Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di San Teodoro Studita - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Newsletter di Scienza & Vita n° 24 27-5-09 - Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo - GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO - SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE” - di Domenico Delle Foglie
3) CRISI/ Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni - INT. Rino Fisichella - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi - INT. Giorgio Vittadini - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) SPAGNA/ L’aborto come la chirurgia plastica, il nuovo slogan dello zapaterismo - Fernando De Haro - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) LETTURE/ Il potere e la gloria, un “dono” di Graham Greene - Edoardo Rialti - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI presenta la figura di San Teodoro Studita - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 27 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Teodoro Studita.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Il Santo che oggi incontriamo, san Teodoro Studita, ci porta in pieno medioevo bizantino, in un periodo dal punto di vista religioso e politico piuttosto turbolento. San Teodoro nacque nel 759 in una famiglia nobile e pia: la madre, Teoctista, e uno zio, Platone, abate del monastero di Sakkudion in Bitinia, sono venerati come santi. Fu proprio lo zio ad orientarlo verso la vita monastica, che egli abbracciò all’età di 22 anni. Fu ordinato sacerdote dal patriarca Tarasio, ma ruppe poi la comunione con lui per la debolezza dimostrata nel caso del matrimonio adulterino dell’imperatore Costantino VI. La conseguenza fu l’esilio di Teodoro, nel 796, a Tessalonica. La riconciliazione con l’autorità imperiale avvenne l’anno successivo sotto l’imperatrice Irene, la cui benevolenza indusse Teodoro e Platone a trasferirsi nel monastero urbano di Studios, insieme alla gran parte della comunità dei monaci di Sakkudion, per evitare le incursioni dei saraceni. Ebbe così inizio l’importante "riforma studita".
La vicenda personale di Teodoro, tuttavia, continuò ad essere movimentata. Con la sua solita energia, divenne il capo della resistenza contro l’iconoclasmo di Leone V l’Armeno, che si oppose di nuovo all’esistenza di immagini e icone nella Chiesa. La processione di icone organizzata dai monaci di Studios scatenò la reazione della polizia. Tra l’815 e l’821, Teodoro fu flagellato, incarcerato ed esiliato in diversi luoghi dell’Asia Minore. Alla fine poté tornare a Costantinopoli, ma non nel proprio monastero. Egli allora si stabilì con i suoi monaci dall’altra parte del Bosforo. Morì, a quanto pare, a Prinkipo, l’11 novembre 826, giorno in cui il calendario bizantino lo ricorda. Teodoro si distinse nella storia della Chiesa come uno dei grandi riformatori della vita monastica e anche come difensore delle sacre immagini durante la seconda fase dell’iconoclasmo, accanto al Patriarca di Costantinopoli, san Niceforo. Teodoro aveva compreso che la questione della venerazione delle icone chiamava in causa la verità stessa dell’Incarnazione. Nei suoi tre libri Antirretikoi (Confutazioni), Teodoro fa un paragone tra i rapporti eterni intratrinitari, dove l’esistenza di ciascuna Persona divina non distrugge l’unità, e i rapporti tra le due nature in Cristo, le quali non compromettono, in Lui, l’unica Persona del Logos. E argomenta: abolire la venerazione dell’icona di Cristo significherebbe cancellare la sua stessa opera redentrice, dal momento che, assumendo la natura umana, l’invisibile Parola eterna è apparsa nella carne visibile umana e in questo modo ha santificato tutto il cosmo visibile. Le icone, santificate dalla benedizione liturgica e dalle preghiere dei fedeli, ci uniscono con la Persona di Cristo, con i suoi santi e, per mezzo di loro, con il Padre celeste e testimoniano l’entrare della realtà divina nel nostro cosmo visibile e materiale.
Teodoro e i suoi monaci, testimoni di coraggio al tempo delle persecuzioni iconoclaste, sono inseparabilmente legati alla riforma della vita cenobitica nel mondo bizantino. La loro importanza già si impone per una circostanza esterna: il numero. Mentre i monasteri del tempo non superavano i trenta o quaranta monaci, dalla Vita di Teodoro sappiamo dell’esistenza complessivamente di più di un migliaio di monaci studiti. Teodoro stesso ci informa della presenza nel suo monastero di circa trecento monaci; vediamo quindi l’entusiasmo della fede che è nato nel contesto di questo uomo realmente informato e formato dalla fede medesima. Tuttavia, più che il numero, si rivelò influente il nuovo spirito impresso dal fondatore alla vita cenobitica. Nei suoi scritti egli insiste sull’urgenza di un ritorno consapevole all’insegnamento dei Padri, soprattutto a san Basilio, primo legislatore della vita monastica e a san Doroteo di Gaza, famoso padre spirituale del deserto palestinese. L’apporto caratteristico di Teodoro consiste nell’insistenza sulla necessità dell’ordine e della sottomissione da parte dei monaci. Durante le persecuzioni questi si erano dispersi, abituandosi a vivere ciascuno secondo il proprio giudizio. Ora che era stato possibile ricostituire la vita comune, bisognava impegnarsi a fondo per tornare a fare del monastero una vera comunità organica, una vera famiglia o, come dice lui, un vero "Corpo di Cristo". In tale comunità si realizza in concreto la realtà della Chiesa nel suo insieme.
Un’altra convinzione di fondo di Teodoro è questa: i monaci, rispetto ai secolari, assumono l’impegno di osservare i doveri cristiani con maggiore rigore ed intensità. Per questo pronunciano una speciale professione, che appartiene agli hagiasmata (consacrazioni), ed è quasi un "nuovo battesimo", di cui la vestizione è il simbolo. Caratteristico dei monaci, invece, rispetto ai secolari, è l’impegno della povertà, della castità e dell’obbedienza. Rivolgendosi ai monaci, Teodoro parla in modo concreto, talvolta quasi pittoresco, della povertà, ma essa nella sequela di Cristo è dagli inizi un elemento essenziale del monachesimo e indica anche una strada per noi tutti. La rinuncia alla proprietà privata, questa libertà dalle cose materiali, come pure la sobrietà e semplicità valgono in forma radicale solo per i monaci, ma lo spirito di tale rinuncia è uguale per tutti. Infatti non dobbiamo dipendere dalla proprietà materiale, dobbiamo invece imparare la rinuncia, la semplicità, l’austerità e la sobrietà. Solo così può crescere una società solidale e può essere superato il grande problema della povertà di questo mondo. Quindi in questo senso il radicale segno dei monaci poveri indica sostanzialmente anche una strada per noi tutti. Quando poi espone le tentazioni contro la castità, Teodoro non nasconde le proprie esperienze e dimostra il cammino di lotta interiore per trovare il dominio di se stessi e così il rispetto del proprio corpo e di quello dell’altro come tempio di Dio.
Ma le rinunce principali sono per lui quelle richieste dall’obbedienza, perché ognuno dei monaci ha il proprio modo di vivere e l’inserimento nella grande comunità di trecento monaci implica realmente una nuova forma di vita, che egli qualifica come il "martirio della sottomissione". Anche qui i monaci danno solo un esempio di quanto sia necessario per noi stessi, perché, dopo il peccato originale, la tendenza dell’uomo è fare la propria volontà, il principio primo è la vita del mondo, tutto il resto va sottomesso alla propria volontà. Ma in questo modo, se ognuno segue solo se stesso, il tessuto sociale non può funzionare. Solo imparando ad inserirsi nella comune libertà, condividere e sottomettersi ad essa, imparare la legalità, cioè la sottomissione e l’obbedienza alle regole del bene comune e della vita comune, può sanare una società come pure l’io stesso dalla superbia di essere al centro del mondo. Così san Teodoro ai suoi monaci e in definitiva anche a noi, con fine introspezione, aiuta a capire la vera vita, a resistere alla tentazione di mettere la propria volontà come somma regola di vita e di conservare la vera identità personale - che è sempre una identità insieme con gli altri - e la pace del cuore.
Per Teodoro Studita una virtù importante al pari dell’obbedienza e dell’umiltà è la philergia, cioè l’amore al lavoro, in cui egli vede un criterio per saggiare la qualità della devozione personale: colui che è fervente negli impegni materiali, che lavora con assiduità, egli argomenta, lo è anche in quelli spirituali. Non ammette perciò che, sotto il pretesto della preghiera e della contemplazione, il monaco si dispensi dal lavoro, anche dal lavoro manuale, che in realtà è, secondo lui e secondo tutta la tradizione monastica, il mezzo per trovare Dio. Teodoro non teme di parlare del lavoro come del "sacrificio del monaco", della sua "liturgia", addirittura di una sorta di Messa attraverso la quale la vita monastica diventa vita angelica. E proprio così il mondo del lavoro va umanizzato e l’uomo attraverso il lavoro diventa più se stesso, più vicino a Dio. Una conseguenza di questa singolare visione merita di essere ricordata: proprio perché frutto di una forma di "liturgia", le ricchezze ricavate dal lavoro comune non devono servire alla comodità dei monaci, ma essere destinate all’aiuto dei poveri. Qui possiamo tutti cogliere la necessità che il frutto del lavoro sia un bene per tutti. Ovviamente, il lavoro degli "studiti" non era soltanto manuale: essi ebbero una grande importanza nello sviluppo religioso-culturale della civiltà bizantina come calligrafi, pittori, poeti, educatori dei giovani, maestri di scuole, bibliotecari.
Pur esercitando un’attività esterna vastissima, Teodoro non si lasciava distrarre da ciò che considerava strettamente attinente alla sua funzione di superiore: essere il padre spirituale dei suoi monaci. Egli sapeva quale influsso decisivo avevano avuto nella sua vita sia la buona madre che il santo zio Platone, da lui qualificato col significativo titolo di "padre". Esercitava perciò nei confronti dei monaci la direzione spirituale. Ogni giorno, riferisce il biografo, dopo la preghiera serale si poneva davanti all’iconostasi per ascoltare le confidenze di tutti. Consigliava pure spiritualmente molte persone fuori dello stesso monastero. Il Testamento spirituale e le Lettere mettono in rilievo questo suo carattere aperto e affettuoso, e mostra come dalla sua paternità sono nate vere amicizie spirituali in ambito monastico e anche fuori.
La Regola, nota con il nome di Hypotyposis, codificata poco dopo la morte di Teodoro, fu adottata, con qualche modifica, sul Monte Athos, quando nel 962 sant’Atanasio Athonita vi fondò la Grande Lavra, e nella Rus’ di Kiev, quando all’inizio del secondo millennio san Teodosio la introdusse nella Lavra delle Grotte. Compresa nel suo significato genuino, la Regola si rivela singolarmente attuale. Vi sono oggi numerose correnti che insidiano l’unità della fede comune e spingono verso una sorta di pericoloso individualismo spirituale e di superbia spirituale. E’ necessario impegnarsi nel difendere e far crescere la perfetta unità del Corpo di Cristo, nella quale possono comporsi in armonia la pace dell’ordine e le sincere relazioni personali nello Spirito.
E’ forse utile riprendere alla fine alcuni degli elementi principali della dottrina spirituale di Teodoro. Amore per il Signore incarnato e per la sua visibilità nella Liturgia e nelle icone. Fedeltà al battesimo e impegno a vivere nella comunione del Corpo di Cristo, intesa anche come comunione dei cristiani fra di loro. Spirito di povertà, di sobrietà, di rinuncia; castità, dominio di sé stessi, umiltà ed obbedienza contro il primato della propria volontà, che distrugge il tessuto sociale e la pace delle anime. Amore per il lavoro materiale e spirituale. Amicizia spirituale nata dalla purificazione della propria coscienza, della propria anima, della propria vita. Cerchiamo di seguire questi insegnamenti che realmente ci mostrano la strada della vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana. In particolare, rivolgo un affettuoso benvenuto ai preti novelli di Verona e di Bergamo, accompagnati dai rispettivi Vescovi, ed auguro loro di saper guardare il mondo con gli occhi di Gesù, per recare ai fratelli la sua parola di salvezza. Saluto i membri della Fondazione San Matteo in memoria del Cardinale Van Thuan, qui convenuti con il Cardinale Renato Raffaele Martino. A ciascuno rivolgo il mio saluto e li ringrazio per l’attività che generosamente svolgono per diffondere la dottrina sociale della Chiesa e soprattutto far sentire la vicinanza della Chiesa a quanti sono poveri materialmente e spiritualmente. Saluto i fedeli della diocesi di Cassano allo Ionio, venuti a Roma con il loro Vescovo Mons. Vincenzo Bertolone e li invito ad attingere dall'Eucarestia l’energia spirituale per essere testimoni del Vangelo della carità, seguendo l'esempio dei Santi che hanno evangelizzato la Calabria.
Rivolgo, infine, il mio saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Chiesa ha ricordato ieri San Filippo Neri, che si distinse per la sua allegria e per la sua dedizione ai poveri e agli ammalati, e specialmente alla gioventù. Cari giovani, imparate da questo Santo a vivere con semplicità evangelica. Cari malati, vi aiuti San Filippo Neri a fare della vostra sofferenza un'offerta al Padre celeste, in unione a Gesù crocifisso. E voi, cari sposi novelli, sorretti dalla sua intercessione, siate costruttori di famiglie illuminate dalla sapienza evangelica.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Newsletter di Scienza & Vita n° 24 27-5-09 - Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo - GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO - SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE” - di Domenico Delle Foglie
L’operazione “Liberi per Vivere” è al centro delle preoccupazioni dell’Associazione. Da questa campagna di coscientizzazione popolare – a partire dal Manifesto valoriale che ha registrato l’adesione di tutto il laicato cattolico organizzato e che gode della simpatia e dell’incoraggiamento dei vescovi italiani – dipende con ogni probabilità la creazione di un ampio sentire comune sul tema del fine della vita. Non solo all’interno della comunità dei credenti, ma anche nell’intera opinione pubblica nazionale.
Dunque, quello per la diffusione dei contenuti del Manifesto valoriale appare come un impegno strategico per quanti hanno a cuore la vita, dal concepimento alla morte naturale.
Sul sito dell’Associazione trovate tutti i testi e i materiali utili all’organizzazione degli incontri, una rassegna stampa dedicata e soprattutto il calendario degli appuntamenti organizzati su tutto il territorio nazionale. A questo riguardo vi segnaliamo l’assoluta necessità che vengano trasmessi alla sede nazionale tutte le date e gli appuntamenti organizzati in ogni angolo d’Italia, dal singolo incontro parrocchiale o di giovani e famiglie, agli eventi pubblici e associativi. Se un evento diffuso di popolo dev’essere, ebbene, in qualche misura dovremo registrarlo. A loro modo lo fanno già, con grande generosità, il quotidiano Avvenire e l’Agenzia Sir. Ma noi dobbiamo fare di più: dobbiamo giorno per giorno aggiornare il nostro calendario, per dimostrare che davvero “Liberi per Vivere” è un’azione di popolo. Non è un grande evento singolo com’è stato ad esempio il Family Day, ma sicuramente può diventare una delle più grandi campagne di informazione e formazione popolare realizzata nel nostro Paese, come è già accaduto in occasione del Referendum sulla legge 40. A condizione che nessuno si tiri indietro. Quando abbiamo parlato, forse con l’ottimismo della volontà, di “mille incontri”, è perché abbiamo scommesso sulla generosità dei nostri compagni di viaggio in quest’avventura.
Ma torniamo alla nostra newsletter e alla sua specificità: qui abbiamo scelto la strategia del confronto e abbiamo chiesto a due intellettuali italiani, il giornalista Luigi Accattoli e lo psichiatra Tonino Cantelmi, di confrontarsi con il Manifesto valoriale e di comunicarci le loro sensazioni e le loro riflessione. Inoltre Paolo Bustaffa, direttore del Sir (Servizio informazione religiosa) ci aiuta a decifrare i silenzi del sistema della comunicazione italiana su un evento di popolo come “Liberi per Vivere”. Buona lettura a tutti.
CRISI/ Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni - INT. Rino Fisichella - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
«Responsabilità»: è questo il termine più usato da Monsignor Rino Fisichella per indicare il compito dei cattolici nella società di oggi. Una società, soprattutto quella italiana, segnata da gravi problemi di carattere culturale, morale ed economico.
A Milano per la presentazione del volume di Massimo Camisasca “Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio”, il rettore della Pontificia Università Lateranense interviene a tutto campo, in questa intervista a ilsussidiario.net, sui principali temi di attualità che in questi giorni concitati stanno animando il dibattito pubblico nel nostro Paese.
Monsignor Fisichella, uno degli elementi essenziali dell’insegnamento di don Giussani, al centro del volume di Camisasca, era il richiamo a una presenza viva dei cattolici nella società, negli “ambienti” come la scuola e il posto di lavoro. Nella particolare condizione che il nostro Paese sta vivendo, che valore ha ancora oggi questo messaggio?
È, per diversi motivi, un richiamo di grandissima attualità. Stiamo vivendo un periodo di profonda crisi culturale: noi ora pensiamo al termine “crisi” solo in riferimento alla situazione economica, ma mi pare di poter dire che questa sia conseguenza di una più profonda crisi valoriale. Se determinati principi etici e criteri di adesione alla realtà avessero guidato le azioni di chi ha responsabilità pubblica, noi ora non ci troveremmo in questa situazione. Dunque la presenza dei cattolici si fa ancora più impellente: il loro annuncio deve essere quello di una conversione che spinga tutti a porre il problema del senso della vita al centro delle nostre azioni.
Qual è allora la responsabilità anche politica dei cattolici?
In primo luogo dare seguito a ciò a cui Benedetto XVI ha più volte richiamato noi cattolici, vale a dire la necessità della formazione di una nuova classe dirigente. I cattolici sono sempre stati presenti e attivi in questo senso, a tutti i livelli (politico, sociale, accademico, economico-finanziario); oggi, in una situazione di crisi come quella attuale, questo richiamo deve spingere a una presenza ancor più qualificante.
Entrando nel vivo del problema economico, cui già faceva riferimento, si pone in primo piano il tema del lavoro, richiamato in questi giorni anche dal Cardinal Bagnasco. In che modo i cattolici devono porsi di fronte a questo problema così intimamente connesso al concetto stesso di dignità umana?
Il primo compito è quello di prendere coscienza del momento di crisi che stiamo vivendo, e in cui tutti, senza distinzione, siamo coinvolti. Certamente, sul tema del lavoro dobbiamo riconoscere gli sforzi positivi che vengono compiuti da chi nel nostro Paese ha responsabilità pubblica, e in particolare dal ministero competente in materia di welfare. Sappiamo anche che le risorse sono limitate, e che il problema non riguarda solo noi, ma ha una chiara dimensione globale. Questo però non ci distoglie dal dovere di essere coscienza critica, soprattutto perché siamo quotidianamente visitati da situazioni di autentica drammaticità. Quando incontriamo il dramma di chi, magari anche professionista, all’età di 40 o 45 anni, con famiglia, perde il lavoro, comprendiamo chiaramente che il ruolo della Chiesa e dei suoi pastori non può essere solo quello di notificare questa situazione, ma anche di sollecitare chi ha responsabilità pubblica a un’azione efficace per rispondere al problema.
Si parla molto in questi giorni anche di integrazione; e spesso se ne parla come di un processo lontano dal realizzarsi. Tale carenza è secondo lei legata a una nostra immaturità culturale e sociale, o è motivata dal disagio generatosi per i flussi migratori massicci e non adeguatamente regolamentati?
I fenomeni legati all’integrazione non si risolvono in modo automatico nel tempo. Basta guardare quello che accade fuori dall’Italia. Pensiamo, ad esempio, a un Paese di grande tradizione come gli Stati Uniti: conoscendo la società statunitense, rimango perplesso quando si dice che lì si è attuata una vera integrazione. Sono state raggiunte tappe significative, certo: ma parlare di vera integrazione tra popolazioni e razze diverse mi pare che non corrisponda alla realtà. Lo stesso vale per la Gran Bretagna. Io credo, dunque, che non si debba fare dell’integrazione un nuovo mito della società moderna.
Eppure, anche solo da un punto di vista economico e lavorativo, l’immigrazione, e la conseguente esigenza di integrazione, sono elementi irrinunciabili.
C’è sicuramente una naturale ricerca di lavoro, nonché una rincorsa a raggiungere condizioni di vita che diano maggiore soddisfazione. Un desiderio importantissimo, che riguarda la dignità stessa della persona. Ma a questa ricerca di maggior benessere non corrisponde immediatamente il concetto di integrazione: sarebbe una lettura culturalmente superficiale. Perché ci sia integrazione, infatti, è necessario che ci sia da parte nostra un’offerta di valori e di cultura. Integrare significa essere propositivi, avere una forte identità, proporre non solo la conoscenza della lingua ma anche il patrimonio culturale che costituisce il nostro essere italiani. Pensare, in un momento di crisi, alla semplice immigrazione come panacea di tutti i mali mi sembra una visione alquanto riduttiva del problema.
Cambiando argomento, ma rimanendo ancora nella stretta attualità: in questi giorni si parla molto di “questione morale” in seguito al susseguirsi di notizie e pettegolezzi intorno al mondo della politica. Cosa pensa del comportamento dei media nell’affrontare questo tema così delicato?
Io penso che ci sia in Italia una tradizione giornalistica diversa da quella degli altri paesi, meno legata al cosiddetto “gossip” e più votata a una grande capacità critica e di spinta alla riflessione e alla lettura lungimirante degli eventi. Penso che sia bene continuare a rispettare questa tradizione, senza cadere nella trappola di chi rincorre la semplice curiosità della gente.
Però non si tratta solo di un generico “gossip”, ma da parte dei giornali viene proposta ai lettori una vera e propria questione morale che chiama in causa il mondo politico.
Più che “proposta” mi sembra che sia “imposta”. Comunque, non si pone la questione morale sulla base di un pettegolezzo. Col termine di “questione morale” si intende qualcosa di molto serio e profondo, da riservare a spazi coerenti di riflessione. Non la si può mischiare al desiderio, diciamolo pure, un po’ pruriginoso di novità, senza che vi sia alcuna condizione di verifica.
Eccellenza, un’ultima riflessione sull’imminente scadenza delle elezioni europee. Un appuntamento politico, ma anche culturale. Come i cattolici devono affrontare questa particolare circostanza elettorale?
Con grande senso di responsabilità. Non dimentichiamo che l’80% dell’attività parlamentare consiste nel far diventare legge quello che viene deciso in Europa. Questo aumenta la responsabilità di quanti, cattolici e no, hanno a cuore la sorte della nostra società nel prossimo futuro. L’Europa oggi vive un momento di forte contrapposizione valoriale rispetto alla proposta del cristianesimo, che costituisce – piaccia o no – l’identità e la radice dell’Europa stessa. Quindi è inevitabile che i cattolici debbano sentire un forte senso di responsabilità. Innanzitutto come partecipazione; in secondo luogo, per fare in modo che quanti vengono eletti al Parlamento europeo possano essere portatori di quei valori di cui l’Europa deve non solo fare memoria storica, ma che deve anche assumere come fondamento di una capacità propositiva per le nuove generazioni.
(Rossano Salini)
Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi - INT. Giorgio Vittadini - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Cominciamo dalla coerenza, professore: se uno sostiene come Berlusconi il Family Day, dal punto di vista cristiano non dovrebbe vivere di conseguenza?
«Vede, io credo molto nel peccato originale e me lo sento addosso. E questo riguarda tutti: chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Si figuri se mi metto a giudicare come fossi un Torquemada il comportamento morale degli altri». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere ed oggi presidente della Fondazione per la sussidiarietà, non si scompone: «Ci sono altri ordini di giudizio, e per fortuna un cristiano lo sa».
Il Pdl e il governo, però, si accreditano come difensori dei valori cattolici. Una parte consistente del mondo cattolico li ha sostenuti. Secondo lei, professore, le polemiche sul caso Noemi e i comportamenti privati del premier cambiano qualcosa nel giudizio sul governo?
«Non possiamo fare una questione politica di fatti specifici, dallo svolgimento dubbio, costruiti attraverso inchieste giornalistiche, quasi si volesse dare loro un valore giudiziario. I fatti da appurare sarebbero infiniti e si ricreerebbe quel tipo di sospetto generalizzato di cui abbiamo sofferto nel dopo Tangentopoli».
Ma la questione morale?
«La questione morale è una tensione al vero, non soltanto una coerenza. In questo senso ricordo che nell’87, ad Assago, Don Giussani spiegò che la questione morale generale nasce dall’appiattimento del desiderio dei giovani e nel cinismo degli adulti. Astenia e mancanza di desiderio: questa è la questione che genera tutte le questioni morali. Hanno ragione i vescovi a porla all’interno dell’emergenza educativa. Se vogliamo parlare di moralità della politica partiamo da qui, dall’emergenza educativa, sennò ci prendiamo in giro».
Va bene, ma qui c’è un caso specifico...
«I vescovi hanno detto che oggi come ieri, in Italia, di questioni morali ce ne sono tante, ed è giusto tenerle vive tutte. Hanno aggiunto "Ognuno ha la propria coscienza, la propria capacità di giudizio". Sono d’accordo E aggiungo che la esprimerà nelle prossime elezioni, se vuole».
In che senso?
«Nel senso che la prossima volta farà quello che vuole. Ma adesso c’è un governo in azione che deve rispondere dei suoi atti, abbiamo problemi gravi da affrontare. E chi ha votato, cattolico o no, ha il diritto di avere un governo che governi, senza altre interferenze».
Berlusconi rischia di essere danneggiato nell’elettorato cattolico?
«Don Giussani affrontò il tema dei cristiani e del governo in un’intervista del ’96: spiegava che l’essenziale è la devozione sincera al bene comune e la competenza reale adeguata. Su questo giudica un cristiano. Io valuto un governo sul fatto che tuteli la dignità della persona, favorisca la sussidiarietà come welfare partecipato dalla gente, sviluppi la libertà di educazione e così via. Se è così, bene. Dopodiché risponderà del suo comportamento davanti a Dio, se ci crede».
Il professor Paolo Prodi diceva: Berlusconi difensore dei valori cattolici? Ci vorrebbe un po’ di pudore...
«Vede, io sono per una visione laica della politica. Non mi pongo il problema Berlusconi e valori cattolici. Mi chiedo: che cosa ha fatto di positivo? E penso tra l’altro al libro bianco, alla politica estera, alla gestione delle emergenze come in Abruzzo, alla tutela della vita. Punto. In questa faccenda ho l’impressione che si voglia riesumare una sorta di clericalismo dal punto di vista degli anticlericali».
(Gian Guido Vecchi)
(Il Corriere della Sera, 28 maggio 2009)
SPAGNA/ L’aborto come la chirurgia plastica, il nuovo slogan dello zapaterismo - Fernando De Haro - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una ministra del Governo spagnolo (Bibiana Aído), per giustificare il fatto che le ragazze di 16 anni possano abortire senza il consenso dei genitori, compara la morte del bambino che non nascerà con un’operazione di chirurgia estetica. Che abbia utilizzato l’espressione “rifarsi le tette” per chiarire a che tipo di operazione si riferiva è una stupidaggine. La cosa importante è la barbarie.
La ministra, giovane e senza esperienza politica, che è stata messa a capo di un ministero che non esisteva e che è stato creato per fare ideologia sull’uguglianza, sarà inquieta. Già la settimana scorsa aveva creato un problema al Governo dicendo che un feto non è un essere umano: proprio il tipo di discorso in cui l’esecutivo non voleva entrare.
Ora se ne andrà in giro chiedendosi se sia stata un’altra volta imprudente o se sia stata opportuna. Ma questa inquietudine si spazza via presto con menzogne, dando la colpa ad altro. É facile: «Può darsi che abbia esagerato, ma c’è di che provocare. Questo paese ha bisogno di sbarazzarsi dei vecchi pregiudizi della destra, della Chiesa. È necessario liberare le donne, le giovani, dalla schiavitù di una maternità non controllata».
Quel che la ministra non sa è che questo fastidio che ora sperimenta non significa nulla. Ciò che conta è la barbarie. L’importante è che forse un giorno, quando non avrà più un ministero e non sarà più ministra, quando sarà madre, o quando il sole tramonterà su alcune delle spiaggie della sua amata Cadice e la bellezza romperà la bolla dell’ideologia, allora capirà. Forse allora Bibiana capirà di essere stata complice di una inutile barbarie che si estende come un manto nero di iniquità in questo tempo oscuro.
Un tempo così oscuro come quello che descrive Cormac Mc Carthy ne La strada. Non c’è cannibalismo, né pioggia acida, né perenne cielo girigo, né tempeste di cenere come ne La strada. Ma è lo stesso, è peggiore, è la devastazione causata dal negare l’evidenza della vita senza furore, con parole semplici. La cosa più sacra viene disprezzata con parole blasfeme sul silicone.
Allora, in quel momento, Bibiana avrà bisogno, come il protagonista de La strada, di un padre per far fronte al male che non è rimasto fuori, ma che è entrato molto dentro. In realtà è ciò di cui abbiamo tutti bisogno per attraversare questa barbarie: un Padre che ci faccia padri. Non c’è altra risposta possibile.
LETTURE/ Il potere e la gloria, un “dono” di Graham Greene - Edoardo Rialti - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Nemmeno contro questo peccato gli sembrava di avere da proporre alcun insegnamento valido, a meno che non lo fosse la sua stessa persona che puzzava di acquavite nella stalla.
«La sua stessa persona». È proprio il mistero racchiuso in queste semplici parole a costituire il cuore del grande dramma raccontato ne Il potere e la gloria di Greene, un dramma che riguarda il cammino di ogni cristiano, quale che sia la sua posizione, la sua situazione nella vita del mondo.
Il lettore si trova immerso fin dalla primissime battute della storia in un mondo afoso, soffocante, sotto un sole spietato e nugoli di zanzare, ma il calore, l'afa, lo stordimento si rivelano niente più d'un pallido riflesso del clima umano e spirituale realizzato dalla rivoluzione messicana, che ha bandito la Chiesa e ne ha imprigionato ed ucciso i sacerdoti: privato dello sguardo di Dio, del Suo orizzonte, l'uomo si è ritrovato solo con sé stesso in un “pianeta abbandonato”, preda non solo dei propri peccati ed errori, ma ancor più della propria spietata misura, la quale è capace solo di schiacciare e accusare sempre più, ancora e ancora. Ed ecco, c'è chi si rintana nel compromesso e nella mediocrità, senza però mai sfuggire ad un più o meno esplicito senso d'invincibile oppressione; chi invece, per non provare la minima compassione per la debolezza della carne si aggrappa e dedica con fanatico accanimento alla gelida utopia d'un avvenire radioso, senza più bisogno di perdono e destino, un'utopia che, in nome d'una pace e d'un amore astratti e impersonali, non si fa mai troppo scrupolo al presente di umiliare, torturare ed uccidere; chi continua semplicemente a strappare brandelli di felicità confusa nella violenza del peccato. Dentro tutto questo, nella “crudele mischia degli uomini” l'ultimo prete rimasto senza abiurare si trascina da una parte all'altra dei villaggi più abbandonati, sempre in fuga, braccato senza sosta e senza pietà dai nemici esterni ed interiori: da una parte la polizia, i delatori, la diffidenza della gente, la fame e la sete che lo costringono spesso a contendere pezzi d'osso ai cani selvaggi; dall'altra le macerie della sua indegnità, la sua debolezza di “prete-spugna”, consumato dall'acquavite e capace di dilapidare persino il pochissimo vino faticosamente conservato per la Messa, dilaniato dal peso delle sue gravi incoerenze e debolezze, perennemente sul baratro dell'ultima disperazione, quella di credersi divorato senza scampo dal sue stesso limite, un dannato che depone Dio sulla bocca della gente, eppure sempre capace, ancora e ancora e ancora, laddove tutti sono fuggiti o hanno ceduto, di dire sì al grande compito che ha investito la sua vita: ma era ancora da lui che prendevano Dio, Dio nella loro bocca. Senza di lui sarebbe stato come se Dio, per tutto quel tratto dalle montagne al mare, avesse cessato di esistere.
E così egli porta sé stesso a quella gente stanca, oppressa e spesso cinicamente indifferente, porta sé e tutti propri limiti, offrendosi quasi sempre al dileggio e al disprezzo, ma è così, proprio così che egli può portare loro anche quel Dio che si è legato alla sua persona per sempre nel sacramento della sua povertà offerta, fino al sacrificio più straziante.
Dentro all'unica vera grande rivoluzione che ci sia, quella messa in moto dalla presenza del Suo Signore e Maestro, anch'egli è un segno di contraddizione, per il quale si svelano i pensieri di molti cuori: davanti a questo sacerdote schiacciato dalla propria miseria umana, che continua a sperare che arrivi qualcuno migliore di lui, finalmente quello che ai suoi occhi sarebbe un uomo buono con il fuoco dell'amore, tutti sono chiamati a prendere posizione, ed ecco emergere la piccineria, la codardia, ma anche le impensabili profondità ed il coraggio e soprattutto, sotto mille forme e magari mille camuffamenti, l'insopprimibile anelito d'ogni uomo per un sguardo più grande dell'umana misura, per una presenza capace di strappare dalle sabbie mobili del male. Ed è proprio ciò che si fa strada fino a loro attraverso i gesti e le parole di quell'uomo debole e braccato, ma che sa sempre scorgere e commuoversi per l'immagine di Dio anche nel più degradato dei suoi fratelli.
Questa terribile caccia all'uomo, che è al contempo un doloroso cammino di spoliazione e sacrificio, raccontata con tanta maestria e profondità, è davvero un grande dono: in essa G. Greene, superando come forse solo in “Fine di una storia” la costante tentazione della propria narrativa a ripiegarsi sull'analisi dei suoi dubbi e delle sue lotte, ci ha testimoniato ciò che “porta” la vita stessa del suo protagonista: in fondo, l'unica cosa che possiamo davvero donare agli altri siamo noi stessi cambiati dall'amore che ci ha raggiunti e fatti suoi per sempre.
1) Benedetto XVI presenta la figura di San Teodoro Studita - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Newsletter di Scienza & Vita n° 24 27-5-09 - Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo - GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO - SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE” - di Domenico Delle Foglie
3) CRISI/ Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni - INT. Rino Fisichella - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi - INT. Giorgio Vittadini - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) SPAGNA/ L’aborto come la chirurgia plastica, il nuovo slogan dello zapaterismo - Fernando De Haro - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) LETTURE/ Il potere e la gloria, un “dono” di Graham Greene - Edoardo Rialti - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI presenta la figura di San Teodoro Studita - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 27 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Teodoro Studita.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Il Santo che oggi incontriamo, san Teodoro Studita, ci porta in pieno medioevo bizantino, in un periodo dal punto di vista religioso e politico piuttosto turbolento. San Teodoro nacque nel 759 in una famiglia nobile e pia: la madre, Teoctista, e uno zio, Platone, abate del monastero di Sakkudion in Bitinia, sono venerati come santi. Fu proprio lo zio ad orientarlo verso la vita monastica, che egli abbracciò all’età di 22 anni. Fu ordinato sacerdote dal patriarca Tarasio, ma ruppe poi la comunione con lui per la debolezza dimostrata nel caso del matrimonio adulterino dell’imperatore Costantino VI. La conseguenza fu l’esilio di Teodoro, nel 796, a Tessalonica. La riconciliazione con l’autorità imperiale avvenne l’anno successivo sotto l’imperatrice Irene, la cui benevolenza indusse Teodoro e Platone a trasferirsi nel monastero urbano di Studios, insieme alla gran parte della comunità dei monaci di Sakkudion, per evitare le incursioni dei saraceni. Ebbe così inizio l’importante "riforma studita".
La vicenda personale di Teodoro, tuttavia, continuò ad essere movimentata. Con la sua solita energia, divenne il capo della resistenza contro l’iconoclasmo di Leone V l’Armeno, che si oppose di nuovo all’esistenza di immagini e icone nella Chiesa. La processione di icone organizzata dai monaci di Studios scatenò la reazione della polizia. Tra l’815 e l’821, Teodoro fu flagellato, incarcerato ed esiliato in diversi luoghi dell’Asia Minore. Alla fine poté tornare a Costantinopoli, ma non nel proprio monastero. Egli allora si stabilì con i suoi monaci dall’altra parte del Bosforo. Morì, a quanto pare, a Prinkipo, l’11 novembre 826, giorno in cui il calendario bizantino lo ricorda. Teodoro si distinse nella storia della Chiesa come uno dei grandi riformatori della vita monastica e anche come difensore delle sacre immagini durante la seconda fase dell’iconoclasmo, accanto al Patriarca di Costantinopoli, san Niceforo. Teodoro aveva compreso che la questione della venerazione delle icone chiamava in causa la verità stessa dell’Incarnazione. Nei suoi tre libri Antirretikoi (Confutazioni), Teodoro fa un paragone tra i rapporti eterni intratrinitari, dove l’esistenza di ciascuna Persona divina non distrugge l’unità, e i rapporti tra le due nature in Cristo, le quali non compromettono, in Lui, l’unica Persona del Logos. E argomenta: abolire la venerazione dell’icona di Cristo significherebbe cancellare la sua stessa opera redentrice, dal momento che, assumendo la natura umana, l’invisibile Parola eterna è apparsa nella carne visibile umana e in questo modo ha santificato tutto il cosmo visibile. Le icone, santificate dalla benedizione liturgica e dalle preghiere dei fedeli, ci uniscono con la Persona di Cristo, con i suoi santi e, per mezzo di loro, con il Padre celeste e testimoniano l’entrare della realtà divina nel nostro cosmo visibile e materiale.
Teodoro e i suoi monaci, testimoni di coraggio al tempo delle persecuzioni iconoclaste, sono inseparabilmente legati alla riforma della vita cenobitica nel mondo bizantino. La loro importanza già si impone per una circostanza esterna: il numero. Mentre i monasteri del tempo non superavano i trenta o quaranta monaci, dalla Vita di Teodoro sappiamo dell’esistenza complessivamente di più di un migliaio di monaci studiti. Teodoro stesso ci informa della presenza nel suo monastero di circa trecento monaci; vediamo quindi l’entusiasmo della fede che è nato nel contesto di questo uomo realmente informato e formato dalla fede medesima. Tuttavia, più che il numero, si rivelò influente il nuovo spirito impresso dal fondatore alla vita cenobitica. Nei suoi scritti egli insiste sull’urgenza di un ritorno consapevole all’insegnamento dei Padri, soprattutto a san Basilio, primo legislatore della vita monastica e a san Doroteo di Gaza, famoso padre spirituale del deserto palestinese. L’apporto caratteristico di Teodoro consiste nell’insistenza sulla necessità dell’ordine e della sottomissione da parte dei monaci. Durante le persecuzioni questi si erano dispersi, abituandosi a vivere ciascuno secondo il proprio giudizio. Ora che era stato possibile ricostituire la vita comune, bisognava impegnarsi a fondo per tornare a fare del monastero una vera comunità organica, una vera famiglia o, come dice lui, un vero "Corpo di Cristo". In tale comunità si realizza in concreto la realtà della Chiesa nel suo insieme.
Un’altra convinzione di fondo di Teodoro è questa: i monaci, rispetto ai secolari, assumono l’impegno di osservare i doveri cristiani con maggiore rigore ed intensità. Per questo pronunciano una speciale professione, che appartiene agli hagiasmata (consacrazioni), ed è quasi un "nuovo battesimo", di cui la vestizione è il simbolo. Caratteristico dei monaci, invece, rispetto ai secolari, è l’impegno della povertà, della castità e dell’obbedienza. Rivolgendosi ai monaci, Teodoro parla in modo concreto, talvolta quasi pittoresco, della povertà, ma essa nella sequela di Cristo è dagli inizi un elemento essenziale del monachesimo e indica anche una strada per noi tutti. La rinuncia alla proprietà privata, questa libertà dalle cose materiali, come pure la sobrietà e semplicità valgono in forma radicale solo per i monaci, ma lo spirito di tale rinuncia è uguale per tutti. Infatti non dobbiamo dipendere dalla proprietà materiale, dobbiamo invece imparare la rinuncia, la semplicità, l’austerità e la sobrietà. Solo così può crescere una società solidale e può essere superato il grande problema della povertà di questo mondo. Quindi in questo senso il radicale segno dei monaci poveri indica sostanzialmente anche una strada per noi tutti. Quando poi espone le tentazioni contro la castità, Teodoro non nasconde le proprie esperienze e dimostra il cammino di lotta interiore per trovare il dominio di se stessi e così il rispetto del proprio corpo e di quello dell’altro come tempio di Dio.
Ma le rinunce principali sono per lui quelle richieste dall’obbedienza, perché ognuno dei monaci ha il proprio modo di vivere e l’inserimento nella grande comunità di trecento monaci implica realmente una nuova forma di vita, che egli qualifica come il "martirio della sottomissione". Anche qui i monaci danno solo un esempio di quanto sia necessario per noi stessi, perché, dopo il peccato originale, la tendenza dell’uomo è fare la propria volontà, il principio primo è la vita del mondo, tutto il resto va sottomesso alla propria volontà. Ma in questo modo, se ognuno segue solo se stesso, il tessuto sociale non può funzionare. Solo imparando ad inserirsi nella comune libertà, condividere e sottomettersi ad essa, imparare la legalità, cioè la sottomissione e l’obbedienza alle regole del bene comune e della vita comune, può sanare una società come pure l’io stesso dalla superbia di essere al centro del mondo. Così san Teodoro ai suoi monaci e in definitiva anche a noi, con fine introspezione, aiuta a capire la vera vita, a resistere alla tentazione di mettere la propria volontà come somma regola di vita e di conservare la vera identità personale - che è sempre una identità insieme con gli altri - e la pace del cuore.
Per Teodoro Studita una virtù importante al pari dell’obbedienza e dell’umiltà è la philergia, cioè l’amore al lavoro, in cui egli vede un criterio per saggiare la qualità della devozione personale: colui che è fervente negli impegni materiali, che lavora con assiduità, egli argomenta, lo è anche in quelli spirituali. Non ammette perciò che, sotto il pretesto della preghiera e della contemplazione, il monaco si dispensi dal lavoro, anche dal lavoro manuale, che in realtà è, secondo lui e secondo tutta la tradizione monastica, il mezzo per trovare Dio. Teodoro non teme di parlare del lavoro come del "sacrificio del monaco", della sua "liturgia", addirittura di una sorta di Messa attraverso la quale la vita monastica diventa vita angelica. E proprio così il mondo del lavoro va umanizzato e l’uomo attraverso il lavoro diventa più se stesso, più vicino a Dio. Una conseguenza di questa singolare visione merita di essere ricordata: proprio perché frutto di una forma di "liturgia", le ricchezze ricavate dal lavoro comune non devono servire alla comodità dei monaci, ma essere destinate all’aiuto dei poveri. Qui possiamo tutti cogliere la necessità che il frutto del lavoro sia un bene per tutti. Ovviamente, il lavoro degli "studiti" non era soltanto manuale: essi ebbero una grande importanza nello sviluppo religioso-culturale della civiltà bizantina come calligrafi, pittori, poeti, educatori dei giovani, maestri di scuole, bibliotecari.
Pur esercitando un’attività esterna vastissima, Teodoro non si lasciava distrarre da ciò che considerava strettamente attinente alla sua funzione di superiore: essere il padre spirituale dei suoi monaci. Egli sapeva quale influsso decisivo avevano avuto nella sua vita sia la buona madre che il santo zio Platone, da lui qualificato col significativo titolo di "padre". Esercitava perciò nei confronti dei monaci la direzione spirituale. Ogni giorno, riferisce il biografo, dopo la preghiera serale si poneva davanti all’iconostasi per ascoltare le confidenze di tutti. Consigliava pure spiritualmente molte persone fuori dello stesso monastero. Il Testamento spirituale e le Lettere mettono in rilievo questo suo carattere aperto e affettuoso, e mostra come dalla sua paternità sono nate vere amicizie spirituali in ambito monastico e anche fuori.
La Regola, nota con il nome di Hypotyposis, codificata poco dopo la morte di Teodoro, fu adottata, con qualche modifica, sul Monte Athos, quando nel 962 sant’Atanasio Athonita vi fondò la Grande Lavra, e nella Rus’ di Kiev, quando all’inizio del secondo millennio san Teodosio la introdusse nella Lavra delle Grotte. Compresa nel suo significato genuino, la Regola si rivela singolarmente attuale. Vi sono oggi numerose correnti che insidiano l’unità della fede comune e spingono verso una sorta di pericoloso individualismo spirituale e di superbia spirituale. E’ necessario impegnarsi nel difendere e far crescere la perfetta unità del Corpo di Cristo, nella quale possono comporsi in armonia la pace dell’ordine e le sincere relazioni personali nello Spirito.
E’ forse utile riprendere alla fine alcuni degli elementi principali della dottrina spirituale di Teodoro. Amore per il Signore incarnato e per la sua visibilità nella Liturgia e nelle icone. Fedeltà al battesimo e impegno a vivere nella comunione del Corpo di Cristo, intesa anche come comunione dei cristiani fra di loro. Spirito di povertà, di sobrietà, di rinuncia; castità, dominio di sé stessi, umiltà ed obbedienza contro il primato della propria volontà, che distrugge il tessuto sociale e la pace delle anime. Amore per il lavoro materiale e spirituale. Amicizia spirituale nata dalla purificazione della propria coscienza, della propria anima, della propria vita. Cerchiamo di seguire questi insegnamenti che realmente ci mostrano la strada della vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana. In particolare, rivolgo un affettuoso benvenuto ai preti novelli di Verona e di Bergamo, accompagnati dai rispettivi Vescovi, ed auguro loro di saper guardare il mondo con gli occhi di Gesù, per recare ai fratelli la sua parola di salvezza. Saluto i membri della Fondazione San Matteo in memoria del Cardinale Van Thuan, qui convenuti con il Cardinale Renato Raffaele Martino. A ciascuno rivolgo il mio saluto e li ringrazio per l’attività che generosamente svolgono per diffondere la dottrina sociale della Chiesa e soprattutto far sentire la vicinanza della Chiesa a quanti sono poveri materialmente e spiritualmente. Saluto i fedeli della diocesi di Cassano allo Ionio, venuti a Roma con il loro Vescovo Mons. Vincenzo Bertolone e li invito ad attingere dall'Eucarestia l’energia spirituale per essere testimoni del Vangelo della carità, seguendo l'esempio dei Santi che hanno evangelizzato la Calabria.
Rivolgo, infine, il mio saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Chiesa ha ricordato ieri San Filippo Neri, che si distinse per la sua allegria e per la sua dedizione ai poveri e agli ammalati, e specialmente alla gioventù. Cari giovani, imparate da questo Santo a vivere con semplicità evangelica. Cari malati, vi aiuti San Filippo Neri a fare della vostra sofferenza un'offerta al Padre celeste, in unione a Gesù crocifisso. E voi, cari sposi novelli, sorretti dalla sua intercessione, siate costruttori di famiglie illuminate dalla sapienza evangelica.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Newsletter di Scienza & Vita n° 24 27-5-09 - Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo - GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO - SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE” - di Domenico Delle Foglie
L’operazione “Liberi per Vivere” è al centro delle preoccupazioni dell’Associazione. Da questa campagna di coscientizzazione popolare – a partire dal Manifesto valoriale che ha registrato l’adesione di tutto il laicato cattolico organizzato e che gode della simpatia e dell’incoraggiamento dei vescovi italiani – dipende con ogni probabilità la creazione di un ampio sentire comune sul tema del fine della vita. Non solo all’interno della comunità dei credenti, ma anche nell’intera opinione pubblica nazionale.
Dunque, quello per la diffusione dei contenuti del Manifesto valoriale appare come un impegno strategico per quanti hanno a cuore la vita, dal concepimento alla morte naturale.
Sul sito dell’Associazione trovate tutti i testi e i materiali utili all’organizzazione degli incontri, una rassegna stampa dedicata e soprattutto il calendario degli appuntamenti organizzati su tutto il territorio nazionale. A questo riguardo vi segnaliamo l’assoluta necessità che vengano trasmessi alla sede nazionale tutte le date e gli appuntamenti organizzati in ogni angolo d’Italia, dal singolo incontro parrocchiale o di giovani e famiglie, agli eventi pubblici e associativi. Se un evento diffuso di popolo dev’essere, ebbene, in qualche misura dovremo registrarlo. A loro modo lo fanno già, con grande generosità, il quotidiano Avvenire e l’Agenzia Sir. Ma noi dobbiamo fare di più: dobbiamo giorno per giorno aggiornare il nostro calendario, per dimostrare che davvero “Liberi per Vivere” è un’azione di popolo. Non è un grande evento singolo com’è stato ad esempio il Family Day, ma sicuramente può diventare una delle più grandi campagne di informazione e formazione popolare realizzata nel nostro Paese, come è già accaduto in occasione del Referendum sulla legge 40. A condizione che nessuno si tiri indietro. Quando abbiamo parlato, forse con l’ottimismo della volontà, di “mille incontri”, è perché abbiamo scommesso sulla generosità dei nostri compagni di viaggio in quest’avventura.
Ma torniamo alla nostra newsletter e alla sua specificità: qui abbiamo scelto la strategia del confronto e abbiamo chiesto a due intellettuali italiani, il giornalista Luigi Accattoli e lo psichiatra Tonino Cantelmi, di confrontarsi con il Manifesto valoriale e di comunicarci le loro sensazioni e le loro riflessione. Inoltre Paolo Bustaffa, direttore del Sir (Servizio informazione religiosa) ci aiuta a decifrare i silenzi del sistema della comunicazione italiana su un evento di popolo come “Liberi per Vivere”. Buona lettura a tutti.
CRISI/ Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni - INT. Rino Fisichella - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
«Responsabilità»: è questo il termine più usato da Monsignor Rino Fisichella per indicare il compito dei cattolici nella società di oggi. Una società, soprattutto quella italiana, segnata da gravi problemi di carattere culturale, morale ed economico.
A Milano per la presentazione del volume di Massimo Camisasca “Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio”, il rettore della Pontificia Università Lateranense interviene a tutto campo, in questa intervista a ilsussidiario.net, sui principali temi di attualità che in questi giorni concitati stanno animando il dibattito pubblico nel nostro Paese.
Monsignor Fisichella, uno degli elementi essenziali dell’insegnamento di don Giussani, al centro del volume di Camisasca, era il richiamo a una presenza viva dei cattolici nella società, negli “ambienti” come la scuola e il posto di lavoro. Nella particolare condizione che il nostro Paese sta vivendo, che valore ha ancora oggi questo messaggio?
È, per diversi motivi, un richiamo di grandissima attualità. Stiamo vivendo un periodo di profonda crisi culturale: noi ora pensiamo al termine “crisi” solo in riferimento alla situazione economica, ma mi pare di poter dire che questa sia conseguenza di una più profonda crisi valoriale. Se determinati principi etici e criteri di adesione alla realtà avessero guidato le azioni di chi ha responsabilità pubblica, noi ora non ci troveremmo in questa situazione. Dunque la presenza dei cattolici si fa ancora più impellente: il loro annuncio deve essere quello di una conversione che spinga tutti a porre il problema del senso della vita al centro delle nostre azioni.
Qual è allora la responsabilità anche politica dei cattolici?
In primo luogo dare seguito a ciò a cui Benedetto XVI ha più volte richiamato noi cattolici, vale a dire la necessità della formazione di una nuova classe dirigente. I cattolici sono sempre stati presenti e attivi in questo senso, a tutti i livelli (politico, sociale, accademico, economico-finanziario); oggi, in una situazione di crisi come quella attuale, questo richiamo deve spingere a una presenza ancor più qualificante.
Entrando nel vivo del problema economico, cui già faceva riferimento, si pone in primo piano il tema del lavoro, richiamato in questi giorni anche dal Cardinal Bagnasco. In che modo i cattolici devono porsi di fronte a questo problema così intimamente connesso al concetto stesso di dignità umana?
Il primo compito è quello di prendere coscienza del momento di crisi che stiamo vivendo, e in cui tutti, senza distinzione, siamo coinvolti. Certamente, sul tema del lavoro dobbiamo riconoscere gli sforzi positivi che vengono compiuti da chi nel nostro Paese ha responsabilità pubblica, e in particolare dal ministero competente in materia di welfare. Sappiamo anche che le risorse sono limitate, e che il problema non riguarda solo noi, ma ha una chiara dimensione globale. Questo però non ci distoglie dal dovere di essere coscienza critica, soprattutto perché siamo quotidianamente visitati da situazioni di autentica drammaticità. Quando incontriamo il dramma di chi, magari anche professionista, all’età di 40 o 45 anni, con famiglia, perde il lavoro, comprendiamo chiaramente che il ruolo della Chiesa e dei suoi pastori non può essere solo quello di notificare questa situazione, ma anche di sollecitare chi ha responsabilità pubblica a un’azione efficace per rispondere al problema.
Si parla molto in questi giorni anche di integrazione; e spesso se ne parla come di un processo lontano dal realizzarsi. Tale carenza è secondo lei legata a una nostra immaturità culturale e sociale, o è motivata dal disagio generatosi per i flussi migratori massicci e non adeguatamente regolamentati?
I fenomeni legati all’integrazione non si risolvono in modo automatico nel tempo. Basta guardare quello che accade fuori dall’Italia. Pensiamo, ad esempio, a un Paese di grande tradizione come gli Stati Uniti: conoscendo la società statunitense, rimango perplesso quando si dice che lì si è attuata una vera integrazione. Sono state raggiunte tappe significative, certo: ma parlare di vera integrazione tra popolazioni e razze diverse mi pare che non corrisponda alla realtà. Lo stesso vale per la Gran Bretagna. Io credo, dunque, che non si debba fare dell’integrazione un nuovo mito della società moderna.
Eppure, anche solo da un punto di vista economico e lavorativo, l’immigrazione, e la conseguente esigenza di integrazione, sono elementi irrinunciabili.
C’è sicuramente una naturale ricerca di lavoro, nonché una rincorsa a raggiungere condizioni di vita che diano maggiore soddisfazione. Un desiderio importantissimo, che riguarda la dignità stessa della persona. Ma a questa ricerca di maggior benessere non corrisponde immediatamente il concetto di integrazione: sarebbe una lettura culturalmente superficiale. Perché ci sia integrazione, infatti, è necessario che ci sia da parte nostra un’offerta di valori e di cultura. Integrare significa essere propositivi, avere una forte identità, proporre non solo la conoscenza della lingua ma anche il patrimonio culturale che costituisce il nostro essere italiani. Pensare, in un momento di crisi, alla semplice immigrazione come panacea di tutti i mali mi sembra una visione alquanto riduttiva del problema.
Cambiando argomento, ma rimanendo ancora nella stretta attualità: in questi giorni si parla molto di “questione morale” in seguito al susseguirsi di notizie e pettegolezzi intorno al mondo della politica. Cosa pensa del comportamento dei media nell’affrontare questo tema così delicato?
Io penso che ci sia in Italia una tradizione giornalistica diversa da quella degli altri paesi, meno legata al cosiddetto “gossip” e più votata a una grande capacità critica e di spinta alla riflessione e alla lettura lungimirante degli eventi. Penso che sia bene continuare a rispettare questa tradizione, senza cadere nella trappola di chi rincorre la semplice curiosità della gente.
Però non si tratta solo di un generico “gossip”, ma da parte dei giornali viene proposta ai lettori una vera e propria questione morale che chiama in causa il mondo politico.
Più che “proposta” mi sembra che sia “imposta”. Comunque, non si pone la questione morale sulla base di un pettegolezzo. Col termine di “questione morale” si intende qualcosa di molto serio e profondo, da riservare a spazi coerenti di riflessione. Non la si può mischiare al desiderio, diciamolo pure, un po’ pruriginoso di novità, senza che vi sia alcuna condizione di verifica.
Eccellenza, un’ultima riflessione sull’imminente scadenza delle elezioni europee. Un appuntamento politico, ma anche culturale. Come i cattolici devono affrontare questa particolare circostanza elettorale?
Con grande senso di responsabilità. Non dimentichiamo che l’80% dell’attività parlamentare consiste nel far diventare legge quello che viene deciso in Europa. Questo aumenta la responsabilità di quanti, cattolici e no, hanno a cuore la sorte della nostra società nel prossimo futuro. L’Europa oggi vive un momento di forte contrapposizione valoriale rispetto alla proposta del cristianesimo, che costituisce – piaccia o no – l’identità e la radice dell’Europa stessa. Quindi è inevitabile che i cattolici debbano sentire un forte senso di responsabilità. Innanzitutto come partecipazione; in secondo luogo, per fare in modo che quanti vengono eletti al Parlamento europeo possano essere portatori di quei valori di cui l’Europa deve non solo fare memoria storica, ma che deve anche assumere come fondamento di una capacità propositiva per le nuove generazioni.
(Rossano Salini)
Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi - INT. Giorgio Vittadini - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Cominciamo dalla coerenza, professore: se uno sostiene come Berlusconi il Family Day, dal punto di vista cristiano non dovrebbe vivere di conseguenza?
«Vede, io credo molto nel peccato originale e me lo sento addosso. E questo riguarda tutti: chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Si figuri se mi metto a giudicare come fossi un Torquemada il comportamento morale degli altri». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere ed oggi presidente della Fondazione per la sussidiarietà, non si scompone: «Ci sono altri ordini di giudizio, e per fortuna un cristiano lo sa».
Il Pdl e il governo, però, si accreditano come difensori dei valori cattolici. Una parte consistente del mondo cattolico li ha sostenuti. Secondo lei, professore, le polemiche sul caso Noemi e i comportamenti privati del premier cambiano qualcosa nel giudizio sul governo?
«Non possiamo fare una questione politica di fatti specifici, dallo svolgimento dubbio, costruiti attraverso inchieste giornalistiche, quasi si volesse dare loro un valore giudiziario. I fatti da appurare sarebbero infiniti e si ricreerebbe quel tipo di sospetto generalizzato di cui abbiamo sofferto nel dopo Tangentopoli».
Ma la questione morale?
«La questione morale è una tensione al vero, non soltanto una coerenza. In questo senso ricordo che nell’87, ad Assago, Don Giussani spiegò che la questione morale generale nasce dall’appiattimento del desiderio dei giovani e nel cinismo degli adulti. Astenia e mancanza di desiderio: questa è la questione che genera tutte le questioni morali. Hanno ragione i vescovi a porla all’interno dell’emergenza educativa. Se vogliamo parlare di moralità della politica partiamo da qui, dall’emergenza educativa, sennò ci prendiamo in giro».
Va bene, ma qui c’è un caso specifico...
«I vescovi hanno detto che oggi come ieri, in Italia, di questioni morali ce ne sono tante, ed è giusto tenerle vive tutte. Hanno aggiunto "Ognuno ha la propria coscienza, la propria capacità di giudizio". Sono d’accordo E aggiungo che la esprimerà nelle prossime elezioni, se vuole».
In che senso?
«Nel senso che la prossima volta farà quello che vuole. Ma adesso c’è un governo in azione che deve rispondere dei suoi atti, abbiamo problemi gravi da affrontare. E chi ha votato, cattolico o no, ha il diritto di avere un governo che governi, senza altre interferenze».
Berlusconi rischia di essere danneggiato nell’elettorato cattolico?
«Don Giussani affrontò il tema dei cristiani e del governo in un’intervista del ’96: spiegava che l’essenziale è la devozione sincera al bene comune e la competenza reale adeguata. Su questo giudica un cristiano. Io valuto un governo sul fatto che tuteli la dignità della persona, favorisca la sussidiarietà come welfare partecipato dalla gente, sviluppi la libertà di educazione e così via. Se è così, bene. Dopodiché risponderà del suo comportamento davanti a Dio, se ci crede».
Il professor Paolo Prodi diceva: Berlusconi difensore dei valori cattolici? Ci vorrebbe un po’ di pudore...
«Vede, io sono per una visione laica della politica. Non mi pongo il problema Berlusconi e valori cattolici. Mi chiedo: che cosa ha fatto di positivo? E penso tra l’altro al libro bianco, alla politica estera, alla gestione delle emergenze come in Abruzzo, alla tutela della vita. Punto. In questa faccenda ho l’impressione che si voglia riesumare una sorta di clericalismo dal punto di vista degli anticlericali».
(Gian Guido Vecchi)
(Il Corriere della Sera, 28 maggio 2009)
SPAGNA/ L’aborto come la chirurgia plastica, il nuovo slogan dello zapaterismo - Fernando De Haro - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una ministra del Governo spagnolo (Bibiana Aído), per giustificare il fatto che le ragazze di 16 anni possano abortire senza il consenso dei genitori, compara la morte del bambino che non nascerà con un’operazione di chirurgia estetica. Che abbia utilizzato l’espressione “rifarsi le tette” per chiarire a che tipo di operazione si riferiva è una stupidaggine. La cosa importante è la barbarie.
La ministra, giovane e senza esperienza politica, che è stata messa a capo di un ministero che non esisteva e che è stato creato per fare ideologia sull’uguglianza, sarà inquieta. Già la settimana scorsa aveva creato un problema al Governo dicendo che un feto non è un essere umano: proprio il tipo di discorso in cui l’esecutivo non voleva entrare.
Ora se ne andrà in giro chiedendosi se sia stata un’altra volta imprudente o se sia stata opportuna. Ma questa inquietudine si spazza via presto con menzogne, dando la colpa ad altro. É facile: «Può darsi che abbia esagerato, ma c’è di che provocare. Questo paese ha bisogno di sbarazzarsi dei vecchi pregiudizi della destra, della Chiesa. È necessario liberare le donne, le giovani, dalla schiavitù di una maternità non controllata».
Quel che la ministra non sa è che questo fastidio che ora sperimenta non significa nulla. Ciò che conta è la barbarie. L’importante è che forse un giorno, quando non avrà più un ministero e non sarà più ministra, quando sarà madre, o quando il sole tramonterà su alcune delle spiaggie della sua amata Cadice e la bellezza romperà la bolla dell’ideologia, allora capirà. Forse allora Bibiana capirà di essere stata complice di una inutile barbarie che si estende come un manto nero di iniquità in questo tempo oscuro.
Un tempo così oscuro come quello che descrive Cormac Mc Carthy ne La strada. Non c’è cannibalismo, né pioggia acida, né perenne cielo girigo, né tempeste di cenere come ne La strada. Ma è lo stesso, è peggiore, è la devastazione causata dal negare l’evidenza della vita senza furore, con parole semplici. La cosa più sacra viene disprezzata con parole blasfeme sul silicone.
Allora, in quel momento, Bibiana avrà bisogno, come il protagonista de La strada, di un padre per far fronte al male che non è rimasto fuori, ma che è entrato molto dentro. In realtà è ciò di cui abbiamo tutti bisogno per attraversare questa barbarie: un Padre che ci faccia padri. Non c’è altra risposta possibile.
LETTURE/ Il potere e la gloria, un “dono” di Graham Greene - Edoardo Rialti - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Nemmeno contro questo peccato gli sembrava di avere da proporre alcun insegnamento valido, a meno che non lo fosse la sua stessa persona che puzzava di acquavite nella stalla.
«La sua stessa persona». È proprio il mistero racchiuso in queste semplici parole a costituire il cuore del grande dramma raccontato ne Il potere e la gloria di Greene, un dramma che riguarda il cammino di ogni cristiano, quale che sia la sua posizione, la sua situazione nella vita del mondo.
Il lettore si trova immerso fin dalla primissime battute della storia in un mondo afoso, soffocante, sotto un sole spietato e nugoli di zanzare, ma il calore, l'afa, lo stordimento si rivelano niente più d'un pallido riflesso del clima umano e spirituale realizzato dalla rivoluzione messicana, che ha bandito la Chiesa e ne ha imprigionato ed ucciso i sacerdoti: privato dello sguardo di Dio, del Suo orizzonte, l'uomo si è ritrovato solo con sé stesso in un “pianeta abbandonato”, preda non solo dei propri peccati ed errori, ma ancor più della propria spietata misura, la quale è capace solo di schiacciare e accusare sempre più, ancora e ancora. Ed ecco, c'è chi si rintana nel compromesso e nella mediocrità, senza però mai sfuggire ad un più o meno esplicito senso d'invincibile oppressione; chi invece, per non provare la minima compassione per la debolezza della carne si aggrappa e dedica con fanatico accanimento alla gelida utopia d'un avvenire radioso, senza più bisogno di perdono e destino, un'utopia che, in nome d'una pace e d'un amore astratti e impersonali, non si fa mai troppo scrupolo al presente di umiliare, torturare ed uccidere; chi continua semplicemente a strappare brandelli di felicità confusa nella violenza del peccato. Dentro tutto questo, nella “crudele mischia degli uomini” l'ultimo prete rimasto senza abiurare si trascina da una parte all'altra dei villaggi più abbandonati, sempre in fuga, braccato senza sosta e senza pietà dai nemici esterni ed interiori: da una parte la polizia, i delatori, la diffidenza della gente, la fame e la sete che lo costringono spesso a contendere pezzi d'osso ai cani selvaggi; dall'altra le macerie della sua indegnità, la sua debolezza di “prete-spugna”, consumato dall'acquavite e capace di dilapidare persino il pochissimo vino faticosamente conservato per la Messa, dilaniato dal peso delle sue gravi incoerenze e debolezze, perennemente sul baratro dell'ultima disperazione, quella di credersi divorato senza scampo dal sue stesso limite, un dannato che depone Dio sulla bocca della gente, eppure sempre capace, ancora e ancora e ancora, laddove tutti sono fuggiti o hanno ceduto, di dire sì al grande compito che ha investito la sua vita: ma era ancora da lui che prendevano Dio, Dio nella loro bocca. Senza di lui sarebbe stato come se Dio, per tutto quel tratto dalle montagne al mare, avesse cessato di esistere.
E così egli porta sé stesso a quella gente stanca, oppressa e spesso cinicamente indifferente, porta sé e tutti propri limiti, offrendosi quasi sempre al dileggio e al disprezzo, ma è così, proprio così che egli può portare loro anche quel Dio che si è legato alla sua persona per sempre nel sacramento della sua povertà offerta, fino al sacrificio più straziante.
Dentro all'unica vera grande rivoluzione che ci sia, quella messa in moto dalla presenza del Suo Signore e Maestro, anch'egli è un segno di contraddizione, per il quale si svelano i pensieri di molti cuori: davanti a questo sacerdote schiacciato dalla propria miseria umana, che continua a sperare che arrivi qualcuno migliore di lui, finalmente quello che ai suoi occhi sarebbe un uomo buono con il fuoco dell'amore, tutti sono chiamati a prendere posizione, ed ecco emergere la piccineria, la codardia, ma anche le impensabili profondità ed il coraggio e soprattutto, sotto mille forme e magari mille camuffamenti, l'insopprimibile anelito d'ogni uomo per un sguardo più grande dell'umana misura, per una presenza capace di strappare dalle sabbie mobili del male. Ed è proprio ciò che si fa strada fino a loro attraverso i gesti e le parole di quell'uomo debole e braccato, ma che sa sempre scorgere e commuoversi per l'immagine di Dio anche nel più degradato dei suoi fratelli.
Questa terribile caccia all'uomo, che è al contempo un doloroso cammino di spoliazione e sacrificio, raccontata con tanta maestria e profondità, è davvero un grande dono: in essa G. Greene, superando come forse solo in “Fine di una storia” la costante tentazione della propria narrativa a ripiegarsi sull'analisi dei suoi dubbi e delle sue lotte, ci ha testimoniato ciò che “porta” la vita stessa del suo protagonista: in fondo, l'unica cosa che possiamo davvero donare agli altri siamo noi stessi cambiati dall'amore che ci ha raggiunti e fatti suoi per sempre.