ad enuntiabile sed ad rem (iia-iiae, q. 1, a. 2, ad 2um); lo sarà perciò anche di ogni conoscenza teologica, la quale non è altro che la stessa luce della fede in quanto si irradia in un uomo intellettualmente e spiritualmente maturo e "riuscito". Devo dire che nel succedersi delle mie pubblicazioni solo in due occasioni ho osato in modo esplicito offrire il mio "teologare" nella forma di una amorosa contemplazione della divina Sofia, vista come mistero primordiale, sintetico e onnicomprensivo dell'ordine di cose di fatto esistente: nel 1984 con un "epitalamio" che costituisce la terza parte del volume La bella, la bestia e il cavaliere; nel 2000 in una "esercitazione di teologia anagogica" dal titolo Canto nuziale. Ho rievocato fin qui una sorta di provvidenziale "infatuazione" che ha segnato il mio atteggiamento interiore verso la Rivelazione divina e il mio rapporto con l'avvenimento cristiano: benedetta infatuazione della quale non finisco di ringraziare il Signore. Questa mia è stata però una rievocazione epidermica, senza una chiarificazione dei contenuti. Tanto che il discorso potrebbe apparire a un eventuale lettore abbastanza incomprensibile, al punto di non essere meritevole di qualche considerazione. Per la verità non avrei neppur pensato di offrire tale "sproloquio confidenziale", se non avessi saputo in antecedenza che sarebbe stato accompagnato da un testo dove tutto sarebbe stato spiegato per filo e per segno. Monsignor Inos Biffi si è sobbarcato al compito di ripercorrere nelle sue varie fasi la mia avventura, delucidandola con cura e perfino giustificandola con misericordiosa maestria; un'avventura speculativa che credo di poter dire sia stata, soprattutto negli approdi, sostanzialmente anche la sua. Queste sue pagine sono per me un regalo inestimabile: mi hanno dato una grande gioia e un'inattesa consolazione in questo mio entrare nell'ottantesimo anno di età. Don Inos come nessun altro aveva le carte in regola per cimentarsi fruttuosamente in simile fatica. Il mio itinerario teologico si è svolto, per così dire, passo passo sotto i suoi occhi, favorito e lievitato dalle molte ore di una periodica conversazione che reciprocamente ci arricchiva e ci illuminava. Sicché ambedue trovavamo naturale che il più delle volte le mie pubblicazioni fossero supportate e impreziosite da una sua puntuale, oggettiva, benevola introduzione. È bastato radunare questi interventi, aggiungendovi un nuovo prologo ampiamente orientativo, perché fosse felicemente raggiunto lo scopo di accreditare - con l'autorevolezza incontestabile del teologo acuto, invidiabilmente informato e teoreticamente robusto - la mia modesta ma appassionata proposta cristocentrica. Con perspicacia e cordiale compiacimento Inos Biffi rileva che in questa formulazione della "sacra doctrina" tutto si coinvolge e si integra: abbracciati da un unico sguardo "abbiamo una cristologia, una mariologia, una ecclesiologia, una sponsalità umana, dove Scrittura, Tradizione e ragione teologica si fondono felicemente quasi a ricreare i trattati manualistici e a renderne avvincente la materia" (p. 30). Gli riesce allora agevole rinvenire, in conclusione, una denominazione distintiva e quasi un marchio: "Forse non siamo lontani dal vero se definiamo la teologia che appare da questi saggi una teologia dell'integralità cristiana" (p. 15). È una qualifica alla quale non avevo mai pensato; ma in essa mi ritrovo, e mi piace. Non è escluso che qui ci sia qualche inconsapevole influsso delle mie lontane letture di Vladimir Sergeevic Solovev e della sua forte asserzione della "unitotalità" (vséenstvo) come prerogativa della realtà nella sua intrinseca verità. L'identità del cognome e l'assidua collaborazione hanno fatto supporre al alcuni che don Inos e io fossimo fratelli. Non siamo nemmeno parenti. Spiritualmente e culturalmente proveniamo però da una molteplice matrice comune. Siamo stati generati e allevati dalla stessa Chiesa di Milano; la Chiesa di Schuster, di Montini, di Colombo: solida nel suo Credo e nelle sue strutture, pastoralmente operosa e saggia, intraprendente nella sua sollecitudine apostolica. Ambedue dall'antica scuola di Venegono siamo stati formati a un serio impegno verso la verità, al gusto della ricerca, al rigore dell'argomentazione. Ambedue ci siamo dedicati alla frequentazione ammirata degli autori medievali (lui da grande e riconosciuto protagonista, io da piccolo dilettante). Ambedue abbiamo avuto in sorte, contro ogni nostra previsione, la necessità e l'obbligo di una conoscenza ravvicinata e totale delle opere di sant'Ambrogio; e ambedue ci siamo resi conto del valore e dell'originalità (ignoti ai più, in questa stagione) del pensiero di questo nostro padre e maestro. Ambedue abbiano sempre cercato di onorare il programma di congiungere la piena fedeltà al dato rivelato e l'adesione senza eclissi alla Sposa di Cristo con uno spirito e uno stile di libertà: Ubi fides ibi libertas. Possiamo dunque parlare di una reale fraternità: una fraternità ecclesiale e segnatamente teologica. Per dirla con le parole della liturgia ambrosiana: Haec est vera fraternitas, quae numquam potuit violari certamine (Responsorio nella festa dei santi Protaso e Gervaso).
(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2009)


L'uomo, la ragione e la ricerca di Dio - Non fermiamoci alla penultima stazione - Mercoledì 6, nell'aula magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, il cardinale arcivescovo di Bologna ha tenuto una lectio magistralis sul tema "Dio e ragione: alleati, estranei, nemici?". Ne pubblichiamo uno stralcio. - di Carlo Caffarra
È originariamente evidente a ogni persona che esiste nel proprio cuore il desiderio di una felicità senza limiti e senza termini. Come è ugualmente certo che ciascuna persona umana compie scelte diverse, ritenendo che ciò che sceglie sia la risposta al suo desiderio. Da questa duplice constatazione possiamo forse dedurre che non esiste la risposta alla domanda di felicità, ma solamente tante risposte quante sono le persone? Che non esiste il bene in sé e per sé ma solamente tanti beni quanti sono le persone che vi aspirano? Se così fosse, la ragione non dovrebbe prefigurare un universo di cose ultime, ma solo di cose penultime. O meglio: dovrebbe semplicemente affermare l'esistenza del finito, giudicando la ricerca dell'"oltre il finito" una malattia della ragione. Dobbiamo dunque guardare le cose più in "profondità"; leggere più attentamente la nostra esperienza quotidiana. Nessuno potrebbe scegliere un bene come risposta alla sua domanda di felicità, se non facesse un confronto fra ciò che desidera e ciò che quel bene gli offre; se non giudicasse quel bene alla luce del suo desiderio. Dunque pre-esiste nella nostra mente un'attesa, una domanda sensata che implica una nozione di felicità alla luce della quale noi giudichiamo i singoli beni che si offrono come risposta all'attesa, come realizzazione concreta di quella nozione. Come scrive Agostino: "Prima di essere felici, nelle nostre menti è tuttavia impresso il concetto di felicità, per mezzo di questo infatti sappiamo e diciamo risolutamente e senza alcuna esitazione che vogliamo essere felici" (Il libero arbitrio ii, ix 26; in Tutti i dialoghi). La domanda dunque che la ragione non può evadere è se a questo "concetto di felicità" impresso nelle nostre menti corrisponda o meno una realtà che sia capace di saziare il desiderio dell'uomo, oppure se esso sia una sorta di "idea regolatrice" delle nostre scelte e nulla più. In questo senso la ricerca di un "ultimo" oltre il "penultimo", di un "bene sommo" oltre ai "beni limitati" è un compito da cui una ragione fedele a se stessa non può esimersi. Ma vediamo meglio l'intimo rapporto fra il desiderio di una beatitudine piena e l'uso di una ragione che guarda oltre le cose penultime e si mette alla ricerca di quelle ultime, oltre i "beni limitati" alla ricerca del "bene illimitato". Di una ragione cioè che intenda verificare se esista il bene corrispondente al desiderio. Ci aiuta a cogliere questo rapporto una riflessione agostiniana, che troviamo ne Le Confessioni (x, 20, 29). Agostino in ordine alla felicità distingue le persone umane in tre classi: chi già la possiede; chi non la possiede, ma ha la speranza di possederla; chi né la possiede né spera di possederla. Soffermandosi a considerare la condizione di questi ultimi, Agostino, notando che anch'essi continuano comunque a desiderarla, conclude che in qualche modo l'hanno conosciuta (nescio qua notitia), altrimenti non potrebbero desiderarla. La donna del Vangelo non si metterebbe alla ricerca della dracma perduta, se non avesse la possibilità di riconoscerla qualora la trovasse; non avrebbe la possibilità di riconoscerla, se non ne conservasse la memoria. Il desiderio della felicità, di una pienezza di essere, non nasce semplicemente da una mancanza, ma da un possesso accaduto e non più reale. Diciamo: nasce da una presenza, non da una assenza (cfr. x, 20, 29: "Eppure lo possediamo, non so in che modo"). "Dove dunque" si chiede Agostino "e quando ho fatto esperienza della mia felicità, per poterla ricordare e amare e desiderare?" (x, 21, 31). Ciò di cui ho esperienza quotidiana è un'attrazione. È l'attrazione il medium quo della conoscenza. Ciò che attrae infatti è presente nell'attrazione che esso suscita in chi è attratto. È questo il modo proprio della presenza della causa finale nelle persone. La felicità non può essere quindi semplicemente la realizzazione di se stesso (cfr. De civitate Dei 8, 8), ma non può neppure consistere in un'alterità irrelata, in un qualcosa di totalmente altro. È questa originaria esperienza; è questa presenza assente/assenza presente la sorgente che muove la ragione a cercare il conosciuto Ignoto. E nello stesso tempo funge da bussola, da criterio per riconoscere l'Ignoto conosciuto quando si rendesse presente, dandomi la possibilità di stringermi a Lui ed esserne posseduto. Ci aiuta a capire questa condizione esistenziale dell'uomo la famosa pagina agostiniana della lettera a Proba, dedicata alla preghiera. In essa Agostino dice che la preghiera è in fondo lo stesso desiderio umano in quanto chiede a Dio di essere adempiuto: desiderio e preghiera si coimplicano. Ma non è questo il punto che ci interessa. Procedendo in questa coimplicazione, Agostino si chiede: ma che cosa desideriamo, alla fine? Una sola cosa: la vita beata, cioè la felicità piena. In realtà però non sappiamo che cosa è, in che cosa consista non formalmente, ma realmente e sperimentalmente. È questo il significato profondo delle parole dell'Apostolo: "non sappiamo che cosa sia conveniente domandare" (Romani, 8, 26). Ma nello stesso tempo, ci occorre non raramente di dire che la vita beata, la vita vera non può essere quella che stiamo vivendo. È un "non sapere" che ha in sé un "sapere": sa che esiste una vita beata, ma che non è questa. Est ergo in nobis quaedam, ut ita dicam, docta ignorantia (Epistolae, 130, 15.28). Benedetto XVI nella Spe salvi (11-12) fa un suggestivo commento di queste pagine agostiniane. Scrive Gabriel Marcel: "Se l'uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino (...) verso una meta della quale possiamo dire al tempo stesso e contraddittoriamente che la vede e che non la vede. Ma l'inquietudine è appunto come la molla interna di questo progredire e qualunque cosa dicano coloro che pretendono di bandirla in nome di un ideale tecnocratico, l'uomo non può perdere questo sprone senza divenire immobile e senza morire". Nelle strutture stesse della persona si trova la presenza di un desiderio che dà origine a tutta la fatica del ragionare. Come educatori o siamo in grado di far prendere coscienza limpida di questa struttura desiderante dell'humanum o perdiamo il nostro tempo.
(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2009)


Mauro: «Un’operazione di carattere elettorale» - DI ENRICO LENZI – Avvenire, 7 maggio 2009
«Un’operazione di carattere elettorale». Mario Mauro, vicepresidente del Par­lamento europeo ed esponente del P­pe, bolla così la presentazione dell’emendamento al Rapporto annuale sui diritti umani. «Operazione che sembra risentire dell’imminente tornata elettorale europea, ma non per questo meno grave», com­menta l’europarlamentare.
Ancora una volta nel mirino di questo Rapporto fi­nisce la Chiesa cattolica.
A dire il vero quest’anno il Rapporto non aveva cri­tiche alla predicazione del Santo Padre circa alcuni aspetti che un fronte laicista considera dei diritti, co­me, ad esempio, l’aborto, l’uso degli embrioni, ma­trimoni gay. Così ci ha pensato un parlamentare del­l’Alde a presentare un emendamento nel quale si condannano le «gravi dichiarazioni di Benedetto X­VI » circa il tema dell’Aids e l’uso del profilattico.
Sulla falsariga del pronunciamento del Parlamen­to belga?
È una posizione di tipo laicista che è presente nel­l’Europa e si ripropone a vari livelli. Stavolta è arri­vata al Parlamento europeo.
Cosa possiamo aspettarci dal voto in aula?
Come gruppo dei Popolari europei abbiamo analiz- zato i testi e la nostra posizione su questo emenda­mento è contraria. Con altri colleghi del Ppe di va­rie nazioni abbiamo scritto una lettera a tutti gli eu­roparlamentari per confutare la tesi espressa nell’e­mendamento e per illustrare la posizione espressa dal Santo Padre sul tema. Comprese le precisazioni fatte durante il viaggio in Africa.
Precisazioni fornite già da tempo dalla Santa Sede.
Ma per qualcuno non basta. Quello che considero una violenza è ridurre il magistero del Papa alla stregua dell’a­zione di un assesso­re ai Servizi sociali. L’approccio è sul piano educativo. E poi se può essere ve­ro che nessun pro­blema politico è risolto dalle religioni, di certo non li si risolvono facendo guerra alle religioni stesse. Co­me in questo caso.
Una guerra che sembra coinvolgere anche l’inse­gnamento dell’ora di religione. Cosa possono fare le istituzioni europee?
Purtroppo si assiste in diversi Paesi a un’ondata lai­cista che critica alla radice valori e principi del cat­tolicesimo. Non si tratta di un sentimento intrinse­co alle istituzioni stesse, mi preme dirlo. Ma è un’i­dea presente nell’Unione, che si manifesta in diffe­renti modalità che, comunque, hanno nel mirino la concezione dell’uomo. Pensi alla legge votata in Spa­gna in cui i genitori non potranno essere indicati co­me papà e mamma, ma come genitore A e genitore B, volutamente slegando la genitorialità dalla ses­sualità della coppia e poter così legalizzare le unio­ni omosessuali. Bisogna lavorare affinché nelle isti­tuzioni si affermino i principi di verità, che non pos­sono essere messi ai voti.
Però quell’emendamento sul Papa sarà votato. Co­sa accadrà?
All’interno del Parlamento europeo abbiamo mag­gioranze variabili. Solitamente sui temi etici nasco­no alleanze tra il gruppo liberale e quello socialista, mentre sui temi economico-sociali i liberali tendo­no a una maggior consonanza con il Partito popo­lare europeo. Difficile fare una previsione, anche per­ché le divisioni su alcuni temi passano dentro gli stessi gruppi. Ad esempio mi domando se i parla­mentari del Pd, soprattutto quelli cattolici, che ap­partengono all’Alde, voteranno a favore o no dell’e­mendamento proposto da un loro collega di grup­po, il radicale Cappato.
«Anche sull’ora di religione si assiste in diversi Paesi a un’ondata laicista che critica alla radice i valori cattolici»


Quei figli «diversi», amati e accolti – Avvenire, 7 maggio 2009
Due libri-testimonianza di mamme che raccontano la loro maternità e l’handicap vissuto giorno per giorno E rivendicano rispetto dalla società e attenzione dalle istituzioni
Da qualche tempo, v’è un nuovo modo di parlare di maternità. È la maternità delle attrici, delle cantanti, delle donne famose ritratte con pancioni perfetti prima e con bebè ancor più perfetti poi. Eppure, al di là di quelle foto vendute a peso d’oro e di quei corpi che tornano immediatamente in forma, esistono tanti altri volti della maternità. Tra essi, quello che parrebbe insostenibile, inaffrontabile e sconfitto per il dolore e la sofferenza: l’essere madri di figli disabili e l’essere madri di figli malati.
Dodici donne hanno recentemente raccontato le loro storie. Una, Carla, mamma di Roberta, l’ha fatto scrivendo con Stefano Martello 'Il resto (parziale) della storia' (Fara Editore), un breve volume coraggioso e appassionato che racconta il suo essere madre di una bimba 'diversa'.
Diversa agli occhi veloci, forse un po’ infastiditi, certamente a disagio, di chi non vuole vedere. Le parole di Carla colpiscono perché rivendicano, gridando con amore il diritto di essere considerati: «Non coprite gli occhi dei vostri figli quando incrociate la nostra strada, non date quella carezza forzata sfoggiando un sorriso di circostanza, non serve». Le altre 11 madri, tutte dell’Associazione famiglie attive per l’handicap, sono invece le autrici di 'Mamma, quando sono guarito ti compro un bel vestito' (Ponte Sisto), 11 capitoli per 11 storie in cui ogni ognuna racconta la propria maternità.
Molti i tratti comuni tra le dodici donne. Innanzitutto l’istinto materno che, in questi casi, le trasforma in dolenti Cassandre: sono loro le prime a capire per intuito che c’è 'qualcosa' nel loro bimbo, qualcosa che gli altri non vedono, o non vogliono vedere. È il coraggio di ascoltare, esplicitare un dubbio, una sensazione.
Quindi, molto spesso, la solitudine.
La montagna dei sensi di colpa, l’impressione di totale impotenza, l’impossibilità di farsi capire anche da chi è più vicino. È difficile, del resto, superare la cappa di indifferenza sociale, quella indifferenza che si aggiunge come macigno al peso oggettivo della situazione inattesa.
Eppure, dagli esaurimenti e dalla lucida sensazione di non farcela, queste madri hanno saputo risollevarsi. E non solo per i figli, ma – molto più nel profondo, con una differenza sostanziale – insieme a loro, imparando a comprenderli.
La loro testimonianza diviene anche un dialogo con le future mamme: «A una madre direi di sciacquarsi il più possibile dai pregiudizi e dalle visioni nere» (Federica). Confrontandosi e conoscendosi, ci si arricchisce e fortifica. E si diviene, nella bella definizione di Michela, «amiche di trincea».

Nulla è facile. Caparbiamente, queste madri pretendono ascolto e attenzione dai medici (richiesta che è ben diversa da quella dell’impossibile effetto-miracolo) e da tutte quelle istituzioni che dovrebbero sostenerle, e con le quali invece si ritrovano quotidianamente a dover combattere. Carla centra un problema cruciale del nostro mondo, a volte ipocrita: le diversità si debbono rispettare «anche quando si manifestano come handicap».
Ognuno ha qualcosa di particolare, ed è necessario partire «da quel quid per cominciare a lavorare». L’importante è che a tutti siano date le stesse possibilità di realizzare le proprie potenzialità di crescita. Ma le parole di Carla rivendicano ascolto e attenzione anche da se stessi, come genitori.
Aprendo 'una finestra sull’ignoto', è dalla autentica relazione materna che parte un percorso di vita che obbliga a rivedere tutti gli schemi di un normale sviluppo di crescita. Non c’è spazio per il sentimentalismo in questa madre, che scrivendo ridimensiona le vite di ciascuno di noi.
« Ho lasciato che gli eventi visitassero i pensieri e la mente, prima di scegliere una strada.
Ogni scelta ne esclude altre, perciò, quando la scelta è necessaria, si tratta quasi sempre di una rinuncia, qualunque essa sia». Bellissime sono quindi le parole che queste madri rivolgono a Dio. «Qualche volta, mi arrabbio con Quello che sta lassù», racconta Michela, e le fa eco Antonella: «Gli dico: 'però, sei un po’ distratto!'. Poi capisco che pure Lui ha tanti figli». Inizialmente per Lucia è stato «il panico totale. Poi mi sono detta: 'il Signore a noi ha aiutato in tante cose, ci aiuterà pure qua'. Essere così arresi mi ha aiutato… Ogni giorno mi svegliavo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Risulta dunque chiaro il passo culturale che siamo chiamati a compiere, come singoli e come società: il tema riguarda tutti.
Accogliere assume così un significato che è l’esatto opposto di invitare «a partecipare alle feste quando la festa è finita». L’amore per chi ha delle difficoltà più visibili, passa anche per una forte determinazione. Scrive Carla, «ci sono cose nella vita che si devono pretendere, in alcune occasioni bisogna essere intransigenti.
Cancellare il disagio per esigere rispetto». Soprattutto questo, forse, è maternità.


Montini e Giussani, l’amicizia che non ti aspetti - DI ANDREA GALLI – Avvenire, 7 maggio 2009
Era la domenica delle Palme del 1975 quando 17 mila ciellini si radunarono in Piazza San Pietro per testimoniare vicinanza a un Papa passato per l’inaudita contestazione dell’Humanae Vitae, per una prima­vera del Concilio tramutatasi in una «giornata di nuvole, di tempesta, di buio» e per la frattura del fronte cattolico di fronte al referendum sul divor­zio, quando anche i ver­tici di Fuci e Azione Cat­tolica volsero le spalle a Roma. Fu quello l’episo­dio celebre dell’incontro definitivo fra Paolo VI e Comunione e Liberazio­ne. Il punto di arrivo di un dialogo, o di uno studiarsi a distanza, iniziato vent’anni prima, a partire da un altro episodio meno famoso ma altrettan­to significativo: la lettera che Giovan­ni Battista Montini, arcivescovo di Mi­lano, scrisse per la quaresima 1957, dal titolo Sul Senso Religioso.
Fu per cogliere la provocazione lan­ciata da quel documento pastorale, in­fatti, che don Luigi Giussani, allora ga­gliardo insegnante di religione al liceo Berchet di Milano, scrisse un piccolo saggio, pubblicato nel dicembre dello stesso anno a cura della presidenza diocesana milanese della Gioventù di Azione Cattolica, dal titolo quasi o­monimo:
Il Senso Religioso. Libricci­no, poi rivisto negli anni, che sarebbe diventato uno dei testi storici e di rife­rimento per l’avventura ecclesiale di Cl.
Ora Il Senso Religioso di Montini e quello di Giussani vengono riproposti per la prima volta appaiati in una edi­zione Bur (pp. 130, euro 8,30) intro­dotta da Massimo Borghesi, che con la consueta acribia ricostruisce il clima culturale e teologico in cui nacquero i due testi. Anni in cui, prima ancora che la proposta cristiana in sé, ad es­sere messa in discussione era l’auten­ticità della domanda religiosa dell’uo­mo contemporaneo, relegata dall’a­teismo marxisteggiante a residuo pre­moderno, a dimensio­ne fittizia dal destino ormai segnato.
Montini coglieva l’ur­genza del momento, nonostante un tessuto cristiano ancora appa­rentemente robustissi­mo nella sua Lombar­dia «bianca». E invitava alla necessa­ria «restaurazione del senso religioso», ovvero a una sua chiarificazione an­che razionale, per evitare il rischio che la fede stessa, perso silenziosamente il suo fondamento antropologico, re­stasse qualcosa di «esteriore, formali­sta, fragile», soggetta all’erosione del tempo. Giussani, da par suo, quel «sen­so religioso» lo riscopriva citando Shakespeare, Victor Hugo, Baudelaire, Rilke, ma soprattutto – anche se sotto trac­cia – attingendo al Dio e Noi di Jean Daniélou, un’opera preziosa per il sacerdote di Desio nel mettere a fuoco il valore positivo delle religioni, viste come «sforzo dell’uomo di andare verso Dio», e allo stesso tempo nel definire la loro incommensurabilità con il cri­stianesimo, in cui «è Dio che entra nel­la storia dell’uomo». Intuizioni ta­glienti, che non avrebbero perso at­tualità nei decenni: «La mentalità do­minante – scriveva Giussani, ed era­vamo negli anni ’50 – è quella laicista per cui Dio e la religione devono esse­re completamente staccati dalla esi­stenza concreta, e relegati tutt’al più al fondo soggettivo e incomunicabile della coscienza individuale… È estre­mamente necessario che la Chiesa ri­cristianizzi l’ambiente sociale».
«Io non capisco le sue idee e i suoi me­todi, ma vedo frutti e le dico: vada a­vanti così», aveva detto Montini, da poco insediatosi sulla cattedra am­brosiana, all’anomalo educatore usci­to da Venegono. Vent’anni dopo, alla fi­ne di quella messa in San Pietro per la domenica delle Palme, precisò: «Co­raggio, questa è la strada giusta: vada avanti così».
Negli anni ’50 il futuro Paolo VI e il fondatore di Cl scrissero due testi sul «senso religioso»