Nella rassegna stampa di oggi:
- Benedetto XVI traccia un bilancio del suo pellegrinaggio in Terra Santa - Durante l'Udienza generale del mercoledì
- La chiesa "alternativa" di Martini e don Verzé - Siamo tutti sulla stessa barca è il libro firmato dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, e da don Luigi Verzé, fondatore dell’Ospedale San Raffaele e rettore dell’Università Vita-Salute. Siamo tutti sulla stessa barca, dice il titolo del libro. Qualcuno ci spieghi se è quella di Pietro… - di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
- Nella casbah di Rotterdam - di Giulio Meotti - il Foglio 14-5-2009
Spagna: il disegno di legge sull'aborto è "contrario alla dignità" - Critiche ecclesiali alla proposta del Governo - La scala di Giacobbe - Roberto Fontolan - giovedì 21 maggio 2009 – ilsussidiario.net
- LAICITA’/ La legge "vuota" del presidente Fini, ovvero il fascino del niente - Costantino Esposito - giovedì 21 maggio 2009 – ilsussidiario.net
- GIUSTIZIA/ C'è un antidoto contro lo strapotere della magistratura - Paolo Tosoni - giovedì 21 maggio 2009 – ilsussidiario.net
- IN SPAGNA (MA NON SOLO) UNA "SCIENZA" AL DOCILE SERVIZIO DEL POTERE - MARINA CORRADI – Avvenire, 21 maggio 2009
- "In Italia il figlio perfetto ormai è un’ossessione" - di Antonella Mariani – Avvenire, 21 maggio 2009
Benedetto XVI traccia un bilancio del suo pellegrinaggio in Terra Santa - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 20 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro.
Durante l'incontro con i gruppi di pellegrini e fedeli, il Papa si è soffermato sul suo recente pellegrinaggio in Terra Santa.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
mi soffermo quest’oggi a parlare del viaggio apostolico che ho compiuto dall’8 al 15 maggio in Terra Santa, e per il quale non cesso di ringraziare il Signore, perché si è rivelato un grande dono per il Successore di Pietro e per tutta la Chiesa. Desidero nuovamente esprimere il mio "grazie" sentito a Sua Beatitudine il Patriarca Fouad Twal, ai Vescovi dei vari riti, ai Sacerdoti, ai Francescani della Custodia di Terra Santa. Ringrazio il Re e la Regina di Giordania, il Presidente d’Israele e il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, con i rispettivi Governi, tutte le Autorità e quanti in vario modo hanno collaborato alla preparazione e al buon esito della visita. Si è trattato anzitutto di un pellegrinaggio, anzi, del pellegrinaggio per eccellenza alle sorgenti della fede; e al tempo stesso di una visita pastorale alla Chiesa che vive in Terra Santa: una Comunità di singolare importanza, perché rappresenta una presenza viva là dove essa ha avuto origine.
La prima tappa, dall’8 alla mattina dell’11 maggio, è stata in Giordania, nel cui territorio si trovano due principali luoghi santi: il Monte Nebo, dal quale Mosè contemplò la Terra Promessa e dove morì senza esservi entrato; e poi Betania "al di là del Giordano", dove, secondo il quarto Vangelo, san Giovanni inizialmente battezzava. Il Memoriale di Mosè sul Monte Nebo è un sito di forte valenza simbolica: esso parla della nostra condizione di pellegrini tra un "già" e un "non ancora", tra una promessa così grande e bella da sostenerci nel cammino e un compimento che ci supera, e che supera anche questo mondo. La Chiesa vive in se stessa questa "indole escatologica" e "pellegrinante": è già unita a Cristo suo sposo, ma la festa di nozze è per ora solo pregustata, in attesa del suo ritorno glorioso alla fine dei tempi (cfr Conc. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 48-50). A Betania ho avuto la gioia di benedire le prime pietre di due chiese da edificare nel sito dove san Giovanni battezzava. Questo fatto è segno dell’apertura e del rispetto che vigono nel Regno Ascemita per la libertà religiosa e per la tradizione cristiana, e ciò merita grande apprezzamento. Ho avuto modo di manifestare questo giusto riconoscimento, unito al profondo rispetto per la comunità musulmana, ai Capi religiosi, al Corpo Diplomatico ed ai Rettori delle Università, riuniti presso la Moschea Al-Hussein bin-Talal, fatta costruire dal Re Abdallah II in memoria del padre, il celebre Re Hussein, che accolse il Papa Paolo VI nel suo storico pellegrinaggio del 1964. Quanto è importante che cristiani e musulmani coabitino pacificamente nel mutuo rispetto! Grazie a Dio, e all’impegno dei governanti, in Giordania questo avviene. Ho pregato pertanto affinché anche altrove sia così, pensando specialmente ai cristiani che vivono invece realtà difficili nel vicino Iraq.
In Giordania vive un’importante comunità cristiana, incrementata da profughi palestinesi e iracheni. Si tratta di una presenza significativa e apprezzata nella società, anche per le sue opere educative e assistenziali, attente alla persona umana indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o religiosa. Un bell’esempio è il Centro di riabilitazione Regina Pacis ad Amman, che accoglie numerose persone segnate da invalidità. Visitandolo, ho potuto portare una parola di speranza, ma l’ho anche ricevuta a mia volta, come testimonianza avvalorata dalla sofferenza e dalla condivisione umana. Quale segno dell’impegno della Chiesa nell’ambito della cultura, ho inoltre benedetto la prima pietra dell’Università di Madaba, del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Ho provato grande gioia nel dare avvio a questa nuova istituzione scientifica e culturale, perché essa manifesta in modo tangibile che la Chiesa promuove la ricerca della verità e del bene comune, ed offre uno spazio aperto e qualificato a tutti coloro che vogliono impegnarsi in tale ricerca, premessa indispensabile per un vero e fruttuoso dialogo tra civiltà. Sempre ad Amman si sono svolte due solenni celebrazioni liturgiche: i Vespri nella Cattedrale greco-melchita di San Giorgio, e la santa Messa nello Stadio Internazionale, che ci hanno dato modo di gustare insieme la bellezza di ritrovarsi come Popolo di Dio pellegrino, ricco delle sue diverse tradizioni e unito nell’unica fede.
Lasciata la Giordania, nella tarda mattinata di lunedì 11, ho raggiunto Israele dove, fin dall’arrivo, mi sono presentato come pellegrino di fede nella Terra dove Gesù è nato, ha vissuto, è morto ed è risorto, e, al tempo stesso, come pellegrino di pace per implorare da Dio che là dove Egli ha voluto farsi uomo, tutti gli uomini possano vivere da suoi figli, cioè da fratelli. Questo secondo aspetto del mio viaggio è naturalmente emerso negli incontri con le Autorità civili: nella visita al Presidente israeliano ed al Presidente dell’Autorità palestinese. In quella Terra benedetta da Dio sembra a volte impossibile uscire dalla spirale della violenza. Ma nulla è impossibile a Dio e a quanti confidano in Lui! Per questo la fede nell’unico Dio giusto e misericordioso, che è la più preziosa risorsa di quei popoli, deve poter sprigionare tutta la sua carica di rispetto, di riconciliazione e di collaborazione. Tale auspicio ho voluto esprimere facendo visita sia al Gran Muftì e ai capi della comunità islamica di Gerusalemme, sia al Gran Rabbinato di Israele, come pure nell’incontro con le Organizzazioni impegnate nel dialogo inter-religioso e, poi, in quello con i Capi religiosi della Galilea.
Gerusalemme è il crocevia delle tre grandi religioni monoteiste, e il suo stesso nome – "città della pace" – esprime il disegno di Dio sull’umanità: formare di essa una grande famiglia. Questo disegno, preannunciato ad Abramo, si è pienamente realizzato in Gesù Cristo, che san Paolo chiama "nostra pace", perché ha abbattuto con la forza del suo Sacrificio il muro dell’inimicizia (cfr Ef 2,14). Tutti i credenti debbono pertanto lasciare alle spalle pregiudizi e volontà di dominio, e praticare concordi il comandamento fondamentale: amare cioè Dio con tutto il proprio essere e amare il prossimo come noi stessi. E’ questo che ebrei, cristiani e musulmani sono chiamati a testimoniare, per onorare con i fatti quel Dio che pregano con le labbra. Ed è esattamente questo che ho portato nel cuore, in preghiera, visitando, a Gerusalemme, il Muro Occidentale – o Muro del Pianto – e la Cupola della Roccia, luoghi simbolici rispettivamente dell’Ebraismo e dell’Islam. Un momento di intenso raccoglimento è stato inoltre la visita al Mausoleo di Yad Vashem, eretto a Gerusalemme in onore delle vittime della Shoah. Là abbiamo sostato in silenzio, pregando e meditando sul mistero del "nome": ogni persona umana è sacra, ed il suo nome è scritto nel cuore del Dio eterno. Mai va dimenticata la tremenda tragedia della Shoah! Occorre al contrario che sia sempre nella nostra memoria quale monito universale al sacro rispetto della vita umana, che riveste sempre un valore infinito.
Come ho già accennato, il mio viaggio aveva come scopo prioritario la visita alle Comunità cattoliche della Terra Santa, e ciò è avvenuto in diversi momenti anche a Gerusalemme, a Betlemme e a Nazaret. Nel Cenacolo, con la mente rivolta a Cristo che lava i piedi degli Apostoli e istituisce l’Eucaristia, come pure al dono dello Spirito Santo alla Chiesa nel giorno di Pentecoste, ho potuto incontrare, tra gli altri, il Custode di Terra Santa e meditare insieme sulla nostra vocazione ad essere una cosa sola, a formare un solo corpo e un solo spirito, a trasformare il mondo con la mite potenza dell’amore. Certo, questa chiamata incontra in Terra Santa particolari difficoltà, perciò, con il cuore di Cristo, ho ripetuto ai miei fratelli Vescovi le sue stesse parole: "Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno" (Lc 12,32). Ho poi salutato brevemente le religiose e i religiosi di vita contemplativa, ringraziandoli per il servizio che, con la loro preghiera, offrono alla Chiesa e alla causa della pace.
Momenti culminanti di comunione con i fedeli cattolici sono state soprattutto le celebrazioni eucaristiche. Nella Valle di Giosafat, a Gerusalemme, abbiamo meditato sulla Risurrezione di Cristo quale forza di speranza e di pace per quella Città e per il mondo intero. A Betlemme, nei Territori Palestinesi, la santa Messa è stata celebrata davanti alla Basilica della Natività con la partecipazione anche di fedeli provenienti da Gaza, che ho avuto la gioia di confortare di persona assicurando loro la mia particolare vicinanza. Betlemme, il luogo nel quale è risuonato il canto celeste di pace per tutti gli uomini, è simbolo della distanza che ancora ci separa dal compimento di quell’annuncio: precarietà, isolamento, incertezza, povertà. Tutto ciò ha portato tanti cristiani ad andare lontano. Ma la Chiesa continua il suo cammino, sorretta dalla forza della fede e testimoniando l’amore con opere concrete di servizio ai fratelli, quali, ad esempio, il Caritas Baby Hospital di Betlemme, sostenuto dalle Diocesi di Germania e Svizzera, e l’azione umanitaria nei campi profughi. In quello che ho visitato, ho voluto assicurare alle famiglie che vi sono ospitate, la vicinanza e l’incoraggiamento della Chiesa universale, invitando tutti a ricercare la pace con metodi non violenti, seguendo l’esempio di san Francesco d’Assisi. La terza e ultima Messa con il popolo l’ho celebrata giovedì scorso a Nazaret, città della santa Famiglia. Abbiamo pregato per tutte le famiglie, affinché siano riscoperti la bellezza del matrimonio e della vita familiare, il valore della spiritualità domestica e dell’educazione, l’attenzione ai bambini, che hanno diritto a crescere in pace e serenità. Inoltre, nella Basilica dell’Annunciazione, insieme con tutti i Pastori, le persone consacrate, i movimenti ecclesiali e i laici impegnati della Galilea, abbiamo cantato la nostra fede nella potenza creatrice e trasformante di Dio. Là, dove il Verbo si è fatto carne nel seno della Vergine Maria, sgorga una sorgente inesauribile di speranza e di gioia, che non cessa di animare il cuore della Chiesa, pellegrina nella storia.
Il mio pellegrinaggio si è chiuso, venerdì scorso, con la sosta nel Santo Sepolcro e con due importanti incontri ecumenici a Gerusalemme: al Patriarcato Greco-Ortodosso, dove erano riunite tutte le rappresentanze ecclesiali della Terra Santa, e infine alla Chiesa Patriarcale Armena Apostolica. Mi piace ricapitolare l’intero itinerario che mi è stato dato di effettuare proprio nel segno della Risurrezione di Cristo: malgrado le vicissitudini che lungo i secoli hanno segnato i Luoghi santi, malgrado le guerre, le distruzioni, e purtroppo anche i conflitti tra cristiani, la Chiesa ha proseguito la sua missione, sospinta dallo Spirito del Signore risorto. Essa è in cammino verso la piena unità, perché il mondo creda nell’amore di Dio e sperimenti la gioia della sua pace. In ginocchio sul Calvario e nel Sepolcro di Gesù, ho invocato la forza dell’amore che scaturisce dal Mistero pasquale, la sola forza che può rinnovare gli uomini e orientare al suo fine la storia ed il cosmo. Chiedo anche a voi di pregare per tale scopo, mentre ci prepariamo alla festa dell’Ascensione che in Vaticano celebreremo domani. Grazie per la vostra attenzione.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i fedeli delle diocesi di Crema, Volterra e Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata dei Goti, accompagnati dai rispettivi Pastori Mons. Oscar Cantoni, Mons. Alberto Silvani e Mons. Michele De Rosa. Cari amici, la sosta presso le tombe degli Apostoli susciti in ciascuno il vivo desiderio di diventare artefici di pace e testimoni di speranza. Saluto i sacerdoti studenti del Pontificio Collegio san Paolo e le religiose partecipanti al corso promosso dalla Pontificia Facoltà Auxilium, li esorto a seguire con fedeltà la propria vocazione, diventando sempre più segni eloquenti dell’amore di Dio.
Il mio pensiero si rivolge infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Solennità dell'Ascensione del Signore - che celebreremo domani in Vaticano come in altri Paesi, mentre in Italia domenica prossima - ci invita a guardare a Gesù, il quale prima di salire al cielo, affida agli Apostoli il mandato di portare il suo Messaggio di salvezza fino agli estremi confini della terra. Cari giovani, impegnatevi a mettere le vostre energie al servizio del Vangelo. Voi, cari malati, vivete le vostre sofferenze uniti al Signore, nella certezza di offrire un contributo prezioso alla crescita del suo Regno nel mondo. E voi, cari sposi novelli, fate in modo che le vostre famiglie siano luoghi in cui si impara a essere gioiosi testimoni del Vangelo della speranza.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La chiesa "alternativa" di Martini e don Verzé - Siamo tutti sulla stessa barca è il libro firmato dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, e da don Luigi Verzé, fondatore dell’Ospedale San Raffaele e rettore dell’Università Vita-Salute. Siamo tutti sulla stessa barca, dice il titolo del libro. Qualcuno ci spieghi se è quella di Pietro… - di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
La pillola anticoncezionale? Spesso è giocoforza che vada consigliata e fornita. L’etica cristiana? Incongruente, da rifare. I divorziati risposati? Basta fisime clericali. Il celibato ecclesiastico? Una finzione, buttiamolo a mare. I vescovi? Li elegga il popolo di Dio.
Tutto ciò fermandosi solo alle anticipazioni di Siamo tutti sulla stessa barca (Editrice San Raffaele, pp. 96, euro 14,5) libro in uscita oggi e anticipato ieri dal Corriere della Sera, firmato dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, e da don Luigi Verzé, fondatore dell’Ospedale San Raffaele e rettore dell’Università Vita-Salute.
Sarebbe interessante sapere che cosa pensano di queste tesi le autorità preposte alla salvaguardia della dottrina cattolica. Perché è venuto il momento di dire se, in materia di dottrina e di morale, i fedeli sono tutti uguali e devono accettare tutti le stesse regole o se, invece, c’è qualcuno più uguale degli altri.
Contraltare del Papa
Il cattolico medio non può ignorare che se il Papa si pronuncia su un tema, subito spunta il cardinale Martini a fare da contraltare. Il Papa scrive un libro su Gesù? Lui l’avrebbe fatto meglio. Il Papa liberalizza la Messa in latino? Lui non avrebbe suscitato perniciose nostalgie. Il Papa ribadisce il primato di Pietro? Lui si appella alla collegialità. Il Papa prende atto degli scivoloni del Vaticano II? Lui convoca il Vaticano III.
Così come non può ignorare che don Verzé ha riempito la sua università di nomi come Massimo Cacciari, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Salvatore Natoli, Emanuele Severino, Edoardo Boncinelli: il meglio del pensiero anticattolico sulla piazza. Del resto, don Verzé è l’inventore di un’inedita dottrina simil-cattolica grazie alla quale si è auto-autorizzato a praticare nel suo ospedale la fecondazione artificiale omologa condannata dalla Chiesa.
Lo ha fatto con una decisione del comitato etico del San Raffaele e poco gli importa di essere stato smentito dalla Congregazione per la dottrina della fede. Senza dimenticare che, in piena bagarre sul caso Englaro, don Verzé rivelò di aver tolto la spina ad un amico attaccato a un respiratore artificiale. "Col pianto nel cuore", ma lo fece.
Due come il cardinale Martini e don Verzé sembrano fatti apposta per incontrarsi. E potrebbe stupire che, per anni, la curia martiniana abbia fatto la guerra al san Raffaele e al suo fondatore. Ma si trattava di questioni politiche e non teologiche. Perché sul metodo del dubbio applicato al dogma e sulla teoria delle "zone grigie" applicata alla morale messi a punto da Martini, don Verzé ci va a nozze. Tanto che, nel 2006, la sua università ha conferito la laurea honoris causa al porporato.
E così ecco spiegato il presente libro, nel quale il fondatore del San Raffaele parla con rammarico di "un’etica ecclesiastica imposta".
Poi dice "che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo del celibato" e annuncia che l’ora della democrazia nella Chiesa suonerà con l’elezione diretta dei vescovi. "La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate".
Un nuovo concilio
Don Verzé va giù di vanga, e allora Martini interviene con il fioretto ad allargare il solco. "Oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele".
Caro don Luigi, ha proprio ragione lei, qui bisogna cambiare tutto, che orrore quelle fiumane di gente ignorante e impreparata, avrà mai seguito almeno una lezione della Cattedra dei non credenti?
Con studiata ritrosia, il cardinale conferma tutto. Senza dimenticare che, per rimettere un po’ d’ordine, "non basta un semplice sacerdote o un vescovo. Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi". Insomma, un altro Concilio.
Siamo tutti sulla stessa barca, dice il titolo del libro. Qualcuno ci spieghi se è quella di Pietro.
Libero, 20 maggio 2009
Nella casbah di Rotterdam - di Giulio Meotti - il Foglio 14-5-2009
A Feyenoord si vedono ovunque donne velate che sfrecciano come lampi per le strade del quartiere. Evitano ogni contatto, soprattutto con gli uomini, perfino il contatto visivo. Feyenoord ha le dimensioni di una città e vi convivono settanta nazionalità. È una zona che vive di sussidi e di edilizia popolare, è qui che si capisce di più come l'Olanda – con tutte le sue norme antidiscriminazione e con tutta la sua indignazione morale – è una società completamente segregata. Rotterdam è nuova, venne bombardata due volte nella seconda guerra mondiale dalla Luftwaffe. Come Amsterdam è sotto il livello del mare, ma a differenza della capitale non ha fascino libertino. A Rotterdam sono i venditori arabi di cibo halal a dominare l'estetica urbana, non i neon delle prostitute. Ovunque si vedono casbah-caffè, agenzie di viaggio che offrono voli per Rabat e Casablanca, poster di solidarietà con Hamas e lezioni di olandese a buon prezzo.È la seconda città del paese, una città povera, ma è anche il motore dell'economia con il suo grande porto, il più importante d'Europa. È una città a maggioranza immigrata, con la più alta e imponente moschea di tutta Europa. Il sessanta per cento degli stranieri che arrivano in Olanda vengono ad abitare qui. La cosa che più colpisce giungendo in città con il treno sono queste enormi affascinanti moschee su un paesaggio verdissimo, lussurreggiante, boschivo, acquoso, come corpi alieni rispetto al resto. La chiamano "Eurabia". È imponente la moschea Mevlana dei turchi. Ha i minareti più alti d'Europa, più alti persino dello stadio della squadra di calcio Feyenoord.Rotterdam è una città che ha molti quartieri sequestrati dall'islamismo più cupo e violento. La casa di Pim Fortuyn spicca come una perla in un mare di chador e niqab. Si trova al numero 11 di Burgerplein, dietro la stazione. Di tanto in tanto qualcuno viene a portare fiori davanti alla casa del professore assassinato ad Amsterdam il 6 maggio del 2002. Altri lasciano un biglietto: "In Olanda si tollera tutto, tranne la verità". È stato un milionario di nome Chris Tummesen ad acquistare la casa di Pim Fortuyn perché rimanesse intatta. La sera prima dell'omicidio Pim era nervoso, lo aveva detto in televisione che si era creato un clima di demonizzazione contro di lui e le sue idee. E così avvenne, con quei cinque colpi alla testa sparati da Volkert van der Graaf, un militante della sinistra animalista, un ragazzotto mingherlino, calvinista, capelli rasati, occhi cupi, vestito da ecologista puro, maglia lavorata a mano, sandali e calze di lana caprina, vegetariano assoluto, "un ragazzo impaziente di cambiare il mondo", dicono gli amici.Nel centro di Rotterdam non molto tempo fa sono apparse foto mortuarie di Geert Wilders, poste sotto un albero, con una candela a lumeggiarne la morte prossima ventura. Oggi Wilders è il politico più popolare in città. È lui l'erede di Fortuyn, il professore omosessuale, cattolico, ex marxista che aveva lanciato un partito per salvare il paese dall'islamizzazione. Al suo funerale mancava soltanto la regina Beatrice, perché l'addio al "divino Pim" diventasse un funerale da re. Prima lo hanno mostrificato (un ministro olandese lo chiamò "untermensch", subuomo alla nazista), poi lo hanno idolatrato. Le prostitute di Amsterdam deposero una corona di fiori all'obelisco dei caduti in piazza Dam."The Economist", settimanale lontano dalle tesi antislamiche di Wilders, tre mesi fa parlava di Rotterdam come di un "incubo eurabico". Per gran parte degli olandesi che ci vivono l'islamismo è oggi un pericolo più grande del Delta Plan, il complicato sistema di dighe che previene l'inondazione dal mare, come quella che nel 1953 fece duemila morti. La pittoresca cittadina di Schiedam, attaccata a Rotterdam, è sempre stata un gioiello nell'immaginazione olandese. Poi l'alone fiabesco è svanito, quando sui quotidiani tre anni fa è diventata la città di Farid A., l'islamista che minacciava di morte Wilders e la dissidente somala Ayaan Hirsi Ali. Da sei anni Wilders vive 24 ore su 24 sotto la protezione della polizia.A Rotterdam gli avvocati musulmani vogliono cambiare anche le regole del diritto, chiedendo di poter restare seduti quando entra il giudice. Riconoscono soltanto Allah. L'avvocato Mohammed Enait si è appena rifiutato di alzarsi in piedi quando in aula sono entrati i magistrati, ha detto che "l'islam insegna che tutti gli uomini sono uguali". La corte di Rotterdam ha riconosciuto il diritto di Enait di rimanere seduto: "Non esiste alcun obbligo giuridico che imponga agli avvocati musulmani di alzarsi in piedi di fronte alla corte, in quanto tale gesto è in contrasto con i dettami della fede islamica". Enait, a capo dello studio legale Jairam Advocaten, ha spiegato che "considera tutti gli uomini pari e non ammette alcuna forma di ossequio nei confronti di alcuno". Tutti gli uomini ma non tutte le donne. Enait è noto per il suo rifiuto di stringere la mano alle donne, che più volte ha dichiarato di preferire con il burqa. E di burqa se ne vedono tanti a Rotterdam.Che l'Eurabia abiti ormai a Rotterdam lo ha dimostrato un caso avvenuto in aprile allo Zuidplein Theatre, uno dei più prestigiosi in città, un teatro modernista, fiero di "rappresentare la diversità culturale di Rotterdam". Sorge nella parte meridionale della città e riceve fondi del comune, guidato dal musulmano e figlio di imam Ahmed Aboutaleb. Tre settimane fa lo Zuidplein ha consentito di riservare un'intera balconata alle sole donne, in nome della sharia. Non accade in Pakistan o in Arabia saudita, ma nella città da cui sono partiti per gli Stati Uniti i Padri Fondatori. Qui i pellegrini puritani sbarcarono con la Speedwell, che poi scambiarono con la Mayflower. Qui è iniziata l'avventura americana. Oggi c'è la sharia legalizzata.In occasione dello spettacolo del musulmano Salaheddine Benchikhi, lo Zuidplein Theatre ha accolto la sua richiesta di riservare alle sole donne le prime cinque file. Salaheddine, editorialista del sito Morokko.nl, è noto per la sua opposizione all'integrazione dei musulmani. Il consiglio municipale lo ha approvato: "Secondo i nostri valori occidentali la libertà di vivere la propria vita in funzione delle proprie convinzioni è un bene prezioso". Anche un portavoce del teatro ha difeso il regista: "I musulmani sono un gruppo difficile da far venire in teatro, per questo siamo pronti ad adattarci".Un altro che è stato pronto ad adattarsi è il regista Gerrit Timmers. Le sue parole sono abbastanza sintomatiche di quella che Wilders chiama "autoislamizzazione". Il primo caso di autocensura avvenne proprio a Rotterdam, nel dicembre 2000. Timmers, direttore del gruppo teatrale Onafhankelijk Toneel, voleva mettere in scena la vita della moglie di Maometto, Aisha. Ma l'opera venne boicottata dagli attori musulmani della compagnia quando fu evidente che sarebbero stati un bersaglio degli islamisti. "Siamo entusiasti dell'opera, ma la paura regna", gli dissero gli attori. Il compositore, Najib Cherradi, comunicò che si sarebbe ritirato "per il bene di mia figlia". Il quotidiano "Handelsblad" titolò così: "Teheran sulla Mosa", il dolce fiume che bagna Rotterdam. "Avevo già fatto tre lavori sui marocchini e per questo volevo avere degli attori e cantanti musulmani", ci racconta Timmers. "Poi mi dissero che era un tema pericoloso e che non potevano partecipare perché avevano ricevuto delle minacce di morte. A Rabat uscì un articolo in cui si disse che avremmo fatto la fine di Salman Rushdie. Per me era più importante continuare il dialogo con i marocchini piuttosto che provocarli. Per questo non vedo alcun problema se i musulmani vogliono separare gli uomini dalle donne in un teatro".Incontriamo il regista che ha portato la sharia nei teatri olandesi, Salaheddine Benchikhi. È giovane, moderno, orgoglioso, parla un inglese perfetto. "Io difendo la scelta di separare gli uomini dalle donne perché qui vige libertà d'espressione e di organizzazione. Se le persone non possono sedersi dove vogliono è discriminazione. Ci sono due milioni di musulmani in Olanda e vogliono che la nostra tradizione diventi pubblica, tutto si evolve. Il sindaco Aboutaleb mi ha sostenuto".Un anno fa la città entrò in fibrillazione quando i giornali resero nota una lettera di Bouchra Ismaili, consigliere del comune di Rotterdam: "Ascoltate bene, pazzi freak, siamo qui per restarci. Siete voi gli stranieri qui, con Allah dalla mia parte non temo niente, lasciatevi dare un consiglio: convertitevi all'islam e trovate la pace". Basta un giro per le strade della città per capire che in molti quartieri non siamo più in Olanda. È un pezzo di Medio Oriente. In alcune scuole c'è una "stanza del silenzio" dove gli alunni musulmani, in maggioranza, possono pregare cinque volte al giorno, con un poster della Mecca, il Corano e un bagno rituale prima della preghiera. Un altro consigliere musulmano del comune, Brahim Bourzik, vuol far disegnare in diversi punti della città segnali in cui inginocchiarsi in direzione della Mecca.Sylvain Ephimenco è un giornalista franco-olandese che vive a Rotterdam da dodici anni. È stato per vent'anni corrispondente di "Libération" dall'Olanda ed è fiero delle sue credenziali di sinistra. "Anche se ormai non ci credo più", dice accogliendoci nella sua casa che si affaccia su un piccolo canale di Rotterdam. Non lontano da qui si trova la moschea al Nasr dell'imam Khalil al Moumni, che in occasione della legalizzazione del matrimonio gay definì gli omosessuali "malati peggio dei maiali". Da fuori si vede che la moschea ha più di vent'anni, costruita dai primi immigrati marocchini. Moumni ha scritto un libercolo che gira nelle moschee olandesi, "Il cammino del musulmano", in cui spiega che agli omosessuali si deve staccare la testa e "farla penzolare dall'edificio più alto della città". Accanto alla moschea al Nasr ci sediamo in un caffè per soli uomini. Davanti a noi c'è un mattatoio halal, islamico. Ephimenco è autore di tre saggi sull'Olanda e l'islam, e oggi è un famoso columnist del quotidiano cristiano di sinistra "Trouw". Ha la miglior prospettiva per capire una città che, forse anche più di Amsterdam, incarna la tragedia olandese."Non è affatto vero che Wilders raccoglie voti delle periferie, lo sanno tutti anche se non lo dicono", ci dice. "Oggi Wilders viene votato da gente colta, anche se all'inizio era l'Olanda bassa dei tatuaggi. Sono tanti accademici e gente di sinistra a votarlo. Il problema sono tutti questi veli islamici. Dietro casa mia c'è un supermercato. Quando arrivai non c'era un solo velo. Oggi alla cassa ci sono soltanto donne musulmane col chador. Wilders non è Haider. Ha una posizione di destra ma anche di sinistra, è un tipico olandese. Qui ci sono anche ore in piscina per sole donne musulmane. È questa l'origine del voto per Wilders. Si deve fermare l'islamizzazione, la follia del teatro. A Utrecht c'è una moschea dove si danno servizi municipali separati per uomini e donne. Gli olandesi hanno paura. Wilders è contro il Frankenstein del multiculturalismo. Io che ero di sinistra, ma che oggi non sono più niente, dico che abbiamo raggiunto il limite. Ho sentito traditi gli ideali dell'illuminismo con questo apartheid volontario, nel mio cuore sento morti gli ideali d'eguaglianza di uomo e donna e la libertà d'espressione. Qui c'è una sinistra conformista e la destra ha una migliore risposta al pazzo multiculturalismo".Alla Erasmus University di Rotterdam insegna Tariq Ramadan, il celebre islamista svizzero che è anche consulente speciale del comune. A scovare dichiarazioni di Ramadan critiche sugli omosessuali è stata la più celebre rivista gay d'Olanda, "Gay Krant", diretta da un loquace giornalista di nome Henk Krol. In una videocassetta, Ramadan definisce l'omosessualità "una malattia, un disordine, uno squilibrio". Nel nastro Ramadan ne ha anche per le donne, "devono tenere lo sguardo fisso a terra per strada". Il partito di Wilders ha chiesto lo scioglimento della giunta municipale e la cacciata dell'islamista ginevrino, che invece si è visto raddoppiare l'ingaggio per altri due anni. Questo accadeva mentre al di là dell'oceano l'amministrazione Obama confermava il divieto d'ingresso a Ramadan nel territorio degli Stati Uniti. Fra i nastri in possesso di Krol ve ne è uno in cui Ramadan dice alle donne: "Allah ha una regola importante: se cerchi di attrarre l'attenzione attraverso l'uso del profumo, attraverso il tuo aspetto o i tuoi gesti, non sei nella direzione spirituale corretta"."Quando venne ucciso Pim Fortuyn fu uno shock per tutti, perché un uomo venne assassinato per quello che diceva", ci dice Krol. "Non era più il mio paese quello. Sto ancora pensando di lasciare l'Olanda, ma dove potrei andare? Qui siamo stati critici di tutto, della Chiesa cattolica come di quella protestante. Ma quando abbiamo mosso critiche all'islam ci hanno risposto: State creando nuovi nemici!". Secondo Ephimenco, è la strada il segreto del successo di Wilders: "A Rotterdam ci sono tre moschee enormi, una è la più grande d'Europa. Ci sono sempre più veli islamici e un impulso islamista che viene dalle moschee. Conosco tanti che hanno lasciato il centro città e vanno nella periferia ricca e bianca. Il mio quartiere è povero e nero. È una questione di identità, nelle strade non si parla più olandese, ma arabo e turco".Incontriamo l'uomo che ha ereditato la rubrica di Fortuyn sul quotidiano "Elsevier", si chiama Bart Jan Spruyt, è un giovane e aitante intellettuale protestante, fondatore della Edmund Burke Society, ma soprattutto autore della "Dichiarazione di indipendenza" di Wilders, di cui è stato collaboratore dall'inizio. "Qui un immigrato non ha bisogno di lottare, studiare, lavorare, può vivere a spese dello Stato", ci dice Spruyt. "Abbiamo finito per creare una società parallela. I musulmani sono maggioranza in molti quartieri e chiedono la sharia. Non è più Olanda. Il nostro uso della libertà ha finito per ripercuotersi contro di noi, è un processo di autoislamizzazione".Spruyt era grande amico di Fortuyn. "Pim disse ciò che la gente sapeva da decenni. Attaccò l'establishment e i giornalisti. Ci fu un grande sollievo popolare quando scese in politica, lo chiamavano il ‘cavaliere bianco'. L'ultima volta che parlai con lui, una settimana prima che fosse ucciso, mi disse di avere una missione. La sua uccisione non fu il gesto di un folle solitario. Nel febbraio 2001 Pim annunciò che avrebbe voluto cambiare il primo articolo della costituzione olandese sulla discriminazione perché a suo dire, e aveva ragione, uccide la libertà di espressione. Il giorno dopo nelle chiese olandesi, perlopiù vuote e usate per incontri pubblici, venne letto il diario di Anna Frank come monito contro Fortuyn. Pim era veramente cattolico, più di quanto noi pensiamo, nei suoi libri parlava contro l'attuale società senza padre, senza valori, vuota, nichilista".Chris Ripke è un'artista noto in città. Il suo studio è vicino a una moschea in Insuindestraat. Scioccato nel 2004 dall'omicidio del regista Theo Van Gogh per mano di un islamista olandese, Chris decise di dipingere un angelo sul muro del suo studio e il comandamento biblico "Gij zult niet doden", non uccidere. I vicini nella moschea trovarono il testo "offensivo" e chiamarono l'allora sindaco di Rotterdam, il liberale Ivo Opstelten. Il sindaco ordinò alla polizia di cancellare il dipinto perché "razzista". Wim Nottroth, un giornalista televisivo, si piazzò di fronte in segno di protesta. La polizia lo arrestò e il filmato venne distrutto. Ephimenco fece lo stesso nella sua finestra: "Ci misi un grande telo bianco con il comandamento biblico. Vennero i fotografi e la radio. Se non si può più scrivere ‘non uccidere' in questo paese, allora vuol dire che siamo tutti in prigione. È come l'apartheid, i bianchi vivono con i bianchi e i neri con i neri. C'è un grande freddo. L'islamismo vuole cambiare la struttura del paese". Per Ephimenco parte del problema è la decristianizzazione della società. "Quando arrivai qui, negli anni Sessanta, la religione stava morendo, un fatto unico in Europa, una collettiva decristianizzazione. Poi i musulmani hanno riportato la religione al centro della vita sociale. Aiutati dall'élite anticristiana".Usciamo per un giro fra i quartieri islamizzati. A Oude Westen si vedono soltanto arabi, donne velate da capo a piedi, negozi di alimentari etnici, ristoranti islamici e shopping center di musica araba. "Dieci anni fa non c'erano tutti questi veli", dice Ephimenco. Dietro casa sua, una verdeggiante zona borghese con case a due piani, c'è un quartiere islamizzato. Ovunque insegne musulmane. "Guarda quante bandiere turche, lì c'è una chiesa importante, ma è vuota, non ci va più nessuno". Al centro di una piazza sorge una moschea con scritte in arabo. "Era una chiesa prima". Non lontano da qui c'è il più bel monumento di Rotterdam. È una piccola statua in granito di Pim Fortuyn. Sotto la testa lucente in bronzo, la bocca che accenna l'ultimo discorso a favore della libertà di parola, c'è scritto in latino: "Loquendi libertatem custodiamus", custodiamo la libertà di parlare. Ogni giorno qualcuno depone dei fiori.
Spagna: il disegno di legge sull'aborto è "contrario alla dignità" - Critiche ecclesiali alla proposta del Governo
BARCELLONA, mercoledì, 20 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il disegno di legge sull'aborto approvato dal Consiglio dei Ministri spagnolo il 14 maggio scorso è "contrario alla dignità della persona umana e al diritto inviolabile del feto di nascere", come segnala la Delegazione per la pastorale familiare dell'Arcivescovado di Barcellona in un comunicato inviato questo mercoledì a ZENIT.
Per la Delegazione, "la proposta della nuova legge sull'aborto contiene aspetti realmente preoccupanti": non riconosce il diritto alla vita, non propone alcuna alternativa all'aborto e rinuncia a educare all'autentico senso della sessualità.
Oltre a questo, "interferisce e lede il diritto e il dovere dei genitori nei confronti dei figli" permettendo alle minorenni di abortire senza il consenso dei genitori, denuncia la nota.
"Non è possibile costruire il bene comune senza riconoscere e tutelare il diritto alla vita", sottolinea il testo, aggiungendo che "spetta alla società e ai suoi dirigenti creare le condizioni necessarie perché non solo si rispetti, ma si ami la vita".
La proposta del Governo spagnolo, continua la nota, "non offre alcuna risorsa che aiuti la madre ad accettare la maternità e la liberi dal trauma che implica decidere l'eliminazione della vita di chi deve nascere".
"I politici non la possono giustificare dicendo che altre società la accettano". "Non è mai lecito distruggere quello che è già un essere indipendente dalla madre".
"Una legge sull'aborto non è segno di una società progressista – denuncia la nota –. Al contrario, è la conseguenza della rinuncia a vivere e a trasmettere il valore più importante della persona".
Per la Delegazione per la pastorale familiare, "proporre l'aborto come soluzione per limitare la natalità è negare il fatto evidente dell'esistenza del figlio; è un attentato contro la vita con la scusa della legalità".
Anche l'Arcivescovo di Barcellona, il Cardinale Lluís Martínez Sistach, ha dichiarato al canale televisivo catalano TV3 che il disegno di legge "va contro la Costituzione" e presuppone "la totale mancanza di difesa della vita".
Quanto al riconoscimento del diritto di abortire alle minori di 16 anni, ha sottolineato che "gli adolescenti sono meno maturi di prima" e si è chiesto che posto resti alla patria potestà.
Per il Vescovo di Sigüenza-Guadalajara, il dibattito non dovrebbe concentrarsi sulla capacità di una minorenne di decidere di abortire, ma sul fatto che, se la proposta del Governo diventasse legge, "si potrà abortire senza alcun motivo, il che è gravissimo".
Nel corso di una conferenza stampa sulla Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, monsignor José Sánchez ha sottolineato che, dal concepimento, "è già determinato ciò che sarà l'essere umano, è meraviglioso e lo dice la scienza".
Allo stesso modo, ha affermato che "i Governi dovrebbero assicurarsi di fare politiche che difendano le donne incinte".
Nell'ambito politico, il Partito Popolare, principale partito di opposizione, ha annunciato che ricorrerà contro il disegno di legge presso il Tribunale Costituzionale, e anche alcuni membri del Partito socialista, attualmente al potere, hanno criticato alcune parti del testo.
Da parte sua, il Ministro responsabile del progetto, Bibiana Aído, parlando alla radio SER si è riferita a un feto di 13 settimane come a "un essere vivo, chiaro, ma non possiamo parlare di essere umano perché questo non ha alcuna base scientifica".
Dopo queste dichiarazioni, varie persone e pagine web hanno chiesto al Ministro di spiegare a che specie apparterrebbe questo essere vivo.
La scala di Giacobbe - Roberto Fontolan - giovedì 21 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Dopo il viaggio del Papa in Terra Santa ho riletto la Deus Caritas Est, la prima enciclica di Benedetto XVI. E’ stato un impulso, nato dalla sensazione che quelle decine e decine di discorsi e di saluti e messaggi pronunciati tra Giordania Israele e Palestina avessero nello sfondo proprio l’amore divino e l’amore umano cui il Papa si è così profondamente dedicato in quel documento. Perché non c’è un discorso "interiore" e un discorso "politico", non c’è una parola che vada bene per l’anima e che non vada bene per il corpo, non c’è un’intimità separata dall’esteriorità. Mentre il nostro mondo non fa altro che separare, sezionare, biforcare. L’incontro con l’altro, chiunque sia questo altro, è ultimamente un atto d’amore pienamente umano e quindi anche politico. Si può parlare di "amore politico", di amore nella politica? E’ l’immensa sfida lanciata dall’enciclica (naturalmente si tratta di una convinzione del tutto personale).
Il nostro mondo vive della divisione tra corpo e anima, tra amore e eternità. E implicitamente il Papa colpisce questi due "principi di separazione". Due "leggi" che ritroviamo dappertutto: nella pubblicità, nel cinema, negli spettacoli televisivi, nelle politiche sulla famiglia, nei discorsi con gli amici, nella vita pubblica. Chi crede davvero che l’amore abbia a che fare con l’eternità? Che nell’incontro d’amore tra due giovani o tra un marito e una moglie giunti al ventesimo anno di matrimonio o nel gesto di amore verso un figlio o nell’atto d’amore verso una persona afflitta dal dolore; che nella stretta di mano sincera tra due avversari così come nel negoziato leale tra due parti politiche: che in tutto questo ci sia dell’eterno, chi lo pensa sul serio? Al più l’amore sono incontri, gesti, atti: cioè momenti, istanti. E’ un attimo (l’attimo fuggente, dicevano gli antichi e con loro un film che anni fa ha ovviamente incantato le platee di mezzo mondo) e in nome di quell’attimo la nostra vita, le nostre scelte si piegano. Per noi, per la nostra mentalità comune non è l’amore che apre all’eternità, cioè a qualcosa di totalmente altro da noi, a qualcosa di impensabile dal nostro cervello, incontrollabile dalla nostra misura; ma è l’eternità a chiudersi, a definirsi nell’amore così come noi lo vogliamo e lo desideriamo. E quanti danni, quanta infelicità, quanto odio - anche politico, anche etnico - derivano da questo malinteso senso dell’amore e dell’eternità.
Viviamo proprio in una epoca di ignoranza totale. Divoriamo giornali, passiamo anni della vita sui banchi di scuola, magari abbiamo visto Shakespeare a teatro e letto le poesie di Auden, di Hikmet, di Milosz, qualche canto dantesco, ma restiamo degli analfabeti, abbiamo ancora bisogno dell’abc. Abbiamo perso la sapienza che ci fa uomini. Amore eterno non è una espressione buona per le canzoni romantiche. E’ la profonda verità della vita, ci avverte sorprendentemente (non siamo più abituati a ragionare in questo modo) il Papa. Senza l’eterno non siamo niente, non costruiamo niente, non possiamo incontrare l’altro, non facciamo il bene nostro e non riusciamo nemmeno a pensare al bene comune. Benedetto XVI mostra di conoscere bene il linguaggio dei sentimenti e delle passioni (anche politiche). E non dice che i sentimenti sono vietati e che le passioni vanno respinte. Dice che o c’entrano con l’eterno o uccidono l’uomo.
E’ una lotta, non c’è dubbio, contro ciò che sempre, sempre, lavora per quella separazione. Il moralismo, la mentalità dominante, il potere, il Maligno che mette in dubbio l’eterno, il richiamo dell’attimo fuggente. Ogni giorno, dice la Bibbia, siamo posti davanti alla morte e alla vita. Tempo fa, viaggiando nelle riduzioni gesuitiche, tra Paraguay e Bolivia, sono stato colpito dalla quantità e varietà di angeli che adornano quel che resta (a volte, come in Bolivia, chiese intatte e meravigliose) dell’architettura di quella felice e misconosciuta stagione cristiana. Nell’enciclica il Papa cita la scala di Giacobbe come simbolo dell’amore che è unione di eros (la passione che necessita di purificazione) e agape (scoperta e cura dell’altro): "una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio". Un tramite dell’amore divino, dell’eterno, che dà vita all’amore umano, in tutte le sue forme, politica inclusa.
LAICITA’/ La legge "vuota" del presidente Fini, ovvero il fascino del niente - Costantino Esposito - giovedì 21 maggio 2009 – ilsussidiario.net
L’ideale di una legge che non sia orientata o ispirata da niente è sempre stato il grande sogno del pensiero moderno. Un’universalità puramente formale senza dipendenza da alcun contenuto o da alcuna esperienza di identità storica, culturale o religiosa.
Secondo questa utopia è la legge a fondare la libertà, è il diritto a creare la persona e non viceversa. Una sorta di potere, quello della legge, che non esprime né dà più voce all’esperienza umana, alle identità, al senso comune, ma ha la pretesa di forgiare l’umanità e di costruirla essa stessa.
Storicamente l’ispirazione religiosa e teologica è stata la componente essenziale per la nascita del cosiddetto diritto naturale, ma questo diritto è poi arrivato a mettere tra parentesi se non addirittura a rinnegare la sua ispirazione ribaltando il rapporto tra l’immagine dell’uomo, posta come base di partenza ed ereditata dall’esperienza cristiana, e la norma chiamata a tutelarla e a promuoverla. In altri termini: per il diritto naturale non c’è più un’esperienza concreta dell’umano da cui partire, ma solo un’immagine generale, da costruire appunto attraverso la legge.
Il punto problematico allora non è se la religione possa o non possa interferire con la legislazione o se il legislatore debba o non debba pronunciarsi sulle "cose di religione"; la vera questione è piuttosto quale sia la ratio della legge, cioè, ad un tempo, il suo orientamento, il suo fondamento e la sua misura.
Quella che sembra imporsi sempre più nell’attuale dibattito è una sorta di "ragione grigia", come una matrice neutra di tutti i diritti il cui unico criterio è la separazione da ogni appartenenza.
Oggi abbiamo innanzi a noi due alternative estreme rispetto al problema: o la legge, e più in generale la norma giuridica, è intesa come la via per realizzare la fede religiosa, ed è il caso del fondamentalismo, oppure ci si trova di fronte alla pretesa di una totale "privatizzazione" in senso giuridico dell’esperienza religiosa stessa, la sua esclusione dagli orientamenti della giurisprudenza.
Ma in entrambi i casi la legge viene caricata di un potere che non è suo proprio, quello cioè di creare l’identità o il diritto che essa regolamenta e tutela, e di sancire l’esclusione di ciò che non è normato.
Tuttavia, come ha scritto ultimamente Jürgen Habermas a proposito della società "post-secolare" (cfr. Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006), il grande progetto illuminista per cui il potere universale della ragione avrebbe semplicemente reso superflue le tradizioni religiose, relegandole ad un residuo sub-culturale del passato, ha trovato più di una smentita, e non solo o non tanto per il persistere di residui fondamentalisti, ma, molto di più, per la presenza creativa di cittadini religiosi che possono contribuire come una risorsa di senso alla vita sociale e pubblica.
Il che non è né un uso politico della religione né un uso religioso della politica, ma, come la chiama sempre Habermas, una sfida "cognitiva", un’auto-comprensione chiesta ai "cittadini laici" perché pongano nuovamente il problema di ciò che legittima la loro pretesa di universalità; ma anche una sfida rivolta ai "cittadini religiosi" perché comprendano la rilevanza pubblica (e io aggiungerei: pienamente "laica") delle loro ragioni nate dalla fede.
Infatti il grande problema di fondo resta sempre quello: può la generalità o l’universalità della legge essere pagata al prezzo di neutralizzare le esperienze storiche particolari; e soprattutto, all’inverso, può un’esperienza storica portare con sé un valore universale?
Solo emergendo nella concretezza di tradizioni e identità storiche l’universale ha dato effettivamente prova di sé, mentre staccato da esse si è ridotto ad essere una generalità astratta. Questa è la sfida che va accettata e anzi riaperta ancora oggi: che l’universale possa essere riscoperto in tutta la sua concretezza, qualcosa che è di tutti non perché non è di nessuno, ma proprio perché è di qualcuno. A patto, s’intende, che questo "qualcuno" riesca a mostrare che si tratta di un’esperienza per tutti, cioè effettivamente secondo ragione.
GIUSTIZIA/ C'è un antidoto contro lo strapotere della magistratura - Paolo Tosoni - giovedì 21 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La proposta di Bossi di eleggere i Pubblici Ministeri non è condivisibile, soprattutto laddove viene proposta solo per quelli veneti e lombardi. Tuttavia, l’ennesima provocazione di Bossi e della Lega (forti dell’ottenuta elezione indiretta dei Vice Procuratori Onorari nel DDL sul codice di procedura penale, in discussione al Senato) ha il pregio di porre l’attenzione su un problema serio: la responsabilità dei magistrati.
La stessa provocazione la fece il Presidente della Corte d’Appello di Milano, dott. Giuseppe Grechi, riportata dal quotidiano La Repubblica del 10.12.2008: "Mi rendo conto di spararla grossa, ..ma credo che a questo punto, bisognerebbe pensare ad una magistratura elettiva. Il grande sogno di Calamandrei di una magistratura impiegatizia, dotata di grandi garanzie, non regge più", indicando la necessità di una svolta radicale in un sistema vicino al collasso.
Proporre l’elezione dei magistrati significa affermare il principio che essi dovrebbero rispondere agli elettori del loro operato: se sbagliano, se non adempiono diligentemente e correttamente la loro delicata funzione, chi li ha eletti sceglierà altri magistrati a servizio dello Stato. È evidente come il sistema elettivo, per la nostra cultura giuridica e sociale, è improponibile: si presterebbe potenzialmente a pericolose "collusioni" (basti pensare ai fenomeni criminali tipici del nostro Paese); tuttavia, come detto, la provocazione denuncia il problema contrario, che può essere altrettanto deleterio: l’assenza di responsabilità in capo ai magistrati.
Molti magistrati, infatti (che per status godono di un’autonomia e indipendenza assolute), pur non essendo rappresentanti di nessuno, se non di se stessi, si prestano frequentemente a utilizzare il loro potere per influenzare le scelte politiche, per criminalizzare questo o quel rappresentante del popolo, per creare diritti, attraverso una giurisprudenza sempre più "creativa" - sfruttando lacune e spazi legislativi - anche in materie delicatissime e fondamentali per la concezione della persona, della vita e dell’assetto politico-sociale della nostra società. Ciò andando oltre la funzione di applicazione della legge loro propria, sostituendosi arbitrariamente al Legislatore, forti delle loro prerogative e arrogandosi un mandato che nessuno ha dato loro.
In questo senso oggi assistiamo a uno "strapotere" della magistratura, avulso da qualsiasi controllo e limitazione: l’insufficienza dell’operato del Consiglio Superiore della Magistratura, che è appunto organo di autocontrollo, è opinione largamente diffusa.
Certamente il problema della giustizia non è solo questo: è tutto il sistema processuale che non funziona; al Governo e al Parlamento, però, è giusto chiedere di aver presenti tutti i fattori del fallimento in atto, se - come più volte annunciato - intende attuare importanti riforme della giustizia (ad oggi, è doveroso constatare che l’ultima riforma - contenuta nel decreto sicurezza - oltre ad essere criticabile sotto molteplici aspetti, è frutto ancora una volta del metodo dell’emergenza).
Il punto della responsabilità della magistratura è un nodo fondamentale di queste riforme e non va trascurato: la posizione dell’Associazione Nazionale Magistrati che, giustificatamente, è stata durissima nei confronti della proposta di Bossi, è in realtà, in generale, la posizione di chi difende su tutti i fronti lo status quo delle prerogative della categoria. In questo è miope e si rivelerà perdente: è venuto il tempo di sperimentare un nuovo assetto della magistratura; lo chiedono i cittadini e lo impone il fallimento del sistema che è sotto gli occhi di tutti.
Riforma del CSM e separazione della carriere non devono più essere considerati dei tabù: ma possono essere i primi passi verso una responsabilizzazione dei magistrati (in particolare dei giudicanti: verso una terzietà reale e rispettata nel comune sentire), che non potrà che elevare il prestigio della magistratura e di conseguenza, unitamente ad altre riforme, rendere più serio ed efficiente il sistema giustizia.
IN SPAGNA (MA NON SOLO) UNA "SCIENZA" AL DOCILE SERVIZIO DEL POTERE - MARINA CORRADI – Avvenire, 21 maggio 2009
Un feto di tredici settimane è un essere vivente ma non è un essere umano, ha detto il ministro all’Uguaglianza del governo Zapatero, Bibiana Aido. Ne è seguito un putiferio, e il giovane ministro ha ritenuto di dover meglio chiarire il suo pensiero: "Non c’è prova scientifica per dire che il feto è un essere umano, né che non lo è". Tanta cautela nel riconoscere l’umanità del nascituro proviene da un Manifesto recentemente firmato da illustri scienziati spagnoli, dove si afferma che "il momento in cui si può considerare un essere 'umano' non può essere stabilito con criteri scientifici", e che tale giudizio rientrerebbe "nell’ambito delle credenze individuali, filosofiche o religiose ". Dunque, quell’essere pure dotato, come mostra ogni ecografia, di mani, cuore e cervello, non è umano. O almeno, la scienza non lo può certificare come tale. Cosa occorrerà perché il nascituro diventi un uomo? Sarà uomo quando, a sette o otto mesi di gravidanza, è potenzialmente capace di vivere autonomamente? O solo col primo respiro si viene promossi uomini? Quale è il discrimine stabilito da una simile 'scienza' per riconoscere un uomo, per farlo uscire dall’oscuro nulla, dal limbo informe delle creature in fieri?Certo, un pensiero simile è funzionale alla riforma che intende allargare il diritto di aborto in Spagna. Se si insegna alle sedicenni che ciò che potranno liberamente cancellare non è nemmeno un uomo, si eliminano "vecchie" questioni etiche e un sacco di problemi. Ma rende inquieti una scienza, e un potere con esso allineato, capaci di negare la più chiara evidenza. Ogni donna, davanti all’immagine della creatura di tre mesi che aspetta, anche se non la vuole mettere al mondo non può non riconoscerne le fattezze umane, non può ignorare che quello è un figlio. È un’umana evidenza: ha gli occhi, le mani, la testa, il cuore batte. Mettete davanti a un’ecografia un bambino: riconoscerà immediatamente, pure in quel disegno di ombre, un suo simile.E invece c’è una scienza che si è smarrita in se stessa, tanto da non riconoscere in ciò che vede un bambino. Una scienza che balbetta che solo idee "filosofiche o religiose" chiamano uomo un feto: dove sono, avanti, le evidenze scientifiche? (Ma quel disegno intrinsecamente ordinato e perfetto, teso a un compimento che aveva scritto in sé dal principio, procede metodico e ostinato, nel ventre delle madri, senza bisogno di alcun timbro di professori).Un uomo che non riconosce più se stesso, questo produce una scienza accecata dalla ideologia. Una scienza al docile servizio del potere. Perché nel più liberale e liberato dei Paesi, dove l’aborto sia possibile senza condizioni, dove basti una pillola, sussiste ancora, in non poche coscienze, un confuso dolore, un non detto malessere per quei figli mai nati. E benché, certo, tutto sia perfettamente legale, è un’ombra, un oscuro disagio la memoria di quelle centinaia di migliaia di figli, fratelli, nipoti mai nati. Di uomini rifiutati, come clandestini inappellabilmente respinti oltre un invalicabile muro.Uomini? Mah, adagio. A tredici settimane sono veramente uomini? Dov’è la prova? Forse sono un qualcosa, sì, di vivente, ma certo non sono come noi. Sproporzionati, tanti drammi personali e tante battaglie etiche, per quei princìpi immaturi. Abbozzi, in fondo, lunghi pochi centimetri. Sì, hanno gli occhi, le mani, ma non parlano, e soprattutto non si vedono. Con simili caratteristiche, non si può onestamente dirli uomini. Cosa, allora? Soltanto cellule, solo organismi cocciutamente proliferanti – agli occhi di uomini educati a mentire tanto, da non riconoscere più se stessi.
"In Italia il figlio perfetto ormai è un’ossessione" - di Antonella Mariani – Avvenire, 21 maggio 2009
"Egoismo " . " Edonismo " .
"Ossessione del figlio perfetto " . Ecco cosa c’è sempre più spesso dietro la scelta delle coppie di affidare il destino dei propri figli alla diagnosi prenatale: se il responso è sufficientemente buono, il bambino nascerà, mentre sarà condannato all’aborto se si scopre che è portatore " di difetti anche lievi " .Niente di nuovo, si dirà, se non fosse che a gettare il sasso nello stagno e a puntare il dito contro un uso distorto di amniocentesi e villocentesi come strumenti di selezione del ' bambino perfetto' è nientemeno che il presidente della Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno- fetale, la Sidip. Claudio Giorlandino di analisi prenatali sul Dna sul feto ne esegue diverse migliaia all’anno, e sa perfettamente che dall’esito può dipendere se un bambino verrà al mondo oppure no.Colpisce, dunque, che una critica così pesante venga da chi comunque nella diagnosi prenatale crede, e anzi la sostiene per la ricerca di un’infinità di malattie genetiche, dalla sordità alla fibrosi cistica, dalla distrofia muscolare alle varie trisomìe, al ritardo mentale nei feti maschi ( X fragile).Eppure Giorlandino lo scorso weekend, aprendo a Roma il congresso della Sidip, ha ammesso di notare una tendenza spiccata " da parte di coppie che si preoccupano più per se stesse che per il bambino " ." Ci soffro, sì – ragiona ora il medico con è vita –. Sento un senso di fastidio quando la coppia rifugge le difficoltà e interrompe la gravidanza di fronte a problemi superabili o comunque lievi. Capita nel 90 per cento dei casi in cui l’analisi genetica riscontra qualche anomalia. Poi c’è l’estremo opposto: quello di coppie che hanno fatto di tutto per avere un figlio, magari sono avanti con gli anni e dunque decidono di tenere il bambino comunque, anche se ha patologie molto serie, perché sanno che è l’ultima possibilità di procreare.Sono due estremi della stessa visione edonistica della vita, del figlio in funzione dei propri bisogni e come celebrazione della propria perfezione " .Tutto giusto, ma allora bisognerebbe interrogarsi anche sull’utilità della diagnosi prenatale, sulla reale necessità del suo impiego di massa, sul fatto che essa sia nella maggior parte dei casi una ingiusta spada di Damocle sul diritto di ogni concepito a nascere... Il dottor Giorlandino certifica che in Italia vi ricorre una coppia su tre. Ma è sempre necessario?Non varrebbe la pena che il medico scoraggiasse le coppie che non presentano un particolare rischio genetico? " La diagnosi prenatale non è mai necessaria. Però è innocua e può salvare molti bambini, attraverso la medicina prenatale... " , risponde Giorlandino, che smentisce i rischi legati all’invasività di tecniche come l’amniocentesi e la villocentesi, difende la necessità di una ' neutralità' dei medici di fronte alla ' libertà' delle coppie e ammette che quasi sempre, di fronte a esiti sfavorevoli, la coppia sceglie l’aborto."Molti genitori all’inizio della gravidanza sono pronti a giurare che per loro il figlio è un dono e che chiedono l’esame genetico ' per stare tranquilli'. Ma poi se scoprono che il figlio è affetto dalla sindrome di Down non lo accettano, a meno che non sia la prima gravidanza in età avanzata. Dunque, l’analisi prenatale ha creato un problema, altro che farli stare ' tranquilli' " , continua Giorlandino.Dunque, quasi mai l’analisi genetica è fatta nell’interesse del bambino, quasi sempre per quello dei genitori; una conclusione un po’ sconfortante per i medici, che dovrebbero mettere la loro professionalità a disposizione dei malati più che dei sani.Si dichiara positivamente sorpreso dall’uscita di Giorlandino Bruno Dallapiccola, genetista di fama mondiale e co- presidente di Scienza & Vita. " Mi rallegro che la Sidip dica ora cose che io vado ripetendo da vent’anni – esordisce il professore –.Si tratta di una presa di coscienza onesta e corretta. È giusto denunciare l’ossessione dei genitori per il figlio perfetto, ma bisognerebbe anche aggiungere che questa mania è assecondata da una serie di laboratori che si rendono complici delle coppie. Bisogna educare la popolazione, non sfruttare i genitori ossessionati facendogli fare esami inutili " . L’affondo di Dallapiccola continua: " Bisogna avere il coraggio di fermarsi e di denunciare i forti interessi economici che stanno dietro a questa proliferazione di test genetici sui feti. Le indagini possono avere un significato in coppie che presentano fattori di rischio, il resto è solo business. Che senso ha andare a caccia della sordità genetica in un feto, quando sappiamo che avremo un neonato sordo ogni 670 nati, che la sordità è causata da 130 geni diversi e che invece la sordità non genetica colpisce ben più diffusamente, almeno il 3 per cento della popolazione? Che senso ha il test genetico per scoprire il ritardo mentale, quando sappiamo che l’X fragile è riscontrato appena in un bambino ogni 5 mila nati maschi? Per me questo è vendere fumo " . Il presidente della Società di diagnosi prenatale Giorlandino rompe un tabù e denuncia: una coppia su tre chiede l’analisi genetica, ma i genitori pensano più a se stessi che al figlio che deve nascere e abortiscono anche per lievi anomalie Dallapiccola: è una presa di coscienza importante Ora i medici scoraggino i test inutili GLOSSARIO Eugenetica Disciplina che si propone il miglioramento delle qualità ereditarie della specie umana anche selezionando gli embrioni o i bambini durante la gravidanza, una volta accertata una malattia, una imperfezione o un’anomalia.