Nella rassegna stampa di oggi:
1) Discorso del Papa sul luogo del Battesimo di Gesù al Giordano - "La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo"
2) La seconda volta di Benedetto XVI in moschea
3) Perché dire che basta la "buona fede" per salvarsi è come dire che esiste una verità al di fuori della verità - Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato. I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”. - di Roberto de Mattei
4) Il viaggio del Papa in Israele - Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
5) Cattolici ed ebrei uniti per la pace in Terra Santa - Autore: Colosso, Gian Carlo - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
6) IL CASO BERLUSCONI, L’ABISSO DEL NULLA E LA CAREZZA DEL NAZARENO… 09.05.2009 – Antonio Socci
7) In Giordania il Papa delinea terreni di incontro con musulmani ed ebrei - Religione e ragione al servizio del bene comune – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
8) La prima antologia italiana della teologia di Joseph Ratzinger - Una rivelazione che precede la lettera e la storia - di Silvia Guidi – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
9) Lo «Star Trek» di J. J. Abrams torna all'antefatto della saga - Come ha fatto Kirk a diventare capitano - di Luca Pellegrini – L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009
10) A cosa serve l’Europa - Mario Mauro - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
11) TERRA SANTA/ Sbai: io, musulmana, ringrazio il Papa per il suo esempio - Souad Sbai - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
12) DIARIO DA L’AQUILA/ Storia di Stefania, la mamma di Onna - Redazione - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
13) FILOSOFIA/ Esplorare la realtà: Michael Polanyi e il senso dell’esistenza umana - Carlo Vinti - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Discorso del Papa sul luogo del Battesimo di Gesù al Giordano - "La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo"
AMMAN, domenica, 10 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica pomeriggio a Betania oltre il Giordano, nella zona in cui predicò Giovanni il Battista e che fu testimone della vita pubblica di Gesù, dopo aver benedetto le prime pietre di due chiese cattoliche, una latina e l'altra greco-melchita.
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Altezze Reali,
Cari Fratelli Vescovi,
Cari Amici,
è con grande gioia spirituale che vengo a benedire le prime pietre delle due Chiese Cattoliche che saranno costruite al di là del fiume Giordano, un posto segnato da molti avvenimenti memorabili nella storia biblica. Il profeta Elia, il Tisbita, proveniva da questa area non lontano dal nord di Galaad. Qui vicino, di fronte a Gerico, le acque del Giordano si aprirono davanti ad Elia che fu portato via dal Signore in un carro di fuoco (cfr 2 Re 2,9-12). Qui lo Spirito del Signore chiamò Giovanni, figlio di Zaccaria, a predicare la conversione dei cuori. Giovanni l'Evangelista pose in questa area anche l'incontro tra il Battista e Gesù, che in occasione del battesimo venne "unto" dallo Spirito di Dio disceso come colomba, e fu proclamato amato Figlio del Padre (cfr Gv 1,28; Mc 1,9-11).
Sono onorato per essere stato ricevuto in questo importante sito dalle Loro Maestà Re Abdallah II e la Regina Rania. Esprimo nuovamente la mia sincera gratitudine per la calda ospitalità che mi hanno dimostrato durante la mia visita nel Regno Hashemita di Giordania.
Saluto con gioia Sua Beatitudine Gregorio III Laham, Patriarca di Antiochia per la Chiesa Greco-Melchita. Saluto con affetto anche Sua Beatitudine l'Arcivescovo Fouad Twal, Patriarca Latino di Gerusalemme. Estendo con calore i miei migliori saluti a Sua Beatitudine Michel Sabbah, ai Vescovi Ausiliari presenti, particolarmente all'Arcivescovo Joseph Jules Zerey e al Molto Reverendo Salim Sayegh, che ringrazio per le sue gentili parole di benvenuto. Sono lieto di salutare tutti i Vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli laici che ci accompagnano oggi. Rallegriamoci nel riconoscere che i due edifici, uno Latino, l'altro Greco-Melchita, serviranno ad edificare, ognuno secondo le tradizioni della propria comunità, l'unica famiglia di Dio.
La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo. La Chiesa poggia su Cristo, è sostenuta da Lui e non può essere da Lui separata. Egli è l'unico fondamento di ogni comunità cristiana, la pietra viva, rigettata dai costruttori ma preziosa agli occhi di Dio e da Lui scelta come pietra angolare (cfr 1 Pt 2,4-5.7). Con Lui anche noi siamo pietre vive costruite come edificio spirituale, luogo di dimora per Dio (cfr Ef 2,20-22; 1 Pt 2,5). Sant'Agostino amava riferirsi al mistero della Chiesa come al Christus totus, il Cristo intero, il pieno e completo Corpo di Cristo, Capo e membra. Questa è la realtà della Chiesa; essa è Cristo e noi, Cristo con noi. Egli è con noi come la vite è con i suoi tralci (cfr Gv 15,1-8). La Chiesa è in Cristo una comunità di vita nuova, una dinamica realtà di grazia che promana da Lui. Attraverso la Chiesa Cristo purifica i nostri cuori, illumina le nostre menti, ci unisce con il Padre e, nell'unico Spirito, ci conduce ad un quotidiano esercizio di amore cristiano. Confessiamo questa gioiosa realtà come l'Una, Santa, Cattolica e Apostolica Chiesa.
Entriamo nella Chiesa mediante il Battesimo. La memoria del battesimo stesso di Cristo è vivamente presente davanti a noi in questo luogo. Gesù si mise in fila con i peccatori ed accettò il battesimo di penitenza di Giovanni come un segno profetico della sua stessa passione, morte e resurrezione per il perdono dei peccati. Nel corso dei secoli, molti pellegrini sono venuti al Giordano per cercare la purificazione, rinnovare la loro fede e stare più vicini al Signore. Così fece la pellegrina Egeria che ha lasciato uno scritto sulla sua visita alla fine del quarto secolo. Il Sacramento del Battesimo, che trae il suo potere dalla morte e resurrezione di Cristo, sarà particolarmente tenuto in considerazione dalle comunità cristiane che si raccoglieranno nelle nuove chiese. Possa il Giordano ricordarvi sempre che siete stati lavati nelle acque del Battesimo e siete divenuti membri della famiglia di Gesù. Le vostre vite, in obbedienza alla sua parola, sono trasformate nella sua immagine e somiglianza. Sforzandovi di essere fedeli al vostro impegno battesimale di conversione, testimonianza e missione, sappiate che siete fortificati dal dono dello Spirito Santo.
Cari Fratelli e Sorelle, possa la contemplazione di questi misteri arricchirvi di gioia spirituale e coraggio morale. Con l'Apostolo Paolo, vi esorto a crescere nella intera serie di nobili atteggiamenti che vanno sotto il nome benedetto di agape, amore Cristiano ( cfr 1 Cor 13,1-13). Promuovete il dialogo e la comprensione nella società civile, specialmente quando rivendicate i vostri legittimi diritti. In Medio Oriente, segnato da tragica sofferenza, da anni di violenza e di questioni irrisolte, i Cristiani sono chiamati a offrire il loro contributo, ispirato dall'esempio di Gesù, di riconciliazione e pace con il perdono e la generosità. Continuate ad essere grati a coloro che vi guidano e vi servono fedelmente come ministri di Cristo. Fate bene ad accettare la loro guida nella fede sapendo che nel ricevere l'insegnamento apostolico che essi trasmettono, accogliete Cristo e accogliete l'Unico che l'ha inviato ( cfr Mt 10,40).
Miei cari Fratelli e Sorelle, procediamo ora a benedire queste due pietre, l'inizio di due nuovi edifici sacri. Voglia il Signore sostenere, rafforzare ed incrementare le comunità che in essi eserciteranno il loro culto. E benedica tutti voi con il suo dono di pace. Amen!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La seconda volta di Benedetto XVI in moschea
Il dialogo con l'islam ha caratterizzato la tappa giordana del pellegrinaggio in Terra Santa, lungo la strada aperta a Ratisbona. Un inedito: il testo integrale del discorso rivolto al papa dal principe musulmano Ghazi Bin Muhammad Bin Talal
di Sandro Magister
ROMA, 11 maggio 2009 – Benedetto XVI ha dedicato alla Giordania i primi tre giorni del suo viaggio in Terra Santa. Nei precedenti viaggi papali la sosta in questo regno musulmano era stata più fuggevole, e così i riferimenti all'islam. Con papa Joseph Ratzinger, invece, si è registrata questa novità. Il rapporto con l'islam è stato visibilmente al centro della prima parte del suo viaggio. E avrà ulteriore visibilità a Gerusalemme con la visita alla Cupola della Roccia, riconosciuta dai musulmani come il luogo da cui Maometto salì al cielo.
Naturalmente, l'impronta complessiva che Benedetto XVI ha dato fin dall'inizio al suo viaggio è stata quella del pellegrinaggio cristiano, attentissimo alle radici ebraiche.
In Giordania, ha cominciato salendo sul Monte Nebo e da lì, come Mosé, guardando alla Terra Promessa. Lì ha ricordato "l'inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo". E ha terminato recandosi a Betania "oltre il Giordano" nel luogo dove l'ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, battezzò Gesù.
In ogni tappa ha incontrato e rincuorato i cristiani che vivono in quella terra, piccole comunità molto minoritarie, dalla vita non facile.
Con essi ha celebrato ad Amman la prima messa pubblica del viaggio, domenica 10 maggio. Nell'omelia, ha subito ribadito loro ciò che era stato proclamato poco prima: che cioè veramente, all'infuori di Gesù, "non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati" (Atti 4, 12).
Li ha esortati a testimoniare il riconoscimento della piena dignità della donna e a "sacrificare" la propria vita nel servizio agli altri, all'opposto di "modi di pensare che giustificano lo 'stroncare' vite innocenti".
Ma è in rapporto all'islam che Benedetto XVI ha detto in Giordania le cose più argomentate, soprattutto in due momenti: quando ha benedetto la prima pietra di una nuova università cattolica a Madaba per studenti che saranno in gran parte musulmani, e quando ha visitato la moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman.
A Madaba, sabato 9 maggio, il papa ha detto tra l'altro:
"La fede in Dio non sopprime la ricerca della verità; al contrario l’incoraggia. San Paolo esortava i primi cristiani ad aprire le proprie menti a tutto 'quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode' (Filippesi 4, 8). Ovviamente la religione, come la scienza e la tecnologia, come la filosofia ed ogni espressione della nostra ricerca della verità, possono corrompersi. La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso. Qui non vediamo soltanto la perversione della religione, ma anche la corruzione della libertà umana, il restringersi e l’obnubilarsi della mente. Evidentemente, un simile risultato non è inevitabile. Senza dubbio, quando promuoviamo l’educazione proclamiamo la nostra fiducia nel dono della libertà. Il cuore umano può essere indurito da un ambiente ristretto, da interessi e da passioni. Ma ogni persona è anche chiamata alla saggezza e all’integrità, alla scelta basilare e più importante di tutte del bene sul male, della verità sulla disonestà, e può essere sostenuta in tale compito.
"La chiamata all’integrità morale viene percepita dalla persona genuinamente religiosa dato che il Dio della verità, dell’amore e della bellezza non può essere servito in alcun altro modo. La fede matura in Dio serve grandemente per guidare l’acquisizione e la giusta applicazione della conoscenza. La scienza e la tecnologia offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita di molti esseri umani. Senza dubbio questa è una delle speranze di quanti promuovono questa università, il cui motto è 'Sapientia et Scientia'. Allo stesso tempo, la scienza ha i suoi limiti. Non può dar risposta a tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza. In realtà, la persona umana, il suo posto e il suo scopo nell’universo non può essere contenuto all’interno dei confini della scienza. 'La natura intellettuale della persona umana si completa e deve completarsi per mezzo della sapienza, che attira dolcemente la mente dell’uomo a cercare ed amare le cose vere e buone' (cfr. Gaudium et spes, 15). L’uso della conoscenza scientifica abbisogna della luce orientatrice della sapienza etica. Tale sapienza ha ispirato il giuramento di Ippocrate, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la convenzione di Ginevra ed altri lodevoli codici internazionali di comportamento. Pertanto, la sapienza religiosa ed etica, rispondendo alle questioni sul senso e sul valore, giocano un ruolo centrale nella formazione professionale. Conseguentemente, quelle università dove la ricerca della verità va di pari passo con la ricerca di quanto è buono e nobile offrono un servizio indispensabile alla società".
Ma è stato ad Amman, visitando la moschea Al-Hussein Bin Talal, che Benedetto XVI è entrato più direttamente nel cuore della questione.
Il luogo e gli interlocutori erano ricchi di implicazioni. A far gli onori di casa al papa è stato il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal, 42 anni, cugino dell'attuale re di Giordania Abdullah II, a sua volta figlio del defunto re Hussein al quale è intitolata la moschea.
Il principe Ghazi è il più autorevole ispiratore della lettera aperta "Una parola comune tra noi e voi", indirizzata al papa e ai capi delle altre confessioni cristiane nell'ottobre del 2007 da 138 esponenti musulmani di numerosi paesi.
Quella lettera è stato il seguito più importante, in campo musulmano, dell'apertura di dialogo compiuta da Benedetto XVI con la sua memorabile lezione all'università di Ratisbona dell'11 settembre 2006.
Dalla lettera dei 138 ha preso origine un forum permanente di dialogo cattolico-musulmano la cui prima sessione si è svolta a Roma dal 4 al 6 novembre 2008, conclusa da un incontro col papa.
Ad Amman, sabato 9 maggio, il principe Ghazi ha prima accompagnato Benedetto XVI nella visita alla moschea – dove entrambi hanno avuto un "momento di raccoglimento" – e poi, all'esterno dell'edificio, ha rivolto a lui un ampio discorso, al quale è seguito l'intervento del papa.
Qui di seguito sono riportati i testi integrali dei due discorsi. Quello del principe Ghazi, pronunciato in inglese e fin qui inedito, è stato trascritto a cura de "L'Osservatore Romano", che però ne ha pubblicato solo un breve riassunto.
Il discorso del papa riprende temi e argomenti da lui già sviluppati in precedenti interventi, mentre più inusuale appare quello del principe Ghazi, specie in un mondo musulmano che nella sua quasi totalità è stato fin qui all'oscuro dei passi di dialogo in corso con la Chiesa cattolica.
Anche sotto questo profilo, infatti, la tappa di Benedetto XVI in Giordania ha segnato una novità. Grazie all'impatto pubblico mondiale del viaggio e allo scambio di discorsi tra il papa e il principe Ghazi, una "comune parola" di dialogo tra la Chiesa cattolica e l'islam ha raggiunto per la prima volta anche una parte dell'opinione pubblica musulmana, in una misura che non ha precedenti.
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"Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto"
di Benedetto XVI
Altezza Reale,
eccellenze,
illustri signore e signori,
è motivo per me di grande gioia incontrarvi questa mattina in questo splendido ambiente. Desidero ringraziare il principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal per le sue gentili parole di benvenuto. Le numerose iniziative di Vostra Altezza Reale per promuovere il dialogo e lo scambio interreligioso ed interculturale sono apprezzate dai cittadini del regno hashemita ed ampiamente rispettate dalla comunità internazionale. Sono al corrente che tali sforzi ricevono il sostegno attivo di altri membri della famiglia reale come pure del governo della nazione e trovano vasta risonanza nelle molte iniziative di collaborazione fra i giordani. Per tutto questo desidero manifestare la mia sincera ammirazione.
Luoghi di culto, come questa stupenda moschea di Al-Hussein Bin Talal intitolata al venerato re defunto, si innalzano come gioielli sulla superficie della terra. Dall’antico al moderno, dallo splendido all’umile, tutti rimandano al divino, all’Unico trascendente, all’Onnipotente. Ed attraverso i secoli questi santuari hanno attirato uomini e donne all’interno del loro spazio sacro per fare una pausa, per pregare e prender atto della presenza dell’Onnipotente, come pure per riconoscere che noi tutti siamo sue creature.
Per questa ragione non possiamo non essere preoccupati per il fatto che oggi, con insistenza crescente, alcuni ritengono che la religione fallisca nella sua pretesa di essere, per sua natura, costruttrice di unità e di armonia, un’espressione di comunione fra persone e con Dio. Di fatto, alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo; e per tale ragione affermano che quanto minor attenzione vien data alla religione nella sfera pubblica, tanto meglio è.
Certamente, il contrasto di tensioni e divisioni fra seguaci di differenti tradizioni religiose, purtroppo, non può essere negato. Tuttavia, non si dà anche il caso che spesso sia la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società? A fronte di tale situazione, in cui gli oppositori della religione cercano non semplicemente di tacitarne la voce ma di sostituirla con la loro, il bisogno che i credenti siano fedeli ai loro principi e alle loro credenze è sentito in modo quanto mai acuto. Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono, sempre memori della comune origine e dignità di ogni persona umana, che resta al vertice del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.
La decisione degli educatori giordani come pure dei leader religiosi e civili di far sì che il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura è degna di plauso. L’esempio di individui e comunità, insieme con la provvista di corsi e programmi, manifestano il contributo costruttivo della religione ai settori educativo, culturale, sociale e ad altri settori caritativi della vostra società civile. Ho avuto anch’io la possibilità di constatare personalmente qualcosa di questo spirito. Ieri ho potuto prender contatto con la rinomata opera educativa e di riabilitazione presso il centro Nostra Signora della Pace, dove cristiani e musulmani stanno trasformando le vite di intere famiglie, assistendole al fine di far sì che i loro figli disabili possano avere il posto che loro spetta nella società. All’inizio dell’odierna mattinata ho benedetto la prima pietra dell’università di Madaba, dove giovani musulmani e cristiani, gli uni accanto agli altri, riceveranno i benefici di un’educazione superiore, che li abiliterà a contribuire validamente allo sviluppo sociale ed economico della loro nazione.
Di gran merito sono pure le numerose iniziative di dialogo interreligioso sostenute dalla famiglia reale e dalla comunità diplomatica, talvolta intraprese in collegamento col pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Queste comprendono il continuo lavoro degli Istituti Reali per gli Studi Interreligiosi e per il Pensiero Islamico, l’Amman Message del 2004, l’Amman Interfaith Message del 2005, e la più recente lettera "Common Word", che faceva eco ad un tema simile a quello da me trattato nella mia prima enciclica: il vincolo indistruttibile fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, come pure la contraddizione fondamentale del ricorrere, nel nome di Dio, alla violenza o all’esclusione (cfr. Deus caritas est, 16).
Chiaramente queste iniziative conducono ad una maggiore conoscenza reciproca e promuovono un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente. Pertanto, esse dovrebbero indurre cristiani e musulmani a sondare ancor più profondamente l’essenziale rapporto fra Dio ed il suo mondo, così che insieme possiamo darci da fare perché la società si accordi armoniosamente con l’ordine divino. A tale riguardo, la collaborazione realizzata qui in Giordania costituisce un esempio incoraggiante e persuasivo per la regione, in realtà anzi per il mondo, del contributo positivo e creativo che la religione può e deve dare alla società civile.
Distinti amici, oggi desidero far menzione di un compito che ho indicato in diverse occasioni e che credo fermamente cristiani e musulmani possano assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società. Tale compito costituisce la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana.
I cristiani in effetti descrivono Dio, fra gli altri modi, come Ragione creatrice, che ordina e guida il mondo. E Dio ci dota della capacità a partecipare a questa Ragione e così ad agire in accordo con ciò che è bene. I musulmani adorano Dio, Creatore del cielo e della terra, che ha parlato all’umanità. E quali credenti nell’unico Dio, sappiamo che la ragione umana è in se stessa dono di Dio, e si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità di Dio.
In realtà, quando la ragione umana umilmente consente ad essere purificata dalla fede non è per nulla indebolita; anzi, è rafforzata nel resistere alla presunzione di andare oltre ai propri limiti. In tal modo, la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità, dando espressione alle nostre comuni aspirazioni più intime, ampliando, piuttosto che manipolarlo o restringerlo, il pubblico dibattito. Pertanto l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana. Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, ed arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello.
Una simile comprensione della ragione, che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza sia di prudenza. Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto. Siamo impegnati ad oltrepassare i nostri interessi particolari e ad incoraggiare gli altri, particolarmente gli amministratori e i leader sociali, a fare lo stesso al fine di assaporare la soddisfazione profonda di servire il bene comune, anche a spese personali. Ci viene ricordato che proprio perché è la nostra dignità umana che dà origine ai diritti umani universali, essi valgono ugualmente per ogni uomo e donna, senza distinzione di gruppi religiosi, sociali o etnici ai quali appartengano. Sotto tale aspetto, dobbiamo notare che il diritto di libertà religiosa va oltre la questione del culto ed include il diritto – specie per le minoranze – di equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile.
Questa mattina prima di lasciarvi, vorrei in special modo sottolineare la presenza tra noi di Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Baghdad, che io saluto molto calorosamente. La sua presenza richiama alla mente i cittadini del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato cordiale accoglienza qui in Giordania. Gli sforzi della comunità internazionale nel promuovere la pace e la riconciliazione, insieme con quelli dei leader locali, devono continuare in vista di portare frutto nella vita degli iracheni. Esprimo il mio apprezzamento per tutti coloro che sostengono gli sforzi volti ad approfondire la fiducia e a ricostruire le istituzioni e le infrastrutture essenziali al benessere di quella società. Ancora una volta, chiedo con insistenza ai diplomatici ed alla comunità internazionale da essi rappresentata, come anche ai leader politici e religiosi locali, di compiere tutto ciò che è possibile per assicurare all’antica comunità cristiana di quella nobile terra il fondamentale diritto di pacifica coesistenza con i propri concittadini.
Distinti amici, confido che i sentimenti da me espressi oggi ci lascino con una rinnovata speranza per il futuro. L’amore e il dovere davanti all’Onnipotente non si manifestano soltanto nel culto ma anche nell’amore e nella preoccupazione per i bambini e i giovani – le vostre famiglie – e per tutti i cittadini della Giordania. È per loro che faticate e sono loro che vi motivano a porre al cuore delle istituzioni, delle leggi e delle funzioni della società il bene di ogni persona umana. Possa la ragione, nobilitata e resa umile dalla grandezza della verità di Dio, continuare a plasmare le vita e le istituzioni di questa Nazione, così che le famiglie possano fiorire e tutti possano vivere in pace, contribuendo e al tempo stesso attingendo alla cultura che unifica questo grande regno!
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"Un papa che ha il coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza"
di Ghazi Bin Muhammad Bin Talal
"Pax Vobis". In occasione di questa storica visita alla moschea Re Hussein Bin Talal, qui ad Amman, le porgo, Santità, papa Benedetto XVI, il benvenuto in quattro modi.
Innanzitutto come musulmano. Le porgo il benvenuto oggi, Santità, perché so che questa visita è gesto deliberato di buona volontà e di rispetto reciproco da parte del supremo capo spirituale e pontefice della più ampia denominazione della più grande religione del mondo verso la seconda più grande religione del mondo. Infatti, cristiani e musulmani sono il 55 per cento della popolazione mondiale e, dunque, è particolarmente significativo il fatto che questa sia solo la terza volta nella storia che un papa visita una moschea. La prima visita è stata compiuta nel 2001 dal suo amatissimo predecessore papa Giovanni Paolo II, presso un monumento della storia, la storica moschea Umayyade di Damasco, che contiene le reliquie di san Giovanni Battista. La seconda visita l'ha svolta lei, Santità, presso la magnifica Moschea Blu di Istanbul nel 2006.
La bella moschea Re Hussein di Amman è la moschea di Stato della Giordania ed è stata costruita e personalmente supervisionata dal grande re Hussein di Giordania. Che Dio abbia misericordia della sua anima! Quindi, è la prima volta nella storia che un papa visita questa nuova moschea. In questa visita vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo, e anche la prova visibile della sua volontà, Santità, di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito.
Questo gesto è ancor più degno di nota perché questa sua visita in Giordania è in primo luogo un pellegrinaggio spirituale alla Terra Santa cristiana, e in particolare al sito del battesimo di Gesù Cristo per mano di Giovanni Battista a Betania, sull'altra sponda del fiume Giordano (Giovanni 1, 28 e 3, 26).
Tuttavia, lei, Santità, ha dedicato del tempo, nel suo programma intenso e faticoso, stancante per un uomo di qualunque età, per compiere questa visita alla moschea Re Hussein e onorare così i musulmani.
Devo anche ringraziarla, Santità, per il rincrescimento che ha espresso dopo il discorso di Ratisbona del 13 settembre 2006, per il danno causato ai musulmani. Di certo, i musulmani sanno che nulla di ciò che si può dire o fare in questo mondo può danneggiare il Profeta, che è, come hanno attestato le sue ultime parole, in Paradiso con il più alto compagno, Dio stesso.
Ciononostante i musulmani si sono offesi per l'amore che provano per il profeta, che è, come Dio dice nel Sacro Corano, più vicino ai credenti di essi stessi. Quindi, i musulmani hanno anche particolarmente apprezzato il chiarimento del Vaticano secondo il quale quanto detto a Ratisbona non rifletteva la sua opinione, Santità, ma era semplicemente una citazione in una lezione accademica.
È quasi superfluo dire che, fra l'altro, il profeta Maometto – che i musulmani amano, emulano e conoscono come realtà viva e presenza spirituale – è completamente e interamente differente da come lo si descrive storicamente in Occidente, a partire da san Giovanni Damasceno. Questi ritratti distorti, fatti da chi non conosce né la lingua araba, né il Sacro Corano oppure non comprende i contesti storici e culturali della vita del Profeta e quindi fraintende e interpreta male i motivi e le intenzioni spirituali che sottendono molte sue azioni e parole, sono purtroppo responsabili di tanta tensione storica e culturale fra cristiani e musulmani.
È dunque urgente che i musulmani illustrino l'esempio del profeta, soprattutto, con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà, ricordando che il Profeta stesso aveva una natura elevata. Infatti, nel Corano Dio afferma: "Veramente avete nel messaggero di Dio un esempio di comportamento, per chiunque spera in Dio e nell'ultimo giorno".
Infine, devo ringraziarla, Santità, per i numerosi suoi altri gesti di amicizia e di cordialità verso i musulmani, fin dalla sua elezione nel 2005, incluse le udienze concesse nel 2005 a Sua Maestà il re Abdullah II Bin Al-Hussein di Giordania e nel 2008 a Sua Maestà il re Abdullah Bin Ad-Al-Haziz dell'Arabia Saudita, il custode dei due luoghi sacri. La ringrazio anche per l'affettuosa ricezione della storica "parola comune fra noi e voi", la lettera aperta del 13 ottobre 2007 da parte di 138 esimi studiosi musulmani di tutto il mondo, il cui numero continua ad aumentare. È stato proprio come risultato di quell'iniziativa, che basandosi sul Sacro Corano e sulla Sacra Bibbia ha riconosciuto il primato dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo sia nel cristianesimo sia nell'islam, che il Vaticano sotto la sua guida personale, Santità, ha svolto il primo seminario del forum internazionale cattolico-musulmano, dal 4 al 6 novembre 2008.
Fra poco verificheremo con il competente cardinale Tauran l'opera avviata da quell'incontro, ma per ora desidero citare e ripetere le sue parole, Santità, tratte dal suo discorso in occasione della chiusura di quel primo seminario: "Il tema che avete scelto per l'incontro – amore di Dio e amore del prossimo: la dignità della persona umana e il rispetto reciproco – è particolarmente significativo. È stato tratto dalla lettera aperta, che presenta l'amore di Dio e l'amore del prossimo come centro sia dell'Islam sia del Cristianesimo. Questo tema evidenzia in maniera ancora più chiara le fondamenta teologiche e spirituali di un insegnamento centrale delle nostre rispettive religioni. [...] Sono ben consapevole che musulmani e cristiani hanno approcci diversi nelle questioni riguardanti Dio. Tuttavia, possiamo e dobbiamo essere adoratori dell'unico Dio che ci ha creato e che si preoccupa di ogni persona in ogni parte del mondo. [...] Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune".
Ora, non posso non ricordare le parole di Dio nel Sacro Corano: "Non sono tutti uguali". Alcune persone delle Scritture formano una comunità giusta, recitano i versetti la notte, prostrandosi. Credono in Dio e nell'ultimo giorno, amano la decenza e proibiscono l'indecenza, competono gli uni con gli altri per compiere opere buone. Questi sono i giusti, e qualunque azione buona compiano, non verrà loro negata perché Dio conosce chi ha timore di Lui. E ricordo anche le seguenti parole di Dio: "E voi troverete, e voi in verità troverete, che i più vicini a quelli che credono sono quelli che dicono: veramente noi siamo cristiani. Questo poiché alcuni di loro sono preti e monaci".
Poi le porgo il benvenuto, Santità, come hashemita e discendente del profeta Maometto. Inoltre, le porgo il benvenuto in questa moschea in Giordania, ricordando che il profeta accolse i suoi vicini cristiani di Nejran a Medina e li invitò a pregare nella propria moschea, cosa che fecero in armonia, senza compromettere gli uni il credo religioso degli altri. Anche questa è una lezione di inestimabile valore che il mondo deve ricordare assolutamente.
Le porgo inoltre il benvenuto come arabo e diretto discendente di Ishmael Ali-Salaam, dal quale, secondo la Bibbia, Dio avrebbe fatto scaturire una grande nazione, rimanendogli accanto (Genesi 21, 18-20).
Una delle virtù cardinali degli arabi, che tradizionalmente sono sopravvissuti in alcuni dei climi più caldi e inospitali del mondo, è l'ospitalità. L'ospitalità scaturisce dalla generosità, riconosce le necessità degli altri, considera quanti sono lontani o vengono da lontano come amici e di fatto questa virtù è confermata da Dio nel Sacro Corano con le parole: "E adorate Dio e associate l'uomo a lui, siate buoni con il padre, la madre, con i parenti, gli orfani, i poveri, i vostri vicini imparentati e quelli estranei, gli amici di ogni giorno e i viaggiatori".
Ospitalità araba non significa soltanto amare, dare e aiutare, ma anche essere generosi di spirito e quindi saper apprezzare. Nel 2000, durante la visita del compianto papa Giovanni Paolo II in Giordania, lavoravo con le tribù giordane e alcuni membri dissero di apprezzare veramente il papa. Interrogati sul perché piacesse loro visto che lui era un cristiano mentre loro erano musulmani, risposero sorridendo: "Perché ci ha fatto visita". Di certo Giovanni Paolo II come lei stesso, Santo Padre, avreste potuto immediatamente andare in Palestina e in Israele, ma invece avete scelto di cominciare il pellegrinaggio con una visita a noi, in Giordania, cosa che noi apprezziamo.
Infine, le porgo il benvenuto come giordano. In Giordania, tutti sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dall'origine o dal genere, e chi lavora nel governo deve fare tutto il possibile per tutelare tutti nel paese, con compassione e giustizia. È stato questo l'esempio personale e il messaggio del compianto re Hussein, che nel corso del suo regno durato 47 anni provò per tutti nel paese ciò che provava per i propri figli. È anche il messaggio di suo figlio, Sua Maestà il re Abdullah II, che ha scelto come singolare obiettivo del suo regno e della sua vita quello di rendere la vita di ogni abitante della Giordania, e di fatto di ogni persona del mondo che può raggiungere, decorosa, degna e felice, per quanto può con le scarse risorse della Giordania.
Oggi, i cristiani in Giordania hanno diritto all'8 per cento dei seggi in parlamento e a quote simili a ogni livello di governo e società, sebbene in realtà il loro numero sia inferiore a quello previsto. I cristiani, oltre ad avere leggi relative al proprio status e corti ecclesiali, godono della tutela dello Stato sui loro luoghi sacri, sulle loro scuole. Lei, Santità, ha già potuto constatare questo di persona, presso la nuova università cattolica di Madaba. A Dio piacendo presto vedrà sorgere la nuova cattedrale cattolica e la nuova chiesa melchita sul sito del battesimo.
Quindi, oggi, in Giordania, i cristiani prosperano, come del resto hanno fatto negli ultimi duecento anni, in pace e armonia, con buona volontà e relazioni autenticamente fraterne fra loro e con i musulmani. Questo avviene, in parte, perché i cristiani in precedenza erano in percentuale più numerosi rispetto a oggi. Con il calo demografico fra i cristiani e i più elevati livelli di istruzione e di prosperità che li hanno portati a essere molto richiesti in Occidente, il loro numero è diminuito. Ciò avviene anche perchè i musulmani apprezzano il fatto che i cristiani erano già qui 600 anni prima di loro. Infatti, i cristiani giordani formano forse la più antica comunità cristiana del mondo, e per la maggior parte sono sempre stati ortodossi, aderenti al patriarcato ortodosso di Gerusalemme in Terra Santa, che, come lei, Santità, sa meglio di me, è la Chiesa di san Giacomo, fondata durante la vita di Gesù.
Molti di loro discendono da antiche tribù arabe e, nel corso della storia, hanno condiviso la sorte e le lotte dei musulmani. Infatti, nel 630, durante la vita del Profeta, entrarono a far parte del suo esercito, condotto dal figlio adottivo e da suo cugino, e combatterono contro l'esercito bizantino degli ortodossi nella battaglia di Mechtar. È da questa battaglia che presero il loro nome tribale che significa "i rinforzi" e lo stesso patriarca latino Fouad Twal discende da queste tribù.
Poi, nel 1099, durante la caduta di Gerusalemme, furono massacrati dai crociati cattolici accanto ai loro commilitoni. In seguito, dal 1916 al 1918, durante la grande rivolta araba, combatterono contro i musulmani turchi, accanto ai loro amici musulmani, sotto mandato coloniale protestante, e nelle guerre arabo-israeliane del 1948, del 1967 e del 1972 combatterono con i musulmani arabi contro gli ebrei.
I giordani cristiani non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno anche contribuito instancabilmente e patriotticamente alla sua edificazione, svolgendo ruoli importanti nei campi dell'educazione, della sanità, del commercio, del turismo, dell'agricoltura, della scienza, della cultura e in molti altri settori. Tutto questo per dire che mentre Lei, Santità, li considera suoi compagni cristiani, noi li consideriamo nostri compagni giordani e fanno parte di questa terra come la terra stessa. Spero che questo spirito unitario giordano di armonia interreligiosa, benevolenza e rispetto reciproco, sarà da esempio a tutto il mondo e che Lei, Santità, lo porti in luoghi come Mindanao e alcune parti dell'Africa sub-sahariana, in cui le minoranze musulmane subiscono forti pressioni da parte di maggioranze cristiane, e anche in altri luoghi dove accade l'opposto.
Oggi, proprio come la ho accolta in quattro modi, la ricevo in quattro modi, Santità.
La ricevo come leader spirituale, supremo pontefice e successore di Pietro per l'1,1 miliardi di cattolici che vivono accanto ai musulmani ovunque, e che saluto, ricevendola.
La ricevo come papa Benedetto XVI, il cui pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento, e che è anche un maestro teologo cristiano, autore di encicliche storiche sulle belle virtù cardinali dell'amore e della speranza, che ha reintrodotto la tradizionale messa in latino per chi la sceglie, e ha contemporaneamente fatto del dialogo interreligioso e intrareligioso la priorità del suo pontificato, per diffondere buona volontà e comprensione fra tutte le popolazioni della terra.
La ricevo come capo di Stato, che è anche un leader mondiale e globale su questioni vitali di morale, etica, ambiente, pace, dignità umana, alleviamento della povertà e della sofferenza e persino crisi finanziaria globale.
La ricevo, infine, come un semplice pellegrino di pace che giunge con umiltà e gentilezza a pregare laddove Gesù Cristo, il Messia – la pace sia con lui! – è stato battezzato e ha cominciato la sua missione 2000 anni fa.
Quindi, benvenuto in Giordania, Santo Padre, papa Benedetto XVI! Dio dice nel Sacro Corano al profeta Maometto: "Sia gloria al tuo Signore, il Signore della potenza... E la pace sia con i messaggeri, e si renda lode a Dio, il Signore dei mondi".
Perché dire che basta la "buona fede" per salvarsi è come dire che esiste una verità al di fuori della verità - Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato. I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”. - di Roberto de Mattei
Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato.
I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”.
Né gli uni né gli altri hanno in genere la pazienza di leggere fino in fondo e con attenzione gli scritti ratzingeriani, spesso intellettualmente sofisticati e di accessibilità non immediata a chi vorrebbe tagliare con l’accetta problemi teologici complessi. Comunque il libro è qui, pubblicato dall’ottimo Davide Cantagalli, con l’unico difetto di non indicare le fonti da cui sono tratti i capitoli che lo compongono.
Proprio qualche settimana prima che uscisse il volumetto, il quindicinale antimodernista “Sì sì no no”, ha accusato Benedetto XVI di voler “conciliar l’inconciliabile”, addebitando all’allora cardinale Ratzinger l’adesione ad una nota frase del cardinale John Henry Newman, secondo cui, “io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”. Questa sentenza, secondo “Sì sì no no”, rivelerebbe un “soggettivismo filosofico-teologico”, che è il “motivo conduttore” di tutto il pensiero ratzingeriano dai primi anni di seminario (1946) sino ad oggi (2009), confermato dal recente libro di Gianni Valente, “Ratzinger professore” (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008) sulla formazione intellettuale di Benedetto XVI.
Il libro di Valente, interessante per ricostruire l’atmosfera culturale del cattolicesimo soprattutto tedesco prima del Vaticano II, prova semmai l’esistenza di un’evoluzione nel pensiero di Joseph Ratzinger, dagli anni in cui il teologo Michael Schmaus, correlatore della sua tesi, ne criticava il soggettivismo, a quelli del celebre “Rapporto sulla fede” (1985).
Tutti sanno che il giovane Ratzinger svolse un ruolo di punta come perito teologico del cardinale Joseph Frings nel Concilio Vaticano II; ma è altrettanto noto che di fronte alla “aggressione della realtà” postconciliare, egli svolse e continua a svolgere una serrata critica, dall’interno, al progressismo cattolico avanzante. Fin dalle prime pagine del nuovo libro, Benedetto XVI-Ratzinger spiega che la coscienza non può essere separata dalla verità, in cui trova la sua misura e il suo fondamento. Il concetto di verità ci offre, a suo avviso, la chiave per spiegare il significato del brindisi del cardinale Newman, che non voleva affermare il primato della soggettività dell’individuo sull’oggettività del Magistero, ma al contrario sottolineare l’esistenza di un’armonia tra i due poli della coscienza e dell’autorità.
Il termine medio è proprio la verità, che prima di essere annunciata dalla chiesa, è impressa nella nostra coscienza, perché ci viene data con la stessa natura umana. La coscienza non si radica sull’io, ma sull’oggettività dell’essere. “In definitiva, il linguaggio dell’essere, il linguaggio della natura, è identico al linguaggio della coscienza” (p.163).
Benedetto XVI, accusato di “liberalismo” e di “soggettivismo”, critica esplicitamente “l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca” (p. 110). “La coscienza non si può identificare con l’auto-coscienza dell’io, un muro di bronzo contro cui persino il Magistero non può fare a meno di infrangersi” (p. 146). Svincolata dal suo rapporto costitutivo con la verità e con l’ordine morale, la coscienza viene a essere nient’altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell’agire (p. 42). Voler conciliare coscienza e legge morale, non significa voler “conciliare l’inconciliabile”.
Alla fine degli anni Sessanta, in piena crisi post conciliare, il padre Cornelio Fabro dedicò un approfondito saggio a “Il valore permanente della morale” (raccolto in “L’avventura della teologia progressista”, Rusconi, Milano 1974) contro i moralisti protestanti e cattolici che teorizzavano la “morale della situazione”. Quel saggio, attualissimo, andrebbe riletto accanto al libro di Benedetto XVI. L’autore vi dimostrava l’esistenza di due aspetti della morale: una dimensione soggettiva, che ha la sua radice nella libertà, e una dimensione oggettiva che ha la sua radice nella norma, ossia nella legge divina e naturale. Non si può amputare la morale di nessuna delle due dimensioni, né della libertà, né della legge, se non la si vuole vanificare.
La libertà e la norma, osservava Fabro, non sono dei momenti dialettici, ma costitutivi l’uno dell’altro. Anche la coscienza, spiegava a sua volta il padre Ramon Garcia de Haro, è una norma della moralità, ma mentre la legge costituisce una norma fondante, la coscienza è una norma fondata: essa ha nella legge oggettiva e universale il suo fondamento. (La vita cristiana, Ares, Milano 1995, p. 402). “E’ sempre più evidente che la malattia propria del mondo moderno è la mancanza di moralità”, ovvero la perdita della legge naturale, osserva Benedetto XVI (p. 139).
La negazione della legge naturale è l’esito di un processo intellettuale che risale alla filosofia del diritto illuminista e, più indietro, al giusnaturalismo di Ugo Grozio e al nominalismo di Guglielmo da Ockham. Nel Novecento il principale tentativo di fondare il diritto sulla ragione umana è stato quello di Hans Kelsen. Secondo il giurista austriaco, la validità dell’ordinamento giuridico si fonda sulla pura “efficacia” delle norme, cioè sul loro potere di fatto.
Quando Pilato pone a Gesù la domanda: “Che cosa è la verità?” (Gv, 18, 38), non attende una risposta, ma si rivolge immediatamente alla folla, sottoponendo la decisione del caso controverso al giudizio del popolo. Kelsen è dell’opinione che egli abbia agito da perfetto democratico e si spinge ad affermare che il relativismo di Pilato dovrebbe essere la regola assoluta della democrazia. Il filosofo del diritto Richard Rorty è oggi il più noto esponente della visione kelseniana della democrazia secondo cui l’unico parametro della politica e del diritto è l’opinione della maggioranza dei cittadini. La maggioranza ha sempre ragione e la sua volontà deve essere imposta a ogni costo, senza alcun riguardo per l’esistenza di un diritto e di una verità
Dove sbagliano Mancuso e Bianchi
Dal saggio del cardinale Ratzinger, la concezione di Kelsen-Rorty esce frantumata. Una volta dissolto il fondamento universale di un ordine di valori, è facile dimostrare la fragilità e la precarietà di diritti che si pretende costruire sulla pura creazione razionale della norma.
“Laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, lì è la forza che è divenuta il criterio del diritto” (p. 40). Ciò è lampante nel caso in cui, in nome della maggioranza si nega il fondamentale diritto alla vita di chi non ha neanche la possibilità di fare ascoltare la sua voce. Alla “dittatura del relativismo”, Benedetto XVI Ratzinger oppone la concezione metafisica e cristiana secondo cui “al di sopra del potere dell’uomo sta la verità: essa deve essere il limite e il criterio di ogni potere” (p. 85).
Per questa concezione, “la verità non è un ‘prodotto’ della politica (cioè della maggioranza), bensì ha un primato su quest’ultima e dunque la illumina: non è la prassi a ‘creare’ la verità, ma è la verità che rende possibile un’autentica prassi” (p. 54). Ci si potrebbe domandare in che cosa consista questa legge naturale e morale che l’autore considera assoluta e vera. La risposta va cercata in un’analogia tra la logica e la morale. Se esistono principi indimostrabili, che si impongono per la loro evidenza all’intelligenza, a cominciare dal principio di identità e di non contraddizione che ne costituisce il cardine, esistono anche principi morali che si impongono con evidenza alla coscienza, senza bisogno di dimostrazione. Il primo principio evidente all’uomo è che bisogna fare il bene ed evitare il male.
Il giudizio non riguarda il bene e il male in astratto, ma i singoli atti umani. La coscienza è in questo senso la valutazione morale del nostro agire concreto.
Essa presuppone la verità e indica alla volontà il cammino che deve percorrere. Non è possibile un’ignoranza incolpevole dei primi principi della legge morale, afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica (I, q. 79, a. 12 ad 3) e ripete ora Benedetto XVI. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. “Ma nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere” (pp.29-30). Il richiamo alla coscienza, insomma, non può giustificare qualsiasi scelta dell’uomo, a cominciare dalla scelta religiosa.
Esiste un ampio ventaglio di teologi, talvolta in discussione tra loro, come Enzo Bianchi e Vito Mancuso, colleghi al San Raffaele di Milano, che rifiutano l’assioma dell’extra ecclesiam nulla salus. Eppure, come non avrebbe senso affermare l’esistenza di una verità fuori della verità, ancor meno senso ha la pretesa di una possibilità di salvezza al di fuori di quella società di salvezza che è la chiesa.
A meno che non si volesse negare alla chiesa il suo fine specifico, che è quello, assegnatole dal suo Fondatore, di redimere gli uomini dal peccato e condurli alla salvezza eterna. I cattolici che rifiutano l’assioma extra ecclesiam nulla salus sono convinti che la “buona fede” salva.
Ma allora, assomigliano a quel teologo, conosciuto dal giovane professor Ratzinger, secondo cui persino i membri delle SS naziste sarebbero in Paradiso perché portarono a compimento le loro atrocità con assoluta certezza di coscienza (p. 10).
Fu in seguito a queste parole che il futuro Pontefice maturò la convinzione che dovesse essere falsa la teoria della coscienza soggettiva. Questa riflessione lo portò a sviluppare il suo pensiero e il volume che ora appare, elogio della verità, più che della coscienza, illustra bene il suo percorso intellettuale.
Il Foglio del 05/05/2009
Il viaggio del Papa in Israele - Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
Riceviamo e pubblichiamo con intensa gratitudine e partecipazione questo intervento del nostro amico Guido Guastalla, Assessore alla cultura - Comunità ebraica Livorno
E’ inutile rimarcare l’importanza del viaggio di Benedetto XVI in Israele e in Medio Oriente: è sicuramente il viaggio più importante e impegnativo di questo come di tutti i pontefici della cristianità cattolica.
Paolo VI si recò a Gerusalemme ma in quello che allora era territorio giordano.
Quando Giovanni Paolo II arrivò in Israele tutto il paese rimase col fiato sospeso, e quando si presentò, fragile e tremolante, ma forte di una volontà incrollabile di chiudere duemila anni di odii, incomprensioni, persecuzioni e chiusure, al Kotel (il Muro occidentale o del pianto), il luogo più sacro per l’ebraismo e per ogni ebreo, un silenzio surreale e una commozione straziante si sparse in tutto Israele e il soffio biblico di un vento leggero attraversò tutto il paese.
C’è una sola medicina per guarire l’uomo e liberarlo dall’odio: l’amore. Giovanni Paolo II la usò con grande generosità e coraggio. I rapporti fra ebrei e cristiani non sarebbero più stati come prima.
Benedetto XVI non potrà ripetere lo stesso gesto e ottenere lo stesso risultato, ma potrà fare molto di più: aiutare il trialogo fra ebrei, cristiani, musulmani.
Il suo viaggio è iniziato col piede giusto. L’incontro col Re di Giordania, il paese musulmano più tollerante e aperto al dialogo, ha già ottenuto un risultato ampiamente positivo, e indica quello che il Rabbino Jacob Neusner, americano e amico del Papa ha definito, in un recente discorso (5 maggio, Università di Miami) come il trialogo fra Ebraismo, Cristianesimo e Islam: il dialogo ebraico-cristiano, dice Neusner, iniziato poco più di un secolo fa deve trasformarsi in un rapporto che includa anche l’Islam.
Che questo Papa (non è un caso che sia stato allievo di Romano Guardini) annetta grande e decisiva importanza al dialogo ebraico-cristiano non è una novità: è stupefacente rilevare quante volte Benedetto XVI abbia parlato di questo rapporto nei suoi primi quattro anni di pontificato. Ma non possiamo dimenticare gli autorevoli interventi precedenti. Fra tutti voglio ricordare la prefazione del 2001 al documento finale della Pontificia commissione biblica (Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana). Nel riaffermare che “…un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento… avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune”, Benedetto XVI conclude: “Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione della coscienza cristiana”.
Mi capitò tempo fa di intervenire con Giorgio Israel a difesa delle posizioni ripetutamente assunte da questo papa, anche precedentemente all’assunzione al soglio pontificio, a favore e per lo sviluppo del dialogo interreligioso. Vedo che gli avversari di allora hanno riconosciuto che non c’erano intenti di chiusura o peggio ancora di ripresa di vecchi stereotipi antigiudaici nelle iniziative del Papa.
Tutto il Rabbinato israeliano riceverà con grani onori Benedetto XVI che, riprendendo il discorso del rabbino Neusner parla ad Amman di dialogo trilaterale fra le tre religioni.
Certamente i temi religiosi si intrecciano con quel diplomatici, politici, economici: di grande evidenza e preoccupazione sono soprattutto le difficoltà che incontrano i cristiani di Oriente a rimanere nei luoghi in cui vivono da sempre. Ma senza un rapporto dialogico di profondo rispetto, pur nelle differenze sostanziali, e di amore fra tutti gli uomini di buona volontà, anche la pace fra i popoli e le nazioni sarà impossibile. Ecco quello che ci attendiamo da questo viaggio di Benedetto XVI.
Cattolici ed ebrei uniti per la pace in Terra Santa - Autore: Colosso, Gian Carlo - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
Tutte le persone di buona volontà pregano con fervore affinché quest’ultima speranza si realizzi. Tuttavia, senza dubbio, la sua visita renderà, nel tempo, di fatto più intenso il processo storico di riconciliazione tra cattolici ed ebrei, e non solo perché il Papa dimostrerà buona volontà ai circa sei milioni di ebrei che risiedono oggi in Terra Santa. Benedetto XVI ricalcherà le orme del suo grande predecessore, sia letteralmente sia figurativamente. Giovanni Paolo II, l’eroe della riconciliazione fra cattolici ed ebrei nei nostri tempi, comprese appieno che la visita di un Papa in Israele rivestiva in sé un significato speciale per la riconciliazione fra ebrei e cristiani. Già nella sua Lettera apostolica Redemptionis anno, pubblicata il 20 aprile 1984, Venerdì Santo, Giovanni Paolo II parlò della “terra che chiamiamo santa” riferendosi al significato che Gerusalemme ha per cristiani, musulmani ed ebrei. Per quanto riguarda questi ultimi scrisse: “per gli ebrei essa è oggetto di vivo amore e di perenne richiamo, ricca di numerose impronte e memorie, fin dal tempo di David che la scelse come capitale e di Salomone che vi edificò il tempio. Da allora essi guardano, si può dire, ogni giorno ad essa e la indicano come simbolo della loro nazione”. Queste frasi penetranti riflettono la comprensione di Giovanni Paolo II non solo del significato storico, ma anche di quello religioso ed esistenziale della terra di Israele per il popolo ebraico. Gli ebrei “guardano” e tre volte al giorno si piegano in preghiera verso Israele, se sono in diaspora; verso Gerusalemme, se si trovano in Israele. Se sono a Gerusalemme si rivolgono al Monte del Tempio, il luogo che l’Onnipotente ha scelto “per stabilirvi il suo nome” (Deuteronomio, 12, 5-11).
Il legame religioso fra la Terra Santa e la Città Santa è una parte integrante e ineliminabile del calendario religioso e della celebrazione liturgica ebraici. Ciò riflette semplicemente che il mandato biblico di essere “un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Esodo, 19, 6) esige che le persone vivano questo paradigma idealmente “come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro” (Deuteronomio, 11, 21; cfr. Esodo, 6, 4-8). Infatti, tutto il racconto biblico è indissolubilmente legato alla terra. L’esilio da essa è visto non solo come un’umiliazione, ma anche come una “profanazione del nome divino”. Di conseguenza, il ritorno alla terra non è considerato solo come elemento essenziale della missione universale di Israele, ma anche come la santificazione del nome divino stesso (Ezechiele, 36, 23). Questa centralità della città e della terra nella coscienza ebraica ha portato a una notevole di auto - identificazione con esse, che si riflette in particolare nei profeti e specialmente nel libro di Isaia, in cui la popolazione è spesso descritta come “figlia di Sion” e persino come “Sion” stessa. Il passaggio nella liturgia del mattino del Sabbah “Abbi misericordia di Sion perché essa è la dimora della nostra vita” riflette questa identificazione. Le osservazioni di Giovanni Paolo II nella Redemptionis Anno rispecchiano quest’idea, secondo cui per gli ebrei Gerusalemme e la Terra Santa non sono solo il punto focale storico, ma anche il “segno” della loro identità. Purtroppo, per la maggior parte della tragica storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei, questo vincolo religioso ed esistenziale fra il popolo d’Israele e la Terra promessa è stato visto dalla cristianità come qualcosa di obsoleto, ormai privo di legittimità e validità. Di fatto l’idea stessa del ritorno del popolo ebraico in quella terra e del ripristino lì della sovranità è stata considerata spesso un anatema. Lo storico documento del concilio Vaticano II Nostra Aetate ha respinto l’idea che il popolo ebraico sia stato rifiutato da Dio e ha affermato che l’alleanza divina con il popolo d’Israele è eterna. Tuttavia, allo stesso tempo, la Santa Sede non ha riconosciuto il ritorno di una vita ebraica indipendente nel ripristinato Stato di Israele e il popolo ebraico (e credo anche il mondo cattolico) ha percepito che la Chiesa aveva ancora un “problema” con la sovranità ebraica in Terra Santa e a Gerusalemme. È interessante quanto raccontato dall’arcivescovo Loris Capovilla, che fu segretario di Giovanni XXIII. Il Pontefice, una volta affrontato il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico - cosa avvenuta nella Nostra Aetate - avrebbe voluto riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele. Il Papa, però, non visse tanto da assistere alla promulgazione della Nostra Aetate stessa ed eventi di carattere principalmente politico causarono un ritardo di altri ventotto anni nella normalizzazione di questi rapporti bilaterali. Il documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo, intitolato Note sul modo corretto di presentare gli ebrei e l’ebraismo nella predicazione e nel catechismo della Chiesa cattolica romana, basato sulla Nostra Aetate, ha definito la persistenza di Israele “un fatto storico e un segno da interpretare nell’ambito del disegno di Dio”. Il documento afferma che “la storia d’Israele non è terminata nel 70 a.d., è proseguita, in particolare in numerose comunità della diaspora che hanno permesso a Israele di recare al mondo intero una testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all’unico Dio e di “esaltarlo alla presenza di tutti i viventi” (Tobit, 13, 4), mantenendo al contempo il ricordo della terra dei loro predecessori al centro della propria speranza (ossia Passover Seder)”. Il documento aggiunge che “i cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le proprie radici nella tradizione biblica”. Di conseguenza, la promessa della terra è un aspetto essenziale di questa alleanza sempre valida, cosicché si riconosce che il rapporto fra il popolo ebraico e la terra d’Israele ha origine “nella tradizione biblica”. Quindi è presentato come un aspetto della fede cristiana da esporre come tale nell’insegnamento e nella predicazione cattolici. Come ha affermato Eugene Fisher, allora responsabile per i rapporti fra cattolici ed ebrei nella Conferenza episcopale degli Stati Uniti, “l’importanza teologica e, di fatto, dottrinale di quest’affermazione non va dunque sottovalutata”. Trascorsero altri otto anni prima che il riconoscimento si concretizzasse. Soprattutto grazie alla guida e all’impegno di Giovanni Paolo II, alla fine del 1993, la firma dell’Accordo fondamentale favorì pieni rapporti fra la Santa Sede e lo Stato d’Israele. Questo, a sua volta, rese possibile nell’anno 2000 lo storico pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa, che ebbe un enorme impatto. Uno degli aspetti caratteristici del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l’abilità di trasmettere su vasta scala messaggi che fino a quel momento erano stati presenti soltanto negli insegnamenti e nei documenti del magistero. Lo ha fatto soprattutto comprendendo e utilizzando il potere del messaggio visivo. È stato il caso della sua visita alla Sinagoga di Roma nel 1986 ed ancora di più della sua visita in Israele. La maggior parte degli ebrei israeliani e, in particolare, dei più osservanti e tradizionalisti, non ha mai conosciuto un cristiano moderno. Queste persone, quando viaggiano all’estero, incontrano i non ebrei solo come tali, raramente come cristiani. Quindi traggono l’immagine prevalente che hanno del cristianesimo da un passato tragico e negativo. La visita papale in Israele ha aperto loro gli occhi di fronte a questa realtà nuova. Non solo la Chiesa non è stata più considerata ostile al popolo ebraico, ma il suo capo è stato visto come un amico sincero! Su un ampio settore della società israeliana ha avuto un impatto profondo vedere il Papa allo Yad Vashem, memoriale della Shoah, in lacrime di solidarietà con il dolore degli ebrei; apprendere in che modo egli stesso aveva contribuito a salvare ebrei in quel tempo terribile e poi come sacerdote aveva restituito i bambini ebrei protetti in case cristiane alle proprie famiglie ebree; vedere il Papa lasciare presso il Muro Occidentale, in rispettosa riverenza per la tradizione ebraica, il testo della preghiera che aveva composto per la giornata penitenziale celebrata il 12 marzo nella basilica di San Pietro, in cui implorava il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli. Non da ultimo, anche se è stata descritta come pellegrinaggio, quella del Papa è stata pur sempre una visita di stato, con il relativo cerimoniale, e ha affermato il rispetto della Santa Sede per l’espressione contemporanea dell’indipendenza e dell’integrità ebraiche che sono legate indissolubilmente all’identità ebraica in tutto il mondo. La visita di Giovanni Paolo II ha anche ottenuto un altro importante risultato, quando, durante l’incontro con il Rabbino Capo e il Consiglio del Gran Rabbinato d’Israele, il Papa ha proposto l’istituzione di una speciale Commissione bilaterale per il dialogo fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato, che a tempo debito è stata creata e svolge incontri annuali, alternativamente a Roma e a Gerusalemme. Negli ultimi otto anni, l’opera della Commissione presieduta dal rabbino capo Shera Yashuv Cohen e dal cardinale Jorge María Mejía ha condotto molte persone dell’ambiente rabbinico israeliano a un apprezzamento autentico della guida e dell’insegnamento dei cattolici e all’amicizia con essi. Questa Commissione coinvolge persone che fanno da cassa di risonanza e influenzano le percezioni e gli atteggiamenti di molte altre. Le immagini che lentamente giungono alla società israeliana grazie a questo incontro e a questa collaborazione sono molto importanti per la promozione del processo educativo volto a un maggior rispetto e a una maggiore comprensione reciproci. È stato grazie a questa Commissione, ricevuta da Benedetto XVI il 12 marzo, che si sono riaffermati i vincoli speciali della fede cattolica con il popolo ebraico e si è reiterato l’impegno profondo della Santa Sede nel continuare a promuovere il rapporto fra cattolici ed ebrei. Visitando Israele ed esprimendo il rispetto della Santa Sede per lo Stato ebraico, rafforzando l’impatto della visita pionieristica del suo predecessore, senza dubbio Benedetto XVI farà progredire ulteriormente il processo storico di riconciliazione fra ebrei e cattolici. Preghiamo affinché la sua visita possa anche promuovere l’altro obiettivo, prefissato dal Papa, della promozione della pace e della riconciliazione fra le popolazioni e le fedi in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente.
IL CASO BERLUSCONI, L’ABISSO DEL NULLA E LA CAREZZA DEL NAZARENO… 09.05.2009 – Antonio Socci
A volte per Berlusconi certe esagerate difese dei suoi “tifosi” sono quasi peggio degli attacchi dei nemici. Per non fare nomi, Carlo Rossella ha dichiarato al “Giornale” che la sinistra non può criticare la vita privata del premier perché così fan tutti, anche a sinistra, e non ha trovato di meglio che evocare vari esponenti comunisti e infine addirittura “le vergini offerte in omaggio a Mao Tse-Tung”. Mi pare che citare le perversioni di un regime come quello comunista cinese e del suo sanguinario tiranno, rappresenti una “difesa” del Cavaliere quasi peggiore dei roghi allestiti da Santoro. Il guaio in Italia è che tutto diventa un referendum prò o contro Berlusconi, qualunque sia il problema di cui si parla. Cosicché restano in scena solo le due fazioni e si perde di vista la realtà. Quello che non si vuole vedere oggi, per esempio, è che tutta la nostra società, tutta la nostra cultura e la mentalità dominante hanno un rapporto compulsivo col sesso e quindi con la realtà. Siamo tutti agitati e tristi, oscillanti tra l’euforia assatanata e la depressione, divoratori congestionati sempre insoddisfatti, frenetici consumatori di cose e di immagini, di televisione e di ideologie, di moralismi farisaici e di “occasioni” che ci facciano sentire vivi, di eccitanti (mentali o chimici), di successo, di soldi, smaniosi di “apparire” per accorgerci di esistere (sia i ragazzini di Maria de Filippi che le star della tv con il loro Ego arroventato).
Più proclamano che esiste solo “l’io e le sue voglie” e che ogni desiderio deve diventare diritto garantito per legge, più siamo terrorizzati dall’invecchiamento, dalla malattia e dalla prospettiva della morte. Morte che non è un evento del futuro, ma che sconti vivendo, ogni giorno, nella decadenza del tuo corpo e nella fragilità della tua psiche: nella tragicità della condizione umana. Non c’è destra e sinistra qui. L’anima di tutti s’impiglia in questa solitudine e in questi rovi della foresta oscura. Così siamo tutti moralisti immorali. I giudizi sugli altri sono farisaici, ipocriti perché così fan tutti, ma le giustificazioni del tipo “così fan tutti” sono maleodoranti e malvestite. Eludono il problema. E’ comodo essere corrivi. Della condizione umana non sappiamo più parlare. Della nostra condizioni di moderni.
E’ stato detto in questa tempesta: “come una persona che non sta bene”. Nessuno di noi sta bene. Pochissimi stanno bene con se stessi e sono pieni di pace e di gioia. Sono persone speciali di cui i mass media in genere non si occupano.
Ma fra questi pochi ci sono anche personaggi conosciuti: padri e maestri così sono stati per esempio, per la nostra generazione, don Luigi Giussani, Karol Wojtyla (come pure Joseph Ratzinger) o un monaco come don Divo Barsotti. Ho fra le mani un libro su di lui, “Sull’orlo di un duplice abisso”. Leggo questo suo pensiero che spiega perché ci aggrappiamo furiosamente alle cose, perché ci avventiamo disperatamente sulla carne del mondo: “Nel buddismo l’uomo che si appoggia alle cose è paragonato a un uomo che precipita giù per un precipizio che sprofonda nel mare, trova un ciuffo d’erba e ci si attacca: sotto c’è l’abisso, sopra non può più salire. Ma attaccato a questo ciuffo d’erba c’è un topo che rosicchia le radici dell’erba: vi immaginate il terrore dell’uomo che sta per precipitare giù in questo abisso? Ecco” proseguiva don Barsotti “l’uomo vive questo. Noi cerchiamo di dimenticarlo ma viviamo questo, perché c’è la morte e, nella morte, questo abisso che è come il nulla. Invece, ecco Dio: Lui ti porta sulle sue ali. C’è l’abisso – sì, anche quando c’è Dio c’è l’abisso – ma tu sei portato sulle ali dell’aquila… Ecco la vita dell’anima: si vola sopra gli abissi e si va verso Dio, come l’aquila va verso il sole”.
Tutta la nostra vita (a cominciare dai nostri peccati) grida questo desiderio del Sole, questo bisogno di significato che ci sottragga all’abisso del nulla. Siamo mendicanti del senso dell’esistenza e dell’amore, cioè abbiamo una sete inestinguibile di Dio. Oggi sui media dilaga un freudismo da quattro soldi secondo cui Dio sarebbe una sublimazione del sesso. Ma l’evidenza della realtà dice esattamente l’opposto. Il sesso, il potere e il possesso: sono loro i surrogati a cui chiediamo di farci dimenticare la morte e tutti i suoi preavvisi, come l’invecchiamento. E’ l’ossessione del sesso e del possesso che ci serve a esorcizzare il nostro limite, la nostra paura, la nostra incertezza di esistere, il nostro inappagato desiderio di essere amati, voluti, la nostra sete di felicità. Cioè la nostra fame di Dio.
La prova è che quei surrogati non ci bastano mai. Anzi, siamo sempre più scontenti e agitati. Il vero desiderio che ci abita, fin dentro a tutte le nostre fibre, l’unico bisogno assoluto che abbiamo e che è inestirpabile e inestinguibile è Dio, perché noi siamo fatti per l’infinito, per una felicità senza limiti e tutto ci lascia insoddisfatti. Diceva sant’Agostino, che era stato un gran peccatore carnale: “O Signore, ci hai creai per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”.
Ma figuratevi se i giornali si accorgono di questa attesa del cuore umano e di padri che ci aiutano a capirla, come don Barsotti. “Tutto cospira a tacere di noi” (Rilke). I divi delle vanità mediatiche sono gli Enzo Bianchi, non coloro che insegnano a gustare, nel silenzio delle colline sopra Firenze, l’abisso sulle ali di Dio e che ti fanno incontrare la carezza del Nazareno.
Eppure è di questa che abbiamo bisogno, tutti. Ecco, auguro a tutti noi, a Berlusconi e alla sua signora Veronica, a me e a te, amico che leggi, a Santoro e a Rossella, soprattutto a ogni essere umano che fatica nella solitudine delle nostre città, ai miei figli e a tutti i ragazzi e le ragazze (belle e meno belle), questa grande fortuna, la più grande che può capitare nella vita: sperimentare la carezza del Nazareno. Che abbia ancora pietà di noi. Che faccia riposare i nostri cuori smarriti al calore, alla bontà del suo sguardo.
“Egli” dice la grande poesia del salmo “ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge./ Ti coprirà con le sue penne/ sotto le sue ali troverai rifugio./ La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;/ non temerai i terrori della notte/ né la freccia che vola di giorno,/ la peste che vaga nelle tenebre,/ lo sterminio che devasta a mezzogiorno./…Egli darà ordine ai suoi angeli/ di custodirti in tutti i tuoi passi./ Sulle loro mani ti porteranno/ perché non inciampi nella pietra il tuo piede./ Camminerai su aspidi e vipere,/ schiaccerai leoni e draghi”.
Antonio Socci
Da “Libero” 9 maggio 2009
In Giordania il Papa delinea terreni di incontro con musulmani ed ebrei - Religione e ragione al servizio del bene comune – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
Non è la religione all'origine della divisione nel mondo, ma la sua "manipolazione ideologica, talvolta a scopi politici". Il Papa lo denuncia chiaramente durante l'incontro di sabato mattina, 9 maggio, all'esterno della moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman, invitando tutti i credenti a "essere fedeli ai loro principi" per dare pubblica "testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono". Benedetto XVI si rivolge in particolare a cristiani e musulmani: li esorta a liberarsi dal peso delle incomprensioni che hanno segnato secoli di "storia comune" e a riconoscere "la comune origine e dignità di ogni persona umana". Ma ricorda anche "l'inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo". E manifesta - durante il pellegrinaggio sul monte Nebo col quale si apre la seconda giornata della sua visita in Terra Santa - "il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio della pace". Nelle parole del Pontefice si delinea così quel "dialogo trilaterale" tra le grandi religione monoteiste evocato venerdì mattina durante la conferenza stampa in volo verso Amman. Un dialogo - aveva puntualizzato il Papa - che "deve andare avanti", perché "è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione". Benedetto XVI loda perciò gli sforzi del regno hascemita per far sì che "il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura", dando "un contributo positivo e creativo" a settori cruciali della vita civile, culturale, sociale. E chiama cristiani e musulmani a promuovere "una maggiore conoscenza reciproca" e "un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente". Solo andando all'"essenziale del rapporto fra Dio e il suo mondo", infatti, è possibile rispondere alla sfida di "coltivare il vasto potenziale della ragione" per il bene dell'intera umanità. Così il Papa rilancia il discorso a lui caro della possibilità di un incontro fecondo tra fede e ragione. In realtà - assicura - la prima non indebolisce ma purifica la seconda; anzi, le consente di "resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti". In questo modo "la ragione umana viene rinvigorita nell'impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l'umanità". E gli orizzonti della comprensione si allargano, permettendo alla libertà di esprimersi in sintonia con la verità. Tutto ciò richiede speranza e, al tempo stesso, prudenza. Cristiani e musulmani - dice Benedetto XVI - devono impegnarsi a "oltrepassare gli interessi particolari" per "servire il bene comune, anche a spese personali". Il Pontefice rimette sul tappeto la questione dei diritti umani fondamentali e avverte, in particolare, che il diritto alla libertà religiosa va oltre la questione del culto e include anche quello di un "equo accesso al mercato dell'impiego e alle altre sfere della vita civile". Di questi temi il Papa aveva fatto cenno anche nel precedente incontro all'università del Patriarcato latino a Madaba, sottolineando in particolare che "la fede in Dio non sopprime la ricerca della verità, al contrario l'incoraggia" e rafforza "la fiducia nel dono della libertà". Benedetto XVI aveva messo in guardia contro la tentazione di sfigurare la religione, mettendola al servizio di ignoranza, pregiudizi, violenza o abusi. E aveva sottolineato la centralità della "sapienza religiosa ed etica" nella formazione dei giovani. In questo senso - aveva affermato - le università devono garantire la "giusta formazione professionale e morale" per dare una solida base ai "costruttori di una società giusta e pacifica, composta di genti di varia estrazione religiosa ed etnica". Al termine della mattinata il pensiero del Papa va agli abitanti del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza proprio in Giordania. L'appello alla pace e alla riconciliazione si unisce, nelle sue parole, alla richiesta del "fondamentale diritto alla pacifica convivenza" per i cristiani. Nel Paese vanno rimesse in piedi istituzioni e infrastrutture - ricorda - ma soprattutto va ricostruita la fiducia delle persone per il bene della società irachena.
(©L'Osservatore Romano - 10 maggio 2009)
La prima antologia italiana della teologia di Joseph Ratzinger - Una rivelazione che precede la lettera e la storia - di Silvia Guidi – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
Un "tifo da stadio", per citare una battuta di uno degli ospiti, in una sala gremita di pubblico, riluttante ad andarsene anche dopo che l'ultimo relatore ha terminato da tempo il suo intervento; termini e toni inconsueti per la presentazione di un libro di teologia, anche se si tratta della prima antologia in italiano del pensiero di Benedetto XVI. Erano davvero tante le persone che il 7 maggio scorso nel Centro internazionale di Comunione e Liberazione di Roma hanno ascoltato il cardinale Camillo Ruini, il vaticanista Sandro Magister, i giornalisti Giuliano Ferrara e Roberto Fontolan parlare del volume curato da Umberto Casale (Torino, edizioni Lindau, 2009, pagine 816, euro 29); "al titolo Fede, ragione, verità e amore bisognerebbe aggiungere anche libertà", ha suggerito l'ex presidente della Cei, visto che è proprio la libertà "all'origine del successo storico della missione cristiana". Difficile, quasi impossibile compendiare in un solo libro gli scritti teologici elaborati dall'attuale Papa nell'arco di più di 50 anni; Ruini ha promosso a pieni voti il volume ma ha indicato anche possibili percorsi alternativi, segnalando testi che avrebbero meritato di essere inclusi nell'antologia (come la celebre discussione col filosofo Jürgen Habermas, o la premessa al Gesù di Nazaret) e auspicando che l'opera omnia abbia un apparato di indici che manca finora nella vasta bibliografia dell'autore. "Tutta la teologia di Joseph Ratzinger può caratterizzarsi come la risposta alla grande sfida posta oggi alla verità e alla vivibilità del cristianesimo" - ha continuato Ruini -, "una risposta che contesta la tendenza a ridurre la figura di Gesù a un'evanescente sommatoria di ipotesi storiografiche". L'opera è articolata in due parti: cinque sezioni dedicate ai principali soggetti della vasta produzione di Ratzinger teologo e una scelta dei testi composti dopo l'elezione al soglio pontificio; sarebbe stato utile, ha notato Sandro Magister ponendo una questione di metodo, indicare non soltanto le raccolte di saggi da cui sono tratti i testi, ma anche quando e in che occasione sono stati composti, per contestualizzare meglio le opere riportate in antologia. Significativa l'attenzione ai sacramenti e alla vita liturgica della Chiesa; non a caso, nota Magister, la pubblicazione dell'opera omnia di Benedetto XVI è iniziata non con il primo, ma con l'undicesimo volume, quello dedicato alla liturgia, teologia "in atto" in cui il tempo dell'uomo entra nell'"oggi" perenne di Dio. L'ennesima occasione per ribadire il tema, caro al Pontefice, che la Rivelazione è sempre più grande di quanto possa essere espresso nelle parole umane, e precede Scrittura e tradizione, in quanto le ha generate. A "L'Osservatore Romano" Giuliano Ferrara - che si definisce "un tifoso da curva sud del pensiero del professor Ratzinger" - dice di aver ascoltato "con attenzione e con una punta di devozione" gli interventi dei relatori e apprezzare nel libro una "curatela attenta, mai incline a brutalizzare il testo". "Per un superficiale come me, esterno al perimetro della comunità credente - continua Ferrara - è un'avventura intellettuale affascinante, letta comunque alla luce di un dramma. Lo stesso autore vive il dramma, ma senza farsene schiacciare; lo dimostrano i suoi sforzi per contrastare l'inerzia liturgica e la cattiva interpretazione del pluralismo all'interno della Chiesa, e anche il bisogno cinquecentesco di battersi dialetticamente per il corretto inverarsi della Parola nella vita che probabilmente ha respirato nel suo paese di origine, la Baviera, paese di frontiera nel dibattito teologico con il protestantesimo. L'attuale Pontefice è un inno alla gioia vivente - anche se preferisce Mozart a Beethoven - un maestro di divinità e umanità, ma anche un uomo che a trent'anni era già perito al Vaticano secondo (allora non si dormiva come adesso fino a quarant'anni!) e negli anni successivi avrebbe visto lo slancio profetico e il profondo desiderio di fecondità spirituale del concilio arenarsi nel relativismo e nell'indifferentismo morale". "Una deriva dalle conseguenze drammatiche" insiste Ferrara "che nasce dall'equivoco intorno al concetto di coscienza, in cui ogni uomo è un'isola e detta legge a se stesso, rifiutando il mistero della propria origine e della propria fine". Il direttore de Il Foglio continua citando Immanuel Kant e Divo Barsotti, lo spettro dell'eugenetica e dell'eutanasia, "pietra tombale sulla speranza", innescando un vivace dibattito che non si conclude con la fine della conferenza, ma continua in mezzo al pubblico in sala (tra cui il cardinale Julián Herranz presidente della Commissione Disciplinare della Curia romana e presidente emerito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, gli ambasciatori Antonio Zanardi Landi e Francis Campbell, Guzmán Carriquiry, sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici, l'onorevole Paola Binetti) sull'influenza della vulgata di Freud - spesso frainteso e quasi sempre banalizzato - sulla mentalità contemporanea, un pensiero debole programmaticamente ma violento di fatto che interpreta ogni regola o legge oggettiva come una indebita ingerenza del Super io nella libertà del singolo o si lascia ingannare dalla dittatura di desideri "provvisori" che pretendono diritto di cittadinanza e imprimatur giuridico definitivo.
(©L'Osservatore Romano - 10 maggio 2009)
Lo «Star Trek» di J. J. Abrams torna all'antefatto della saga - Come ha fatto Kirk a diventare capitano - di Luca Pellegrini – L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009
Facendo capolino in una libreria antiquaria o in una preziosa biblioteca, l'appassionato e lo studioso sanno bene l'emozione e la meraviglia che è possibile provare quando gli occhi si posano sulle antiche relazioni dei viaggi di esplorazione, sui diari di bordo delle navigazioni intorno al mondo che nel XVI secolo hanno cambiato il volto della geografia, del commercio e della società. Vi sono documenti di viaggio - ed è un piacere leggerli - altrettanto famosi delle grandi opere letterarie: il Mundus Novus di Amerigo Vespucci, Pigafetta che ricorda le scoperte di Magellano, la straordinaria impresa editoriale di Gian Battista Ramusio. Risalendo i secoli fino al nostro, lo scaffale si riempie delle memorie scritte da tanti intrepidi avventurieri o intraprendenti scienziati partiti alla scoperta dei nuovi continenti, dei "passaggi" a settentrione e dei due Poli. Oggi che queste avventure sono esaurite e il loro fascino depositato, appunto, nelle preziose pagine; oggi che ogni angolo del nostro pianeta ha esaurito il suo mistero e gli astronauti sono sbarcati sulla luna e fanno la spola con le stazioni orbitanti nello spazio; oggi che Google Earth ha portato a tutti sullo schermo di casa l'immagine dell'angolo di terra preferito, il fascino e il sapore dell'"ultima frontiera" non è andato perduto. Lo dobbiamo, soprattutto, alla fantasia di Gene Roddenberry e al "diario di bordo" più famoso del cinema, quello dettato con data astrale al computer della più amata e invincibile nave spaziale a memoria d'uomo, la U.S.S. Enterprise, nome che ricorda le tante caravelle del passato ed è stato imposto, a furor di popolo, al prototipo dello Space Shuttle della Nasa. Che fascino insuperabile mantiene ancora l'epopea di Star Trek! È la serie più applaudita e longeva della storia, la prima a strutturare in episodi televisivi la fantascienza, a portare il senso dell'ignoto e dell'avventura spaziale nelle case di milioni di americani e di appassionati nel mondo: iniziata l'8 settembre del 1966 (due anni prima dell'Odissea nello Spazio di Kubrick), proseguita con settantanove episodi fino al 1969, risorta a più intervalli generando ben quattro nuove serie (The Next Generation, Deep Space Nine, The Voyager, Enterprise) e una animata, ha oltrepassato il Nuovo Millennio, toccando il 2005. Il grande schermo ha cavalcato, naturalmente, questo successo planetario: dal 1979 dieci film (il primo, e fino a oggi il migliore, con la regia di Robert Wise), molto alterni nei risultati, nei successi e negli incassi. Certo la grande famiglia dei "treccker" non ha mai abbandonato, in oltre quarant'anni di vita, il capitano James T. Kirk, nervi d'acciaio e coraggio da vendere, il signor Spock, vulcaniano di ferro quasi privo di emozioni con le inconfondibili orecchie a punta e tutti gli ufficiali e sottufficiali in servizio sull'Enterprise, fiore all'occhiello della flotta interstellare della Federazione Unita dei Pianeti: Scotty, McCoy, Sulu, Chekov, Uhura. Da notare i loro nomi: su quella nave sono rappresentate tutte le etnie (il bianco americano, l'orientale dagli occhi a mandorla, il pallido russo europeo e la longilinea africana di colore). Ciò che ha fatto, fin dall'inizio, la fortuna di Star Trek è stato, infatti, non solo l'inconfondibile, duraturo ottimismo, ma la sua ibridazione interrazziale. Soltanto un regista come il newyorkese J. J. Abrams - che di talento, a soli quarantadue anni, ne ha parecchio - poteva prendersi il rischio di girare l'undicesimo film e portarlo alle vette del successo e della visibilità, ritornando all'origine dell'Enterprise, agli anni giovanili del suo equipaggio, ai suoi "eroici furori". Facciamo conoscenza con i ragazzi e le ragazze, perfetti ed efficienti nelle loro tute colorate diventate, già quarant'anni fa, un fenomeno di moda, e finalmente ci viene svelato perché si sono conosciuti, come partecipano al primo dei loro viaggi stellari, sfrecciando oltre la velocità della luce con la "propulsione a curvatura" (copiata poi da Star Wars). Anche questa volta fanno abbondante uso del teletrasporto, visitando pianeti più o meno pericolosi ed entrando in contatto con civiltà buone e cattive, le prime da aiutare e le seconde da redimere, prima che da combattere. Produttore e scrittore di tre intriganti serie televisive di incondizionato successo - Alias, Lost e Fringe - e regista del terzo capitolo di Mission Impossible, Abrams ha preso in mano un soggetto cinematografico che, parlando del futuro, sembrava non averne più e lo ha trasformato in un film rocambolesco, ambizioso, godibilissimo. Rimanendo, anche nel nuovo, fedele all'originale. "La mia è una storia ottimistica - afferma il regista americano - come lo era la prima serie televisiva. Fa riferimento ad alcune paure classiche che troviamo nei racconti di fantascienza, ma tutto il film è segnato da un profondo senso di speranza, connesso alla visione di quale potrebbe essere il nostro futuro". Dopo molti guai e molte paure, il giovane Kirk, orfano di padre, scavezzacollo e strafottente, capirà il valore e il senso del bene comune e la responsabilità che lo deve sostenere. Spock, dal canto suo, interpretato da Zachary Quinto - suscita, inevitabilmente, l'applauso dei fan in sala il cammeo di Leonard Nimoy, il primo a dar volto al vulcaniano - orfano di madre, dovrà scendere a compromessi che stridono con la sua cultura ferrea e superiore, con la sua glaciale logica "vulcaniana", facendosi "contaminare" dall'amore, dal sentimento e dalla lealtà. Chris Pine, volto sconosciuto, perfetto per interpretare Kirk, coglie assai bene lo spirito del suo personaggio: "Da giovane è un ragazzo arrabbiato, arrogante, fragile, che cerca di mascherare un'incredibile insicurezza e paura. Non è sicuro se vuole rimanere all'ombra della memoria del padre, che lo schiaccia. La parte interessante del suo viaggio è proprio quella di imparare come imbrigliare tutte le emozioni che nascono da questo suo conflitto, passando dall'essere un giovane scriteriato alla maturità di un capitano concentrato e responsabile. Non è un supereroe, ma un uomo che affronta fin da giovane tremende sfide". Se volessimo parlare di fantascienza edificante, Star Trek di Abrams potrebbe dirsi un singolare, avvincente gioiello del genere.
(©L'Osservatore Romano - 10 maggio 2009)
A cosa serve l’Europa - Mario Mauro - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una singolare e insieme drammatica circostanza somma, nel nostro Paese, nella data del 9 maggio il ricordo della dichiarazione Schuman che dà inizio al percorso dell'integrazione europea e la commemorazione delle vittime del terrorismo. Forse questa misteriosa coincidenza schiude la possibilità di leggere questa data sotto una luce diversa.
L'approccio ideologico alla realtà, infatti, che ha prodotto l'orrore dei totalitarismi che hanno vergato nel sangue la storia del Novecento riverbera ulteriormente nella stagione dolorosa che ha piegato le speranze, la ragione e le ragioni di tanti nella generazione cui appartengo. E antidoto alle ideologie è essenzialmente e profeticamente quel progetto politico che chiamiamo Europa Unita. Il potere è tutto e l'uomo non è niente: questo il mesto ritornello di coloro che per decenni hanno preteso assicurarsi l'egemonia su una generazione prendendo in ostaggio il nome del popolo.
Oggi nuove ideologie di matrice fondamentalista scelgono il nome di Dio come pretesto per il loro progetto, ma la logica non è mutata: il potere è tutto l'uomo non è niente. Alla stazione di Atocha, a Madrid, i terroristi ci hanno sfidato scrivendo: vinceremo noi perché amiamo la morte più di quanto voi teniate alla vita.
A cosa teniamo dunque? A cosa tiene l'Europa, qual è il cuore del progetto che chiamiamo Europa Unita? Vorrei dirlo con semplicità e con forza insieme: la persona prima di tutto. Come deve essere, infatti, un sistema educativo, un sistema sanitario, o della produzione per dare risposta fino in fondo a ciò che caratterizza il cuore di ognuno di noi? Il nostro desiderio di verità di giustizia di bellezza?
La persona prima di tutto è in questo senso l'imperativo da riproporre a tutti: accantonate le ideologie, infatti, ciò che balza all'occhio è che ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide. Questo giorno di memoria dunque ci restituisce il compito comune di contribuire a realizzare istituzioni garanti e non padrone della vita dei propri cittadini, in cui la passione per ognuno dei nostri ragazzi valga da salvacondotto per il rilancio dei nostri ideali.
TERRA SANTA/ Sbai: io, musulmana, ringrazio il Papa per il suo esempio - Souad Sbai - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La visita del Santo Padre in Giordania arriva in un momento delicato in cui il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha dato segnali di apertura verso la risoluzione della crisi mediorientale, ma ha detto al tempo stesso un fermo no al terrorismo.
Da moderata non posso che rallegrarmi delle parole di Benedetto XVI, parole di pace e di comprensione, di apertura e di dialogo. Parole di un fine teologo che ha messo al centro del proprio mandato i diritti inalienabili dell'uomo, la solidarietà, la misericordia, la sacralità della vita.
Nelle sue prime dichiarazioni il Papa ha sottolineato l'importanza del dialogo tra le grandi religioni monoteiste ammonendo contro l'estremismo e una certa strumentalizzazione della religione. Ricordando che "viene sfigurata quando viene costretta a servire l'ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l'abuso".
Ma quello che mi sembra significativo sottolineare è il suo appello allo spirito, alla forza spirituale in grado di unire tutti gli uomini in un futuro comune di pace, appello lanciato dal monte Nebo, dove si schiudono le porte della Terrasanta, dove Mosé vide la Terra promessa. Un luogo altamente simbolico, una cerniera proiettata verso il futuro. Una grande via di comunicazione, la prima e la più importante.
Le parole del Papa fanno appello alla bontà dell'essere umano, contro ogni forma di sopruso e di violenza: plaudo alle sue posizioni contro la temibile avanzata di quell'estremismo figlio di un nichilismo ipocrita che vuole annientare ogni forma di comprensione e ogni progetto di convivenza.
Ecco perché oggi ribadisco il mio fermo no al terrore, alla violenza, all'estremismo, alla prepotenza dell'uomo sull'uomo. Dico no a chi sventola la testa delle donne come una bandiera politica, no all'imposizione di un velo che non ha nulla a che vedere con la dottrina islamica, no al nazi-fascismo islamico che vede il mondo come un territorio di conquista da segregare entro griglie semantiche. La violenza che prende i precetti religiosi come proprio fondamento è incompatibile con ogni forma di dialogo perché si appella a un primato ontologico assoluto.
Si parla tanto di scontro di civiltà, ma spesso non ci si accorge che si tratta di una cartina di tornasole: la battaglia vera, forte, in atto, è quella tra moderati musulmani ed estremisti musulmani, cruciale per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'uomo che oggi sono messi in discussione.
Non capisco quelli che vanno a braccetto con personaggi come Karzai o Ahmadinejad: temo di dovere affermare che il dialogo con i talebani sia una partita persa in partenza, perché non esiste peggior sordo di chi non vuol sentire. Ma se qualcuno di quei signori vuole dimostrarci il contrario, saremo contenti di ascoltarlo, com’è nostra abitudine fare con chi è disposto a sedersi per ascoltare e parlare civilmente.
Credo che le parole del Papa abbiano dato un segnale forte di impegno in nome della fratellanza, un segnale che si appella al Dio da cui tutti veniamo. Un padre grande e misericordioso che ama i suoi figli indistintamente. E’ questo il messaggio più importante di Benedetto XVI in un momento in cui il mondo intero è scosso da eventi luttuosi, guerre, povertà, tensioni sociali. Un messaggio che dà speranza e invita ad agire per il bene comune. Un messaggio che noi moderati accogliamo con gioia e che ci sprona a lavorare più intensamente.
Il prossimo Meeting annuale di Comunione e Liberazione in programma a Rimini verterà sul dialogo tra le culture: io ci sarò per celebrare l’alba di una nuova stagione di comprensione. Sono sicura che si tratta di un’ottima occasione per porre le basi per una riflessione pacata e ponderata su come rafforzare in seno al mondo arabo il pensiero di noi moderati, ormai stufi di essere presi di mira, attaccati, derisi o, peggio ancora, ignorati da un nichilismo sovversivo e violento che non dovrebbe avere alcun margine in un mondo civile.
Ha ragione Aamin Malouf quando dice che “la violenza ha dimostrato che non può risolvere nessun problema”. E’ necessario sedersi assieme per trovare una soluzione definitiva alla questione mediorientale. E, riprendendo le sue parole, “in questo contesto diventa essenziale il ruolo di un'autorità morale che crei punti di riconciliazione”.
DIARIO DA L’AQUILA/ Storia di Stefania, la mamma di Onna - Redazione - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Un fine settimana denso di Fede quello che si sta per concludere. Testimonianze forti, vite toccate che hanno trovato in Dio una risposta a tanto dolore. A Onna, luogo ormai simbolo della martoriata terra sconvolta dal terremoto, ieri si è svolta la tradizionale festa della protettrice, la Madonna delle Grazie. Tanta gente, nonostante la tradizionale “discesa” della statua dalla nicchia in cui era custodita, fino in mezzo alla gente.
Non c’è stata la processione per le strade le paese, ma c’era tanta gente a pregare in un pellegrinaggio tra le tende. Non solo abitanti del luogo ma anche i famigliari dei vigili del fuoco, di tanti volontari, che hanno voluto vivere questo momento di preghiera insieme al vescovo. La statua era stata salvata nei giorni dopo il terremoto dalle macerie della chiest. Era rimasta intatta. Tanta gente anche sabato, quando è stato recitato il rosario e alla successiva veglia di preghiera.
Un paese che dopo il silenzio accanto ai morti, ai rumori in mezzo alle macerie, all’improvviso si è risvegliato. A Onna un cuore fatto con le pietre, e su ogni pietra il nome di una delle quaranta persone che hanno perso la vita la notte del 6 aprile. Un cuore che rappresenta quello della gente, che ha chiesto aiuto, che ha ricevuto aiuto, ma che per capire cosa è veramente successo si è rivolta alla Madonna.
E grazie a Dio lo ha detto anche Stefania. A Onna è viva grazie a un’intuizione. Stefania, 39 anni, è viva insieme al marito Vincenzo, un falegname e ai due figli, Gloria e Stefano, di appena sette mesi. La sua casa non c’è più, distrutta, i suoi vicini sono morti sotto le macerie. «Grazie a Dio sono viva», racconta lei. «Ho pensato a Stefano e a Gloria dopo quello che è successo e ho detto mio Dio ti ringrazio».
Sono vivi perché usciti di casa per paura. «Dopo la prima scossa ho avuto paura e abbiamo deciso di uscire, andando in una rimessa degli attrezzi accanto casa. Avevo la sensazione che se ci fosse stata un’altra scossa saremmo tutti morti. Il nostro vicino ci ha invitato a salire da lui per superare la paura. Siamo rimasti lì. Rodolfo, il nostro vicino oggi non c’è più. Dopo la scossa forte mi sono ritrovata in giardino. Ho guardato i miei figli e ho ringraziato Dio».
Adesso è la mamma di Onna. Il suo bambino piccolo è per tutti il futuro, da cui ripartire, per costruire una nuova comunità. Ieri la famiglia era unita, davanti all’arcivescovo nel tendone dove è stata celebrata la messa. Dietro le autorità insieme alla gente del paese. Non un momento di dolore, un momento di fede, di ringraziamento per quello che è accaduto.
(Fabio Capolla – Giornalista de Il Tempo)
FILOSOFIA/ Esplorare la realtà: Michael Polanyi e il senso dell’esistenza umana - Carlo Vinti - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Michael Polanyi, (Budapest 1891 - Oxford 1976), prima chimico di professione con risultati importanti nel campo specifico delle sue ricerche al Kaiser Wilhelm Institut di Berlino e alla Victoria University di Manchester, poi – sempre a Manchester e al Merton College di Oxford - sociologo della scienza ed epistemologo, è stato uno dei più incisivi esponenti della “nuova filosofia della scienza”, quel movimento di pensiero che, nella seconda metà del secolo scorso, ha contribuito a cambiare l’immagine tradizionale del sapere scientifico. Chi non ricorda l’idea nuova della scienza tra “paradigmi e rivoluzioni” consegnataci da Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, o quella provocatoria di una scienza metodologicamente “anarchica” presentata da Paul Feyerabend in Contro il metodo?
L’OPERA
Sebbene l’opera maggiore di Polanyi, La conoscenza personale del 1958, sia stata da tempo tradotta nella nostra lingua (Rusconi, Milano 1990), così come le altre sue opere più significative (Scienza, fede e società del 1946, 19642, Armando, Roma 2007; La logica della libertà, del 1951, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002; Studio dell’uomo del 1959, Morcelliana, Brescia, 1973; La conoscenza inespressa del 1966, Armando, Roma, 1979; Conoscere ed essere del 1969, Armando, Roma, 1988) il suo pensiero non ha avuto in Italia la fortuna che si merita, anche se, oggi, sempre più studenti e giovani ricercatori lo fanno oggetto di tesi di laurea e di dottorato.
La posizione teorica di Polanyi ruota attorno a due nuclei fondamentali: difesa intransigente ed appassionata della nozione di “conoscenza personale” in ambito epistemologico, e del “liberalismo moderato” in ambito politico.
LA CONOSCENZA PERSONALE
Quanto al primo punto Polanyi può venir definito come vero e proprio assertore di un’epistemologia personalista, tendente a mettere in luce come in ogni atto di conoscenza entri «un contributo appassionato della persona», il quale non costituisce un’imperfezione ma «un fattore vitale della conoscenza stessa». Ciò succede, secondo Polanyi, anche nella conoscenza scientifica, vale a dire in quel tipo di conoscenza che il senso comune e lo stesso convincimento degli addetti ai lavori - filosofi ed epistemologi - ritengono caratterizzarsi per la più rigida neutralità e impersonalità.
Una tale posizione, infatti, si pone in dichiarata ed evidente polemica con quegli ideali d’impersonalità, neutralità, universalità e oggettività propria tanto della tradizione epistemologica della modernità – da Descartes a Kant, fino al positivismo – quanto della contemporaneità – dal verificazionismo neopositivistico al falsificazionismo popperiano – e propone un nuovo modo di intendere la conoscenza scientifica. Ciò comporta, naturalmente, che la stessa nozione di persona, in questo contesto evocata, si presenti con sue caratteristiche peculiari, difficilmente assimilabili ad una qualunque nozione di persona che la tradizione filosofica, anche quella del personalismo, ci ha consegnato.
IL METODO SCIENTIFICO
Accettare, anche sul terreno della conoscenza scientifica, come ideale «una conoscenza che sia chiaramente personale», comporta porre l’accento sul fatto che tale conoscenza unisce i caratteri dell’universalità e oggettività con quelli della creatività e inventività individuali, dipende cioè contemporaneamente sia da obbligazioni verso una realtà e una verità che trascendono il singolo ricercatore, sia dall’“impegno” intellettuale del ricercatore stesso, dalle sue convinzioni, dalle sue decisioni, insomma dalla sua “responsabilità personale”.
Polanyi è pienamente consapevole che questa sua posizione può venir definita come soggettivistica. È da capire allora la sua insistenza sul fatto che per lui il concetto di “personale” «trascende la distinzione tra il soggettivo e l’oggettivo», perché il soggetto nell’esercizio della “conoscenza personale” partecipa appassionatamente con tutte le sue risorse soggettive, spirituali e corporee, ma allo stesso tempo si sottopone ad esigenze indipendenti da sé. Il “personale” implica perciò la correlazione imprescindibile, in ogni atto di conoscenza, tra una realtà e una verità indipendenti dal soggetto conoscente, inesauribili ad ogni suo tentativo di coglimento mai esaustivo e definitivo, e la formazione di un giudizio su di esse, di un giudizio appunto che reclama un atto personale di interpretazione. Si tratta di un atto che comporta un impegno, un abbandono fiducioso e responsabile, una specie di devota sottomissione e d’obbligazione verso la realtà e la verità, il quale non cancella, ma innesca e sorregge quel potere euristico, quella forza intuitiva, creativa e immaginativa, quell’“abilità (skill)”, che guida l’appassionata partecipazione del soggetto conoscente all’atto del conoscere: «È a questo potere e a questa partecipazione», ribadisce Polanyi, «che mi riferisco quando parlo della conoscenza personale».
Insomma, la conoscenza scientifica in quanto conoscenza personale è, come ogni altra esperienza umana, “un’arte”, è cioè il risultato di un insieme di fattori di cui il soggetto dispone come patrimonio implicito, una dote ricevuta dalla tradizione, dall’educazione, coltivata nella comunità, sviluppata poi con le proprie personali e originali capacità. Nel contesto polanyiano, perciò, il personale si costituisce nella complessa dialettica di passività e attività, autorità e libertà, assenso e critica, più in generale, per usare uno schema a lui caro, di dimensione tacita ed esplicita della conoscenza.
COME AGOSTINO
E perché non avvicinare questo schema a quello paolino e agostiniano della grazia, cioè della dialettica di libertà umana e iniziativa divina? Infatti, uno degli aspetti più interessanti della riflessione polanyiana è che essa, dopo i dualismi e i separatismi che hanno caratterizzato la cultura moderna e contemporanea, tende a recuperare una visione unitaria della esperienza umana già a suo tempo intravista agli albori della esperienza cristiana, dai primi Padri della chiesa e da Sant’Agostino, in modo particolare nel momenti in cui egli sottolinea l’inscindibile nesso tra fede e ragione. In un indimenticabile passo di La conoscenza personale, che costituisce una specie di epistemologia agostiniana, Polanyi giunge a definire Agostino, non l’esponente di un pensiero immaturamente pre-kantiano e pre-critico, ma come l’autentico propugnatore di un pensiero che, superando le unilateralità illuministiche già presenti nel pensiero greco, ha inaugurato l’era del pensiero post-critico. Si tratta di un pensiero non più antimetafisico e antireligioso e che, pur delineando con puntualità il posto dell’uomo nell’universo, lo mantiene nel rischio essenziale di “vivere e di credere (of living and believing)”, di vivere nel mondo, conoscerlo e trovare in esso tracce, indizi, “spunti per andare verso Dio (clues to God)”.
IL PENSIERO POLITICO
Polanyi è anche un pensatore politico. Infatti, alle tesi appena ricordate, che costituiscono appunto il nucleo di un’ epistemologia personalista, a partire da La logica della libertà del 1951 ma anche in capitoli centrali di tutte le altre opere si accompagnano interessanti elaborazioni di una dottrina politica che potremmo definire liberalismo moderato, tendente, da una parte a difendere ed esaltare la tradizione delle democrazie inglesi e americane – tradizione che ha fatto del riformismo, del gradualismo e del pluralismo i principi fondamentali dell’operare politico – e, dall’altra, ad assumere un atteggiamento assolutamente intransigente nel rivendicare lo spazio pubblico per le libertà individuali contro ogni ingerenza politica ed economica di uno statalismo centralizzato ed opprimente, come è stato quello dell’esperienza totalitaria del comunismo sovietico. È significativo ricordare come questa intransigenza abbia portato Polanyi non solo ad anticipare, pur nella distinzione teorica, autentici classici liberali come Popper e von Hayek, ma ad assumere rapporti di freddezza addirittura con suo fratello Karl, autore, come è noto, del classico del pensiero economico La grande trasformazione, Karl che era stato suo compagno di giovanili battaglie libertarie con la comune appartenenza liceale al “Galileo Circle” di Budapest.
L’UOMO NEL MONDO
laquo;Siamo esploratori», dice con bella immagine Polanyi nel tentativo di riassumere la situazione dell’uomo e il senso della sua avventura nel mondo. «Non abbiamo certezze precostituite. Nella nostra ricerca della terra promessa ma ancora sconosciuta» Polanyi era un ebreo convertitosi al cristianesimo, «disponiamo di mappe provvisorie e sempre rivedibili. Ma come per ogni esploratore autentico, per ogni Cristoforo Colombo, la terra è lì ad aspettarci, si offre anzi ai nostri sforzi investigativi. E non importa se essa, alla fine del viaggio, non è quella che immaginavamo al momento della partenza o quella che avevamo disegnato nelle nostre carte: se non riusciamo a trovare le Indie c’è pur sempre un’America da scoprire».
1) Discorso del Papa sul luogo del Battesimo di Gesù al Giordano - "La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo"
2) La seconda volta di Benedetto XVI in moschea
3) Perché dire che basta la "buona fede" per salvarsi è come dire che esiste una verità al di fuori della verità - Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato. I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”. - di Roberto de Mattei
4) Il viaggio del Papa in Israele - Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
5) Cattolici ed ebrei uniti per la pace in Terra Santa - Autore: Colosso, Gian Carlo - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
6) IL CASO BERLUSCONI, L’ABISSO DEL NULLA E LA CAREZZA DEL NAZARENO… 09.05.2009 – Antonio Socci
7) In Giordania il Papa delinea terreni di incontro con musulmani ed ebrei - Religione e ragione al servizio del bene comune – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
8) La prima antologia italiana della teologia di Joseph Ratzinger - Una rivelazione che precede la lettera e la storia - di Silvia Guidi – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
9) Lo «Star Trek» di J. J. Abrams torna all'antefatto della saga - Come ha fatto Kirk a diventare capitano - di Luca Pellegrini – L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009
10) A cosa serve l’Europa - Mario Mauro - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
11) TERRA SANTA/ Sbai: io, musulmana, ringrazio il Papa per il suo esempio - Souad Sbai - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
12) DIARIO DA L’AQUILA/ Storia di Stefania, la mamma di Onna - Redazione - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
13) FILOSOFIA/ Esplorare la realtà: Michael Polanyi e il senso dell’esistenza umana - Carlo Vinti - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Discorso del Papa sul luogo del Battesimo di Gesù al Giordano - "La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo"
AMMAN, domenica, 10 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica pomeriggio a Betania oltre il Giordano, nella zona in cui predicò Giovanni il Battista e che fu testimone della vita pubblica di Gesù, dopo aver benedetto le prime pietre di due chiese cattoliche, una latina e l'altra greco-melchita.
* * *
Altezze Reali,
Cari Fratelli Vescovi,
Cari Amici,
è con grande gioia spirituale che vengo a benedire le prime pietre delle due Chiese Cattoliche che saranno costruite al di là del fiume Giordano, un posto segnato da molti avvenimenti memorabili nella storia biblica. Il profeta Elia, il Tisbita, proveniva da questa area non lontano dal nord di Galaad. Qui vicino, di fronte a Gerico, le acque del Giordano si aprirono davanti ad Elia che fu portato via dal Signore in un carro di fuoco (cfr 2 Re 2,9-12). Qui lo Spirito del Signore chiamò Giovanni, figlio di Zaccaria, a predicare la conversione dei cuori. Giovanni l'Evangelista pose in questa area anche l'incontro tra il Battista e Gesù, che in occasione del battesimo venne "unto" dallo Spirito di Dio disceso come colomba, e fu proclamato amato Figlio del Padre (cfr Gv 1,28; Mc 1,9-11).
Sono onorato per essere stato ricevuto in questo importante sito dalle Loro Maestà Re Abdallah II e la Regina Rania. Esprimo nuovamente la mia sincera gratitudine per la calda ospitalità che mi hanno dimostrato durante la mia visita nel Regno Hashemita di Giordania.
Saluto con gioia Sua Beatitudine Gregorio III Laham, Patriarca di Antiochia per la Chiesa Greco-Melchita. Saluto con affetto anche Sua Beatitudine l'Arcivescovo Fouad Twal, Patriarca Latino di Gerusalemme. Estendo con calore i miei migliori saluti a Sua Beatitudine Michel Sabbah, ai Vescovi Ausiliari presenti, particolarmente all'Arcivescovo Joseph Jules Zerey e al Molto Reverendo Salim Sayegh, che ringrazio per le sue gentili parole di benvenuto. Sono lieto di salutare tutti i Vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli laici che ci accompagnano oggi. Rallegriamoci nel riconoscere che i due edifici, uno Latino, l'altro Greco-Melchita, serviranno ad edificare, ognuno secondo le tradizioni della propria comunità, l'unica famiglia di Dio.
La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo. La Chiesa poggia su Cristo, è sostenuta da Lui e non può essere da Lui separata. Egli è l'unico fondamento di ogni comunità cristiana, la pietra viva, rigettata dai costruttori ma preziosa agli occhi di Dio e da Lui scelta come pietra angolare (cfr 1 Pt 2,4-5.7). Con Lui anche noi siamo pietre vive costruite come edificio spirituale, luogo di dimora per Dio (cfr Ef 2,20-22; 1 Pt 2,5). Sant'Agostino amava riferirsi al mistero della Chiesa come al Christus totus, il Cristo intero, il pieno e completo Corpo di Cristo, Capo e membra. Questa è la realtà della Chiesa; essa è Cristo e noi, Cristo con noi. Egli è con noi come la vite è con i suoi tralci (cfr Gv 15,1-8). La Chiesa è in Cristo una comunità di vita nuova, una dinamica realtà di grazia che promana da Lui. Attraverso la Chiesa Cristo purifica i nostri cuori, illumina le nostre menti, ci unisce con il Padre e, nell'unico Spirito, ci conduce ad un quotidiano esercizio di amore cristiano. Confessiamo questa gioiosa realtà come l'Una, Santa, Cattolica e Apostolica Chiesa.
Entriamo nella Chiesa mediante il Battesimo. La memoria del battesimo stesso di Cristo è vivamente presente davanti a noi in questo luogo. Gesù si mise in fila con i peccatori ed accettò il battesimo di penitenza di Giovanni come un segno profetico della sua stessa passione, morte e resurrezione per il perdono dei peccati. Nel corso dei secoli, molti pellegrini sono venuti al Giordano per cercare la purificazione, rinnovare la loro fede e stare più vicini al Signore. Così fece la pellegrina Egeria che ha lasciato uno scritto sulla sua visita alla fine del quarto secolo. Il Sacramento del Battesimo, che trae il suo potere dalla morte e resurrezione di Cristo, sarà particolarmente tenuto in considerazione dalle comunità cristiane che si raccoglieranno nelle nuove chiese. Possa il Giordano ricordarvi sempre che siete stati lavati nelle acque del Battesimo e siete divenuti membri della famiglia di Gesù. Le vostre vite, in obbedienza alla sua parola, sono trasformate nella sua immagine e somiglianza. Sforzandovi di essere fedeli al vostro impegno battesimale di conversione, testimonianza e missione, sappiate che siete fortificati dal dono dello Spirito Santo.
Cari Fratelli e Sorelle, possa la contemplazione di questi misteri arricchirvi di gioia spirituale e coraggio morale. Con l'Apostolo Paolo, vi esorto a crescere nella intera serie di nobili atteggiamenti che vanno sotto il nome benedetto di agape, amore Cristiano ( cfr 1 Cor 13,1-13). Promuovete il dialogo e la comprensione nella società civile, specialmente quando rivendicate i vostri legittimi diritti. In Medio Oriente, segnato da tragica sofferenza, da anni di violenza e di questioni irrisolte, i Cristiani sono chiamati a offrire il loro contributo, ispirato dall'esempio di Gesù, di riconciliazione e pace con il perdono e la generosità. Continuate ad essere grati a coloro che vi guidano e vi servono fedelmente come ministri di Cristo. Fate bene ad accettare la loro guida nella fede sapendo che nel ricevere l'insegnamento apostolico che essi trasmettono, accogliete Cristo e accogliete l'Unico che l'ha inviato ( cfr Mt 10,40).
Miei cari Fratelli e Sorelle, procediamo ora a benedire queste due pietre, l'inizio di due nuovi edifici sacri. Voglia il Signore sostenere, rafforzare ed incrementare le comunità che in essi eserciteranno il loro culto. E benedica tutti voi con il suo dono di pace. Amen!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La seconda volta di Benedetto XVI in moschea
Il dialogo con l'islam ha caratterizzato la tappa giordana del pellegrinaggio in Terra Santa, lungo la strada aperta a Ratisbona. Un inedito: il testo integrale del discorso rivolto al papa dal principe musulmano Ghazi Bin Muhammad Bin Talal
di Sandro Magister
ROMA, 11 maggio 2009 – Benedetto XVI ha dedicato alla Giordania i primi tre giorni del suo viaggio in Terra Santa. Nei precedenti viaggi papali la sosta in questo regno musulmano era stata più fuggevole, e così i riferimenti all'islam. Con papa Joseph Ratzinger, invece, si è registrata questa novità. Il rapporto con l'islam è stato visibilmente al centro della prima parte del suo viaggio. E avrà ulteriore visibilità a Gerusalemme con la visita alla Cupola della Roccia, riconosciuta dai musulmani come il luogo da cui Maometto salì al cielo.
Naturalmente, l'impronta complessiva che Benedetto XVI ha dato fin dall'inizio al suo viaggio è stata quella del pellegrinaggio cristiano, attentissimo alle radici ebraiche.
In Giordania, ha cominciato salendo sul Monte Nebo e da lì, come Mosé, guardando alla Terra Promessa. Lì ha ricordato "l'inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo". E ha terminato recandosi a Betania "oltre il Giordano" nel luogo dove l'ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, battezzò Gesù.
In ogni tappa ha incontrato e rincuorato i cristiani che vivono in quella terra, piccole comunità molto minoritarie, dalla vita non facile.
Con essi ha celebrato ad Amman la prima messa pubblica del viaggio, domenica 10 maggio. Nell'omelia, ha subito ribadito loro ciò che era stato proclamato poco prima: che cioè veramente, all'infuori di Gesù, "non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati" (Atti 4, 12).
Li ha esortati a testimoniare il riconoscimento della piena dignità della donna e a "sacrificare" la propria vita nel servizio agli altri, all'opposto di "modi di pensare che giustificano lo 'stroncare' vite innocenti".
Ma è in rapporto all'islam che Benedetto XVI ha detto in Giordania le cose più argomentate, soprattutto in due momenti: quando ha benedetto la prima pietra di una nuova università cattolica a Madaba per studenti che saranno in gran parte musulmani, e quando ha visitato la moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman.
A Madaba, sabato 9 maggio, il papa ha detto tra l'altro:
"La fede in Dio non sopprime la ricerca della verità; al contrario l’incoraggia. San Paolo esortava i primi cristiani ad aprire le proprie menti a tutto 'quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode' (Filippesi 4, 8). Ovviamente la religione, come la scienza e la tecnologia, come la filosofia ed ogni espressione della nostra ricerca della verità, possono corrompersi. La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso. Qui non vediamo soltanto la perversione della religione, ma anche la corruzione della libertà umana, il restringersi e l’obnubilarsi della mente. Evidentemente, un simile risultato non è inevitabile. Senza dubbio, quando promuoviamo l’educazione proclamiamo la nostra fiducia nel dono della libertà. Il cuore umano può essere indurito da un ambiente ristretto, da interessi e da passioni. Ma ogni persona è anche chiamata alla saggezza e all’integrità, alla scelta basilare e più importante di tutte del bene sul male, della verità sulla disonestà, e può essere sostenuta in tale compito.
"La chiamata all’integrità morale viene percepita dalla persona genuinamente religiosa dato che il Dio della verità, dell’amore e della bellezza non può essere servito in alcun altro modo. La fede matura in Dio serve grandemente per guidare l’acquisizione e la giusta applicazione della conoscenza. La scienza e la tecnologia offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita di molti esseri umani. Senza dubbio questa è una delle speranze di quanti promuovono questa università, il cui motto è 'Sapientia et Scientia'. Allo stesso tempo, la scienza ha i suoi limiti. Non può dar risposta a tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza. In realtà, la persona umana, il suo posto e il suo scopo nell’universo non può essere contenuto all’interno dei confini della scienza. 'La natura intellettuale della persona umana si completa e deve completarsi per mezzo della sapienza, che attira dolcemente la mente dell’uomo a cercare ed amare le cose vere e buone' (cfr. Gaudium et spes, 15). L’uso della conoscenza scientifica abbisogna della luce orientatrice della sapienza etica. Tale sapienza ha ispirato il giuramento di Ippocrate, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la convenzione di Ginevra ed altri lodevoli codici internazionali di comportamento. Pertanto, la sapienza religiosa ed etica, rispondendo alle questioni sul senso e sul valore, giocano un ruolo centrale nella formazione professionale. Conseguentemente, quelle università dove la ricerca della verità va di pari passo con la ricerca di quanto è buono e nobile offrono un servizio indispensabile alla società".
Ma è stato ad Amman, visitando la moschea Al-Hussein Bin Talal, che Benedetto XVI è entrato più direttamente nel cuore della questione.
Il luogo e gli interlocutori erano ricchi di implicazioni. A far gli onori di casa al papa è stato il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal, 42 anni, cugino dell'attuale re di Giordania Abdullah II, a sua volta figlio del defunto re Hussein al quale è intitolata la moschea.
Il principe Ghazi è il più autorevole ispiratore della lettera aperta "Una parola comune tra noi e voi", indirizzata al papa e ai capi delle altre confessioni cristiane nell'ottobre del 2007 da 138 esponenti musulmani di numerosi paesi.
Quella lettera è stato il seguito più importante, in campo musulmano, dell'apertura di dialogo compiuta da Benedetto XVI con la sua memorabile lezione all'università di Ratisbona dell'11 settembre 2006.
Dalla lettera dei 138 ha preso origine un forum permanente di dialogo cattolico-musulmano la cui prima sessione si è svolta a Roma dal 4 al 6 novembre 2008, conclusa da un incontro col papa.
Ad Amman, sabato 9 maggio, il principe Ghazi ha prima accompagnato Benedetto XVI nella visita alla moschea – dove entrambi hanno avuto un "momento di raccoglimento" – e poi, all'esterno dell'edificio, ha rivolto a lui un ampio discorso, al quale è seguito l'intervento del papa.
Qui di seguito sono riportati i testi integrali dei due discorsi. Quello del principe Ghazi, pronunciato in inglese e fin qui inedito, è stato trascritto a cura de "L'Osservatore Romano", che però ne ha pubblicato solo un breve riassunto.
Il discorso del papa riprende temi e argomenti da lui già sviluppati in precedenti interventi, mentre più inusuale appare quello del principe Ghazi, specie in un mondo musulmano che nella sua quasi totalità è stato fin qui all'oscuro dei passi di dialogo in corso con la Chiesa cattolica.
Anche sotto questo profilo, infatti, la tappa di Benedetto XVI in Giordania ha segnato una novità. Grazie all'impatto pubblico mondiale del viaggio e allo scambio di discorsi tra il papa e il principe Ghazi, una "comune parola" di dialogo tra la Chiesa cattolica e l'islam ha raggiunto per la prima volta anche una parte dell'opinione pubblica musulmana, in una misura che non ha precedenti.
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"Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto"
di Benedetto XVI
Altezza Reale,
eccellenze,
illustri signore e signori,
è motivo per me di grande gioia incontrarvi questa mattina in questo splendido ambiente. Desidero ringraziare il principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal per le sue gentili parole di benvenuto. Le numerose iniziative di Vostra Altezza Reale per promuovere il dialogo e lo scambio interreligioso ed interculturale sono apprezzate dai cittadini del regno hashemita ed ampiamente rispettate dalla comunità internazionale. Sono al corrente che tali sforzi ricevono il sostegno attivo di altri membri della famiglia reale come pure del governo della nazione e trovano vasta risonanza nelle molte iniziative di collaborazione fra i giordani. Per tutto questo desidero manifestare la mia sincera ammirazione.
Luoghi di culto, come questa stupenda moschea di Al-Hussein Bin Talal intitolata al venerato re defunto, si innalzano come gioielli sulla superficie della terra. Dall’antico al moderno, dallo splendido all’umile, tutti rimandano al divino, all’Unico trascendente, all’Onnipotente. Ed attraverso i secoli questi santuari hanno attirato uomini e donne all’interno del loro spazio sacro per fare una pausa, per pregare e prender atto della presenza dell’Onnipotente, come pure per riconoscere che noi tutti siamo sue creature.
Per questa ragione non possiamo non essere preoccupati per il fatto che oggi, con insistenza crescente, alcuni ritengono che la religione fallisca nella sua pretesa di essere, per sua natura, costruttrice di unità e di armonia, un’espressione di comunione fra persone e con Dio. Di fatto, alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo; e per tale ragione affermano che quanto minor attenzione vien data alla religione nella sfera pubblica, tanto meglio è.
Certamente, il contrasto di tensioni e divisioni fra seguaci di differenti tradizioni religiose, purtroppo, non può essere negato. Tuttavia, non si dà anche il caso che spesso sia la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società? A fronte di tale situazione, in cui gli oppositori della religione cercano non semplicemente di tacitarne la voce ma di sostituirla con la loro, il bisogno che i credenti siano fedeli ai loro principi e alle loro credenze è sentito in modo quanto mai acuto. Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono, sempre memori della comune origine e dignità di ogni persona umana, che resta al vertice del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.
La decisione degli educatori giordani come pure dei leader religiosi e civili di far sì che il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura è degna di plauso. L’esempio di individui e comunità, insieme con la provvista di corsi e programmi, manifestano il contributo costruttivo della religione ai settori educativo, culturale, sociale e ad altri settori caritativi della vostra società civile. Ho avuto anch’io la possibilità di constatare personalmente qualcosa di questo spirito. Ieri ho potuto prender contatto con la rinomata opera educativa e di riabilitazione presso il centro Nostra Signora della Pace, dove cristiani e musulmani stanno trasformando le vite di intere famiglie, assistendole al fine di far sì che i loro figli disabili possano avere il posto che loro spetta nella società. All’inizio dell’odierna mattinata ho benedetto la prima pietra dell’università di Madaba, dove giovani musulmani e cristiani, gli uni accanto agli altri, riceveranno i benefici di un’educazione superiore, che li abiliterà a contribuire validamente allo sviluppo sociale ed economico della loro nazione.
Di gran merito sono pure le numerose iniziative di dialogo interreligioso sostenute dalla famiglia reale e dalla comunità diplomatica, talvolta intraprese in collegamento col pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Queste comprendono il continuo lavoro degli Istituti Reali per gli Studi Interreligiosi e per il Pensiero Islamico, l’Amman Message del 2004, l’Amman Interfaith Message del 2005, e la più recente lettera "Common Word", che faceva eco ad un tema simile a quello da me trattato nella mia prima enciclica: il vincolo indistruttibile fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, come pure la contraddizione fondamentale del ricorrere, nel nome di Dio, alla violenza o all’esclusione (cfr. Deus caritas est, 16).
Chiaramente queste iniziative conducono ad una maggiore conoscenza reciproca e promuovono un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente. Pertanto, esse dovrebbero indurre cristiani e musulmani a sondare ancor più profondamente l’essenziale rapporto fra Dio ed il suo mondo, così che insieme possiamo darci da fare perché la società si accordi armoniosamente con l’ordine divino. A tale riguardo, la collaborazione realizzata qui in Giordania costituisce un esempio incoraggiante e persuasivo per la regione, in realtà anzi per il mondo, del contributo positivo e creativo che la religione può e deve dare alla società civile.
Distinti amici, oggi desidero far menzione di un compito che ho indicato in diverse occasioni e che credo fermamente cristiani e musulmani possano assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società. Tale compito costituisce la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana.
I cristiani in effetti descrivono Dio, fra gli altri modi, come Ragione creatrice, che ordina e guida il mondo. E Dio ci dota della capacità a partecipare a questa Ragione e così ad agire in accordo con ciò che è bene. I musulmani adorano Dio, Creatore del cielo e della terra, che ha parlato all’umanità. E quali credenti nell’unico Dio, sappiamo che la ragione umana è in se stessa dono di Dio, e si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità di Dio.
In realtà, quando la ragione umana umilmente consente ad essere purificata dalla fede non è per nulla indebolita; anzi, è rafforzata nel resistere alla presunzione di andare oltre ai propri limiti. In tal modo, la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità, dando espressione alle nostre comuni aspirazioni più intime, ampliando, piuttosto che manipolarlo o restringerlo, il pubblico dibattito. Pertanto l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana. Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, ed arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello.
Una simile comprensione della ragione, che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza sia di prudenza. Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto. Siamo impegnati ad oltrepassare i nostri interessi particolari e ad incoraggiare gli altri, particolarmente gli amministratori e i leader sociali, a fare lo stesso al fine di assaporare la soddisfazione profonda di servire il bene comune, anche a spese personali. Ci viene ricordato che proprio perché è la nostra dignità umana che dà origine ai diritti umani universali, essi valgono ugualmente per ogni uomo e donna, senza distinzione di gruppi religiosi, sociali o etnici ai quali appartengano. Sotto tale aspetto, dobbiamo notare che il diritto di libertà religiosa va oltre la questione del culto ed include il diritto – specie per le minoranze – di equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile.
Questa mattina prima di lasciarvi, vorrei in special modo sottolineare la presenza tra noi di Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Baghdad, che io saluto molto calorosamente. La sua presenza richiama alla mente i cittadini del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato cordiale accoglienza qui in Giordania. Gli sforzi della comunità internazionale nel promuovere la pace e la riconciliazione, insieme con quelli dei leader locali, devono continuare in vista di portare frutto nella vita degli iracheni. Esprimo il mio apprezzamento per tutti coloro che sostengono gli sforzi volti ad approfondire la fiducia e a ricostruire le istituzioni e le infrastrutture essenziali al benessere di quella società. Ancora una volta, chiedo con insistenza ai diplomatici ed alla comunità internazionale da essi rappresentata, come anche ai leader politici e religiosi locali, di compiere tutto ciò che è possibile per assicurare all’antica comunità cristiana di quella nobile terra il fondamentale diritto di pacifica coesistenza con i propri concittadini.
Distinti amici, confido che i sentimenti da me espressi oggi ci lascino con una rinnovata speranza per il futuro. L’amore e il dovere davanti all’Onnipotente non si manifestano soltanto nel culto ma anche nell’amore e nella preoccupazione per i bambini e i giovani – le vostre famiglie – e per tutti i cittadini della Giordania. È per loro che faticate e sono loro che vi motivano a porre al cuore delle istituzioni, delle leggi e delle funzioni della società il bene di ogni persona umana. Possa la ragione, nobilitata e resa umile dalla grandezza della verità di Dio, continuare a plasmare le vita e le istituzioni di questa Nazione, così che le famiglie possano fiorire e tutti possano vivere in pace, contribuendo e al tempo stesso attingendo alla cultura che unifica questo grande regno!
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"Un papa che ha il coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza"
di Ghazi Bin Muhammad Bin Talal
"Pax Vobis". In occasione di questa storica visita alla moschea Re Hussein Bin Talal, qui ad Amman, le porgo, Santità, papa Benedetto XVI, il benvenuto in quattro modi.
Innanzitutto come musulmano. Le porgo il benvenuto oggi, Santità, perché so che questa visita è gesto deliberato di buona volontà e di rispetto reciproco da parte del supremo capo spirituale e pontefice della più ampia denominazione della più grande religione del mondo verso la seconda più grande religione del mondo. Infatti, cristiani e musulmani sono il 55 per cento della popolazione mondiale e, dunque, è particolarmente significativo il fatto che questa sia solo la terza volta nella storia che un papa visita una moschea. La prima visita è stata compiuta nel 2001 dal suo amatissimo predecessore papa Giovanni Paolo II, presso un monumento della storia, la storica moschea Umayyade di Damasco, che contiene le reliquie di san Giovanni Battista. La seconda visita l'ha svolta lei, Santità, presso la magnifica Moschea Blu di Istanbul nel 2006.
La bella moschea Re Hussein di Amman è la moschea di Stato della Giordania ed è stata costruita e personalmente supervisionata dal grande re Hussein di Giordania. Che Dio abbia misericordia della sua anima! Quindi, è la prima volta nella storia che un papa visita questa nuova moschea. In questa visita vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo, e anche la prova visibile della sua volontà, Santità, di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito.
Questo gesto è ancor più degno di nota perché questa sua visita in Giordania è in primo luogo un pellegrinaggio spirituale alla Terra Santa cristiana, e in particolare al sito del battesimo di Gesù Cristo per mano di Giovanni Battista a Betania, sull'altra sponda del fiume Giordano (Giovanni 1, 28 e 3, 26).
Tuttavia, lei, Santità, ha dedicato del tempo, nel suo programma intenso e faticoso, stancante per un uomo di qualunque età, per compiere questa visita alla moschea Re Hussein e onorare così i musulmani.
Devo anche ringraziarla, Santità, per il rincrescimento che ha espresso dopo il discorso di Ratisbona del 13 settembre 2006, per il danno causato ai musulmani. Di certo, i musulmani sanno che nulla di ciò che si può dire o fare in questo mondo può danneggiare il Profeta, che è, come hanno attestato le sue ultime parole, in Paradiso con il più alto compagno, Dio stesso.
Ciononostante i musulmani si sono offesi per l'amore che provano per il profeta, che è, come Dio dice nel Sacro Corano, più vicino ai credenti di essi stessi. Quindi, i musulmani hanno anche particolarmente apprezzato il chiarimento del Vaticano secondo il quale quanto detto a Ratisbona non rifletteva la sua opinione, Santità, ma era semplicemente una citazione in una lezione accademica.
È quasi superfluo dire che, fra l'altro, il profeta Maometto – che i musulmani amano, emulano e conoscono come realtà viva e presenza spirituale – è completamente e interamente differente da come lo si descrive storicamente in Occidente, a partire da san Giovanni Damasceno. Questi ritratti distorti, fatti da chi non conosce né la lingua araba, né il Sacro Corano oppure non comprende i contesti storici e culturali della vita del Profeta e quindi fraintende e interpreta male i motivi e le intenzioni spirituali che sottendono molte sue azioni e parole, sono purtroppo responsabili di tanta tensione storica e culturale fra cristiani e musulmani.
È dunque urgente che i musulmani illustrino l'esempio del profeta, soprattutto, con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà, ricordando che il Profeta stesso aveva una natura elevata. Infatti, nel Corano Dio afferma: "Veramente avete nel messaggero di Dio un esempio di comportamento, per chiunque spera in Dio e nell'ultimo giorno".
Infine, devo ringraziarla, Santità, per i numerosi suoi altri gesti di amicizia e di cordialità verso i musulmani, fin dalla sua elezione nel 2005, incluse le udienze concesse nel 2005 a Sua Maestà il re Abdullah II Bin Al-Hussein di Giordania e nel 2008 a Sua Maestà il re Abdullah Bin Ad-Al-Haziz dell'Arabia Saudita, il custode dei due luoghi sacri. La ringrazio anche per l'affettuosa ricezione della storica "parola comune fra noi e voi", la lettera aperta del 13 ottobre 2007 da parte di 138 esimi studiosi musulmani di tutto il mondo, il cui numero continua ad aumentare. È stato proprio come risultato di quell'iniziativa, che basandosi sul Sacro Corano e sulla Sacra Bibbia ha riconosciuto il primato dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo sia nel cristianesimo sia nell'islam, che il Vaticano sotto la sua guida personale, Santità, ha svolto il primo seminario del forum internazionale cattolico-musulmano, dal 4 al 6 novembre 2008.
Fra poco verificheremo con il competente cardinale Tauran l'opera avviata da quell'incontro, ma per ora desidero citare e ripetere le sue parole, Santità, tratte dal suo discorso in occasione della chiusura di quel primo seminario: "Il tema che avete scelto per l'incontro – amore di Dio e amore del prossimo: la dignità della persona umana e il rispetto reciproco – è particolarmente significativo. È stato tratto dalla lettera aperta, che presenta l'amore di Dio e l'amore del prossimo come centro sia dell'Islam sia del Cristianesimo. Questo tema evidenzia in maniera ancora più chiara le fondamenta teologiche e spirituali di un insegnamento centrale delle nostre rispettive religioni. [...] Sono ben consapevole che musulmani e cristiani hanno approcci diversi nelle questioni riguardanti Dio. Tuttavia, possiamo e dobbiamo essere adoratori dell'unico Dio che ci ha creato e che si preoccupa di ogni persona in ogni parte del mondo. [...] Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune".
Ora, non posso non ricordare le parole di Dio nel Sacro Corano: "Non sono tutti uguali". Alcune persone delle Scritture formano una comunità giusta, recitano i versetti la notte, prostrandosi. Credono in Dio e nell'ultimo giorno, amano la decenza e proibiscono l'indecenza, competono gli uni con gli altri per compiere opere buone. Questi sono i giusti, e qualunque azione buona compiano, non verrà loro negata perché Dio conosce chi ha timore di Lui. E ricordo anche le seguenti parole di Dio: "E voi troverete, e voi in verità troverete, che i più vicini a quelli che credono sono quelli che dicono: veramente noi siamo cristiani. Questo poiché alcuni di loro sono preti e monaci".
Poi le porgo il benvenuto, Santità, come hashemita e discendente del profeta Maometto. Inoltre, le porgo il benvenuto in questa moschea in Giordania, ricordando che il profeta accolse i suoi vicini cristiani di Nejran a Medina e li invitò a pregare nella propria moschea, cosa che fecero in armonia, senza compromettere gli uni il credo religioso degli altri. Anche questa è una lezione di inestimabile valore che il mondo deve ricordare assolutamente.
Le porgo inoltre il benvenuto come arabo e diretto discendente di Ishmael Ali-Salaam, dal quale, secondo la Bibbia, Dio avrebbe fatto scaturire una grande nazione, rimanendogli accanto (Genesi 21, 18-20).
Una delle virtù cardinali degli arabi, che tradizionalmente sono sopravvissuti in alcuni dei climi più caldi e inospitali del mondo, è l'ospitalità. L'ospitalità scaturisce dalla generosità, riconosce le necessità degli altri, considera quanti sono lontani o vengono da lontano come amici e di fatto questa virtù è confermata da Dio nel Sacro Corano con le parole: "E adorate Dio e associate l'uomo a lui, siate buoni con il padre, la madre, con i parenti, gli orfani, i poveri, i vostri vicini imparentati e quelli estranei, gli amici di ogni giorno e i viaggiatori".
Ospitalità araba non significa soltanto amare, dare e aiutare, ma anche essere generosi di spirito e quindi saper apprezzare. Nel 2000, durante la visita del compianto papa Giovanni Paolo II in Giordania, lavoravo con le tribù giordane e alcuni membri dissero di apprezzare veramente il papa. Interrogati sul perché piacesse loro visto che lui era un cristiano mentre loro erano musulmani, risposero sorridendo: "Perché ci ha fatto visita". Di certo Giovanni Paolo II come lei stesso, Santo Padre, avreste potuto immediatamente andare in Palestina e in Israele, ma invece avete scelto di cominciare il pellegrinaggio con una visita a noi, in Giordania, cosa che noi apprezziamo.
Infine, le porgo il benvenuto come giordano. In Giordania, tutti sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dall'origine o dal genere, e chi lavora nel governo deve fare tutto il possibile per tutelare tutti nel paese, con compassione e giustizia. È stato questo l'esempio personale e il messaggio del compianto re Hussein, che nel corso del suo regno durato 47 anni provò per tutti nel paese ciò che provava per i propri figli. È anche il messaggio di suo figlio, Sua Maestà il re Abdullah II, che ha scelto come singolare obiettivo del suo regno e della sua vita quello di rendere la vita di ogni abitante della Giordania, e di fatto di ogni persona del mondo che può raggiungere, decorosa, degna e felice, per quanto può con le scarse risorse della Giordania.
Oggi, i cristiani in Giordania hanno diritto all'8 per cento dei seggi in parlamento e a quote simili a ogni livello di governo e società, sebbene in realtà il loro numero sia inferiore a quello previsto. I cristiani, oltre ad avere leggi relative al proprio status e corti ecclesiali, godono della tutela dello Stato sui loro luoghi sacri, sulle loro scuole. Lei, Santità, ha già potuto constatare questo di persona, presso la nuova università cattolica di Madaba. A Dio piacendo presto vedrà sorgere la nuova cattedrale cattolica e la nuova chiesa melchita sul sito del battesimo.
Quindi, oggi, in Giordania, i cristiani prosperano, come del resto hanno fatto negli ultimi duecento anni, in pace e armonia, con buona volontà e relazioni autenticamente fraterne fra loro e con i musulmani. Questo avviene, in parte, perché i cristiani in precedenza erano in percentuale più numerosi rispetto a oggi. Con il calo demografico fra i cristiani e i più elevati livelli di istruzione e di prosperità che li hanno portati a essere molto richiesti in Occidente, il loro numero è diminuito. Ciò avviene anche perchè i musulmani apprezzano il fatto che i cristiani erano già qui 600 anni prima di loro. Infatti, i cristiani giordani formano forse la più antica comunità cristiana del mondo, e per la maggior parte sono sempre stati ortodossi, aderenti al patriarcato ortodosso di Gerusalemme in Terra Santa, che, come lei, Santità, sa meglio di me, è la Chiesa di san Giacomo, fondata durante la vita di Gesù.
Molti di loro discendono da antiche tribù arabe e, nel corso della storia, hanno condiviso la sorte e le lotte dei musulmani. Infatti, nel 630, durante la vita del Profeta, entrarono a far parte del suo esercito, condotto dal figlio adottivo e da suo cugino, e combatterono contro l'esercito bizantino degli ortodossi nella battaglia di Mechtar. È da questa battaglia che presero il loro nome tribale che significa "i rinforzi" e lo stesso patriarca latino Fouad Twal discende da queste tribù.
Poi, nel 1099, durante la caduta di Gerusalemme, furono massacrati dai crociati cattolici accanto ai loro commilitoni. In seguito, dal 1916 al 1918, durante la grande rivolta araba, combatterono contro i musulmani turchi, accanto ai loro amici musulmani, sotto mandato coloniale protestante, e nelle guerre arabo-israeliane del 1948, del 1967 e del 1972 combatterono con i musulmani arabi contro gli ebrei.
I giordani cristiani non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno anche contribuito instancabilmente e patriotticamente alla sua edificazione, svolgendo ruoli importanti nei campi dell'educazione, della sanità, del commercio, del turismo, dell'agricoltura, della scienza, della cultura e in molti altri settori. Tutto questo per dire che mentre Lei, Santità, li considera suoi compagni cristiani, noi li consideriamo nostri compagni giordani e fanno parte di questa terra come la terra stessa. Spero che questo spirito unitario giordano di armonia interreligiosa, benevolenza e rispetto reciproco, sarà da esempio a tutto il mondo e che Lei, Santità, lo porti in luoghi come Mindanao e alcune parti dell'Africa sub-sahariana, in cui le minoranze musulmane subiscono forti pressioni da parte di maggioranze cristiane, e anche in altri luoghi dove accade l'opposto.
Oggi, proprio come la ho accolta in quattro modi, la ricevo in quattro modi, Santità.
La ricevo come leader spirituale, supremo pontefice e successore di Pietro per l'1,1 miliardi di cattolici che vivono accanto ai musulmani ovunque, e che saluto, ricevendola.
La ricevo come papa Benedetto XVI, il cui pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento, e che è anche un maestro teologo cristiano, autore di encicliche storiche sulle belle virtù cardinali dell'amore e della speranza, che ha reintrodotto la tradizionale messa in latino per chi la sceglie, e ha contemporaneamente fatto del dialogo interreligioso e intrareligioso la priorità del suo pontificato, per diffondere buona volontà e comprensione fra tutte le popolazioni della terra.
La ricevo come capo di Stato, che è anche un leader mondiale e globale su questioni vitali di morale, etica, ambiente, pace, dignità umana, alleviamento della povertà e della sofferenza e persino crisi finanziaria globale.
La ricevo, infine, come un semplice pellegrino di pace che giunge con umiltà e gentilezza a pregare laddove Gesù Cristo, il Messia – la pace sia con lui! – è stato battezzato e ha cominciato la sua missione 2000 anni fa.
Quindi, benvenuto in Giordania, Santo Padre, papa Benedetto XVI! Dio dice nel Sacro Corano al profeta Maometto: "Sia gloria al tuo Signore, il Signore della potenza... E la pace sia con i messaggeri, e si renda lode a Dio, il Signore dei mondi".
Perché dire che basta la "buona fede" per salvarsi è come dire che esiste una verità al di fuori della verità - Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato. I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”. - di Roberto de Mattei
Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato.
I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”.
Né gli uni né gli altri hanno in genere la pazienza di leggere fino in fondo e con attenzione gli scritti ratzingeriani, spesso intellettualmente sofisticati e di accessibilità non immediata a chi vorrebbe tagliare con l’accetta problemi teologici complessi. Comunque il libro è qui, pubblicato dall’ottimo Davide Cantagalli, con l’unico difetto di non indicare le fonti da cui sono tratti i capitoli che lo compongono.
Proprio qualche settimana prima che uscisse il volumetto, il quindicinale antimodernista “Sì sì no no”, ha accusato Benedetto XVI di voler “conciliar l’inconciliabile”, addebitando all’allora cardinale Ratzinger l’adesione ad una nota frase del cardinale John Henry Newman, secondo cui, “io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”. Questa sentenza, secondo “Sì sì no no”, rivelerebbe un “soggettivismo filosofico-teologico”, che è il “motivo conduttore” di tutto il pensiero ratzingeriano dai primi anni di seminario (1946) sino ad oggi (2009), confermato dal recente libro di Gianni Valente, “Ratzinger professore” (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008) sulla formazione intellettuale di Benedetto XVI.
Il libro di Valente, interessante per ricostruire l’atmosfera culturale del cattolicesimo soprattutto tedesco prima del Vaticano II, prova semmai l’esistenza di un’evoluzione nel pensiero di Joseph Ratzinger, dagli anni in cui il teologo Michael Schmaus, correlatore della sua tesi, ne criticava il soggettivismo, a quelli del celebre “Rapporto sulla fede” (1985).
Tutti sanno che il giovane Ratzinger svolse un ruolo di punta come perito teologico del cardinale Joseph Frings nel Concilio Vaticano II; ma è altrettanto noto che di fronte alla “aggressione della realtà” postconciliare, egli svolse e continua a svolgere una serrata critica, dall’interno, al progressismo cattolico avanzante. Fin dalle prime pagine del nuovo libro, Benedetto XVI-Ratzinger spiega che la coscienza non può essere separata dalla verità, in cui trova la sua misura e il suo fondamento. Il concetto di verità ci offre, a suo avviso, la chiave per spiegare il significato del brindisi del cardinale Newman, che non voleva affermare il primato della soggettività dell’individuo sull’oggettività del Magistero, ma al contrario sottolineare l’esistenza di un’armonia tra i due poli della coscienza e dell’autorità.
Il termine medio è proprio la verità, che prima di essere annunciata dalla chiesa, è impressa nella nostra coscienza, perché ci viene data con la stessa natura umana. La coscienza non si radica sull’io, ma sull’oggettività dell’essere. “In definitiva, il linguaggio dell’essere, il linguaggio della natura, è identico al linguaggio della coscienza” (p.163).
Benedetto XVI, accusato di “liberalismo” e di “soggettivismo”, critica esplicitamente “l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca” (p. 110). “La coscienza non si può identificare con l’auto-coscienza dell’io, un muro di bronzo contro cui persino il Magistero non può fare a meno di infrangersi” (p. 146). Svincolata dal suo rapporto costitutivo con la verità e con l’ordine morale, la coscienza viene a essere nient’altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell’agire (p. 42). Voler conciliare coscienza e legge morale, non significa voler “conciliare l’inconciliabile”.
Alla fine degli anni Sessanta, in piena crisi post conciliare, il padre Cornelio Fabro dedicò un approfondito saggio a “Il valore permanente della morale” (raccolto in “L’avventura della teologia progressista”, Rusconi, Milano 1974) contro i moralisti protestanti e cattolici che teorizzavano la “morale della situazione”. Quel saggio, attualissimo, andrebbe riletto accanto al libro di Benedetto XVI. L’autore vi dimostrava l’esistenza di due aspetti della morale: una dimensione soggettiva, che ha la sua radice nella libertà, e una dimensione oggettiva che ha la sua radice nella norma, ossia nella legge divina e naturale. Non si può amputare la morale di nessuna delle due dimensioni, né della libertà, né della legge, se non la si vuole vanificare.
La libertà e la norma, osservava Fabro, non sono dei momenti dialettici, ma costitutivi l’uno dell’altro. Anche la coscienza, spiegava a sua volta il padre Ramon Garcia de Haro, è una norma della moralità, ma mentre la legge costituisce una norma fondante, la coscienza è una norma fondata: essa ha nella legge oggettiva e universale il suo fondamento. (La vita cristiana, Ares, Milano 1995, p. 402). “E’ sempre più evidente che la malattia propria del mondo moderno è la mancanza di moralità”, ovvero la perdita della legge naturale, osserva Benedetto XVI (p. 139).
La negazione della legge naturale è l’esito di un processo intellettuale che risale alla filosofia del diritto illuminista e, più indietro, al giusnaturalismo di Ugo Grozio e al nominalismo di Guglielmo da Ockham. Nel Novecento il principale tentativo di fondare il diritto sulla ragione umana è stato quello di Hans Kelsen. Secondo il giurista austriaco, la validità dell’ordinamento giuridico si fonda sulla pura “efficacia” delle norme, cioè sul loro potere di fatto.
Quando Pilato pone a Gesù la domanda: “Che cosa è la verità?” (Gv, 18, 38), non attende una risposta, ma si rivolge immediatamente alla folla, sottoponendo la decisione del caso controverso al giudizio del popolo. Kelsen è dell’opinione che egli abbia agito da perfetto democratico e si spinge ad affermare che il relativismo di Pilato dovrebbe essere la regola assoluta della democrazia. Il filosofo del diritto Richard Rorty è oggi il più noto esponente della visione kelseniana della democrazia secondo cui l’unico parametro della politica e del diritto è l’opinione della maggioranza dei cittadini. La maggioranza ha sempre ragione e la sua volontà deve essere imposta a ogni costo, senza alcun riguardo per l’esistenza di un diritto e di una verità
Dove sbagliano Mancuso e Bianchi
Dal saggio del cardinale Ratzinger, la concezione di Kelsen-Rorty esce frantumata. Una volta dissolto il fondamento universale di un ordine di valori, è facile dimostrare la fragilità e la precarietà di diritti che si pretende costruire sulla pura creazione razionale della norma.
“Laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, lì è la forza che è divenuta il criterio del diritto” (p. 40). Ciò è lampante nel caso in cui, in nome della maggioranza si nega il fondamentale diritto alla vita di chi non ha neanche la possibilità di fare ascoltare la sua voce. Alla “dittatura del relativismo”, Benedetto XVI Ratzinger oppone la concezione metafisica e cristiana secondo cui “al di sopra del potere dell’uomo sta la verità: essa deve essere il limite e il criterio di ogni potere” (p. 85).
Per questa concezione, “la verità non è un ‘prodotto’ della politica (cioè della maggioranza), bensì ha un primato su quest’ultima e dunque la illumina: non è la prassi a ‘creare’ la verità, ma è la verità che rende possibile un’autentica prassi” (p. 54). Ci si potrebbe domandare in che cosa consista questa legge naturale e morale che l’autore considera assoluta e vera. La risposta va cercata in un’analogia tra la logica e la morale. Se esistono principi indimostrabili, che si impongono per la loro evidenza all’intelligenza, a cominciare dal principio di identità e di non contraddizione che ne costituisce il cardine, esistono anche principi morali che si impongono con evidenza alla coscienza, senza bisogno di dimostrazione. Il primo principio evidente all’uomo è che bisogna fare il bene ed evitare il male.
Il giudizio non riguarda il bene e il male in astratto, ma i singoli atti umani. La coscienza è in questo senso la valutazione morale del nostro agire concreto.
Essa presuppone la verità e indica alla volontà il cammino che deve percorrere. Non è possibile un’ignoranza incolpevole dei primi principi della legge morale, afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica (I, q. 79, a. 12 ad 3) e ripete ora Benedetto XVI. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. “Ma nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere” (pp.29-30). Il richiamo alla coscienza, insomma, non può giustificare qualsiasi scelta dell’uomo, a cominciare dalla scelta religiosa.
Esiste un ampio ventaglio di teologi, talvolta in discussione tra loro, come Enzo Bianchi e Vito Mancuso, colleghi al San Raffaele di Milano, che rifiutano l’assioma dell’extra ecclesiam nulla salus. Eppure, come non avrebbe senso affermare l’esistenza di una verità fuori della verità, ancor meno senso ha la pretesa di una possibilità di salvezza al di fuori di quella società di salvezza che è la chiesa.
A meno che non si volesse negare alla chiesa il suo fine specifico, che è quello, assegnatole dal suo Fondatore, di redimere gli uomini dal peccato e condurli alla salvezza eterna. I cattolici che rifiutano l’assioma extra ecclesiam nulla salus sono convinti che la “buona fede” salva.
Ma allora, assomigliano a quel teologo, conosciuto dal giovane professor Ratzinger, secondo cui persino i membri delle SS naziste sarebbero in Paradiso perché portarono a compimento le loro atrocità con assoluta certezza di coscienza (p. 10).
Fu in seguito a queste parole che il futuro Pontefice maturò la convinzione che dovesse essere falsa la teoria della coscienza soggettiva. Questa riflessione lo portò a sviluppare il suo pensiero e il volume che ora appare, elogio della verità, più che della coscienza, illustra bene il suo percorso intellettuale.
Il Foglio del 05/05/2009
Il viaggio del Papa in Israele - Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
Riceviamo e pubblichiamo con intensa gratitudine e partecipazione questo intervento del nostro amico Guido Guastalla, Assessore alla cultura - Comunità ebraica Livorno
E’ inutile rimarcare l’importanza del viaggio di Benedetto XVI in Israele e in Medio Oriente: è sicuramente il viaggio più importante e impegnativo di questo come di tutti i pontefici della cristianità cattolica.
Paolo VI si recò a Gerusalemme ma in quello che allora era territorio giordano.
Quando Giovanni Paolo II arrivò in Israele tutto il paese rimase col fiato sospeso, e quando si presentò, fragile e tremolante, ma forte di una volontà incrollabile di chiudere duemila anni di odii, incomprensioni, persecuzioni e chiusure, al Kotel (il Muro occidentale o del pianto), il luogo più sacro per l’ebraismo e per ogni ebreo, un silenzio surreale e una commozione straziante si sparse in tutto Israele e il soffio biblico di un vento leggero attraversò tutto il paese.
C’è una sola medicina per guarire l’uomo e liberarlo dall’odio: l’amore. Giovanni Paolo II la usò con grande generosità e coraggio. I rapporti fra ebrei e cristiani non sarebbero più stati come prima.
Benedetto XVI non potrà ripetere lo stesso gesto e ottenere lo stesso risultato, ma potrà fare molto di più: aiutare il trialogo fra ebrei, cristiani, musulmani.
Il suo viaggio è iniziato col piede giusto. L’incontro col Re di Giordania, il paese musulmano più tollerante e aperto al dialogo, ha già ottenuto un risultato ampiamente positivo, e indica quello che il Rabbino Jacob Neusner, americano e amico del Papa ha definito, in un recente discorso (5 maggio, Università di Miami) come il trialogo fra Ebraismo, Cristianesimo e Islam: il dialogo ebraico-cristiano, dice Neusner, iniziato poco più di un secolo fa deve trasformarsi in un rapporto che includa anche l’Islam.
Che questo Papa (non è un caso che sia stato allievo di Romano Guardini) annetta grande e decisiva importanza al dialogo ebraico-cristiano non è una novità: è stupefacente rilevare quante volte Benedetto XVI abbia parlato di questo rapporto nei suoi primi quattro anni di pontificato. Ma non possiamo dimenticare gli autorevoli interventi precedenti. Fra tutti voglio ricordare la prefazione del 2001 al documento finale della Pontificia commissione biblica (Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana). Nel riaffermare che “…un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento… avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune”, Benedetto XVI conclude: “Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione della coscienza cristiana”.
Mi capitò tempo fa di intervenire con Giorgio Israel a difesa delle posizioni ripetutamente assunte da questo papa, anche precedentemente all’assunzione al soglio pontificio, a favore e per lo sviluppo del dialogo interreligioso. Vedo che gli avversari di allora hanno riconosciuto che non c’erano intenti di chiusura o peggio ancora di ripresa di vecchi stereotipi antigiudaici nelle iniziative del Papa.
Tutto il Rabbinato israeliano riceverà con grani onori Benedetto XVI che, riprendendo il discorso del rabbino Neusner parla ad Amman di dialogo trilaterale fra le tre religioni.
Certamente i temi religiosi si intrecciano con quel diplomatici, politici, economici: di grande evidenza e preoccupazione sono soprattutto le difficoltà che incontrano i cristiani di Oriente a rimanere nei luoghi in cui vivono da sempre. Ma senza un rapporto dialogico di profondo rispetto, pur nelle differenze sostanziali, e di amore fra tutti gli uomini di buona volontà, anche la pace fra i popoli e le nazioni sarà impossibile. Ecco quello che ci attendiamo da questo viaggio di Benedetto XVI.
Cattolici ed ebrei uniti per la pace in Terra Santa - Autore: Colosso, Gian Carlo - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 9 maggio 2009
Tutte le persone di buona volontà pregano con fervore affinché quest’ultima speranza si realizzi. Tuttavia, senza dubbio, la sua visita renderà, nel tempo, di fatto più intenso il processo storico di riconciliazione tra cattolici ed ebrei, e non solo perché il Papa dimostrerà buona volontà ai circa sei milioni di ebrei che risiedono oggi in Terra Santa. Benedetto XVI ricalcherà le orme del suo grande predecessore, sia letteralmente sia figurativamente. Giovanni Paolo II, l’eroe della riconciliazione fra cattolici ed ebrei nei nostri tempi, comprese appieno che la visita di un Papa in Israele rivestiva in sé un significato speciale per la riconciliazione fra ebrei e cristiani. Già nella sua Lettera apostolica Redemptionis anno, pubblicata il 20 aprile 1984, Venerdì Santo, Giovanni Paolo II parlò della “terra che chiamiamo santa” riferendosi al significato che Gerusalemme ha per cristiani, musulmani ed ebrei. Per quanto riguarda questi ultimi scrisse: “per gli ebrei essa è oggetto di vivo amore e di perenne richiamo, ricca di numerose impronte e memorie, fin dal tempo di David che la scelse come capitale e di Salomone che vi edificò il tempio. Da allora essi guardano, si può dire, ogni giorno ad essa e la indicano come simbolo della loro nazione”. Queste frasi penetranti riflettono la comprensione di Giovanni Paolo II non solo del significato storico, ma anche di quello religioso ed esistenziale della terra di Israele per il popolo ebraico. Gli ebrei “guardano” e tre volte al giorno si piegano in preghiera verso Israele, se sono in diaspora; verso Gerusalemme, se si trovano in Israele. Se sono a Gerusalemme si rivolgono al Monte del Tempio, il luogo che l’Onnipotente ha scelto “per stabilirvi il suo nome” (Deuteronomio, 12, 5-11).
Il legame religioso fra la Terra Santa e la Città Santa è una parte integrante e ineliminabile del calendario religioso e della celebrazione liturgica ebraici. Ciò riflette semplicemente che il mandato biblico di essere “un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Esodo, 19, 6) esige che le persone vivano questo paradigma idealmente “come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro” (Deuteronomio, 11, 21; cfr. Esodo, 6, 4-8). Infatti, tutto il racconto biblico è indissolubilmente legato alla terra. L’esilio da essa è visto non solo come un’umiliazione, ma anche come una “profanazione del nome divino”. Di conseguenza, il ritorno alla terra non è considerato solo come elemento essenziale della missione universale di Israele, ma anche come la santificazione del nome divino stesso (Ezechiele, 36, 23). Questa centralità della città e della terra nella coscienza ebraica ha portato a una notevole di auto - identificazione con esse, che si riflette in particolare nei profeti e specialmente nel libro di Isaia, in cui la popolazione è spesso descritta come “figlia di Sion” e persino come “Sion” stessa. Il passaggio nella liturgia del mattino del Sabbah “Abbi misericordia di Sion perché essa è la dimora della nostra vita” riflette questa identificazione. Le osservazioni di Giovanni Paolo II nella Redemptionis Anno rispecchiano quest’idea, secondo cui per gli ebrei Gerusalemme e la Terra Santa non sono solo il punto focale storico, ma anche il “segno” della loro identità. Purtroppo, per la maggior parte della tragica storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei, questo vincolo religioso ed esistenziale fra il popolo d’Israele e la Terra promessa è stato visto dalla cristianità come qualcosa di obsoleto, ormai privo di legittimità e validità. Di fatto l’idea stessa del ritorno del popolo ebraico in quella terra e del ripristino lì della sovranità è stata considerata spesso un anatema. Lo storico documento del concilio Vaticano II Nostra Aetate ha respinto l’idea che il popolo ebraico sia stato rifiutato da Dio e ha affermato che l’alleanza divina con il popolo d’Israele è eterna. Tuttavia, allo stesso tempo, la Santa Sede non ha riconosciuto il ritorno di una vita ebraica indipendente nel ripristinato Stato di Israele e il popolo ebraico (e credo anche il mondo cattolico) ha percepito che la Chiesa aveva ancora un “problema” con la sovranità ebraica in Terra Santa e a Gerusalemme. È interessante quanto raccontato dall’arcivescovo Loris Capovilla, che fu segretario di Giovanni XXIII. Il Pontefice, una volta affrontato il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico - cosa avvenuta nella Nostra Aetate - avrebbe voluto riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele. Il Papa, però, non visse tanto da assistere alla promulgazione della Nostra Aetate stessa ed eventi di carattere principalmente politico causarono un ritardo di altri ventotto anni nella normalizzazione di questi rapporti bilaterali. Il documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo, intitolato Note sul modo corretto di presentare gli ebrei e l’ebraismo nella predicazione e nel catechismo della Chiesa cattolica romana, basato sulla Nostra Aetate, ha definito la persistenza di Israele “un fatto storico e un segno da interpretare nell’ambito del disegno di Dio”. Il documento afferma che “la storia d’Israele non è terminata nel 70 a.d., è proseguita, in particolare in numerose comunità della diaspora che hanno permesso a Israele di recare al mondo intero una testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all’unico Dio e di “esaltarlo alla presenza di tutti i viventi” (Tobit, 13, 4), mantenendo al contempo il ricordo della terra dei loro predecessori al centro della propria speranza (ossia Passover Seder)”. Il documento aggiunge che “i cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le proprie radici nella tradizione biblica”. Di conseguenza, la promessa della terra è un aspetto essenziale di questa alleanza sempre valida, cosicché si riconosce che il rapporto fra il popolo ebraico e la terra d’Israele ha origine “nella tradizione biblica”. Quindi è presentato come un aspetto della fede cristiana da esporre come tale nell’insegnamento e nella predicazione cattolici. Come ha affermato Eugene Fisher, allora responsabile per i rapporti fra cattolici ed ebrei nella Conferenza episcopale degli Stati Uniti, “l’importanza teologica e, di fatto, dottrinale di quest’affermazione non va dunque sottovalutata”. Trascorsero altri otto anni prima che il riconoscimento si concretizzasse. Soprattutto grazie alla guida e all’impegno di Giovanni Paolo II, alla fine del 1993, la firma dell’Accordo fondamentale favorì pieni rapporti fra la Santa Sede e lo Stato d’Israele. Questo, a sua volta, rese possibile nell’anno 2000 lo storico pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa, che ebbe un enorme impatto. Uno degli aspetti caratteristici del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l’abilità di trasmettere su vasta scala messaggi che fino a quel momento erano stati presenti soltanto negli insegnamenti e nei documenti del magistero. Lo ha fatto soprattutto comprendendo e utilizzando il potere del messaggio visivo. È stato il caso della sua visita alla Sinagoga di Roma nel 1986 ed ancora di più della sua visita in Israele. La maggior parte degli ebrei israeliani e, in particolare, dei più osservanti e tradizionalisti, non ha mai conosciuto un cristiano moderno. Queste persone, quando viaggiano all’estero, incontrano i non ebrei solo come tali, raramente come cristiani. Quindi traggono l’immagine prevalente che hanno del cristianesimo da un passato tragico e negativo. La visita papale in Israele ha aperto loro gli occhi di fronte a questa realtà nuova. Non solo la Chiesa non è stata più considerata ostile al popolo ebraico, ma il suo capo è stato visto come un amico sincero! Su un ampio settore della società israeliana ha avuto un impatto profondo vedere il Papa allo Yad Vashem, memoriale della Shoah, in lacrime di solidarietà con il dolore degli ebrei; apprendere in che modo egli stesso aveva contribuito a salvare ebrei in quel tempo terribile e poi come sacerdote aveva restituito i bambini ebrei protetti in case cristiane alle proprie famiglie ebree; vedere il Papa lasciare presso il Muro Occidentale, in rispettosa riverenza per la tradizione ebraica, il testo della preghiera che aveva composto per la giornata penitenziale celebrata il 12 marzo nella basilica di San Pietro, in cui implorava il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli. Non da ultimo, anche se è stata descritta come pellegrinaggio, quella del Papa è stata pur sempre una visita di stato, con il relativo cerimoniale, e ha affermato il rispetto della Santa Sede per l’espressione contemporanea dell’indipendenza e dell’integrità ebraiche che sono legate indissolubilmente all’identità ebraica in tutto il mondo. La visita di Giovanni Paolo II ha anche ottenuto un altro importante risultato, quando, durante l’incontro con il Rabbino Capo e il Consiglio del Gran Rabbinato d’Israele, il Papa ha proposto l’istituzione di una speciale Commissione bilaterale per il dialogo fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato, che a tempo debito è stata creata e svolge incontri annuali, alternativamente a Roma e a Gerusalemme. Negli ultimi otto anni, l’opera della Commissione presieduta dal rabbino capo Shera Yashuv Cohen e dal cardinale Jorge María Mejía ha condotto molte persone dell’ambiente rabbinico israeliano a un apprezzamento autentico della guida e dell’insegnamento dei cattolici e all’amicizia con essi. Questa Commissione coinvolge persone che fanno da cassa di risonanza e influenzano le percezioni e gli atteggiamenti di molte altre. Le immagini che lentamente giungono alla società israeliana grazie a questo incontro e a questa collaborazione sono molto importanti per la promozione del processo educativo volto a un maggior rispetto e a una maggiore comprensione reciproci. È stato grazie a questa Commissione, ricevuta da Benedetto XVI il 12 marzo, che si sono riaffermati i vincoli speciali della fede cattolica con il popolo ebraico e si è reiterato l’impegno profondo della Santa Sede nel continuare a promuovere il rapporto fra cattolici ed ebrei. Visitando Israele ed esprimendo il rispetto della Santa Sede per lo Stato ebraico, rafforzando l’impatto della visita pionieristica del suo predecessore, senza dubbio Benedetto XVI farà progredire ulteriormente il processo storico di riconciliazione fra ebrei e cattolici. Preghiamo affinché la sua visita possa anche promuovere l’altro obiettivo, prefissato dal Papa, della promozione della pace e della riconciliazione fra le popolazioni e le fedi in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente.
IL CASO BERLUSCONI, L’ABISSO DEL NULLA E LA CAREZZA DEL NAZARENO… 09.05.2009 – Antonio Socci
A volte per Berlusconi certe esagerate difese dei suoi “tifosi” sono quasi peggio degli attacchi dei nemici. Per non fare nomi, Carlo Rossella ha dichiarato al “Giornale” che la sinistra non può criticare la vita privata del premier perché così fan tutti, anche a sinistra, e non ha trovato di meglio che evocare vari esponenti comunisti e infine addirittura “le vergini offerte in omaggio a Mao Tse-Tung”. Mi pare che citare le perversioni di un regime come quello comunista cinese e del suo sanguinario tiranno, rappresenti una “difesa” del Cavaliere quasi peggiore dei roghi allestiti da Santoro. Il guaio in Italia è che tutto diventa un referendum prò o contro Berlusconi, qualunque sia il problema di cui si parla. Cosicché restano in scena solo le due fazioni e si perde di vista la realtà. Quello che non si vuole vedere oggi, per esempio, è che tutta la nostra società, tutta la nostra cultura e la mentalità dominante hanno un rapporto compulsivo col sesso e quindi con la realtà. Siamo tutti agitati e tristi, oscillanti tra l’euforia assatanata e la depressione, divoratori congestionati sempre insoddisfatti, frenetici consumatori di cose e di immagini, di televisione e di ideologie, di moralismi farisaici e di “occasioni” che ci facciano sentire vivi, di eccitanti (mentali o chimici), di successo, di soldi, smaniosi di “apparire” per accorgerci di esistere (sia i ragazzini di Maria de Filippi che le star della tv con il loro Ego arroventato).
Più proclamano che esiste solo “l’io e le sue voglie” e che ogni desiderio deve diventare diritto garantito per legge, più siamo terrorizzati dall’invecchiamento, dalla malattia e dalla prospettiva della morte. Morte che non è un evento del futuro, ma che sconti vivendo, ogni giorno, nella decadenza del tuo corpo e nella fragilità della tua psiche: nella tragicità della condizione umana. Non c’è destra e sinistra qui. L’anima di tutti s’impiglia in questa solitudine e in questi rovi della foresta oscura. Così siamo tutti moralisti immorali. I giudizi sugli altri sono farisaici, ipocriti perché così fan tutti, ma le giustificazioni del tipo “così fan tutti” sono maleodoranti e malvestite. Eludono il problema. E’ comodo essere corrivi. Della condizione umana non sappiamo più parlare. Della nostra condizioni di moderni.
E’ stato detto in questa tempesta: “come una persona che non sta bene”. Nessuno di noi sta bene. Pochissimi stanno bene con se stessi e sono pieni di pace e di gioia. Sono persone speciali di cui i mass media in genere non si occupano.
Ma fra questi pochi ci sono anche personaggi conosciuti: padri e maestri così sono stati per esempio, per la nostra generazione, don Luigi Giussani, Karol Wojtyla (come pure Joseph Ratzinger) o un monaco come don Divo Barsotti. Ho fra le mani un libro su di lui, “Sull’orlo di un duplice abisso”. Leggo questo suo pensiero che spiega perché ci aggrappiamo furiosamente alle cose, perché ci avventiamo disperatamente sulla carne del mondo: “Nel buddismo l’uomo che si appoggia alle cose è paragonato a un uomo che precipita giù per un precipizio che sprofonda nel mare, trova un ciuffo d’erba e ci si attacca: sotto c’è l’abisso, sopra non può più salire. Ma attaccato a questo ciuffo d’erba c’è un topo che rosicchia le radici dell’erba: vi immaginate il terrore dell’uomo che sta per precipitare giù in questo abisso? Ecco” proseguiva don Barsotti “l’uomo vive questo. Noi cerchiamo di dimenticarlo ma viviamo questo, perché c’è la morte e, nella morte, questo abisso che è come il nulla. Invece, ecco Dio: Lui ti porta sulle sue ali. C’è l’abisso – sì, anche quando c’è Dio c’è l’abisso – ma tu sei portato sulle ali dell’aquila… Ecco la vita dell’anima: si vola sopra gli abissi e si va verso Dio, come l’aquila va verso il sole”.
Tutta la nostra vita (a cominciare dai nostri peccati) grida questo desiderio del Sole, questo bisogno di significato che ci sottragga all’abisso del nulla. Siamo mendicanti del senso dell’esistenza e dell’amore, cioè abbiamo una sete inestinguibile di Dio. Oggi sui media dilaga un freudismo da quattro soldi secondo cui Dio sarebbe una sublimazione del sesso. Ma l’evidenza della realtà dice esattamente l’opposto. Il sesso, il potere e il possesso: sono loro i surrogati a cui chiediamo di farci dimenticare la morte e tutti i suoi preavvisi, come l’invecchiamento. E’ l’ossessione del sesso e del possesso che ci serve a esorcizzare il nostro limite, la nostra paura, la nostra incertezza di esistere, il nostro inappagato desiderio di essere amati, voluti, la nostra sete di felicità. Cioè la nostra fame di Dio.
La prova è che quei surrogati non ci bastano mai. Anzi, siamo sempre più scontenti e agitati. Il vero desiderio che ci abita, fin dentro a tutte le nostre fibre, l’unico bisogno assoluto che abbiamo e che è inestirpabile e inestinguibile è Dio, perché noi siamo fatti per l’infinito, per una felicità senza limiti e tutto ci lascia insoddisfatti. Diceva sant’Agostino, che era stato un gran peccatore carnale: “O Signore, ci hai creai per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”.
Ma figuratevi se i giornali si accorgono di questa attesa del cuore umano e di padri che ci aiutano a capirla, come don Barsotti. “Tutto cospira a tacere di noi” (Rilke). I divi delle vanità mediatiche sono gli Enzo Bianchi, non coloro che insegnano a gustare, nel silenzio delle colline sopra Firenze, l’abisso sulle ali di Dio e che ti fanno incontrare la carezza del Nazareno.
Eppure è di questa che abbiamo bisogno, tutti. Ecco, auguro a tutti noi, a Berlusconi e alla sua signora Veronica, a me e a te, amico che leggi, a Santoro e a Rossella, soprattutto a ogni essere umano che fatica nella solitudine delle nostre città, ai miei figli e a tutti i ragazzi e le ragazze (belle e meno belle), questa grande fortuna, la più grande che può capitare nella vita: sperimentare la carezza del Nazareno. Che abbia ancora pietà di noi. Che faccia riposare i nostri cuori smarriti al calore, alla bontà del suo sguardo.
“Egli” dice la grande poesia del salmo “ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge./ Ti coprirà con le sue penne/ sotto le sue ali troverai rifugio./ La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;/ non temerai i terrori della notte/ né la freccia che vola di giorno,/ la peste che vaga nelle tenebre,/ lo sterminio che devasta a mezzogiorno./…Egli darà ordine ai suoi angeli/ di custodirti in tutti i tuoi passi./ Sulle loro mani ti porteranno/ perché non inciampi nella pietra il tuo piede./ Camminerai su aspidi e vipere,/ schiaccerai leoni e draghi”.
Antonio Socci
Da “Libero” 9 maggio 2009
In Giordania il Papa delinea terreni di incontro con musulmani ed ebrei - Religione e ragione al servizio del bene comune – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
Non è la religione all'origine della divisione nel mondo, ma la sua "manipolazione ideologica, talvolta a scopi politici". Il Papa lo denuncia chiaramente durante l'incontro di sabato mattina, 9 maggio, all'esterno della moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman, invitando tutti i credenti a "essere fedeli ai loro principi" per dare pubblica "testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono". Benedetto XVI si rivolge in particolare a cristiani e musulmani: li esorta a liberarsi dal peso delle incomprensioni che hanno segnato secoli di "storia comune" e a riconoscere "la comune origine e dignità di ogni persona umana". Ma ricorda anche "l'inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo". E manifesta - durante il pellegrinaggio sul monte Nebo col quale si apre la seconda giornata della sua visita in Terra Santa - "il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio della pace". Nelle parole del Pontefice si delinea così quel "dialogo trilaterale" tra le grandi religione monoteiste evocato venerdì mattina durante la conferenza stampa in volo verso Amman. Un dialogo - aveva puntualizzato il Papa - che "deve andare avanti", perché "è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione". Benedetto XVI loda perciò gli sforzi del regno hascemita per far sì che "il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura", dando "un contributo positivo e creativo" a settori cruciali della vita civile, culturale, sociale. E chiama cristiani e musulmani a promuovere "una maggiore conoscenza reciproca" e "un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente". Solo andando all'"essenziale del rapporto fra Dio e il suo mondo", infatti, è possibile rispondere alla sfida di "coltivare il vasto potenziale della ragione" per il bene dell'intera umanità. Così il Papa rilancia il discorso a lui caro della possibilità di un incontro fecondo tra fede e ragione. In realtà - assicura - la prima non indebolisce ma purifica la seconda; anzi, le consente di "resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti". In questo modo "la ragione umana viene rinvigorita nell'impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l'umanità". E gli orizzonti della comprensione si allargano, permettendo alla libertà di esprimersi in sintonia con la verità. Tutto ciò richiede speranza e, al tempo stesso, prudenza. Cristiani e musulmani - dice Benedetto XVI - devono impegnarsi a "oltrepassare gli interessi particolari" per "servire il bene comune, anche a spese personali". Il Pontefice rimette sul tappeto la questione dei diritti umani fondamentali e avverte, in particolare, che il diritto alla libertà religiosa va oltre la questione del culto e include anche quello di un "equo accesso al mercato dell'impiego e alle altre sfere della vita civile". Di questi temi il Papa aveva fatto cenno anche nel precedente incontro all'università del Patriarcato latino a Madaba, sottolineando in particolare che "la fede in Dio non sopprime la ricerca della verità, al contrario l'incoraggia" e rafforza "la fiducia nel dono della libertà". Benedetto XVI aveva messo in guardia contro la tentazione di sfigurare la religione, mettendola al servizio di ignoranza, pregiudizi, violenza o abusi. E aveva sottolineato la centralità della "sapienza religiosa ed etica" nella formazione dei giovani. In questo senso - aveva affermato - le università devono garantire la "giusta formazione professionale e morale" per dare una solida base ai "costruttori di una società giusta e pacifica, composta di genti di varia estrazione religiosa ed etnica". Al termine della mattinata il pensiero del Papa va agli abitanti del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza proprio in Giordania. L'appello alla pace e alla riconciliazione si unisce, nelle sue parole, alla richiesta del "fondamentale diritto alla pacifica convivenza" per i cristiani. Nel Paese vanno rimesse in piedi istituzioni e infrastrutture - ricorda - ma soprattutto va ricostruita la fiducia delle persone per il bene della società irachena.
(©L'Osservatore Romano - 10 maggio 2009)
La prima antologia italiana della teologia di Joseph Ratzinger - Una rivelazione che precede la lettera e la storia - di Silvia Guidi – L’Osservatore Romano, 10 maggio 2009
Un "tifo da stadio", per citare una battuta di uno degli ospiti, in una sala gremita di pubblico, riluttante ad andarsene anche dopo che l'ultimo relatore ha terminato da tempo il suo intervento; termini e toni inconsueti per la presentazione di un libro di teologia, anche se si tratta della prima antologia in italiano del pensiero di Benedetto XVI. Erano davvero tante le persone che il 7 maggio scorso nel Centro internazionale di Comunione e Liberazione di Roma hanno ascoltato il cardinale Camillo Ruini, il vaticanista Sandro Magister, i giornalisti Giuliano Ferrara e Roberto Fontolan parlare del volume curato da Umberto Casale (Torino, edizioni Lindau, 2009, pagine 816, euro 29); "al titolo Fede, ragione, verità e amore bisognerebbe aggiungere anche libertà", ha suggerito l'ex presidente della Cei, visto che è proprio la libertà "all'origine del successo storico della missione cristiana". Difficile, quasi impossibile compendiare in un solo libro gli scritti teologici elaborati dall'attuale Papa nell'arco di più di 50 anni; Ruini ha promosso a pieni voti il volume ma ha indicato anche possibili percorsi alternativi, segnalando testi che avrebbero meritato di essere inclusi nell'antologia (come la celebre discussione col filosofo Jürgen Habermas, o la premessa al Gesù di Nazaret) e auspicando che l'opera omnia abbia un apparato di indici che manca finora nella vasta bibliografia dell'autore. "Tutta la teologia di Joseph Ratzinger può caratterizzarsi come la risposta alla grande sfida posta oggi alla verità e alla vivibilità del cristianesimo" - ha continuato Ruini -, "una risposta che contesta la tendenza a ridurre la figura di Gesù a un'evanescente sommatoria di ipotesi storiografiche". L'opera è articolata in due parti: cinque sezioni dedicate ai principali soggetti della vasta produzione di Ratzinger teologo e una scelta dei testi composti dopo l'elezione al soglio pontificio; sarebbe stato utile, ha notato Sandro Magister ponendo una questione di metodo, indicare non soltanto le raccolte di saggi da cui sono tratti i testi, ma anche quando e in che occasione sono stati composti, per contestualizzare meglio le opere riportate in antologia. Significativa l'attenzione ai sacramenti e alla vita liturgica della Chiesa; non a caso, nota Magister, la pubblicazione dell'opera omnia di Benedetto XVI è iniziata non con il primo, ma con l'undicesimo volume, quello dedicato alla liturgia, teologia "in atto" in cui il tempo dell'uomo entra nell'"oggi" perenne di Dio. L'ennesima occasione per ribadire il tema, caro al Pontefice, che la Rivelazione è sempre più grande di quanto possa essere espresso nelle parole umane, e precede Scrittura e tradizione, in quanto le ha generate. A "L'Osservatore Romano" Giuliano Ferrara - che si definisce "un tifoso da curva sud del pensiero del professor Ratzinger" - dice di aver ascoltato "con attenzione e con una punta di devozione" gli interventi dei relatori e apprezzare nel libro una "curatela attenta, mai incline a brutalizzare il testo". "Per un superficiale come me, esterno al perimetro della comunità credente - continua Ferrara - è un'avventura intellettuale affascinante, letta comunque alla luce di un dramma. Lo stesso autore vive il dramma, ma senza farsene schiacciare; lo dimostrano i suoi sforzi per contrastare l'inerzia liturgica e la cattiva interpretazione del pluralismo all'interno della Chiesa, e anche il bisogno cinquecentesco di battersi dialetticamente per il corretto inverarsi della Parola nella vita che probabilmente ha respirato nel suo paese di origine, la Baviera, paese di frontiera nel dibattito teologico con il protestantesimo. L'attuale Pontefice è un inno alla gioia vivente - anche se preferisce Mozart a Beethoven - un maestro di divinità e umanità, ma anche un uomo che a trent'anni era già perito al Vaticano secondo (allora non si dormiva come adesso fino a quarant'anni!) e negli anni successivi avrebbe visto lo slancio profetico e il profondo desiderio di fecondità spirituale del concilio arenarsi nel relativismo e nell'indifferentismo morale". "Una deriva dalle conseguenze drammatiche" insiste Ferrara "che nasce dall'equivoco intorno al concetto di coscienza, in cui ogni uomo è un'isola e detta legge a se stesso, rifiutando il mistero della propria origine e della propria fine". Il direttore de Il Foglio continua citando Immanuel Kant e Divo Barsotti, lo spettro dell'eugenetica e dell'eutanasia, "pietra tombale sulla speranza", innescando un vivace dibattito che non si conclude con la fine della conferenza, ma continua in mezzo al pubblico in sala (tra cui il cardinale Julián Herranz presidente della Commissione Disciplinare della Curia romana e presidente emerito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, gli ambasciatori Antonio Zanardi Landi e Francis Campbell, Guzmán Carriquiry, sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici, l'onorevole Paola Binetti) sull'influenza della vulgata di Freud - spesso frainteso e quasi sempre banalizzato - sulla mentalità contemporanea, un pensiero debole programmaticamente ma violento di fatto che interpreta ogni regola o legge oggettiva come una indebita ingerenza del Super io nella libertà del singolo o si lascia ingannare dalla dittatura di desideri "provvisori" che pretendono diritto di cittadinanza e imprimatur giuridico definitivo.
(©L'Osservatore Romano - 10 maggio 2009)
Lo «Star Trek» di J. J. Abrams torna all'antefatto della saga - Come ha fatto Kirk a diventare capitano - di Luca Pellegrini – L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009
Facendo capolino in una libreria antiquaria o in una preziosa biblioteca, l'appassionato e lo studioso sanno bene l'emozione e la meraviglia che è possibile provare quando gli occhi si posano sulle antiche relazioni dei viaggi di esplorazione, sui diari di bordo delle navigazioni intorno al mondo che nel XVI secolo hanno cambiato il volto della geografia, del commercio e della società. Vi sono documenti di viaggio - ed è un piacere leggerli - altrettanto famosi delle grandi opere letterarie: il Mundus Novus di Amerigo Vespucci, Pigafetta che ricorda le scoperte di Magellano, la straordinaria impresa editoriale di Gian Battista Ramusio. Risalendo i secoli fino al nostro, lo scaffale si riempie delle memorie scritte da tanti intrepidi avventurieri o intraprendenti scienziati partiti alla scoperta dei nuovi continenti, dei "passaggi" a settentrione e dei due Poli. Oggi che queste avventure sono esaurite e il loro fascino depositato, appunto, nelle preziose pagine; oggi che ogni angolo del nostro pianeta ha esaurito il suo mistero e gli astronauti sono sbarcati sulla luna e fanno la spola con le stazioni orbitanti nello spazio; oggi che Google Earth ha portato a tutti sullo schermo di casa l'immagine dell'angolo di terra preferito, il fascino e il sapore dell'"ultima frontiera" non è andato perduto. Lo dobbiamo, soprattutto, alla fantasia di Gene Roddenberry e al "diario di bordo" più famoso del cinema, quello dettato con data astrale al computer della più amata e invincibile nave spaziale a memoria d'uomo, la U.S.S. Enterprise, nome che ricorda le tante caravelle del passato ed è stato imposto, a furor di popolo, al prototipo dello Space Shuttle della Nasa. Che fascino insuperabile mantiene ancora l'epopea di Star Trek! È la serie più applaudita e longeva della storia, la prima a strutturare in episodi televisivi la fantascienza, a portare il senso dell'ignoto e dell'avventura spaziale nelle case di milioni di americani e di appassionati nel mondo: iniziata l'8 settembre del 1966 (due anni prima dell'Odissea nello Spazio di Kubrick), proseguita con settantanove episodi fino al 1969, risorta a più intervalli generando ben quattro nuove serie (The Next Generation, Deep Space Nine, The Voyager, Enterprise) e una animata, ha oltrepassato il Nuovo Millennio, toccando il 2005. Il grande schermo ha cavalcato, naturalmente, questo successo planetario: dal 1979 dieci film (il primo, e fino a oggi il migliore, con la regia di Robert Wise), molto alterni nei risultati, nei successi e negli incassi. Certo la grande famiglia dei "treccker" non ha mai abbandonato, in oltre quarant'anni di vita, il capitano James T. Kirk, nervi d'acciaio e coraggio da vendere, il signor Spock, vulcaniano di ferro quasi privo di emozioni con le inconfondibili orecchie a punta e tutti gli ufficiali e sottufficiali in servizio sull'Enterprise, fiore all'occhiello della flotta interstellare della Federazione Unita dei Pianeti: Scotty, McCoy, Sulu, Chekov, Uhura. Da notare i loro nomi: su quella nave sono rappresentate tutte le etnie (il bianco americano, l'orientale dagli occhi a mandorla, il pallido russo europeo e la longilinea africana di colore). Ciò che ha fatto, fin dall'inizio, la fortuna di Star Trek è stato, infatti, non solo l'inconfondibile, duraturo ottimismo, ma la sua ibridazione interrazziale. Soltanto un regista come il newyorkese J. J. Abrams - che di talento, a soli quarantadue anni, ne ha parecchio - poteva prendersi il rischio di girare l'undicesimo film e portarlo alle vette del successo e della visibilità, ritornando all'origine dell'Enterprise, agli anni giovanili del suo equipaggio, ai suoi "eroici furori". Facciamo conoscenza con i ragazzi e le ragazze, perfetti ed efficienti nelle loro tute colorate diventate, già quarant'anni fa, un fenomeno di moda, e finalmente ci viene svelato perché si sono conosciuti, come partecipano al primo dei loro viaggi stellari, sfrecciando oltre la velocità della luce con la "propulsione a curvatura" (copiata poi da Star Wars). Anche questa volta fanno abbondante uso del teletrasporto, visitando pianeti più o meno pericolosi ed entrando in contatto con civiltà buone e cattive, le prime da aiutare e le seconde da redimere, prima che da combattere. Produttore e scrittore di tre intriganti serie televisive di incondizionato successo - Alias, Lost e Fringe - e regista del terzo capitolo di Mission Impossible, Abrams ha preso in mano un soggetto cinematografico che, parlando del futuro, sembrava non averne più e lo ha trasformato in un film rocambolesco, ambizioso, godibilissimo. Rimanendo, anche nel nuovo, fedele all'originale. "La mia è una storia ottimistica - afferma il regista americano - come lo era la prima serie televisiva. Fa riferimento ad alcune paure classiche che troviamo nei racconti di fantascienza, ma tutto il film è segnato da un profondo senso di speranza, connesso alla visione di quale potrebbe essere il nostro futuro". Dopo molti guai e molte paure, il giovane Kirk, orfano di padre, scavezzacollo e strafottente, capirà il valore e il senso del bene comune e la responsabilità che lo deve sostenere. Spock, dal canto suo, interpretato da Zachary Quinto - suscita, inevitabilmente, l'applauso dei fan in sala il cammeo di Leonard Nimoy, il primo a dar volto al vulcaniano - orfano di madre, dovrà scendere a compromessi che stridono con la sua cultura ferrea e superiore, con la sua glaciale logica "vulcaniana", facendosi "contaminare" dall'amore, dal sentimento e dalla lealtà. Chris Pine, volto sconosciuto, perfetto per interpretare Kirk, coglie assai bene lo spirito del suo personaggio: "Da giovane è un ragazzo arrabbiato, arrogante, fragile, che cerca di mascherare un'incredibile insicurezza e paura. Non è sicuro se vuole rimanere all'ombra della memoria del padre, che lo schiaccia. La parte interessante del suo viaggio è proprio quella di imparare come imbrigliare tutte le emozioni che nascono da questo suo conflitto, passando dall'essere un giovane scriteriato alla maturità di un capitano concentrato e responsabile. Non è un supereroe, ma un uomo che affronta fin da giovane tremende sfide". Se volessimo parlare di fantascienza edificante, Star Trek di Abrams potrebbe dirsi un singolare, avvincente gioiello del genere.
(©L'Osservatore Romano - 10 maggio 2009)
A cosa serve l’Europa - Mario Mauro - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una singolare e insieme drammatica circostanza somma, nel nostro Paese, nella data del 9 maggio il ricordo della dichiarazione Schuman che dà inizio al percorso dell'integrazione europea e la commemorazione delle vittime del terrorismo. Forse questa misteriosa coincidenza schiude la possibilità di leggere questa data sotto una luce diversa.
L'approccio ideologico alla realtà, infatti, che ha prodotto l'orrore dei totalitarismi che hanno vergato nel sangue la storia del Novecento riverbera ulteriormente nella stagione dolorosa che ha piegato le speranze, la ragione e le ragioni di tanti nella generazione cui appartengo. E antidoto alle ideologie è essenzialmente e profeticamente quel progetto politico che chiamiamo Europa Unita. Il potere è tutto e l'uomo non è niente: questo il mesto ritornello di coloro che per decenni hanno preteso assicurarsi l'egemonia su una generazione prendendo in ostaggio il nome del popolo.
Oggi nuove ideologie di matrice fondamentalista scelgono il nome di Dio come pretesto per il loro progetto, ma la logica non è mutata: il potere è tutto l'uomo non è niente. Alla stazione di Atocha, a Madrid, i terroristi ci hanno sfidato scrivendo: vinceremo noi perché amiamo la morte più di quanto voi teniate alla vita.
A cosa teniamo dunque? A cosa tiene l'Europa, qual è il cuore del progetto che chiamiamo Europa Unita? Vorrei dirlo con semplicità e con forza insieme: la persona prima di tutto. Come deve essere, infatti, un sistema educativo, un sistema sanitario, o della produzione per dare risposta fino in fondo a ciò che caratterizza il cuore di ognuno di noi? Il nostro desiderio di verità di giustizia di bellezza?
La persona prima di tutto è in questo senso l'imperativo da riproporre a tutti: accantonate le ideologie, infatti, ciò che balza all'occhio è che ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide. Questo giorno di memoria dunque ci restituisce il compito comune di contribuire a realizzare istituzioni garanti e non padrone della vita dei propri cittadini, in cui la passione per ognuno dei nostri ragazzi valga da salvacondotto per il rilancio dei nostri ideali.
TERRA SANTA/ Sbai: io, musulmana, ringrazio il Papa per il suo esempio - Souad Sbai - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La visita del Santo Padre in Giordania arriva in un momento delicato in cui il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha dato segnali di apertura verso la risoluzione della crisi mediorientale, ma ha detto al tempo stesso un fermo no al terrorismo.
Da moderata non posso che rallegrarmi delle parole di Benedetto XVI, parole di pace e di comprensione, di apertura e di dialogo. Parole di un fine teologo che ha messo al centro del proprio mandato i diritti inalienabili dell'uomo, la solidarietà, la misericordia, la sacralità della vita.
Nelle sue prime dichiarazioni il Papa ha sottolineato l'importanza del dialogo tra le grandi religioni monoteiste ammonendo contro l'estremismo e una certa strumentalizzazione della religione. Ricordando che "viene sfigurata quando viene costretta a servire l'ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l'abuso".
Ma quello che mi sembra significativo sottolineare è il suo appello allo spirito, alla forza spirituale in grado di unire tutti gli uomini in un futuro comune di pace, appello lanciato dal monte Nebo, dove si schiudono le porte della Terrasanta, dove Mosé vide la Terra promessa. Un luogo altamente simbolico, una cerniera proiettata verso il futuro. Una grande via di comunicazione, la prima e la più importante.
Le parole del Papa fanno appello alla bontà dell'essere umano, contro ogni forma di sopruso e di violenza: plaudo alle sue posizioni contro la temibile avanzata di quell'estremismo figlio di un nichilismo ipocrita che vuole annientare ogni forma di comprensione e ogni progetto di convivenza.
Ecco perché oggi ribadisco il mio fermo no al terrore, alla violenza, all'estremismo, alla prepotenza dell'uomo sull'uomo. Dico no a chi sventola la testa delle donne come una bandiera politica, no all'imposizione di un velo che non ha nulla a che vedere con la dottrina islamica, no al nazi-fascismo islamico che vede il mondo come un territorio di conquista da segregare entro griglie semantiche. La violenza che prende i precetti religiosi come proprio fondamento è incompatibile con ogni forma di dialogo perché si appella a un primato ontologico assoluto.
Si parla tanto di scontro di civiltà, ma spesso non ci si accorge che si tratta di una cartina di tornasole: la battaglia vera, forte, in atto, è quella tra moderati musulmani ed estremisti musulmani, cruciale per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'uomo che oggi sono messi in discussione.
Non capisco quelli che vanno a braccetto con personaggi come Karzai o Ahmadinejad: temo di dovere affermare che il dialogo con i talebani sia una partita persa in partenza, perché non esiste peggior sordo di chi non vuol sentire. Ma se qualcuno di quei signori vuole dimostrarci il contrario, saremo contenti di ascoltarlo, com’è nostra abitudine fare con chi è disposto a sedersi per ascoltare e parlare civilmente.
Credo che le parole del Papa abbiano dato un segnale forte di impegno in nome della fratellanza, un segnale che si appella al Dio da cui tutti veniamo. Un padre grande e misericordioso che ama i suoi figli indistintamente. E’ questo il messaggio più importante di Benedetto XVI in un momento in cui il mondo intero è scosso da eventi luttuosi, guerre, povertà, tensioni sociali. Un messaggio che dà speranza e invita ad agire per il bene comune. Un messaggio che noi moderati accogliamo con gioia e che ci sprona a lavorare più intensamente.
Il prossimo Meeting annuale di Comunione e Liberazione in programma a Rimini verterà sul dialogo tra le culture: io ci sarò per celebrare l’alba di una nuova stagione di comprensione. Sono sicura che si tratta di un’ottima occasione per porre le basi per una riflessione pacata e ponderata su come rafforzare in seno al mondo arabo il pensiero di noi moderati, ormai stufi di essere presi di mira, attaccati, derisi o, peggio ancora, ignorati da un nichilismo sovversivo e violento che non dovrebbe avere alcun margine in un mondo civile.
Ha ragione Aamin Malouf quando dice che “la violenza ha dimostrato che non può risolvere nessun problema”. E’ necessario sedersi assieme per trovare una soluzione definitiva alla questione mediorientale. E, riprendendo le sue parole, “in questo contesto diventa essenziale il ruolo di un'autorità morale che crei punti di riconciliazione”.
DIARIO DA L’AQUILA/ Storia di Stefania, la mamma di Onna - Redazione - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Un fine settimana denso di Fede quello che si sta per concludere. Testimonianze forti, vite toccate che hanno trovato in Dio una risposta a tanto dolore. A Onna, luogo ormai simbolo della martoriata terra sconvolta dal terremoto, ieri si è svolta la tradizionale festa della protettrice, la Madonna delle Grazie. Tanta gente, nonostante la tradizionale “discesa” della statua dalla nicchia in cui era custodita, fino in mezzo alla gente.
Non c’è stata la processione per le strade le paese, ma c’era tanta gente a pregare in un pellegrinaggio tra le tende. Non solo abitanti del luogo ma anche i famigliari dei vigili del fuoco, di tanti volontari, che hanno voluto vivere questo momento di preghiera insieme al vescovo. La statua era stata salvata nei giorni dopo il terremoto dalle macerie della chiest. Era rimasta intatta. Tanta gente anche sabato, quando è stato recitato il rosario e alla successiva veglia di preghiera.
Un paese che dopo il silenzio accanto ai morti, ai rumori in mezzo alle macerie, all’improvviso si è risvegliato. A Onna un cuore fatto con le pietre, e su ogni pietra il nome di una delle quaranta persone che hanno perso la vita la notte del 6 aprile. Un cuore che rappresenta quello della gente, che ha chiesto aiuto, che ha ricevuto aiuto, ma che per capire cosa è veramente successo si è rivolta alla Madonna.
E grazie a Dio lo ha detto anche Stefania. A Onna è viva grazie a un’intuizione. Stefania, 39 anni, è viva insieme al marito Vincenzo, un falegname e ai due figli, Gloria e Stefano, di appena sette mesi. La sua casa non c’è più, distrutta, i suoi vicini sono morti sotto le macerie. «Grazie a Dio sono viva», racconta lei. «Ho pensato a Stefano e a Gloria dopo quello che è successo e ho detto mio Dio ti ringrazio».
Sono vivi perché usciti di casa per paura. «Dopo la prima scossa ho avuto paura e abbiamo deciso di uscire, andando in una rimessa degli attrezzi accanto casa. Avevo la sensazione che se ci fosse stata un’altra scossa saremmo tutti morti. Il nostro vicino ci ha invitato a salire da lui per superare la paura. Siamo rimasti lì. Rodolfo, il nostro vicino oggi non c’è più. Dopo la scossa forte mi sono ritrovata in giardino. Ho guardato i miei figli e ho ringraziato Dio».
Adesso è la mamma di Onna. Il suo bambino piccolo è per tutti il futuro, da cui ripartire, per costruire una nuova comunità. Ieri la famiglia era unita, davanti all’arcivescovo nel tendone dove è stata celebrata la messa. Dietro le autorità insieme alla gente del paese. Non un momento di dolore, un momento di fede, di ringraziamento per quello che è accaduto.
(Fabio Capolla – Giornalista de Il Tempo)
FILOSOFIA/ Esplorare la realtà: Michael Polanyi e il senso dell’esistenza umana - Carlo Vinti - lunedì 11 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Michael Polanyi, (Budapest 1891 - Oxford 1976), prima chimico di professione con risultati importanti nel campo specifico delle sue ricerche al Kaiser Wilhelm Institut di Berlino e alla Victoria University di Manchester, poi – sempre a Manchester e al Merton College di Oxford - sociologo della scienza ed epistemologo, è stato uno dei più incisivi esponenti della “nuova filosofia della scienza”, quel movimento di pensiero che, nella seconda metà del secolo scorso, ha contribuito a cambiare l’immagine tradizionale del sapere scientifico. Chi non ricorda l’idea nuova della scienza tra “paradigmi e rivoluzioni” consegnataci da Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, o quella provocatoria di una scienza metodologicamente “anarchica” presentata da Paul Feyerabend in Contro il metodo?
L’OPERA
Sebbene l’opera maggiore di Polanyi, La conoscenza personale del 1958, sia stata da tempo tradotta nella nostra lingua (Rusconi, Milano 1990), così come le altre sue opere più significative (Scienza, fede e società del 1946, 19642, Armando, Roma 2007; La logica della libertà, del 1951, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002; Studio dell’uomo del 1959, Morcelliana, Brescia, 1973; La conoscenza inespressa del 1966, Armando, Roma, 1979; Conoscere ed essere del 1969, Armando, Roma, 1988) il suo pensiero non ha avuto in Italia la fortuna che si merita, anche se, oggi, sempre più studenti e giovani ricercatori lo fanno oggetto di tesi di laurea e di dottorato.
La posizione teorica di Polanyi ruota attorno a due nuclei fondamentali: difesa intransigente ed appassionata della nozione di “conoscenza personale” in ambito epistemologico, e del “liberalismo moderato” in ambito politico.
LA CONOSCENZA PERSONALE
Quanto al primo punto Polanyi può venir definito come vero e proprio assertore di un’epistemologia personalista, tendente a mettere in luce come in ogni atto di conoscenza entri «un contributo appassionato della persona», il quale non costituisce un’imperfezione ma «un fattore vitale della conoscenza stessa». Ciò succede, secondo Polanyi, anche nella conoscenza scientifica, vale a dire in quel tipo di conoscenza che il senso comune e lo stesso convincimento degli addetti ai lavori - filosofi ed epistemologi - ritengono caratterizzarsi per la più rigida neutralità e impersonalità.
Una tale posizione, infatti, si pone in dichiarata ed evidente polemica con quegli ideali d’impersonalità, neutralità, universalità e oggettività propria tanto della tradizione epistemologica della modernità – da Descartes a Kant, fino al positivismo – quanto della contemporaneità – dal verificazionismo neopositivistico al falsificazionismo popperiano – e propone un nuovo modo di intendere la conoscenza scientifica. Ciò comporta, naturalmente, che la stessa nozione di persona, in questo contesto evocata, si presenti con sue caratteristiche peculiari, difficilmente assimilabili ad una qualunque nozione di persona che la tradizione filosofica, anche quella del personalismo, ci ha consegnato.
IL METODO SCIENTIFICO
Accettare, anche sul terreno della conoscenza scientifica, come ideale «una conoscenza che sia chiaramente personale», comporta porre l’accento sul fatto che tale conoscenza unisce i caratteri dell’universalità e oggettività con quelli della creatività e inventività individuali, dipende cioè contemporaneamente sia da obbligazioni verso una realtà e una verità che trascendono il singolo ricercatore, sia dall’“impegno” intellettuale del ricercatore stesso, dalle sue convinzioni, dalle sue decisioni, insomma dalla sua “responsabilità personale”.
Polanyi è pienamente consapevole che questa sua posizione può venir definita come soggettivistica. È da capire allora la sua insistenza sul fatto che per lui il concetto di “personale” «trascende la distinzione tra il soggettivo e l’oggettivo», perché il soggetto nell’esercizio della “conoscenza personale” partecipa appassionatamente con tutte le sue risorse soggettive, spirituali e corporee, ma allo stesso tempo si sottopone ad esigenze indipendenti da sé. Il “personale” implica perciò la correlazione imprescindibile, in ogni atto di conoscenza, tra una realtà e una verità indipendenti dal soggetto conoscente, inesauribili ad ogni suo tentativo di coglimento mai esaustivo e definitivo, e la formazione di un giudizio su di esse, di un giudizio appunto che reclama un atto personale di interpretazione. Si tratta di un atto che comporta un impegno, un abbandono fiducioso e responsabile, una specie di devota sottomissione e d’obbligazione verso la realtà e la verità, il quale non cancella, ma innesca e sorregge quel potere euristico, quella forza intuitiva, creativa e immaginativa, quell’“abilità (skill)”, che guida l’appassionata partecipazione del soggetto conoscente all’atto del conoscere: «È a questo potere e a questa partecipazione», ribadisce Polanyi, «che mi riferisco quando parlo della conoscenza personale».
Insomma, la conoscenza scientifica in quanto conoscenza personale è, come ogni altra esperienza umana, “un’arte”, è cioè il risultato di un insieme di fattori di cui il soggetto dispone come patrimonio implicito, una dote ricevuta dalla tradizione, dall’educazione, coltivata nella comunità, sviluppata poi con le proprie personali e originali capacità. Nel contesto polanyiano, perciò, il personale si costituisce nella complessa dialettica di passività e attività, autorità e libertà, assenso e critica, più in generale, per usare uno schema a lui caro, di dimensione tacita ed esplicita della conoscenza.
COME AGOSTINO
E perché non avvicinare questo schema a quello paolino e agostiniano della grazia, cioè della dialettica di libertà umana e iniziativa divina? Infatti, uno degli aspetti più interessanti della riflessione polanyiana è che essa, dopo i dualismi e i separatismi che hanno caratterizzato la cultura moderna e contemporanea, tende a recuperare una visione unitaria della esperienza umana già a suo tempo intravista agli albori della esperienza cristiana, dai primi Padri della chiesa e da Sant’Agostino, in modo particolare nel momenti in cui egli sottolinea l’inscindibile nesso tra fede e ragione. In un indimenticabile passo di La conoscenza personale, che costituisce una specie di epistemologia agostiniana, Polanyi giunge a definire Agostino, non l’esponente di un pensiero immaturamente pre-kantiano e pre-critico, ma come l’autentico propugnatore di un pensiero che, superando le unilateralità illuministiche già presenti nel pensiero greco, ha inaugurato l’era del pensiero post-critico. Si tratta di un pensiero non più antimetafisico e antireligioso e che, pur delineando con puntualità il posto dell’uomo nell’universo, lo mantiene nel rischio essenziale di “vivere e di credere (of living and believing)”, di vivere nel mondo, conoscerlo e trovare in esso tracce, indizi, “spunti per andare verso Dio (clues to God)”.
IL PENSIERO POLITICO
Polanyi è anche un pensatore politico. Infatti, alle tesi appena ricordate, che costituiscono appunto il nucleo di un’ epistemologia personalista, a partire da La logica della libertà del 1951 ma anche in capitoli centrali di tutte le altre opere si accompagnano interessanti elaborazioni di una dottrina politica che potremmo definire liberalismo moderato, tendente, da una parte a difendere ed esaltare la tradizione delle democrazie inglesi e americane – tradizione che ha fatto del riformismo, del gradualismo e del pluralismo i principi fondamentali dell’operare politico – e, dall’altra, ad assumere un atteggiamento assolutamente intransigente nel rivendicare lo spazio pubblico per le libertà individuali contro ogni ingerenza politica ed economica di uno statalismo centralizzato ed opprimente, come è stato quello dell’esperienza totalitaria del comunismo sovietico. È significativo ricordare come questa intransigenza abbia portato Polanyi non solo ad anticipare, pur nella distinzione teorica, autentici classici liberali come Popper e von Hayek, ma ad assumere rapporti di freddezza addirittura con suo fratello Karl, autore, come è noto, del classico del pensiero economico La grande trasformazione, Karl che era stato suo compagno di giovanili battaglie libertarie con la comune appartenenza liceale al “Galileo Circle” di Budapest.
L’UOMO NEL MONDO
laquo;Siamo esploratori», dice con bella immagine Polanyi nel tentativo di riassumere la situazione dell’uomo e il senso della sua avventura nel mondo. «Non abbiamo certezze precostituite. Nella nostra ricerca della terra promessa ma ancora sconosciuta» Polanyi era un ebreo convertitosi al cristianesimo, «disponiamo di mappe provvisorie e sempre rivedibili. Ma come per ogni esploratore autentico, per ogni Cristoforo Colombo, la terra è lì ad aspettarci, si offre anzi ai nostri sforzi investigativi. E non importa se essa, alla fine del viaggio, non è quella che immaginavamo al momento della partenza o quella che avevamo disegnato nelle nostre carte: se non riusciamo a trovare le Indie c’è pur sempre un’America da scoprire».