Nella rassegna stampa di oggi:
1) Va a Lourdes, donna riprende a camminare - DA FROSINONE – Avvenire, 5 maggio 2009
2) Joseph Ratzinger: "Israele, la Chiesa e il mondo"
3) Benedetto XVI e i fondamenti della cultura - Dalla bellezza e dal lavoro la speranza in tempo di crisi - Pubblichiamo una sintesi dell'intervento "Come parlare pubblicamente di Dio in Europa" in uscita sul nuovo numero di "Atlantide", quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini. - di Javier Prades Facoltà San Damaso di Madrid – L’Osservatore Romano, 5 maggio 2009
4) DIRITTI UMANI/ Come le storie di Delara e Samantha sfidano la nuova Europa - Mario Mauro - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) DIARIO DA L’AQUILA/ La dolce storia dei Nurzia: ricominciamo dal torrone - Redazione - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) FILOSOFIA/ Thoreau, l'idolo degli ambientalisti attratto dall’abisso dell’io - Anthony Graybosch - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
7) RAZIONALITÀ FREDDA E ANONIMA SULLA FINE VITA - La morte burocratizzata può essere un’aspirazione? - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 5 maggio 2009
8) LA SCUOLA E L’EUROPA - «Impossibile chiudere la religione nel privato» - Il cardinale Erdo: una forte identità aiuta il dialogo - DAL NOSTRO INVIATO A STRASBURGO - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 maggio 2009
9) l’intervista Don Antonio Villa e la scuola di Tarcento, esempio di comunità: «Adulti e ragazzi, abbiamo tutti bisogno di imparare a vivere» - DA TARCENTO (UDINE) – Avvenire, 5 maggio 2009
Va a Lourdes, donna riprende a camminare - DA FROSINONE – Avvenire, 5 maggio 2009
«La Madonna mi ha guarito, mi ha fatto il miracolo, la gamba non mi fa più male, sento qualcosa » . È stato l’urlo di gioia di una donna di 50 anni, Rosa Mollica, di Ripi, un paese in provincia di Frosinone, malata di sclerosi multipla, che dopo aver assistito nella grotta di Lourdes ad una messa con altri malati, si è messa a camminare davanti a centinaia di pellegrini, gettando il bastone con cui si trascinava da 20 anni. Lo ha raccontato, di ritorno dal pellegrinaggio, il presidente dell’Associazione per la sclerosi multipla ( Aism) di Frosinone Paola Amicizia, che era con la donna.
« Come ogni anno siamo partiti con altri volontari per portare i nostri malati a Lourdes - ha detto Amicizia - . Rosa la scorsa settimana camminava a fatica trascinando le gambe con l’aiuto di un bastone. Dopo qualche giorno, dopo la celebrazione di una Messa, ha detto di sentire qualcosa alle gambe. Ha gettato via tutto ciò che la sosteneva ed ha cominciato a camminare come se non avesse avuto mai nulla. Ora è felicissima. Quel giorno non faceva altro che abbracciarmi, ringraziarmi e dirmi che a Lourdes doveva andarci prima. Sono ancora scossa, mi vengono i brividi solo a raccontare questa storia » .
La donna che dice di essere stata miracolata nei suoi giorni a Lourdes è andata più volte a recitare il rosario, ad assistere a funzioni religiose e a bagnarsi nella piscina che è accanto alla grotta. A Lourdes, come racconta anche il giornale locale ' La Provincia, era arrivata, insieme ad altri fedeli frusinati, lo scorso 27 aprile in occasione del pellegrinaggio annuale. Da Frosinone erano partite circa 350 persone, provenienti da tutta la Ciociaria, tra malati, accompagnatori, familiari e assistenti. Con il treno avevano raggiunto il centro dei Pirenei francesi e qui avevano iniziato il loro percorso di fede e di speranza concluso con quella che, al momento, sembra una guarigione inspiegabile.
Dalla Casa Santa Bernardette, dove soggiornava il gruppo di Rosa Mollica, la notizia è arrivata subito ad un organizzatore di pellegrinaggi, Enrico Esposito, che ha avvertito l’equipe medica del vicino centro di Lourdes incaricata di verificare i casi di guarigione. I medici hanno visionato il certificato medico che la donna aveva portato con sè come fanno tutti i malati che vanno a Lourdes sperando nel miracolo. Ora quelle carte e quella guarigione sono all’esame dei medici del centro, diretto da un italiano. Ci vorranno lunghi esami, come è prassi nella struttura medica della cittadina pirenaica dove la Madonna apparve a Bernardette, per stabilire se si tratti di un nuovo miracolo.
Di certo è che Rosa Mollica, una casalinga, venerdì scorso, dice chi era con lei in pellegrinaggio, quando è scesa dal treno a Frosinone lo ha fatto con le sue gambe e senza bastone.
Joseph Ratzinger: "Israele, la Chiesa e il mondo"
"I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992"
ROMA, lunedì, 4 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa nel 1994, poco dopo il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede, il Cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, tenne un discorso importante a Gerusalemme, ospite della "International Jewish-Christian Conference" in cui espresse "il personale sostegno alle relazioni Israele-Vaticano e a favore dell'avanzamento dei rapporti fra ebrei e cristiani".
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Introduzione
La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.
Il compito della riconciliazione
Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell'accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un'ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell'ebraismo, ma che odiava l'eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell'unico Dio e della professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall'«essenza del cristianesimo», così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo? Si tratta di una ipotesi che, dinanzi agli orrori della storia, è stata formulata negli ultimi decenni proprio da alcuni pensatori cristiani. Ma allora la professione di fede in Gesù di Nazareth come figlio del Dio vivente e la fede nella croce come redenzione dell'umanità implicano necessariamente una condanna degli ebrei per la loro ostinazione e cecità, in quanto colpevoli della morte del figlio di Dio? Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all'intolleranza, anzi all'ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l'auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?
Riconciliazione senza abbandono della fede cristiana?
In questa sua drammatica acutizzazione il problema si pone oggi ben al di là di un dialogo puramente accademico tra le religioni, coinvolgendo le scelte fondamentali di questo momento storico. Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l'autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell'epoca. Questa interpretazione dei fatti può rappresentare una sfida che costringe l'esegesi a un ascolto attento e preciso dei testi e, in tal modo, può forse essere anche di qualche utilità. Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell'ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell'impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.
Resta allora la domanda: può la fede cristiana, senza perdere il suo rigore e la sua dignità, non solo tollerare l' ebraismo, ma accoglierlo nella sua missione storica? Può esserci vera riconciliazione senza abbandono della fede oppure la riconciliazione è legata a una simile rinuncia?
La risposta del «Catechismo della Chiesa cattolica»
Per rispondere a questa domanda, che coinvolge noi tutti molto profondamente, non voglio esporre le mie riflessioni, ma piuttosto cercare di mostrare quale sia la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica edito nel 1992. Questo libro fu pubblicato dal magistero della Chiesa come espressione autentica della propria fede; allo stesso tempo, proprio avendo i davanti agli occhi Auschwitz e il compito lasciato dal Vaticano II, la questione della riconciliazione vi è affrontata come intimamente connessa alla questione stessa della fede. Vediamo dunque in che modo esso si ponga rispetto alla nostra domanda a partire da questo suo compito.
Giudei e pagani nel racconto dei magi venuti dall'Oriente (Mt 2,1-12)
Come avvio, scelgo il testo con cui il Catechismo spiega la storia dei magi venuti dall'Oriente in Mt 2,1-12. Questi uomini sono considerati dal Catechismo come l'origine della Chiesa proveniente dai pagani e come un riflesso permanente del loro cammino. In proposito il Catechismo scrive: «La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei (Mt 2,2) mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell'Antico Testamento. L'Epifania manifesta che "la grande massa delle genti" entra "nella famiglia dei patriarchi" e ottiene la dignitas israelitica - la dignità israelitica» (528).
La missione di Gesù: la riunione di giudei e pagani
In questo testo si coglie bene come il Catechismo veda la relazione tra i giudei e le altre nazioni del mondo nella prospettiva comunicataci da Gesù; nel contempo esso ci offre anche una prima descrizione della missione di Gesù stesso. Potremmo dire: la missione di Gesù è dunque la riunione di giudei e pagani in un unico popolo di Dio, in cui si compiono le promesse universalistiche della Scrittura, che a più riprese affermano che tutti i popoli adoreranno il Dio di Israele, al punto che nel Terzo Isaia non si legge più solamente del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, ma viene annunciato l'invio di messaggeri ai popoli «"che non hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria [...]. Anche da essi mi prenderò dei sacerdoti e dei leviti", dice il Signore» (Is 66,19.21).
Per spiegare la riunione di Israele e delle nazioni, il breve testo del Catechismo - sempre interpretando Mt 2 - ci presenta un insegnamento sul rapporto tra le religioni del mondo, la fede di Israele e la missione di Gesù: le religioni del mondo possono diventare la stella che guida gli uomini sulla via e li conduce alla ricerca del regno di Dio. La stella delle religioni indica Gerusalemme, si spegne e torna a splendere nella parola di Dio, nella Sacra Scrittura di Israele. La parola di Dio che vi è custodita si dimostra la vera stella, senza la quale e a prescindere dalla quale non è possibile giungere alla meta.
Il Catechismo, quando designa la stella come «stella di Davide», collega la storia dei magi all'oracolo di Balaam sulla stella che si muove da Giacobbe (Nm 24,17) e vede questo oracolo a sua volta in stretto rapporto con la benedizione di Giacobbe su Giuda, che promette il bastone del comando e lo scettro a colui cui è dovuta l'obbedienza dei popoli (Gn 49,10). Il Catechismo vede in Gesù questo germoglio di Giuda che riunisce Israele e le nazioni nel regno di Dio.
La storia di Abramo deve diventare la storia di tutti
Che significa tutto ciò? La missione di Gesù consiste dunque nel riunire tutti i popoli nella comunione della storia di Abramo, della storia di Israele. La sua missione è unione, riconciliazione, come si legge anche nella lettera agli Efesini (2,18-22). La storia di Israele deve diventare la storia di tutti, la figliolanza di Abramo deve dilatarsi fino a comprendere i «molti». Questo processo ha due aspetti: i popoli possono entrare nella comunione delle promesse di Israele nella misura in cui entrano nella comunione dell'unico Dio, che ora diventa e deve diventare la via di tutti, poiché vi è un solo Dio e la sua volontà è quindi verità per tutti. D'altra parte questo significa che tutti i popoli, senza che per ciò venga meno la missione particolare di Israele, mediante il legame con la volontà di Dio e l'accettazione del regno di Davide, diventano fratelli e partecipi delle promesse del popolo eletto e quindi, insieme con lui, popolo di Dio.
«La salvezza viene dai giudei»
Un'altra osservazione può qui essere utile. Se la storia dei magi, nell'interpretazione del Catechismo, presenta la risposta dei libri sacri di Israele come indicazione decisiva e irrinunciabile per tutti i popoli della terra, per ciò stesso essa non è altro che una variazione dello stesso tema che si incontra nella formula giovannea «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli nel popolo di Dio senza l'accettazione credente della rivelazione di Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento.
In sintesi, possiamo dire che Antico e Nuovo Testamento, Gesù e sacra Scrittura di Israele appaiono qui inseparabili. La nuova dinamica della sua missione, la riunione di Israele e delle nazioni, corrisponde alla dinamica profetica dello stesso Antico Testamento. La riconciliazione nel riconoscimento comune del regno di Dio, della sua volontà come via, è il nucleo della missione di Gesù, in cui la persona e il messaggio sono in separabili: questa missione è già operante nell'istante in cui egli giace ancora muto nella mangiatoia. Non si è capito nulla di lui se non si entra con lui nella dinamica della riconciliazione.
2. Gesù e la Legge: non abolizione ma «compimento»
Tuttavia la grande visione di questo testo lascia aperta una domanda: come si realizza storicamente ciò che appare qui prefigurato nell'immagine della stella e degli uomini che la seguono? L'immagine storica di Gesù, il suo messaggio e la sua opera corrispondono a questa visione o non finiscono proprio per contraddirla?
Ora non c'è nulla di tanto discusso quanto la questione del Gesù storico. Il Catechismo, come libro della fede, muove dalla convinzione che il Gesù dei Vangeli è l'unico Gesù autenticamente storico. Partendo da questo presupposto esso presenta anzitutto il messaggio di Gesù usando un'espressione riassuntiva di tutto, «Regno di Dio», in cui sono compresi i diversi aspetti del messaggio di Gesù, di modo che essi ricevono il loro senso e il loro contenuto concreto proprio a partire di qui (541-560).
Poi il Catechismo mostra la relazione Gesù-Israele in tre ambiti di riferimento: Gesù e la Legge (577-582), Gesù e il Tempio (583-586), Gesù e la fede d'Israele nel Dio unico e Salvatore (587-591). Passa quindi a esaminare il destino finale di Gesù: la sua morte e resurrezione, in cui i cristiani vedono realizzato e portato alla sua massima profondità teologica il mistero pasquale di Israele.
Gesù e Israele
Qui ci occuperemo in particolare del capitolo centrale su Gesù e Israele, che è fondamentale anche per l'interpretazione del concetto di regno di Dio e per la comprensione del mistero pasquale. Ora, sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell'unicità di Dio a portare in se tutta la carica esplosiva delle lacerazioni ebraico-cristiane. È possibile comprenderli in maniera storicamente corretta, coerente con la fede e nel primato della riconciliazione?
A dare di farisei, sacerdoti e giudei un'immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell'oppressione altrui. In linea con queste , interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l'ordine stabilito nello Stato. Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell'uomo sull'uomo mascherato dalla religione, come l'avvio di quella rivoluzione in cui egli ha sì dovuto soccombere, ma che proprio con la sua sconfitta ha trovato un inizio che ora deve portare alla vittoria definitiva. Se Gesù dev'essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.
Fedeltà di Gesù alla Legge
È di per se chiaro che il Catechismo non condivide questa ottica. Per tali questioni esso si attiene soprattutto all'immagine di Gesù del Vangelo di Matteo e vede in Gesù il Messia, il più grande nel regno dei cieli; come tale egli si sapeva obbligato a «osservare la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi precetti» (578).
Il Catechismo collega dunque la particolare missione di Gesù alla sua fedeltà alla Legge; vede in lui il Servo di Dio, che porta davvero il diritto (Is 42,3) e diventa perciò «Alleanza del popolo» (Is 42,6; Catechismo 580). Il nostro testo è dunque molto lontano dai superficiali tentativi di armonizzazione della storia di Gesù carica di tensioni. E anziché interpretare il suo cammino in modo superficiale, nel senso di un presunto attacco profetico al rigido legalismo, cerca di far emergere la sua autentica profondità teologica.
Lo si vede chiaramente nel passo che segue: «Il principio dell'integralità dell'osservanza della Legge, non solo nella lettera ma nel suo spirito, era caro ai farisei. Mettendolo in forte risalto per Israele, essi hanno condotto molti Ebrei del tempo di Gesù a uno zelo religioso estremo. E questo, se non voleva risolversi in una casistica "ipocrita", non poteva che preparare il Popolo a quell'inaudito intervento di Dio che sarà l'osservanza perfetta della Legge da parte dell'unico Giusto al posto di tutti i peccatori» (579). Questo pieno adempimento della Legge implica che Gesù prenda «su di sé "la maledizione della legge" (Gal 3 ,13), in cui erano incorsi coloro che non erano rimasti fedeli "a tutte le cose scritte nel libro della Legge" (Gal 3,10» (580). La morte in croce trova così una spiegazione teologica a partire dall'intima solidarietà con la Legge e con Israele; in questo contesto il Catechismo pone un legame con il giorno dell'Espiazione e intende la morte di Cristo come il grande evento espiativo-conciliativo, come piena e completa realizzazione di ciò che i segni del giorno dell'Espiazione significano (433; 578).
Compimento della Torah mediante la Legge del Vangelo
Con queste affermazioni siamo giunti al centro del dialogo ebraico-cristiano, al decisivo punto nodale tra riconciliazione e lacerazione.
Prima di proseguire nell'interpretazione della figura di Gesù che stiamo qui delineando, dobbiamo ancora chiederci che cosa significa questa visione della figura storica di Gesù per l' esistenza di coloro che si sanno radicati nell' «olivo di Israele», nella figliolanza di Abramo.
Laddove il conflitto di Gesù con il giudaismo del suo tempo viene presentato in maniera superficialmente polemica, si finisce per derivarne un'idea di liberazione che può intendere la Torah solo come una servitù a riti e osservanze esteriori.
La visione del Catechismo, tratta principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall'insieme della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa, che desidero qui" esporre in modo esauriente: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge [ = della Torah]. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità[...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l'imitazione della perfezione del Padre celeste[...]» (1968).
L'unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai
Questa visione di una profonda unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un'affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti (1970; M t 7,12; 22,34-40; M c 12,29-31; Lc 10,25-28; Gv 13,34; Rm 13,8-10). Per i popoli l'inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell'unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema' Isra'el, al sì all'unico Dio. All'uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione.
Con ciò si palesa anche la profondità ontologica di queste affermazioni: con il sì al duplice comandamento l'uomo assolve il compito della sua natura, che è stata voluta dal creatore come immagine e somiglianza di Dio e che, in quanto tale, si realizza nella con divisione dell'amore divino.
Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo. Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell'unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l'uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via. Ebrei e cristiani devono rendere testimonianza all'unico Dio, al creatore del cielo e della terra, e lo devono fare in quella totalità che trova espressione esemplare nel salmo 19: la luce della creazione fisica, il sole, e la luce spirituale, il comandamento di Dio, sono inseparabilmente legate l'una all'altra. Nella parola di Dio e nel suo splendore parla lo stesso Dio che è testimoniato nel sole, nella luna e nelle stelle, nella bellezza e pienezza della creazione. «Il sole è onore del cielo, ma la tua legge, o Signore, è ancora più grande».
L'interpretazione che Gesù dà della Legge: conflitto e riconciliazione
Ora però si pone inevitabilmente la domanda: una simile visione del legame tra Legge e vangelo non è forse un arbitrario tentativo di armonizzazione? Come si spiega allora il conflitto che ha portato Gesù sulla croce? Tutto ciò non è in contrasto con l'interpretazione della figura di Cristo dataci da Paolo? Non viene così smentito l'intero insegnamento paolino sulla grazia a favore di un nuovo moralismo e con ciò non viene annullato l'articulus stantis et cadentis ecclesiae, la novità essenziale del cristianesimo?
La parte morale del Catechismo, da cui abbiamo tratto l'esposizione fin qui presentata della via cristiana, su tale punto corrisponde pienamente a ciò che in precedenza avevamo desunto dalla parte dogmatica relativa alla figura di Cristo. A ben vedere, da questo fatto emergono due aspetti essenziali, in cui è racchiusa la risposta alle nostre domande.
La profonda compenetrazione dei due Testamenti
Con la presentazione appena esposta dell'intima continuità e coerenza tra Legge e vangelo, il Catechismo resta rigorosamente all'interno della tradizione cattolica, così come è stata formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. In essa il rapporto fra Torah e annuncio di Gesù non è mai stato visto in chiave dialettica, per cui Dio apparirebbe nella Legge sub contrario, e dunque come avversario di se stesso [1]. In essa non vigeva la dialettica, bensì l'analogia, lo sviluppo nell'intima corrispondenza, in conformità con la bella affermazione di sant' Agostino: nell'Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo è manifesto l'Antico. Per illustrare la profonda connessione tra i due Testamenti che ne deriva, il Catechismo cita un testo molto bello di san Tommaso: «Ci furono [...], nel regime dell' Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali [...]» (1964; Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2).
La Torah come creazione unitaria
Con ciò si è anche già detto che la Legge viene letta profeticamente, nella tensione interiore della promessa. Quel che significa una simile lettura dinamico-profetica emerge nel catechismo dapprima in una duplice forma: la Legge è portata alla sua pienezza mediante il rinnovamento del cuore (1968); esteriormente ciò ha come conseguenza il venir meno delle osservanze rituali e giuridiche (1972). A questo punto si pone però una nuova domanda: come è potuto accadere? Come si concilia tutto ciò con il compimento della Legge fino all'ultimo iota? Poiché, in effetti, non si possono separare i principi morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e dall'altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto inseparabili.
Gesù vive fino in fondo nella Legge d'Israele, come mediatore dell' universalità di Dio.
Ci troviamo così davanti a un paradosso: la fede di Israele era indirizzata all'universalità; poiché si rivolgeva all'unico Dio di tutti gli uomini, portava in sé la promessa di divenire la fede di tutti i popoli. Ma la Legge in cui trovava espressione era particolare, riferita in maniera molto concreta a Israele e alla sua storia; in questa forma essa non poteva essere universalizzata. Nel punto nodale di tale paradosso si trova Gesù di Nazareth che, come ebreo, viveva lui stesso fino in fondo nella Legge d'Israele, ma che, al contempo, si sapeva mediatore dell'universalità di Dio. Questa mediazione non poteva avvenire mediante un calcolo politico o un'interpretazione filosofica. In ambedue i casi l'uomo si sarebbe posto al di sopra della parola di Dio e l'avrebbe adattata ai propri criteri. Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un'interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele.
La sua apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da Gesù ha senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a spiegare se stesso.
Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)
Il conflitto che si conclude sulla croce
Solo spingendosi fino a questo punto si coglie la tragica profondità del conflitto. Da una parte Gesù ha aperto la Legge, ha voluto aprirla non come un liberale, non con una minore fedeltà, ma nella più stretta obbedienza al pieno compimento, a partire dal suo essere una cosa sola con il Padre, ovvero dall'unica realtà in cui Legge e promessa potevano diventare una cosa sola e Israele poteva divenire benedizione e salvezza per i popoli. Dall'altra parte Israele «doveva» vedere in tutto ciò qualcosa di molto più grave della semplice trasgressione di questo o quel precetto, cioè la violazione dell'obbedienza fondamentale, del nucleo originario della rivelazione ricevuta e della sua fede: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è un unico Dio».
Qui due diverse obbedienze si scontrano ed entrano in quel conflitto che doveva concludersi sulla croce. Riconciliazione e dissidio appaiono così intrecciati tra loro in un paradosso davvero insolubile.
In questa teologia del Nuovo Testamento che il Catechismo ci presenta, la croce non può quindi essere vista come un incidente in fondo evitabile e neppure come la colpa di Israele, di cui quest'ultimo resterebbe macchiato in eterno, a differenza dei pagani per i quali essa significherebbe la redenzione. Secondo il Nuovo Testamento non ci sono due effetti della croce, uno che condanna e uno che salva, ma uno solo, quello che salva e che riconcilia.
La speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo
In questo contesto è importante un passo del Catechismo che interpreta la speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo, ricollegandola al sacrificio di Isacco: la speranza cristiana ha cioè «la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo». Il testo prosegue ricordando che Abramo fu «colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio» (1819). Grazie alla sua disponibilità al sacrificio del figlio Abramo diventa in modo definitivo il padre delle moltitudini, benedizione per tutti i popoli della terra (cfr. Gn 22).
Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell'Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte alloro significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L'universalizzazione della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità di culto ed ethos. L'ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale. Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo.
La croce
Da questo modo di intendere Gesù, la sua pretesa e il suo destino, deriva nel Catechismo il giudizio storico e teologico sulla responsabilità di giudei e pagani riguardo all'evento della crocifissione.
Nessuna colpa collettiva dei giudei
Innanzitutto si pone la questione storica dello svolgimento del processo e dell'esecuzione della condanna. I titoli delle quattro sezioni del Catechismo che trattano questo argomento indicano già l'orientamento: «Divisioni delle autorità ebraiche a riguardo di Gesù», «Gli Ebrei non sono collettivamente responsabili della morte di Gesù». Il Catechismo ricorda in proposito che, secondo la testimonianza degli evangelisti, alcune personalità giudaiche molto stimate erano seguaci di Gesù, anzi, che, secondo Giovanni, poco prima della morte di Gesù «molti dei capi credettero in lui» ( Gv 12,42). Il Catechismo ricorda anche che all'indomani della Pentecoste, stando agli Atti degli Apostoli, «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7). Viene inoltre citata l'affermazione di Giacomo secondo cui «parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede, e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20 ). È così messo in chiaro che il racconto del processo di Gesù non può in alcun modo fondare la tesi di una colpa collettiva degli ebrei; il Vaticano II viene espressamente citato: «Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato ne indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, ne agli Ebrei del nostro tempo [...]. Gli Ebrei non devono essere presentati ne come rigettati da Dio, ne come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (597; Nostra aetate 4).
Tutti i peccatori sono autori della Passione di Cristo
Dopo quanto si è finora osservato è chiaro che con tali analisi storiche - per quanto importanti - non si è ancora toccato il vero nodo della questione, poiché la morte di Gesù, secondo la fede del Nuovo Testamento, non è solo un fatto che riguarda la storia esteriore, ma un evento teologico. Il primo titolo nell'analisi teologica della croce è quindi: «Gesù consegnato secondo il disegno prestabilito di Dio»; e ti testo comincia con questa affermazione: «La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio [...]» (599).
Coerentemente, l'analisi delle responsabilità viene conclusa con una sezione dal titolo «Tutti i peccatori furono gli autori della Passione di Cristo». In questo il Catechismo poteva appoggiarsi al Catechismo Romano del 1566. Vi si legge infatti: «Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che (oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono specialmente i vizi e i peccati commessi dagli uomini dall'origine del mondo sino ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla consumazione dei secoli. [...] E questa colpa è da imputarsi a tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i nostri peccati determinato N.S. Gesù Cristo a subire il supplizio della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, "un'altra volta crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e l'espongono all'ignominia" (Ebr. 6,6)».
Il Catechismo Romano de11566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo, «se l'avessero saputo, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria» (1Cor 2,8). Prosegue quindi: «noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo la mani violente contro di lui» (Catech. R. 1,5,11).
Il dramma del peccato umano e l'amore divino
Per chi come cristiano credente vede nella croce non un semplice e casuale fatto storico, ma un vero evento teologico, queste non sono affatto superficiali esortazioni edificanti, di fronte alle quali si deve richiamare il reale svolgimento dei fatti storici; al contrario, solo queste affermazioni si spingono fino al vero nucleo di quell'evento. Tale nucleo consiste nel dramma del peccato umano e dell'amore divino; il peccato umano fa sì che l'amore di Dio per l'uomo prenda la forma della croce. Per questo da una parte il peccato è responsabile della croce, ma dall'altra la croce è la vittoria sul peccato da I parte dell'amore, più forte, di Dio.
Per questo, al di là di tutte le questioni di responsabilità, ciò che in definitiva e più propriamente conta a tale proposito è quanto espresso nella lettera agli Ebrei (12,24), secondo cui il sangue di Gesù ha una voce diversa - più eloquente - da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione.
Fin da bambino - benché naturalmente non sapessi nulla di tutte le nuove conoscenze che sono state riassunte nel Catechismo - mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi era già entrato nell'anima come qualcosa capace di donarmi una profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione; come spiega la lettera agli Ebrei, è esso stesso divenuto il giorno permanente della riconciliazione di Dio.
Uno sguardo al compito comune di ebrei e cristiani per il mondo
Con le riflessioni svolte fin qui non si è certo sviscerato fino in fondo il tema proposto, lo si è solo introdotto. Alla luce del Catechismo abbiamo riflettuto sulla relazione tra Gesù e Israele, su ciò che la Chiesa crede riguardo a Cristo e sul suo rapporto con la fede di Israele, limitandoci, in un tema tanto ampio, ad alcuni elementi fondamentali che il Catechismo intende proporre per l'insegnamento della dottrina nella Chiesa cattolica. Si sono quindi poste le basi per affrontare i la questione del rapporto Israele-Chiesa, nella consapevolezza che una trattazione dettagliata richiederebbe uno studio il cui svolgimento andrebbe ben oltre i limiti di questo saggio (e anche oltre gli stessi limiti dell'insegnamento catechistico). Ancor meno si può qui affrontare la grande questione di un i compito comune di ebrei e cristiani nel mondo attuale. Mi pare però che il nucleo fondamentale di tale compito traspaia da quanto si è detto e risalti di per se stesso: ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace. Mediante la loro testimonianza davanti all'unico Dio, che non vuole essere adorato in nessun altro modo che attraverso l'unità tra amore di Dio e amore del prossimo, essi dovrebbero spalancare nel mondo la porta a questo Dio, perché sia fatta la sua volontà e ciò possa avvenire in terra così come «in cielo»: «perché venga il Suo Regno».
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[1] Questa frase è stata intesa dai miei uditori (ndr: del card. Ratzinger) come un riferimento all'insegnamento di Lutero sui due Testamenti. In effetti avevo presenti alcuni aspetti del pensiero di Lutero, ma ovviamente ero anche consapevole che un'opera tanto complessa e variegata come quella del riformatore tedesco non poteva essere riassunta adeguatamente in una sola frase. Qui non si può e non si deve affrontare ne, tanto meno, giudicare o addirittura condannare la teologia luterana dei due Testamenti. Si vuole semplicemente accennare a diversi modelli di trattazione del problema, per meglio evidenziare la linea agostiniano-tomistica scelta dal Catechismo.
[Testo tratto dal sito: www.nostreradici.it]
Benedetto XVI e i fondamenti della cultura - Dalla bellezza e dal lavoro la speranza in tempo di crisi - Pubblichiamo una sintesi dell'intervento "Come parlare pubblicamente di Dio in Europa" in uscita sul nuovo numero di "Atlantide", quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini. - di Javier Prades Facoltà San Damaso di Madrid – L’Osservatore Romano, 5 maggio 2009
Le solide mura del Collège des Bernardins hanno conosciuto vicende di ogni genere. Per secoli il monastero ha irradiato sulla città di Parigi il suo splendore educativo e culturale, ma è stato anche utilizzato come prigione o caserma dei vigili del fuoco. Solo recentemente è stato ricomprato e restaurato su iniziativa del cardinal Lustiger e destinato a sede per la ricerca sui rapporti tra Chiesa e società. Di fronte a queste meravigliose arcate il Papa si domanda se il loro significato sia puramente archeologico, oppure se suscitino ancora interesse negli uomini di oggi: "È questa un'esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?". Proprio come se Benedetto XVI volesse farsi eco della tradizione medievale della disputatio, in cui il Maestro di Teologia cominciava esaminando le obiezioni dell'avversario per poi fornire le sue risposte. Il primo modo di mettere in pratica il riconoscimento dell'altro è accogliere le sue domande e permettere che risuonino dentro di noi, senza artifici. Il secondo insegnamento viene dal modo di rispondere alle domande. Non enuncia direttamente una dottrina sulla vita spirituale, ma ha la pazienza di descrivere la vita di quella comunità monastica. Se non erro, ciò che egli fa è illustrare diversi aspetti dell'esperienza umana così come fu realmente vissuta dai monaci cistercensi. Mostra infatti come questa esperienza concreta abbia un valore universale e quindi sia comprensibile da qualsiasi interlocutore. Rivendica al contempo entrambe le dimensioni di concretezza e universalità, che sono tipiche del "metodo dell'Incarnazione": il Padre ha scelto una storia particolare - quella di suo Figlio Gesù Cristo e quella di coloro che l'hanno perpetuata nel suo corpo ecclesiale, mediante il dono dello Spirito Santo - che pretende di avere un valore universale, ossia di essere vera. A tale scopo sintetizza quattro aspetti della cultura monastica. In primo luogo, l'amore alla Parola di Dio comporta l'amore per le lettere, che dà luogo a una cultura del linguaggio. Il desiderio di comprendere la Scrittura e la sua sacra dottrina si traduce nella proliferazione di studi sulla lingua e sull'ermeneutica dei testi letterari, delle copie manoscritte di grandi opere dell'antichità, nella costruzione di biblioteche e nella creazione di scuole (la dominici servitii schola di san Benedetto) per approfondire la Parola di Dio. In secondo luogo, il compito di interpretare il testo sacro non è puramente individuale, per quanto il suo messaggio tocchi ognuno nel più profondo del cuore e richieda la sua risposta personale, ma "introduce nella comunione con quanti camminano nella fede". Per questo motivo esiste un'analogia tra la scuola monastica e la scuola rabbinica, dato che entrambe costituiscono il luogo ermeneutico imprescindibile per un'adeguata comprensione della sacra pagina. Nasce così una cultura delle forme di vita comunitaria. Il dialogo con Dio, che ci fa oggetto della sua Parola viva, si esprime nella preghiera liturgica, specialmente nei salmi, che erano abitualmente accompagnati dalle istruzioni su come cantarli, e da suggerimenti sugli strumenti musicali. Si giunge quindi al terzo aspetto: una cultura della bellezza attraverso la musica sacra. A chi si prenda la briga di ricordare le opere d'arte nate dalla creatività spirituale dei cristiani, dal gregoriano fino a Poulenc o Messiaen, attraverso Tomás Luis de Victoria, Bach o Mozart, non risulterà difficile comprendere l'importanza di questo criterio nella storia culturale dell'Europa. E neppure comprendere quanto siano dannose molte celebrazioni liturgiche attuali, che sembrano trascurare qualsiasi parvenza di bellezza nel canto, o di ordine nei gesti comuni, precipitando i fedeli nella regio dissimilitudinis di agostiniana memoria. Infine, la vita monastica dà origine a una cultura del lavoro manuale. Ancora una volta, il Papa vi trova un'analogia con la tradizione rabbinica, che personifica nell'atteggiamento di san Paolo, opposta alla sensibilità dei saggi greci, la cui dedizione alla theoria era incompatibile con i lavori manuali, considerati inferiori. La tradizione agostiniana e benedettina incarnava invece un ideale che si fondava su san Giovanni, il quale dice che il Padre opera, e anche il Figlio stesso opera sempre (cfr. Giovanni, 5, 17). Il Papa ne deduce un'interessante conclusione teologica: "Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il "costruire" il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l'Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia". Questi quattro aspetti - amore al linguaggio e ai libri, amore alla vita comunitaria, amore alla bellezza e amore al lavoro - sono caratteristiche della cultura umana. Su di essi si deve costruire una vita sociale buona. Per questo abbiamo detto che il Papa contribuisce a una "laicità positiva" dimostrando che questi atteggiamenti - tra gli altri - alimentano una cultura e così costituiscono un fondamento sociale imprescindibile per sviluppare la civiltà. Effettivamente senza questa cultura "lo sviluppo dell'Europa, il suo èthos e la sua formazione del mondo sono impensabili". Senza questa ricchezza culturale della società il sistema politico si riduce a procedure formali che non riescono a regolare l'esercizio del potere al servizio del bene comune. Il Discorso di Parigi contiene inoltre alcune considerazioni molto importanti per la nostra domanda su Dio. Benedetto XVI chiarisce fin dall'inizio che la ricerca di Dio non era indeterminata o generica. I monaci "erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla". Dio non si identifica con una trascendenza negativa, in cui il "puro essere" indeterminato coincida con il "puro nulla", tanto di moda nei nichilismi occidentali o del lontano Oriente. Innanzitutto, il Dio che è pienezza d'amore nella sua vita trinitaria ha voluto per prima cosa darci delle segnalazioni di percorso - possiamo presumere che il Papa si riferisca alla creazione - e poi spianarci una via - nella rivelazione dell'uno e l'altro Testamento - affinché la ricerca dell'uomo acquisisca una modalità nuova. Non è pura speculazione, ma qualcosa di molto più semplice e drammatico: trovare e seguire una Presenza storica, quella del Figlio incarnato. Dio non è un'idea più o meno sofisticata che l'uomo può esplorare da sé, impiegando il tempo e le risorse necessarie, fino a chiarirla del tutto. Dio è Uno, una realtà singolare e personale, che si può veramente conoscere solo quando Egli si manifesta. Se è così, gli uomini devono modificare la loro comprensione dell'universale, alla luce della singolarità dell'essere divino. In effetti, il fatto che ciò che è veramente universale sia Uno singolare (Dio), limita le pretese accampate dalla ragione moderna, e la "costringe" ad aprirsi all'attesa, al libero ascolto di una rivelazione storica. Se il Fondamento è Uno singolare, per conoscerlo veramente, per sapere Chi sia, sarà necessario ascoltarlo, se liberamente volesse rivelarsi (come aveva presentito Platone nel Fedone). Questo è l'evento che gli uomini realmente desiderano e che ora si è manifestato nella storia. Il Papa lo riprende con grande bellezza quando, alla fine del Discorso, commenta la scena di Paolo nell'Areopago (cfr. Atti, 17, 18-34). Di fronte a diverse tendenze del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Benedetto XVI cita due caratteristiche tipiche di Dio nella tradizione giudeo-cristiana: il suo carattere reale e non meramente pensato, e la sua effettiva comunicazione nella storia umana. Della prima, che abbiamo già commentato, il Papa dice: "Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all'origine di tutte le cose deve esserci non l'irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo - come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) - questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell'annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell'annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Lògos, presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Giovanni, 1, 14): proprio così nel fatto ora c'è il Lògos, il Lògos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole". Alla fine del discorso ricompare dunque, in un linguaggio più riflessivo, il metodo dell'incarnazione. Se la vita dei monaci era intessuta di fatti ragionevoli, e quindi si poteva comprendere e condividere, ora sappiamo che ciò era dovuto al fatto che la sua origine è un Avvenimento unico, l'Incarnazione del Figlio, che è Lògos in sé e pertanto "presenza della Ragione eterna nella nostra carne", nell'ambito dell'esperienza umana. Si arriva così al vertice di questo intervento di Benedetto XVI. Ha accompagnato gli ascoltatori a partire dalle loro stesse domande attraverso il racconto di una tradizione, per giungere infine a proclamare i dogmi cristiani per antonomasia: Trinità e Incarnazione. Com'è ovvio non si può accedervi senza la luce soprannaturale della fede, ma tutti hanno potuto riconoscere i loro effetti umanizzanti. Credere in Cristo è un atto impossibile senza la grazia di Dio, ma chi lo realizza sa che crede perché è credibile, perché è ragionevole per la propria umanità e per quella di tutti, come hanno sempre sottolineato Agostino e Tommaso. Per questo, il Papa può concludere con un prezioso suggerimento missionario: "I cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d'Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono".
(©L'Osservatore Romano - 4-5 maggio 2009)
DIRITTI UMANI/ Come le storie di Delara e Samantha sfidano la nuova Europa - Mario Mauro - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
L’ultima telefonata era stata per i suoi genitori. Un messaggio disperato, una richiesta fatta con le ultime forze di chi ormai sa di non potere più nulla contro un verdetto già scritto. Contro di lei il tribunale di Teheran aveva emesso una sentenza atroce e inappellabile: la morte attraverso l’impiccagione. Delara non voleva morire.
L'esecuzione della ragazza è avvenuta a sorpresa venerdì nel carcere di Rasht, nel nord dell'Iran, anche se il capo dell'apparato giudiziario, ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, aveva annunciato il 19 aprile scorso un rinvio di due mesi del compimento della sentenza. Delara (nella foto) è stata uccisa per un omicidio – di cui le cause e le dinamiche pare non siano state ancora del tutto chiarite – commesso quando aveva 17 anni. Non solo. La pittrice iraniana di soli 23 anni è stata condannata pur avendo accettato le condizioni poste dalla famiglia della vittima per concedere il perdono che le avrebbe salvato la vita: dichiararsi colpevole e cambiare avvocato.
Quel che è ancora più grave è quanto si apprende dalle fonti internazionali, le quali raccontano che a mettere personalmente la corda intorno al collo di Delara è stato un figlio della donna per la cui uccisione la pittrice è stata condannata. La ragazza è stata messa a morte senza che nemmeno il suo avvocato venisse informato, come invece vorrebbe la legge. Tutto questo è avvenuto proprio quando Ahmadinejad ha annunciato pubblicamente di avere un pacchetto di «nuove proposte» da presentare al gruppo dei «5+1» negoziatori.
Si cambia paese ma lo scenario non è molto diverso. Siamo questa volta nel Laos, dove una ragazza britannica di origini africane, Samantha Orobator-Oghagbon di soli 20 anni, da nove mesi in carcere con l’accusa di spaccio di droga, rischia di essere fucilata per aver cercato di contrabbandare 680 grammi di eroina, un quantitativo oltre il quale la legge laotiana prevede la pena di morte. La prossima settimana la ragazza affronterà il processo davanti a un tribunale.
La difesa dei diritti umani è uno dei punti sui quali l'Unione europea vuole avere un ruolo di leadership mondiale. L’ultima legislatura del Parlamento europeo, che ormai sta volgendo al termine, ha puntato molto sul controllo e sul dialogo delle comunità di molti paesi del mondo, portando noi rappresentanti del Parlamento europeo verso un incontro con i più importanti leader di queste nazioni. L’Unione europea si è quindi battuta fortemente perché venisse condannata la negazione dei diritti umani e civili nel mondo.
In particolare la nostra azione politica ci impegnati su più fronti: contro la pena di morte in Nigeria, contro le uccisioni sistematiche di civili in Somalia, contro il protrarsi della detenzione di prigionieri politici in Birmania, per garantire i diritti umani in Cambogia, Laos e Vietnam, contro la mancata tutela dei diritti umani dei bahá'í in Iran, contro la mancata tutela dei diritti umani a Oaxaca in Messico, contro la mancata tutela dei minori in Bielorussia, per la difesa della Democrazia in Cina. La lista potrebbe continuare ancora.
Appare allora evidente come l’Unione europea non sia solo l’istituzione che si occupa di emanare direttive sulla curvatura delle banane, ma uno strumento di controllo internazionale che mira a far si che storie come quella di Delara o Samantha non si ripetano. Non è allora fuori luogo ricordare come questi temi siano iscritti sin dall’inizio della storia del nostro cammino europeo, quando i nostri padri fondatori a quelle solenni dichiarazioni fecero seguire decisioni innovative e coerenti.
Oggi dobbiamo rilanciare l’identità culturale europea nel panorama mondiale, per adeguare la presenza dell’Unione alle responsabilità politiche a cui è chiamata. Vogliamo che l’Europa punti a rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti, fondandola sui comuni valori di libertà e democrazia dell’Occidente. Un’Europa forte e attiva in politica estera, è certamente in grado farsi garante della tutela della vita umana e della dignità della persona. Essere forte e attiva vuol dire saper intervenire in maniera rapida ed efficace perché non sia più consentito a nessun paese di rifiutare impunemente il riconoscimento dei diritti umani.
DIARIO DA L’AQUILA/ La dolce storia dei Nurzia: ricominciamo dal torrone - Redazione - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La storia del torrone Nurzia è la storia di un odore che in determinati momenti del giorno pervadeva le vie del centro cittadino. A cominciare da Piazza Duomo. Dal 1835 è un odore caratteristico dell’Aquila. Profumo di tostatura delle nocciole per la preparazione del torrone. Il laboratorio artigianale dei fratelli Nunzia era proprio in centro, richiamo per gli ambulanti che la mattina, all’alba, sistemavano i banchi del mercato.
Il terremoto che ha devastato il centro ha risparmiato il laboratorio dove il torrone è ancora confezionato a mano. I macchinari, vecchi di 60 anni sono integri, al contrario di quanto è successo nella nuova fabbrica realizzata nella zona industriale dove servono alcuni interventi. Una tradizione che passa di generazione in generazione. L’antica fabbrica voluta da Gennaro Nurzia riprenderà appena il centro tornerà ad essere transitabile. «Il destino - dice Natalia Nurzia, figlia di Ulisse e Giuliana - a quanto sembra, ha voluto che rimanessimo in centro».
La voglia di ricominciare dopo le ferite alla città è forte. «Appena riceveremo l'agibilità - assicura Natalia, che con il fratello Francesco Saverio rappresenta la sesta generazione Nurzia - riapriremo il bar e la fabbrica del torrone in Piazza Duomo. Speriamo che tutto questo avvenga nel più breve tempo possibile. È una cosa che vogliamo fare per noi, per gli aquilani, per la città che deve tornare a vivere. Anche questo è un modo per ricominciare».
Il periodo più importante per la produzione del torrone comincia nel mese di settembre. Le richieste arrivano da ogni parte del mondo, tra cui esponenti degli Emirati arabi. Torrone bianco alle mandorle, torrone al cioccolato, il profumo tra qualche mese segnerà il risveglio della città. «Il successo del torrone risiede tutto - racconta Natalia - nella cura meticolosa profusa in ogni fase del procedimento, a cominciare dall'acquisto delle materie prime. Il miele è solo di produzione locale».
Il procedimento è lo stesso di nonno Francesco Saverio, il figlio di Gennaro, colui che "inventò" la ricetta. Il tocco finale, quello della scelta della miscela del cacao, si deve invece a Ulisse, conosciuto all'Aquila come Ninetto. Dal 1835 soltanto una volta, prima del terremoto del sei aprile, la produzione si era fermata. Era accaduto a cavallo degli anni Quaranta, quando era stata vietata l'importazione di cacao.
La voglia di ricominciare è forte, spesso non solo per motivi economici. Lavorare, impegnarsi è la riposta più forte che si può dare al dramma del terremoto. La voglia di ricominciare è la voglia di una persona che si confronta con il suo lavoro, con il quotidiano. Che serve a vincere paure e angosce di una scossa che ha cambiato la vita.
(Fabio Capolla)
FILOSOFIA/ Thoreau, l'idolo degli ambientalisti attratto dall’abisso dell’io - Anthony Graybosch - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Henry David Thoreau (1817-1862) è noto soprattutto per il suo esperimento di autosussistenza svolto nei due anni spesi a contatto diretto con la natura presso il Lago Walden (Walden è il titolo del suo resoconto di questa esperienza) e per il suo saggio sulla disobbedienza civile “Resistenza al Governo Civile”. L’apprezzamento di Thoreau per la bellezza della natura, il suo confidare nella natura come fonte di ispirazione morale e la sua difesa di una vita semplice ha portato molti critici ad associarlo con l’ambientalismo. Ma egli era anche un classicista, influenzato in modo particolare dallo stoicismo, e il suo vero interesse era cercare un modo di vivere felici nel mezzo di istituzioni sociali fallimentari.
Il 22 aprile 2009 si è celebrato il 39° “Giorno della Terra”. È stata anche la giornata inaugurale dell’opera teatrale Walden: la ballata di Thoreau, in cui si immagina una conversazione fra Henry David Thoreau e il suo maestro Ralph Waldo Emerson ambientata nella capanna sul lago Walden durante i due ultimi giorni del ritiro di Thoreau nella natura. L’opera è stata trasmessa dalla televisione pubblica e alla radio, rappresentata in molti teatri ed è stata accompagnata da programmi di lezioni che «rendono il Walden un perfetto strumento educativo». La Campagna della Generazione Verde, guardando già al 40° anniversario del Giorno della Terra, invita i cittadini ad appoggiare i programmi politici che prevedono energia rinnovabile, consumo responsabile e la creazione di lavori verdi.
Thoreau sarebbe stato molto divertito, e forse anche un po’ indispettito, all’idea di passare il Giorno della Terra a studiare mentre la natura ci aspetta fuori dalle aule. I gitanti che vogliono cogliere una traccia della sua esperienza si troveranno, per esempio, a soddisfare la propria sete prendendo un mestolo che penzola sul fianco della capanna e attingendo direttamente dal lago. Se vi capitasse oggigiorno di passare nelle vicinanze del lago Walden e di essere di fretta, c’è comunque una replica della capanna nell’area di parcheggio. Sì, anche il lago Walden ha il suo drive through. Una capanna-replica è un tipo di opzione che Thoreau avrebbe apprezzato, se non avesse richiesto una perdita di soldi e di tempo, perché l’avrebbe potuta utilizzare per depistare i visitatori. E ciò mi porta all’altro Thoreau, quello meno pubblicizzato ma più interessante.
Thoreau è il filosofo che ha definito il costo di un articolo come la somma della coscienza investita per produrlo o acquistarlo; quello che ha rifiutato di prendere in considerazione qualsiasi lavoro che richiedesse la sua presenza sia prima che dopo pranzo o di acquistare dei vestiti nuovi; e che pensava che la casa di cui uno aveva bisogno in questa vita come nell’altra fosse sempre una scatola di legno con qualche buco.
Alcune delle idee più liberanti e interessanti del Walden non andrebbero tanto d’accordo con genitori e insegnanti. Thoreau provava molta simpatia per le difficili condizioni di vita dei normali cittadini, sottolineando che «molti uomini vivono vite di quieta disperazione». Solo che considerava essi stessi responsabili della propria condizione. Thoreau pensava fosse meglio essere abbandonati alla nascita e cresciuti da lupi che essere nati ricchi. Nella conclusione del Walden dice: «Per quanto la tua vita sia miserevole, incontrala e vivila; non sfuggirla e non maledirla. Non sarà mai più cattiva di te». E nel suo ultimo saggio Vita senza principi: «Così gli uomini giacciono supini, parlando della caduta degli esseri umani, senza mai fare uno sforzo per tirarsi su».
Questo Thoreau non accetta di essere arruolato per difendere il programma politico né dei verdi né di qualcun altro. Per lui la disobbedienza civile non consiste nell’essere autorizzati a violare una legge ma nell’essere obbligati a farlo; e così, a malincuore, dovette venir via dal diletto della natura per tornare all’impegno sociale e a tutti i suoi annessi e connessi.
Perché Thoreau abbandonò il lago Walden? Dopo qualche centinaio di pagine dedicate al suo primo anno Thoreau annota solo che il secondo anno fu come il primo. E dice anche di avere ancora altre vite da vivere. E io immagino che dopo due anni di relativa solitudine egli fosse ormai in grado di caricarsi il Walden e di portarlo con sé nella società, cioè che sarebbe sempre stato capace di mantenere una distanza interiore.
Il primo libro di Thoreau, Una settimana a Concord e al Merrimack River, si avvicina al Taoismo nella sua celebrazione delle conchiglie che risplendono sul fondo delle acque del fiume compiendo così il loro fato. Man mano che diventava vecchio, e che si allontanava da Emerson, non considerava più la natura come una fonte costante di bellezza e ispirazione morale. Mr. Ktaadn in Le foreste del Maine è descritto come «selvaggio e orribile, anche se bello» e sostiene che «Non abbiamo visto la pura natura finché non abbiamo visto la sua immensità, la sua monotonia e la sua disumanità». Il mio libro preferito, Cape Cod, include testimonianze sul naufragio a Pleasant Cove della “St. John” – una nave che trasportava centinaia di immigranti nel nuovo mondo. Morirono in quarantacinque; la gente del posto raccoglieva le alghe portate dalla tempesta per usarle come fertilizzante e Thoreau commenta dicendo che forse i morti sono emigrati in un mondo migliore.
Questo è l’altro Thoreau che solo a malincuore accettò l’impegno sociale, che moderò il suo ottimismo sulla natura e che scrisse caustici saggi con titoli come Vita senza principi.
Il lago Walden, come l’io, non ha fondo. Thoreau continuò a investigare queste profondità dopo aver lasciato il lago per vivere le sue altre vite. Sarebbe un peccato smettere di investigare Thoreau lasciandolo fermo al lago.
RAZIONALITÀ FREDDA E ANONIMA SULLA FINE VITA - La morte burocratizzata può essere un’aspirazione? - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 5 maggio 2009
Ciò che, come giurista, mi colpisce maggiormente nell’atteggiamento di coloro che nel nome del valore assoluto dell’autodeterminazione ( un ' diritto di spessore costituzionale'!) ritengono illiberale ogni pretesa di imporre come vincolante l’alimentazione e l’idratazione artificiali, ancorché rifiutate dal paziente con un’esplicita ' manifestazione di volontà' ( anticipata), è il modo rigidamente meccanico con cui essi configurano questo concetto e le situazioni reali che deriverebbero dal suo trasformarsi in precetto. Che il diritto esista per garantire ad ogni soggetto che le sue manifestazioni di volontà vadano prese sul serio e possano produrre i loro legittimi effetti è fuor di dubbio. Ma è pur vero che il diritto presuppone sempre l’esistenza di un contesto dialettico, nel quale volontà possa contrapporsi a volontà, interesse a interesse, come dimostra il fatto che la volontà di un singolo può sempre essere contestata, come produttrice di effetti giuridici, dando luogo a conflitti, la cui la soluzione si ottiene in un unico modo, attivando una controversia dialettica davanti a un giudice, cioè attivando un processo. Nei fautori della vincolatività del testamento biologico, il riferimento al doveroso rispetto delle manifestazioni di volontà del sottoscrittore assume un ben diverso profilo. Da una parte si ritiene di dover rendere un assoluto omaggio a dichiarazioni anticipate di trattamento redatte in tempi antecedenti da un paziente non più in grado di reiterarle e di confermarne la perdurante validità.
Dall’altra si pretende di imporre al medico, e per legge, una soggezione non dialettica nei confronti del paziente ( in quanto il medico, di fronte a un paziente privo di coscienza, non è ovviamente più in grado di confrontarsi dialogicamente con lui). Ne segue che ogni possibilità di confronto autentico e reciproco ( cioè propriamente giuridico) tra l’uno e l’altro viene svuotata dall’interno. Ciò che resta è il valore legalmente riconosciuto a una procedura burocratica: la presa d’atto da parte del medico dell’esistenza di un testamento biologico e dei suoi contenuti, la verifica della sua validità formale ( data, firma, ecc.), il riscontro dell’effettiva presenza nel caso concreto delle situazioni patologico- sanitarie ipoteticamente previste nel documento, l’eventuale coinvolgimento del fiduciario, purché correttamente identificabile, e infine l’esecuzione, doverosamente puntuale e integrale, delle direttive contenute nel testamento.
C’è, forse, un qualche aspetto di razionalità nella pretesa di rendere vincolanti i testamenti biologici.
Si tratta però di una razionalità rigida e fredda, analoga a quella che governa tutte le procedure amministrative, burocraticamente anonime.
Quando il rapporto medico- paziente a questo si riduce, avvertiamo tutti che l’identità della medicina si sta alterando e che il malato, il soggetto debole per eccellenza, viene a trovarsi in una situazione di ulteriore fragilità. Non riesco a comprendere, perché non si voglia ammettere che, quando il malato perde la capacità di intendere e di volere, la sua fragilità si dilata a dismisura e che questa fragilità non viene in nessun modo attenuata dall’osservanza cieca e burocratica di direttive anticipate. Abbiamo bisogno di una medicina che vada alla ricerca ( anche nel contesto delle situazioni più tragiche ed estreme) di nuove ( e magari inedite) forme di colloquio tra medico e paziente e non di una legge che avallando pratiche sanitarie obiettivamente eutanasiche faccia perdere alla medicina la sua anima.
La fragilità del malato non viene in nessun modo attenuata dall’osservanza cieca e burocratica di direttive anticipate
LA SCUOLA E L’EUROPA - «Impossibile chiudere la religione nel privato» - Il cardinale Erdo: una forte identità aiuta il dialogo - DAL NOSTRO INVIATO A STRASBURGO - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 maggio 2009
«Un fatto, un diritto e un servizio domandato da milioni di famiglie». Questo è l’insegnamento della religione nelle scuole secondo il presidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee, l’arcivescovo di Budapest cardinale Péter Erdo. Nella sede del Consiglio d’Europa alla vigilia dei suoi sessant’anni, esercita una certa suggestione che a illustrare la bontà dell’insegnamento religioso scolastico sia un ancora giovane prelato dell’Est, uno che nel 1956 era un bambino di quattro anni. Si sente un’eco della storia del suo Paese nel suo discorso, quando rievoca i metodi di controllo 'spietati' della libertà personale sotto il comunismo, o quando pone con forza l’accento sulla famiglia, 'prima educatrice'. Ma oggi il cardinale vede nella sua Budapest e nell’Est un nemico diverso dal totalitarismo, eppure non meno pericoloso. «Le giovani generazioni sono governate dall’edonismo, e in particolare dal piacere immediato, dall’attimo fuggente. Questo sguardo incide duramente non solo negli affetti e nella costruzione delle famiglie, ma perfino nella capacità di portare a termine gli studi. Se l’unico obiettivo è una soddisfazione immediata, ben poche scelte reggono. In società come quelle dell’Est poi, dove è venuta a mancare una borghesia strutturata, l’esito di questo sguardo alterato produce rapidamente anche corruzione e delinquenza. Infatti molti governanti dell’Est, pur non essendo personalmente religiosi, vanno scoprendo ora che la tradizione religiosa è necessaria per mantenere una stabilità sociale ».
Eminenza, però nell’Occidente con un passato democratico si allarga invece la pretesa laicista di costringere la religione in uno spazio individuale, pubblicamente irrilevante.
«È una pretesa che riconosco, anche se spesso mi sembra portata avanti, come in Italia, da frange radicali molto rumorose ma numericamente minoritarie. In realtà la popolazione, in Italia come nel resto d’Europa, non è così radicale. Resta il fatto che quest’ansia di rinchiudere la religione nel 'privato' è non solo inaccettabile, ma impossibile: una religione comporta uno sguardo complessivo sulla realtà, ed è quindi assurdo pretendere che taccia su quanto ha rilevanza pubblica».
Mentre in molti Paesi si fa largo l’idea di una illustrazione 'neutrale' delle varie confessioni, nel documento conclusivo della ricerca presentata qui a Strasburgo, i vescovi europei dichiarano preferibile l’insegnamento scolastico ' a carattere confessionale'. Perché?
«L’insegnamento della religione cattolica non può a mio avviso che essere confessionale: non si 'informa' l’alunno, lo si educa, in una trasmissione che coniuga parola e testimonianza. D’altronde, la pretesa di alcuni di poter fornire un punto di vista neutrale sulle diverse religioni mi pare in sé contraddittorio: nel momento in cui spieghi qualcosa cui non aderisci, fornisci già un giudizio implicito all’alunno. Non credo che la 'neutralità' di cui tanto si parla sia possibile».
Mentre un certo laicismo estremo si preoccupa dell’insegnamento confessionale cristiano nelle scuole, altri osservatori paventano l’avvento di una cultura islamica che si prepara a cancellarci…
«Non condivido queste paure. L’avere paura è un segno caratteristico di identità religiosa debole».
È una coincidenza o un disegno venire a parlare all’Europa di insegnamento della religione,
nei 60 anni del Consiglio?
«Inizialmente può essere stata una coincidenza, però questo mi sembra il giorno e la sede giusta per dire all’Europa di guardare con fiducia alla risorsa rappresentata dalla tradizione religiosa. Non è certamente da temere; una forte identità religiosa non porta, come alcuni temono, all’intolleranza, ma al contrario a un confronto fattivo con il prossimo, con cui si dialoga a viso aperto e senza timori».
Sembra però così difficile per gli europei mettersi d’accordo su ciò che li accomuna, su ciò che è 'naturale' e ciò che non lo è. Nella stessa cattolica Italia il dibattito attorno al principio della vita e al modo della morte è da anni violento.
«Io tuttavia sono ottimista perché come cristiano sono convinto della possibilità di una conoscenza naturale oggettiva delle cose essenziali della vita. E sono certo che attorno a questi beni essenziali si possa creare un consenso sociale condiviso».
Ciò che è forse quanto una parte dell’Europa laica domanda alle confessioni religiose, oggi. Come laicamente ha detto a Strasburgo monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio, una parte d’Europa guarda con nuova curiosità a quella «dimensione politica» della religione «decisiva per la convivenza comune».
l’intervista Don Antonio Villa e la scuola di Tarcento, esempio di comunità: «Adulti e ragazzi, abbiamo tutti bisogno di imparare a vivere» - DA TARCENTO (UDINE) – Avvenire, 5 maggio 2009
«Fate quello che potete, fatelo con passione, ma piuttosto di dar fastidio, levate le tende».È il mandato che don Giussani dà a don Antonio Villa il 19 maggio 1976. Siamo a Tarcento. Don Giussani consegna il sacerdote ed un gruppo di volontari al parroco, mons. Frezza. Gli dice: «Se ne liberi senza problemi, se danno problemi». «Dopo 33 anni siamo ancora qui. Quindi vuol dire che non abbiamo dato fastidio - sorride soddisfatto don Antonio - . Abbiamo una scuola, frequentata oggi dai figli di coloro che abbiamo accolto come primi studenti». Una scuola media in cooperativa. Caso più unico che raro in Friuli.
Don Villa, si è mai pentito?
No. Già allora don Giussani ci diceva: se fate una scelta, usate la razionalità. Perché dev’essere una scelta compiuta per sempre. È una scelta per la Chiesa. Lo interpretammo come un impegno sacramentale. Ecco perché è durato così a lungo.
Perché vi siete dedicati ad una scuola?
Per la verità la nostra missione era quella di aiutare i friulani a passare dalle tende ai mattoni, secondo un’efficace sintesi ideata da Robi Ronza. Quando arrivò il secondo terremoto a metà settembre ’76, e il commissario Zamberletti ordinò l’esodo, scapparono anche tanti volontari. Ma i genitori dei ragazzi ci chiesero imploranti: non ve ne andrete mica anche voi? Decidemmo di restare. E proprio fra quei genitori raccogliemmo le prime iscrizioni.
Ancora oggi ha 75 ragazzi. Ed è lei stesso, ad esempio, a provvedere alla mensa, oltre che alla direzione dell’istituto.
Questa è una scuola di vita. Sa quale era e quale è la nostra prima preoccupazione? Liberare i ragazzi dalla paura del professore, del registro, del voto. La paura della vita. Spesso la scuola è fondata sulla paura. Ma così nessuno diventa grande. Per liberare il bambino dalla paura occorre arrivare al livello in cui si è pari a lui: ovvero al livello della verità della persona, al livello in cui ogni uomo è in rapporto con l’Ideale, con il Creatore. È lì che un adulto è uguale al bambino, perché rispetto all’Ideale della vita un adulto non è più in alto, è solo chiamato ad essere più cosciente e più responsabile. Per questo, al mattino a Tarcento si inizia con un momento comune di preghiera e di richiamo al motivo per cui si vive la giornata, per questo nessuno si sente superiore o arrivato.
In quale misura vi preoccupate che la vostra sia la scuola del computer?
Ci preoccupiamo di più ad insegnare la tabellina che il computer. Abbiamo un punto di partenza uguale: il bisogno di imparare a vivere. Ecco perché abbiamo pensato alla cooperativa: soci sono i genitori e gli insegnanti, ma anche i ragazzi stessi che, per esempio, collaborano a fare le pulizie.
Quanto pagano le famiglie?
Ho posto un’unica condizione per continuare quest’esperienza: la gratuità. L’educazione non si può pagare. La scuola, dunque, ce la facciamo da noi. Educare è la cosa più facile di questo mondo, è elementare, è della natura umana. È inevitabile. Educhi - o diseduchi - anche solo incontrando un bambino per strada che ti osserva, che ha un giudizio su di te perché lo hai incuriosito o scandalizzato. La struttura scolastica vera è la persona e in questa dinamica la scuola è comunione di persone. Quando don Giussani diceva che il soggetto educante è la comunione, diceva che comunque devi diventare soggetto tu stesso: perché la comunione da sola non sussiste, ma è una modalità dell’essere, una modalità della persona.
Francesco Dal Mas
La priorità a fabbriche, case, opere pubbliche e chiese.
L’assessore Varisco ricorda: ai privati venne concesso un acconto del 40% della somma a inizio lavori, un altro 40% in corso d’opera e un 20% alla fine
1) Va a Lourdes, donna riprende a camminare - DA FROSINONE – Avvenire, 5 maggio 2009
2) Joseph Ratzinger: "Israele, la Chiesa e il mondo"
3) Benedetto XVI e i fondamenti della cultura - Dalla bellezza e dal lavoro la speranza in tempo di crisi - Pubblichiamo una sintesi dell'intervento "Come parlare pubblicamente di Dio in Europa" in uscita sul nuovo numero di "Atlantide", quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini. - di Javier Prades Facoltà San Damaso di Madrid – L’Osservatore Romano, 5 maggio 2009
4) DIRITTI UMANI/ Come le storie di Delara e Samantha sfidano la nuova Europa - Mario Mauro - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) DIARIO DA L’AQUILA/ La dolce storia dei Nurzia: ricominciamo dal torrone - Redazione - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) FILOSOFIA/ Thoreau, l'idolo degli ambientalisti attratto dall’abisso dell’io - Anthony Graybosch - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
7) RAZIONALITÀ FREDDA E ANONIMA SULLA FINE VITA - La morte burocratizzata può essere un’aspirazione? - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 5 maggio 2009
8) LA SCUOLA E L’EUROPA - «Impossibile chiudere la religione nel privato» - Il cardinale Erdo: una forte identità aiuta il dialogo - DAL NOSTRO INVIATO A STRASBURGO - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 maggio 2009
9) l’intervista Don Antonio Villa e la scuola di Tarcento, esempio di comunità: «Adulti e ragazzi, abbiamo tutti bisogno di imparare a vivere» - DA TARCENTO (UDINE) – Avvenire, 5 maggio 2009
Va a Lourdes, donna riprende a camminare - DA FROSINONE – Avvenire, 5 maggio 2009
«La Madonna mi ha guarito, mi ha fatto il miracolo, la gamba non mi fa più male, sento qualcosa » . È stato l’urlo di gioia di una donna di 50 anni, Rosa Mollica, di Ripi, un paese in provincia di Frosinone, malata di sclerosi multipla, che dopo aver assistito nella grotta di Lourdes ad una messa con altri malati, si è messa a camminare davanti a centinaia di pellegrini, gettando il bastone con cui si trascinava da 20 anni. Lo ha raccontato, di ritorno dal pellegrinaggio, il presidente dell’Associazione per la sclerosi multipla ( Aism) di Frosinone Paola Amicizia, che era con la donna.
« Come ogni anno siamo partiti con altri volontari per portare i nostri malati a Lourdes - ha detto Amicizia - . Rosa la scorsa settimana camminava a fatica trascinando le gambe con l’aiuto di un bastone. Dopo qualche giorno, dopo la celebrazione di una Messa, ha detto di sentire qualcosa alle gambe. Ha gettato via tutto ciò che la sosteneva ed ha cominciato a camminare come se non avesse avuto mai nulla. Ora è felicissima. Quel giorno non faceva altro che abbracciarmi, ringraziarmi e dirmi che a Lourdes doveva andarci prima. Sono ancora scossa, mi vengono i brividi solo a raccontare questa storia » .
La donna che dice di essere stata miracolata nei suoi giorni a Lourdes è andata più volte a recitare il rosario, ad assistere a funzioni religiose e a bagnarsi nella piscina che è accanto alla grotta. A Lourdes, come racconta anche il giornale locale ' La Provincia, era arrivata, insieme ad altri fedeli frusinati, lo scorso 27 aprile in occasione del pellegrinaggio annuale. Da Frosinone erano partite circa 350 persone, provenienti da tutta la Ciociaria, tra malati, accompagnatori, familiari e assistenti. Con il treno avevano raggiunto il centro dei Pirenei francesi e qui avevano iniziato il loro percorso di fede e di speranza concluso con quella che, al momento, sembra una guarigione inspiegabile.
Dalla Casa Santa Bernardette, dove soggiornava il gruppo di Rosa Mollica, la notizia è arrivata subito ad un organizzatore di pellegrinaggi, Enrico Esposito, che ha avvertito l’equipe medica del vicino centro di Lourdes incaricata di verificare i casi di guarigione. I medici hanno visionato il certificato medico che la donna aveva portato con sè come fanno tutti i malati che vanno a Lourdes sperando nel miracolo. Ora quelle carte e quella guarigione sono all’esame dei medici del centro, diretto da un italiano. Ci vorranno lunghi esami, come è prassi nella struttura medica della cittadina pirenaica dove la Madonna apparve a Bernardette, per stabilire se si tratti di un nuovo miracolo.
Di certo è che Rosa Mollica, una casalinga, venerdì scorso, dice chi era con lei in pellegrinaggio, quando è scesa dal treno a Frosinone lo ha fatto con le sue gambe e senza bastone.
Joseph Ratzinger: "Israele, la Chiesa e il mondo"
"I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992"
ROMA, lunedì, 4 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa nel 1994, poco dopo il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede, il Cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, tenne un discorso importante a Gerusalemme, ospite della "International Jewish-Christian Conference" in cui espresse "il personale sostegno alle relazioni Israele-Vaticano e a favore dell'avanzamento dei rapporti fra ebrei e cristiani".
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Introduzione
La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.
Il compito della riconciliazione
Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell'accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un'ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell'ebraismo, ma che odiava l'eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell'unico Dio e della professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall'«essenza del cristianesimo», così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo? Si tratta di una ipotesi che, dinanzi agli orrori della storia, è stata formulata negli ultimi decenni proprio da alcuni pensatori cristiani. Ma allora la professione di fede in Gesù di Nazareth come figlio del Dio vivente e la fede nella croce come redenzione dell'umanità implicano necessariamente una condanna degli ebrei per la loro ostinazione e cecità, in quanto colpevoli della morte del figlio di Dio? Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all'intolleranza, anzi all'ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l'auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?
Riconciliazione senza abbandono della fede cristiana?
In questa sua drammatica acutizzazione il problema si pone oggi ben al di là di un dialogo puramente accademico tra le religioni, coinvolgendo le scelte fondamentali di questo momento storico. Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l'autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell'epoca. Questa interpretazione dei fatti può rappresentare una sfida che costringe l'esegesi a un ascolto attento e preciso dei testi e, in tal modo, può forse essere anche di qualche utilità. Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell'ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell'impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.
Resta allora la domanda: può la fede cristiana, senza perdere il suo rigore e la sua dignità, non solo tollerare l' ebraismo, ma accoglierlo nella sua missione storica? Può esserci vera riconciliazione senza abbandono della fede oppure la riconciliazione è legata a una simile rinuncia?
La risposta del «Catechismo della Chiesa cattolica»
Per rispondere a questa domanda, che coinvolge noi tutti molto profondamente, non voglio esporre le mie riflessioni, ma piuttosto cercare di mostrare quale sia la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica edito nel 1992. Questo libro fu pubblicato dal magistero della Chiesa come espressione autentica della propria fede; allo stesso tempo, proprio avendo i davanti agli occhi Auschwitz e il compito lasciato dal Vaticano II, la questione della riconciliazione vi è affrontata come intimamente connessa alla questione stessa della fede. Vediamo dunque in che modo esso si ponga rispetto alla nostra domanda a partire da questo suo compito.
Giudei e pagani nel racconto dei magi venuti dall'Oriente (Mt 2,1-12)
Come avvio, scelgo il testo con cui il Catechismo spiega la storia dei magi venuti dall'Oriente in Mt 2,1-12. Questi uomini sono considerati dal Catechismo come l'origine della Chiesa proveniente dai pagani e come un riflesso permanente del loro cammino. In proposito il Catechismo scrive: «La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei (Mt 2,2) mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell'Antico Testamento. L'Epifania manifesta che "la grande massa delle genti" entra "nella famiglia dei patriarchi" e ottiene la dignitas israelitica - la dignità israelitica» (528).
La missione di Gesù: la riunione di giudei e pagani
In questo testo si coglie bene come il Catechismo veda la relazione tra i giudei e le altre nazioni del mondo nella prospettiva comunicataci da Gesù; nel contempo esso ci offre anche una prima descrizione della missione di Gesù stesso. Potremmo dire: la missione di Gesù è dunque la riunione di giudei e pagani in un unico popolo di Dio, in cui si compiono le promesse universalistiche della Scrittura, che a più riprese affermano che tutti i popoli adoreranno il Dio di Israele, al punto che nel Terzo Isaia non si legge più solamente del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, ma viene annunciato l'invio di messaggeri ai popoli «"che non hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria [...]. Anche da essi mi prenderò dei sacerdoti e dei leviti", dice il Signore» (Is 66,19.21).
Per spiegare la riunione di Israele e delle nazioni, il breve testo del Catechismo - sempre interpretando Mt 2 - ci presenta un insegnamento sul rapporto tra le religioni del mondo, la fede di Israele e la missione di Gesù: le religioni del mondo possono diventare la stella che guida gli uomini sulla via e li conduce alla ricerca del regno di Dio. La stella delle religioni indica Gerusalemme, si spegne e torna a splendere nella parola di Dio, nella Sacra Scrittura di Israele. La parola di Dio che vi è custodita si dimostra la vera stella, senza la quale e a prescindere dalla quale non è possibile giungere alla meta.
Il Catechismo, quando designa la stella come «stella di Davide», collega la storia dei magi all'oracolo di Balaam sulla stella che si muove da Giacobbe (Nm 24,17) e vede questo oracolo a sua volta in stretto rapporto con la benedizione di Giacobbe su Giuda, che promette il bastone del comando e lo scettro a colui cui è dovuta l'obbedienza dei popoli (Gn 49,10). Il Catechismo vede in Gesù questo germoglio di Giuda che riunisce Israele e le nazioni nel regno di Dio.
La storia di Abramo deve diventare la storia di tutti
Che significa tutto ciò? La missione di Gesù consiste dunque nel riunire tutti i popoli nella comunione della storia di Abramo, della storia di Israele. La sua missione è unione, riconciliazione, come si legge anche nella lettera agli Efesini (2,18-22). La storia di Israele deve diventare la storia di tutti, la figliolanza di Abramo deve dilatarsi fino a comprendere i «molti». Questo processo ha due aspetti: i popoli possono entrare nella comunione delle promesse di Israele nella misura in cui entrano nella comunione dell'unico Dio, che ora diventa e deve diventare la via di tutti, poiché vi è un solo Dio e la sua volontà è quindi verità per tutti. D'altra parte questo significa che tutti i popoli, senza che per ciò venga meno la missione particolare di Israele, mediante il legame con la volontà di Dio e l'accettazione del regno di Davide, diventano fratelli e partecipi delle promesse del popolo eletto e quindi, insieme con lui, popolo di Dio.
«La salvezza viene dai giudei»
Un'altra osservazione può qui essere utile. Se la storia dei magi, nell'interpretazione del Catechismo, presenta la risposta dei libri sacri di Israele come indicazione decisiva e irrinunciabile per tutti i popoli della terra, per ciò stesso essa non è altro che una variazione dello stesso tema che si incontra nella formula giovannea «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli nel popolo di Dio senza l'accettazione credente della rivelazione di Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento.
In sintesi, possiamo dire che Antico e Nuovo Testamento, Gesù e sacra Scrittura di Israele appaiono qui inseparabili. La nuova dinamica della sua missione, la riunione di Israele e delle nazioni, corrisponde alla dinamica profetica dello stesso Antico Testamento. La riconciliazione nel riconoscimento comune del regno di Dio, della sua volontà come via, è il nucleo della missione di Gesù, in cui la persona e il messaggio sono in separabili: questa missione è già operante nell'istante in cui egli giace ancora muto nella mangiatoia. Non si è capito nulla di lui se non si entra con lui nella dinamica della riconciliazione.
2. Gesù e la Legge: non abolizione ma «compimento»
Tuttavia la grande visione di questo testo lascia aperta una domanda: come si realizza storicamente ciò che appare qui prefigurato nell'immagine della stella e degli uomini che la seguono? L'immagine storica di Gesù, il suo messaggio e la sua opera corrispondono a questa visione o non finiscono proprio per contraddirla?
Ora non c'è nulla di tanto discusso quanto la questione del Gesù storico. Il Catechismo, come libro della fede, muove dalla convinzione che il Gesù dei Vangeli è l'unico Gesù autenticamente storico. Partendo da questo presupposto esso presenta anzitutto il messaggio di Gesù usando un'espressione riassuntiva di tutto, «Regno di Dio», in cui sono compresi i diversi aspetti del messaggio di Gesù, di modo che essi ricevono il loro senso e il loro contenuto concreto proprio a partire di qui (541-560).
Poi il Catechismo mostra la relazione Gesù-Israele in tre ambiti di riferimento: Gesù e la Legge (577-582), Gesù e il Tempio (583-586), Gesù e la fede d'Israele nel Dio unico e Salvatore (587-591). Passa quindi a esaminare il destino finale di Gesù: la sua morte e resurrezione, in cui i cristiani vedono realizzato e portato alla sua massima profondità teologica il mistero pasquale di Israele.
Gesù e Israele
Qui ci occuperemo in particolare del capitolo centrale su Gesù e Israele, che è fondamentale anche per l'interpretazione del concetto di regno di Dio e per la comprensione del mistero pasquale. Ora, sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell'unicità di Dio a portare in se tutta la carica esplosiva delle lacerazioni ebraico-cristiane. È possibile comprenderli in maniera storicamente corretta, coerente con la fede e nel primato della riconciliazione?
A dare di farisei, sacerdoti e giudei un'immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell'oppressione altrui. In linea con queste , interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l'ordine stabilito nello Stato. Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell'uomo sull'uomo mascherato dalla religione, come l'avvio di quella rivoluzione in cui egli ha sì dovuto soccombere, ma che proprio con la sua sconfitta ha trovato un inizio che ora deve portare alla vittoria definitiva. Se Gesù dev'essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.
Fedeltà di Gesù alla Legge
È di per se chiaro che il Catechismo non condivide questa ottica. Per tali questioni esso si attiene soprattutto all'immagine di Gesù del Vangelo di Matteo e vede in Gesù il Messia, il più grande nel regno dei cieli; come tale egli si sapeva obbligato a «osservare la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi precetti» (578).
Il Catechismo collega dunque la particolare missione di Gesù alla sua fedeltà alla Legge; vede in lui il Servo di Dio, che porta davvero il diritto (Is 42,3) e diventa perciò «Alleanza del popolo» (Is 42,6; Catechismo 580). Il nostro testo è dunque molto lontano dai superficiali tentativi di armonizzazione della storia di Gesù carica di tensioni. E anziché interpretare il suo cammino in modo superficiale, nel senso di un presunto attacco profetico al rigido legalismo, cerca di far emergere la sua autentica profondità teologica.
Lo si vede chiaramente nel passo che segue: «Il principio dell'integralità dell'osservanza della Legge, non solo nella lettera ma nel suo spirito, era caro ai farisei. Mettendolo in forte risalto per Israele, essi hanno condotto molti Ebrei del tempo di Gesù a uno zelo religioso estremo. E questo, se non voleva risolversi in una casistica "ipocrita", non poteva che preparare il Popolo a quell'inaudito intervento di Dio che sarà l'osservanza perfetta della Legge da parte dell'unico Giusto al posto di tutti i peccatori» (579). Questo pieno adempimento della Legge implica che Gesù prenda «su di sé "la maledizione della legge" (Gal 3 ,13), in cui erano incorsi coloro che non erano rimasti fedeli "a tutte le cose scritte nel libro della Legge" (Gal 3,10» (580). La morte in croce trova così una spiegazione teologica a partire dall'intima solidarietà con la Legge e con Israele; in questo contesto il Catechismo pone un legame con il giorno dell'Espiazione e intende la morte di Cristo come il grande evento espiativo-conciliativo, come piena e completa realizzazione di ciò che i segni del giorno dell'Espiazione significano (433; 578).
Compimento della Torah mediante la Legge del Vangelo
Con queste affermazioni siamo giunti al centro del dialogo ebraico-cristiano, al decisivo punto nodale tra riconciliazione e lacerazione.
Prima di proseguire nell'interpretazione della figura di Gesù che stiamo qui delineando, dobbiamo ancora chiederci che cosa significa questa visione della figura storica di Gesù per l' esistenza di coloro che si sanno radicati nell' «olivo di Israele», nella figliolanza di Abramo.
Laddove il conflitto di Gesù con il giudaismo del suo tempo viene presentato in maniera superficialmente polemica, si finisce per derivarne un'idea di liberazione che può intendere la Torah solo come una servitù a riti e osservanze esteriori.
La visione del Catechismo, tratta principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall'insieme della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa, che desidero qui" esporre in modo esauriente: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge [ = della Torah]. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità[...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l'imitazione della perfezione del Padre celeste[...]» (1968).
L'unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai
Questa visione di una profonda unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un'affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti (1970; M t 7,12; 22,34-40; M c 12,29-31; Lc 10,25-28; Gv 13,34; Rm 13,8-10). Per i popoli l'inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell'unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema' Isra'el, al sì all'unico Dio. All'uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione.
Con ciò si palesa anche la profondità ontologica di queste affermazioni: con il sì al duplice comandamento l'uomo assolve il compito della sua natura, che è stata voluta dal creatore come immagine e somiglianza di Dio e che, in quanto tale, si realizza nella con divisione dell'amore divino.
Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo. Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell'unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l'uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via. Ebrei e cristiani devono rendere testimonianza all'unico Dio, al creatore del cielo e della terra, e lo devono fare in quella totalità che trova espressione esemplare nel salmo 19: la luce della creazione fisica, il sole, e la luce spirituale, il comandamento di Dio, sono inseparabilmente legate l'una all'altra. Nella parola di Dio e nel suo splendore parla lo stesso Dio che è testimoniato nel sole, nella luna e nelle stelle, nella bellezza e pienezza della creazione. «Il sole è onore del cielo, ma la tua legge, o Signore, è ancora più grande».
L'interpretazione che Gesù dà della Legge: conflitto e riconciliazione
Ora però si pone inevitabilmente la domanda: una simile visione del legame tra Legge e vangelo non è forse un arbitrario tentativo di armonizzazione? Come si spiega allora il conflitto che ha portato Gesù sulla croce? Tutto ciò non è in contrasto con l'interpretazione della figura di Cristo dataci da Paolo? Non viene così smentito l'intero insegnamento paolino sulla grazia a favore di un nuovo moralismo e con ciò non viene annullato l'articulus stantis et cadentis ecclesiae, la novità essenziale del cristianesimo?
La parte morale del Catechismo, da cui abbiamo tratto l'esposizione fin qui presentata della via cristiana, su tale punto corrisponde pienamente a ciò che in precedenza avevamo desunto dalla parte dogmatica relativa alla figura di Cristo. A ben vedere, da questo fatto emergono due aspetti essenziali, in cui è racchiusa la risposta alle nostre domande.
La profonda compenetrazione dei due Testamenti
Con la presentazione appena esposta dell'intima continuità e coerenza tra Legge e vangelo, il Catechismo resta rigorosamente all'interno della tradizione cattolica, così come è stata formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. In essa il rapporto fra Torah e annuncio di Gesù non è mai stato visto in chiave dialettica, per cui Dio apparirebbe nella Legge sub contrario, e dunque come avversario di se stesso [1]. In essa non vigeva la dialettica, bensì l'analogia, lo sviluppo nell'intima corrispondenza, in conformità con la bella affermazione di sant' Agostino: nell'Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo è manifesto l'Antico. Per illustrare la profonda connessione tra i due Testamenti che ne deriva, il Catechismo cita un testo molto bello di san Tommaso: «Ci furono [...], nel regime dell' Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali [...]» (1964; Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2).
La Torah come creazione unitaria
Con ciò si è anche già detto che la Legge viene letta profeticamente, nella tensione interiore della promessa. Quel che significa una simile lettura dinamico-profetica emerge nel catechismo dapprima in una duplice forma: la Legge è portata alla sua pienezza mediante il rinnovamento del cuore (1968); esteriormente ciò ha come conseguenza il venir meno delle osservanze rituali e giuridiche (1972). A questo punto si pone però una nuova domanda: come è potuto accadere? Come si concilia tutto ciò con il compimento della Legge fino all'ultimo iota? Poiché, in effetti, non si possono separare i principi morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e dall'altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto inseparabili.
Gesù vive fino in fondo nella Legge d'Israele, come mediatore dell' universalità di Dio.
Ci troviamo così davanti a un paradosso: la fede di Israele era indirizzata all'universalità; poiché si rivolgeva all'unico Dio di tutti gli uomini, portava in sé la promessa di divenire la fede di tutti i popoli. Ma la Legge in cui trovava espressione era particolare, riferita in maniera molto concreta a Israele e alla sua storia; in questa forma essa non poteva essere universalizzata. Nel punto nodale di tale paradosso si trova Gesù di Nazareth che, come ebreo, viveva lui stesso fino in fondo nella Legge d'Israele, ma che, al contempo, si sapeva mediatore dell'universalità di Dio. Questa mediazione non poteva avvenire mediante un calcolo politico o un'interpretazione filosofica. In ambedue i casi l'uomo si sarebbe posto al di sopra della parola di Dio e l'avrebbe adattata ai propri criteri. Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un'interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele.
La sua apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da Gesù ha senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a spiegare se stesso.
Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)
Il conflitto che si conclude sulla croce
Solo spingendosi fino a questo punto si coglie la tragica profondità del conflitto. Da una parte Gesù ha aperto la Legge, ha voluto aprirla non come un liberale, non con una minore fedeltà, ma nella più stretta obbedienza al pieno compimento, a partire dal suo essere una cosa sola con il Padre, ovvero dall'unica realtà in cui Legge e promessa potevano diventare una cosa sola e Israele poteva divenire benedizione e salvezza per i popoli. Dall'altra parte Israele «doveva» vedere in tutto ciò qualcosa di molto più grave della semplice trasgressione di questo o quel precetto, cioè la violazione dell'obbedienza fondamentale, del nucleo originario della rivelazione ricevuta e della sua fede: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è un unico Dio».
Qui due diverse obbedienze si scontrano ed entrano in quel conflitto che doveva concludersi sulla croce. Riconciliazione e dissidio appaiono così intrecciati tra loro in un paradosso davvero insolubile.
In questa teologia del Nuovo Testamento che il Catechismo ci presenta, la croce non può quindi essere vista come un incidente in fondo evitabile e neppure come la colpa di Israele, di cui quest'ultimo resterebbe macchiato in eterno, a differenza dei pagani per i quali essa significherebbe la redenzione. Secondo il Nuovo Testamento non ci sono due effetti della croce, uno che condanna e uno che salva, ma uno solo, quello che salva e che riconcilia.
La speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo
In questo contesto è importante un passo del Catechismo che interpreta la speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo, ricollegandola al sacrificio di Isacco: la speranza cristiana ha cioè «la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo». Il testo prosegue ricordando che Abramo fu «colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio» (1819). Grazie alla sua disponibilità al sacrificio del figlio Abramo diventa in modo definitivo il padre delle moltitudini, benedizione per tutti i popoli della terra (cfr. Gn 22).
Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell'Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte alloro significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L'universalizzazione della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità di culto ed ethos. L'ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale. Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo.
La croce
Da questo modo di intendere Gesù, la sua pretesa e il suo destino, deriva nel Catechismo il giudizio storico e teologico sulla responsabilità di giudei e pagani riguardo all'evento della crocifissione.
Nessuna colpa collettiva dei giudei
Innanzitutto si pone la questione storica dello svolgimento del processo e dell'esecuzione della condanna. I titoli delle quattro sezioni del Catechismo che trattano questo argomento indicano già l'orientamento: «Divisioni delle autorità ebraiche a riguardo di Gesù», «Gli Ebrei non sono collettivamente responsabili della morte di Gesù». Il Catechismo ricorda in proposito che, secondo la testimonianza degli evangelisti, alcune personalità giudaiche molto stimate erano seguaci di Gesù, anzi, che, secondo Giovanni, poco prima della morte di Gesù «molti dei capi credettero in lui» ( Gv 12,42). Il Catechismo ricorda anche che all'indomani della Pentecoste, stando agli Atti degli Apostoli, «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7). Viene inoltre citata l'affermazione di Giacomo secondo cui «parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede, e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20 ). È così messo in chiaro che il racconto del processo di Gesù non può in alcun modo fondare la tesi di una colpa collettiva degli ebrei; il Vaticano II viene espressamente citato: «Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato ne indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, ne agli Ebrei del nostro tempo [...]. Gli Ebrei non devono essere presentati ne come rigettati da Dio, ne come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (597; Nostra aetate 4).
Tutti i peccatori sono autori della Passione di Cristo
Dopo quanto si è finora osservato è chiaro che con tali analisi storiche - per quanto importanti - non si è ancora toccato il vero nodo della questione, poiché la morte di Gesù, secondo la fede del Nuovo Testamento, non è solo un fatto che riguarda la storia esteriore, ma un evento teologico. Il primo titolo nell'analisi teologica della croce è quindi: «Gesù consegnato secondo il disegno prestabilito di Dio»; e ti testo comincia con questa affermazione: «La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio [...]» (599).
Coerentemente, l'analisi delle responsabilità viene conclusa con una sezione dal titolo «Tutti i peccatori furono gli autori della Passione di Cristo». In questo il Catechismo poteva appoggiarsi al Catechismo Romano del 1566. Vi si legge infatti: «Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che (oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono specialmente i vizi e i peccati commessi dagli uomini dall'origine del mondo sino ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla consumazione dei secoli. [...] E questa colpa è da imputarsi a tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i nostri peccati determinato N.S. Gesù Cristo a subire il supplizio della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, "un'altra volta crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e l'espongono all'ignominia" (Ebr. 6,6)».
Il Catechismo Romano de11566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo, «se l'avessero saputo, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria» (1Cor 2,8). Prosegue quindi: «noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo la mani violente contro di lui» (Catech. R. 1,5,11).
Il dramma del peccato umano e l'amore divino
Per chi come cristiano credente vede nella croce non un semplice e casuale fatto storico, ma un vero evento teologico, queste non sono affatto superficiali esortazioni edificanti, di fronte alle quali si deve richiamare il reale svolgimento dei fatti storici; al contrario, solo queste affermazioni si spingono fino al vero nucleo di quell'evento. Tale nucleo consiste nel dramma del peccato umano e dell'amore divino; il peccato umano fa sì che l'amore di Dio per l'uomo prenda la forma della croce. Per questo da una parte il peccato è responsabile della croce, ma dall'altra la croce è la vittoria sul peccato da I parte dell'amore, più forte, di Dio.
Per questo, al di là di tutte le questioni di responsabilità, ciò che in definitiva e più propriamente conta a tale proposito è quanto espresso nella lettera agli Ebrei (12,24), secondo cui il sangue di Gesù ha una voce diversa - più eloquente - da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione.
Fin da bambino - benché naturalmente non sapessi nulla di tutte le nuove conoscenze che sono state riassunte nel Catechismo - mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi era già entrato nell'anima come qualcosa capace di donarmi una profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione; come spiega la lettera agli Ebrei, è esso stesso divenuto il giorno permanente della riconciliazione di Dio.
Uno sguardo al compito comune di ebrei e cristiani per il mondo
Con le riflessioni svolte fin qui non si è certo sviscerato fino in fondo il tema proposto, lo si è solo introdotto. Alla luce del Catechismo abbiamo riflettuto sulla relazione tra Gesù e Israele, su ciò che la Chiesa crede riguardo a Cristo e sul suo rapporto con la fede di Israele, limitandoci, in un tema tanto ampio, ad alcuni elementi fondamentali che il Catechismo intende proporre per l'insegnamento della dottrina nella Chiesa cattolica. Si sono quindi poste le basi per affrontare i la questione del rapporto Israele-Chiesa, nella consapevolezza che una trattazione dettagliata richiederebbe uno studio il cui svolgimento andrebbe ben oltre i limiti di questo saggio (e anche oltre gli stessi limiti dell'insegnamento catechistico). Ancor meno si può qui affrontare la grande questione di un i compito comune di ebrei e cristiani nel mondo attuale. Mi pare però che il nucleo fondamentale di tale compito traspaia da quanto si è detto e risalti di per se stesso: ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace. Mediante la loro testimonianza davanti all'unico Dio, che non vuole essere adorato in nessun altro modo che attraverso l'unità tra amore di Dio e amore del prossimo, essi dovrebbero spalancare nel mondo la porta a questo Dio, perché sia fatta la sua volontà e ciò possa avvenire in terra così come «in cielo»: «perché venga il Suo Regno».
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[1] Questa frase è stata intesa dai miei uditori (ndr: del card. Ratzinger) come un riferimento all'insegnamento di Lutero sui due Testamenti. In effetti avevo presenti alcuni aspetti del pensiero di Lutero, ma ovviamente ero anche consapevole che un'opera tanto complessa e variegata come quella del riformatore tedesco non poteva essere riassunta adeguatamente in una sola frase. Qui non si può e non si deve affrontare ne, tanto meno, giudicare o addirittura condannare la teologia luterana dei due Testamenti. Si vuole semplicemente accennare a diversi modelli di trattazione del problema, per meglio evidenziare la linea agostiniano-tomistica scelta dal Catechismo.
[Testo tratto dal sito: www.nostreradici.it]
Benedetto XVI e i fondamenti della cultura - Dalla bellezza e dal lavoro la speranza in tempo di crisi - Pubblichiamo una sintesi dell'intervento "Come parlare pubblicamente di Dio in Europa" in uscita sul nuovo numero di "Atlantide", quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini. - di Javier Prades Facoltà San Damaso di Madrid – L’Osservatore Romano, 5 maggio 2009
Le solide mura del Collège des Bernardins hanno conosciuto vicende di ogni genere. Per secoli il monastero ha irradiato sulla città di Parigi il suo splendore educativo e culturale, ma è stato anche utilizzato come prigione o caserma dei vigili del fuoco. Solo recentemente è stato ricomprato e restaurato su iniziativa del cardinal Lustiger e destinato a sede per la ricerca sui rapporti tra Chiesa e società. Di fronte a queste meravigliose arcate il Papa si domanda se il loro significato sia puramente archeologico, oppure se suscitino ancora interesse negli uomini di oggi: "È questa un'esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?". Proprio come se Benedetto XVI volesse farsi eco della tradizione medievale della disputatio, in cui il Maestro di Teologia cominciava esaminando le obiezioni dell'avversario per poi fornire le sue risposte. Il primo modo di mettere in pratica il riconoscimento dell'altro è accogliere le sue domande e permettere che risuonino dentro di noi, senza artifici. Il secondo insegnamento viene dal modo di rispondere alle domande. Non enuncia direttamente una dottrina sulla vita spirituale, ma ha la pazienza di descrivere la vita di quella comunità monastica. Se non erro, ciò che egli fa è illustrare diversi aspetti dell'esperienza umana così come fu realmente vissuta dai monaci cistercensi. Mostra infatti come questa esperienza concreta abbia un valore universale e quindi sia comprensibile da qualsiasi interlocutore. Rivendica al contempo entrambe le dimensioni di concretezza e universalità, che sono tipiche del "metodo dell'Incarnazione": il Padre ha scelto una storia particolare - quella di suo Figlio Gesù Cristo e quella di coloro che l'hanno perpetuata nel suo corpo ecclesiale, mediante il dono dello Spirito Santo - che pretende di avere un valore universale, ossia di essere vera. A tale scopo sintetizza quattro aspetti della cultura monastica. In primo luogo, l'amore alla Parola di Dio comporta l'amore per le lettere, che dà luogo a una cultura del linguaggio. Il desiderio di comprendere la Scrittura e la sua sacra dottrina si traduce nella proliferazione di studi sulla lingua e sull'ermeneutica dei testi letterari, delle copie manoscritte di grandi opere dell'antichità, nella costruzione di biblioteche e nella creazione di scuole (la dominici servitii schola di san Benedetto) per approfondire la Parola di Dio. In secondo luogo, il compito di interpretare il testo sacro non è puramente individuale, per quanto il suo messaggio tocchi ognuno nel più profondo del cuore e richieda la sua risposta personale, ma "introduce nella comunione con quanti camminano nella fede". Per questo motivo esiste un'analogia tra la scuola monastica e la scuola rabbinica, dato che entrambe costituiscono il luogo ermeneutico imprescindibile per un'adeguata comprensione della sacra pagina. Nasce così una cultura delle forme di vita comunitaria. Il dialogo con Dio, che ci fa oggetto della sua Parola viva, si esprime nella preghiera liturgica, specialmente nei salmi, che erano abitualmente accompagnati dalle istruzioni su come cantarli, e da suggerimenti sugli strumenti musicali. Si giunge quindi al terzo aspetto: una cultura della bellezza attraverso la musica sacra. A chi si prenda la briga di ricordare le opere d'arte nate dalla creatività spirituale dei cristiani, dal gregoriano fino a Poulenc o Messiaen, attraverso Tomás Luis de Victoria, Bach o Mozart, non risulterà difficile comprendere l'importanza di questo criterio nella storia culturale dell'Europa. E neppure comprendere quanto siano dannose molte celebrazioni liturgiche attuali, che sembrano trascurare qualsiasi parvenza di bellezza nel canto, o di ordine nei gesti comuni, precipitando i fedeli nella regio dissimilitudinis di agostiniana memoria. Infine, la vita monastica dà origine a una cultura del lavoro manuale. Ancora una volta, il Papa vi trova un'analogia con la tradizione rabbinica, che personifica nell'atteggiamento di san Paolo, opposta alla sensibilità dei saggi greci, la cui dedizione alla theoria era incompatibile con i lavori manuali, considerati inferiori. La tradizione agostiniana e benedettina incarnava invece un ideale che si fondava su san Giovanni, il quale dice che il Padre opera, e anche il Figlio stesso opera sempre (cfr. Giovanni, 5, 17). Il Papa ne deduce un'interessante conclusione teologica: "Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il "costruire" il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l'Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia". Questi quattro aspetti - amore al linguaggio e ai libri, amore alla vita comunitaria, amore alla bellezza e amore al lavoro - sono caratteristiche della cultura umana. Su di essi si deve costruire una vita sociale buona. Per questo abbiamo detto che il Papa contribuisce a una "laicità positiva" dimostrando che questi atteggiamenti - tra gli altri - alimentano una cultura e così costituiscono un fondamento sociale imprescindibile per sviluppare la civiltà. Effettivamente senza questa cultura "lo sviluppo dell'Europa, il suo èthos e la sua formazione del mondo sono impensabili". Senza questa ricchezza culturale della società il sistema politico si riduce a procedure formali che non riescono a regolare l'esercizio del potere al servizio del bene comune. Il Discorso di Parigi contiene inoltre alcune considerazioni molto importanti per la nostra domanda su Dio. Benedetto XVI chiarisce fin dall'inizio che la ricerca di Dio non era indeterminata o generica. I monaci "erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla". Dio non si identifica con una trascendenza negativa, in cui il "puro essere" indeterminato coincida con il "puro nulla", tanto di moda nei nichilismi occidentali o del lontano Oriente. Innanzitutto, il Dio che è pienezza d'amore nella sua vita trinitaria ha voluto per prima cosa darci delle segnalazioni di percorso - possiamo presumere che il Papa si riferisca alla creazione - e poi spianarci una via - nella rivelazione dell'uno e l'altro Testamento - affinché la ricerca dell'uomo acquisisca una modalità nuova. Non è pura speculazione, ma qualcosa di molto più semplice e drammatico: trovare e seguire una Presenza storica, quella del Figlio incarnato. Dio non è un'idea più o meno sofisticata che l'uomo può esplorare da sé, impiegando il tempo e le risorse necessarie, fino a chiarirla del tutto. Dio è Uno, una realtà singolare e personale, che si può veramente conoscere solo quando Egli si manifesta. Se è così, gli uomini devono modificare la loro comprensione dell'universale, alla luce della singolarità dell'essere divino. In effetti, il fatto che ciò che è veramente universale sia Uno singolare (Dio), limita le pretese accampate dalla ragione moderna, e la "costringe" ad aprirsi all'attesa, al libero ascolto di una rivelazione storica. Se il Fondamento è Uno singolare, per conoscerlo veramente, per sapere Chi sia, sarà necessario ascoltarlo, se liberamente volesse rivelarsi (come aveva presentito Platone nel Fedone). Questo è l'evento che gli uomini realmente desiderano e che ora si è manifestato nella storia. Il Papa lo riprende con grande bellezza quando, alla fine del Discorso, commenta la scena di Paolo nell'Areopago (cfr. Atti, 17, 18-34). Di fronte a diverse tendenze del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Benedetto XVI cita due caratteristiche tipiche di Dio nella tradizione giudeo-cristiana: il suo carattere reale e non meramente pensato, e la sua effettiva comunicazione nella storia umana. Della prima, che abbiamo già commentato, il Papa dice: "Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all'origine di tutte le cose deve esserci non l'irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo - come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) - questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell'annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell'annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Lògos, presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Giovanni, 1, 14): proprio così nel fatto ora c'è il Lògos, il Lògos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole". Alla fine del discorso ricompare dunque, in un linguaggio più riflessivo, il metodo dell'incarnazione. Se la vita dei monaci era intessuta di fatti ragionevoli, e quindi si poteva comprendere e condividere, ora sappiamo che ciò era dovuto al fatto che la sua origine è un Avvenimento unico, l'Incarnazione del Figlio, che è Lògos in sé e pertanto "presenza della Ragione eterna nella nostra carne", nell'ambito dell'esperienza umana. Si arriva così al vertice di questo intervento di Benedetto XVI. Ha accompagnato gli ascoltatori a partire dalle loro stesse domande attraverso il racconto di una tradizione, per giungere infine a proclamare i dogmi cristiani per antonomasia: Trinità e Incarnazione. Com'è ovvio non si può accedervi senza la luce soprannaturale della fede, ma tutti hanno potuto riconoscere i loro effetti umanizzanti. Credere in Cristo è un atto impossibile senza la grazia di Dio, ma chi lo realizza sa che crede perché è credibile, perché è ragionevole per la propria umanità e per quella di tutti, come hanno sempre sottolineato Agostino e Tommaso. Per questo, il Papa può concludere con un prezioso suggerimento missionario: "I cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d'Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono".
(©L'Osservatore Romano - 4-5 maggio 2009)
DIRITTI UMANI/ Come le storie di Delara e Samantha sfidano la nuova Europa - Mario Mauro - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
L’ultima telefonata era stata per i suoi genitori. Un messaggio disperato, una richiesta fatta con le ultime forze di chi ormai sa di non potere più nulla contro un verdetto già scritto. Contro di lei il tribunale di Teheran aveva emesso una sentenza atroce e inappellabile: la morte attraverso l’impiccagione. Delara non voleva morire.
L'esecuzione della ragazza è avvenuta a sorpresa venerdì nel carcere di Rasht, nel nord dell'Iran, anche se il capo dell'apparato giudiziario, ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, aveva annunciato il 19 aprile scorso un rinvio di due mesi del compimento della sentenza. Delara (nella foto) è stata uccisa per un omicidio – di cui le cause e le dinamiche pare non siano state ancora del tutto chiarite – commesso quando aveva 17 anni. Non solo. La pittrice iraniana di soli 23 anni è stata condannata pur avendo accettato le condizioni poste dalla famiglia della vittima per concedere il perdono che le avrebbe salvato la vita: dichiararsi colpevole e cambiare avvocato.
Quel che è ancora più grave è quanto si apprende dalle fonti internazionali, le quali raccontano che a mettere personalmente la corda intorno al collo di Delara è stato un figlio della donna per la cui uccisione la pittrice è stata condannata. La ragazza è stata messa a morte senza che nemmeno il suo avvocato venisse informato, come invece vorrebbe la legge. Tutto questo è avvenuto proprio quando Ahmadinejad ha annunciato pubblicamente di avere un pacchetto di «nuove proposte» da presentare al gruppo dei «5+1» negoziatori.
Si cambia paese ma lo scenario non è molto diverso. Siamo questa volta nel Laos, dove una ragazza britannica di origini africane, Samantha Orobator-Oghagbon di soli 20 anni, da nove mesi in carcere con l’accusa di spaccio di droga, rischia di essere fucilata per aver cercato di contrabbandare 680 grammi di eroina, un quantitativo oltre il quale la legge laotiana prevede la pena di morte. La prossima settimana la ragazza affronterà il processo davanti a un tribunale.
La difesa dei diritti umani è uno dei punti sui quali l'Unione europea vuole avere un ruolo di leadership mondiale. L’ultima legislatura del Parlamento europeo, che ormai sta volgendo al termine, ha puntato molto sul controllo e sul dialogo delle comunità di molti paesi del mondo, portando noi rappresentanti del Parlamento europeo verso un incontro con i più importanti leader di queste nazioni. L’Unione europea si è quindi battuta fortemente perché venisse condannata la negazione dei diritti umani e civili nel mondo.
In particolare la nostra azione politica ci impegnati su più fronti: contro la pena di morte in Nigeria, contro le uccisioni sistematiche di civili in Somalia, contro il protrarsi della detenzione di prigionieri politici in Birmania, per garantire i diritti umani in Cambogia, Laos e Vietnam, contro la mancata tutela dei diritti umani dei bahá'í in Iran, contro la mancata tutela dei diritti umani a Oaxaca in Messico, contro la mancata tutela dei minori in Bielorussia, per la difesa della Democrazia in Cina. La lista potrebbe continuare ancora.
Appare allora evidente come l’Unione europea non sia solo l’istituzione che si occupa di emanare direttive sulla curvatura delle banane, ma uno strumento di controllo internazionale che mira a far si che storie come quella di Delara o Samantha non si ripetano. Non è allora fuori luogo ricordare come questi temi siano iscritti sin dall’inizio della storia del nostro cammino europeo, quando i nostri padri fondatori a quelle solenni dichiarazioni fecero seguire decisioni innovative e coerenti.
Oggi dobbiamo rilanciare l’identità culturale europea nel panorama mondiale, per adeguare la presenza dell’Unione alle responsabilità politiche a cui è chiamata. Vogliamo che l’Europa punti a rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti, fondandola sui comuni valori di libertà e democrazia dell’Occidente. Un’Europa forte e attiva in politica estera, è certamente in grado farsi garante della tutela della vita umana e della dignità della persona. Essere forte e attiva vuol dire saper intervenire in maniera rapida ed efficace perché non sia più consentito a nessun paese di rifiutare impunemente il riconoscimento dei diritti umani.
DIARIO DA L’AQUILA/ La dolce storia dei Nurzia: ricominciamo dal torrone - Redazione - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La storia del torrone Nurzia è la storia di un odore che in determinati momenti del giorno pervadeva le vie del centro cittadino. A cominciare da Piazza Duomo. Dal 1835 è un odore caratteristico dell’Aquila. Profumo di tostatura delle nocciole per la preparazione del torrone. Il laboratorio artigianale dei fratelli Nunzia era proprio in centro, richiamo per gli ambulanti che la mattina, all’alba, sistemavano i banchi del mercato.
Il terremoto che ha devastato il centro ha risparmiato il laboratorio dove il torrone è ancora confezionato a mano. I macchinari, vecchi di 60 anni sono integri, al contrario di quanto è successo nella nuova fabbrica realizzata nella zona industriale dove servono alcuni interventi. Una tradizione che passa di generazione in generazione. L’antica fabbrica voluta da Gennaro Nurzia riprenderà appena il centro tornerà ad essere transitabile. «Il destino - dice Natalia Nurzia, figlia di Ulisse e Giuliana - a quanto sembra, ha voluto che rimanessimo in centro».
La voglia di ricominciare dopo le ferite alla città è forte. «Appena riceveremo l'agibilità - assicura Natalia, che con il fratello Francesco Saverio rappresenta la sesta generazione Nurzia - riapriremo il bar e la fabbrica del torrone in Piazza Duomo. Speriamo che tutto questo avvenga nel più breve tempo possibile. È una cosa che vogliamo fare per noi, per gli aquilani, per la città che deve tornare a vivere. Anche questo è un modo per ricominciare».
Il periodo più importante per la produzione del torrone comincia nel mese di settembre. Le richieste arrivano da ogni parte del mondo, tra cui esponenti degli Emirati arabi. Torrone bianco alle mandorle, torrone al cioccolato, il profumo tra qualche mese segnerà il risveglio della città. «Il successo del torrone risiede tutto - racconta Natalia - nella cura meticolosa profusa in ogni fase del procedimento, a cominciare dall'acquisto delle materie prime. Il miele è solo di produzione locale».
Il procedimento è lo stesso di nonno Francesco Saverio, il figlio di Gennaro, colui che "inventò" la ricetta. Il tocco finale, quello della scelta della miscela del cacao, si deve invece a Ulisse, conosciuto all'Aquila come Ninetto. Dal 1835 soltanto una volta, prima del terremoto del sei aprile, la produzione si era fermata. Era accaduto a cavallo degli anni Quaranta, quando era stata vietata l'importazione di cacao.
La voglia di ricominciare è forte, spesso non solo per motivi economici. Lavorare, impegnarsi è la riposta più forte che si può dare al dramma del terremoto. La voglia di ricominciare è la voglia di una persona che si confronta con il suo lavoro, con il quotidiano. Che serve a vincere paure e angosce di una scossa che ha cambiato la vita.
(Fabio Capolla)
FILOSOFIA/ Thoreau, l'idolo degli ambientalisti attratto dall’abisso dell’io - Anthony Graybosch - martedì 5 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Henry David Thoreau (1817-1862) è noto soprattutto per il suo esperimento di autosussistenza svolto nei due anni spesi a contatto diretto con la natura presso il Lago Walden (Walden è il titolo del suo resoconto di questa esperienza) e per il suo saggio sulla disobbedienza civile “Resistenza al Governo Civile”. L’apprezzamento di Thoreau per la bellezza della natura, il suo confidare nella natura come fonte di ispirazione morale e la sua difesa di una vita semplice ha portato molti critici ad associarlo con l’ambientalismo. Ma egli era anche un classicista, influenzato in modo particolare dallo stoicismo, e il suo vero interesse era cercare un modo di vivere felici nel mezzo di istituzioni sociali fallimentari.
Il 22 aprile 2009 si è celebrato il 39° “Giorno della Terra”. È stata anche la giornata inaugurale dell’opera teatrale Walden: la ballata di Thoreau, in cui si immagina una conversazione fra Henry David Thoreau e il suo maestro Ralph Waldo Emerson ambientata nella capanna sul lago Walden durante i due ultimi giorni del ritiro di Thoreau nella natura. L’opera è stata trasmessa dalla televisione pubblica e alla radio, rappresentata in molti teatri ed è stata accompagnata da programmi di lezioni che «rendono il Walden un perfetto strumento educativo». La Campagna della Generazione Verde, guardando già al 40° anniversario del Giorno della Terra, invita i cittadini ad appoggiare i programmi politici che prevedono energia rinnovabile, consumo responsabile e la creazione di lavori verdi.
Thoreau sarebbe stato molto divertito, e forse anche un po’ indispettito, all’idea di passare il Giorno della Terra a studiare mentre la natura ci aspetta fuori dalle aule. I gitanti che vogliono cogliere una traccia della sua esperienza si troveranno, per esempio, a soddisfare la propria sete prendendo un mestolo che penzola sul fianco della capanna e attingendo direttamente dal lago. Se vi capitasse oggigiorno di passare nelle vicinanze del lago Walden e di essere di fretta, c’è comunque una replica della capanna nell’area di parcheggio. Sì, anche il lago Walden ha il suo drive through. Una capanna-replica è un tipo di opzione che Thoreau avrebbe apprezzato, se non avesse richiesto una perdita di soldi e di tempo, perché l’avrebbe potuta utilizzare per depistare i visitatori. E ciò mi porta all’altro Thoreau, quello meno pubblicizzato ma più interessante.
Thoreau è il filosofo che ha definito il costo di un articolo come la somma della coscienza investita per produrlo o acquistarlo; quello che ha rifiutato di prendere in considerazione qualsiasi lavoro che richiedesse la sua presenza sia prima che dopo pranzo o di acquistare dei vestiti nuovi; e che pensava che la casa di cui uno aveva bisogno in questa vita come nell’altra fosse sempre una scatola di legno con qualche buco.
Alcune delle idee più liberanti e interessanti del Walden non andrebbero tanto d’accordo con genitori e insegnanti. Thoreau provava molta simpatia per le difficili condizioni di vita dei normali cittadini, sottolineando che «molti uomini vivono vite di quieta disperazione». Solo che considerava essi stessi responsabili della propria condizione. Thoreau pensava fosse meglio essere abbandonati alla nascita e cresciuti da lupi che essere nati ricchi. Nella conclusione del Walden dice: «Per quanto la tua vita sia miserevole, incontrala e vivila; non sfuggirla e non maledirla. Non sarà mai più cattiva di te». E nel suo ultimo saggio Vita senza principi: «Così gli uomini giacciono supini, parlando della caduta degli esseri umani, senza mai fare uno sforzo per tirarsi su».
Questo Thoreau non accetta di essere arruolato per difendere il programma politico né dei verdi né di qualcun altro. Per lui la disobbedienza civile non consiste nell’essere autorizzati a violare una legge ma nell’essere obbligati a farlo; e così, a malincuore, dovette venir via dal diletto della natura per tornare all’impegno sociale e a tutti i suoi annessi e connessi.
Perché Thoreau abbandonò il lago Walden? Dopo qualche centinaio di pagine dedicate al suo primo anno Thoreau annota solo che il secondo anno fu come il primo. E dice anche di avere ancora altre vite da vivere. E io immagino che dopo due anni di relativa solitudine egli fosse ormai in grado di caricarsi il Walden e di portarlo con sé nella società, cioè che sarebbe sempre stato capace di mantenere una distanza interiore.
Il primo libro di Thoreau, Una settimana a Concord e al Merrimack River, si avvicina al Taoismo nella sua celebrazione delle conchiglie che risplendono sul fondo delle acque del fiume compiendo così il loro fato. Man mano che diventava vecchio, e che si allontanava da Emerson, non considerava più la natura come una fonte costante di bellezza e ispirazione morale. Mr. Ktaadn in Le foreste del Maine è descritto come «selvaggio e orribile, anche se bello» e sostiene che «Non abbiamo visto la pura natura finché non abbiamo visto la sua immensità, la sua monotonia e la sua disumanità». Il mio libro preferito, Cape Cod, include testimonianze sul naufragio a Pleasant Cove della “St. John” – una nave che trasportava centinaia di immigranti nel nuovo mondo. Morirono in quarantacinque; la gente del posto raccoglieva le alghe portate dalla tempesta per usarle come fertilizzante e Thoreau commenta dicendo che forse i morti sono emigrati in un mondo migliore.
Questo è l’altro Thoreau che solo a malincuore accettò l’impegno sociale, che moderò il suo ottimismo sulla natura e che scrisse caustici saggi con titoli come Vita senza principi.
Il lago Walden, come l’io, non ha fondo. Thoreau continuò a investigare queste profondità dopo aver lasciato il lago per vivere le sue altre vite. Sarebbe un peccato smettere di investigare Thoreau lasciandolo fermo al lago.
RAZIONALITÀ FREDDA E ANONIMA SULLA FINE VITA - La morte burocratizzata può essere un’aspirazione? - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 5 maggio 2009
Ciò che, come giurista, mi colpisce maggiormente nell’atteggiamento di coloro che nel nome del valore assoluto dell’autodeterminazione ( un ' diritto di spessore costituzionale'!) ritengono illiberale ogni pretesa di imporre come vincolante l’alimentazione e l’idratazione artificiali, ancorché rifiutate dal paziente con un’esplicita ' manifestazione di volontà' ( anticipata), è il modo rigidamente meccanico con cui essi configurano questo concetto e le situazioni reali che deriverebbero dal suo trasformarsi in precetto. Che il diritto esista per garantire ad ogni soggetto che le sue manifestazioni di volontà vadano prese sul serio e possano produrre i loro legittimi effetti è fuor di dubbio. Ma è pur vero che il diritto presuppone sempre l’esistenza di un contesto dialettico, nel quale volontà possa contrapporsi a volontà, interesse a interesse, come dimostra il fatto che la volontà di un singolo può sempre essere contestata, come produttrice di effetti giuridici, dando luogo a conflitti, la cui la soluzione si ottiene in un unico modo, attivando una controversia dialettica davanti a un giudice, cioè attivando un processo. Nei fautori della vincolatività del testamento biologico, il riferimento al doveroso rispetto delle manifestazioni di volontà del sottoscrittore assume un ben diverso profilo. Da una parte si ritiene di dover rendere un assoluto omaggio a dichiarazioni anticipate di trattamento redatte in tempi antecedenti da un paziente non più in grado di reiterarle e di confermarne la perdurante validità.
Dall’altra si pretende di imporre al medico, e per legge, una soggezione non dialettica nei confronti del paziente ( in quanto il medico, di fronte a un paziente privo di coscienza, non è ovviamente più in grado di confrontarsi dialogicamente con lui). Ne segue che ogni possibilità di confronto autentico e reciproco ( cioè propriamente giuridico) tra l’uno e l’altro viene svuotata dall’interno. Ciò che resta è il valore legalmente riconosciuto a una procedura burocratica: la presa d’atto da parte del medico dell’esistenza di un testamento biologico e dei suoi contenuti, la verifica della sua validità formale ( data, firma, ecc.), il riscontro dell’effettiva presenza nel caso concreto delle situazioni patologico- sanitarie ipoteticamente previste nel documento, l’eventuale coinvolgimento del fiduciario, purché correttamente identificabile, e infine l’esecuzione, doverosamente puntuale e integrale, delle direttive contenute nel testamento.
C’è, forse, un qualche aspetto di razionalità nella pretesa di rendere vincolanti i testamenti biologici.
Si tratta però di una razionalità rigida e fredda, analoga a quella che governa tutte le procedure amministrative, burocraticamente anonime.
Quando il rapporto medico- paziente a questo si riduce, avvertiamo tutti che l’identità della medicina si sta alterando e che il malato, il soggetto debole per eccellenza, viene a trovarsi in una situazione di ulteriore fragilità. Non riesco a comprendere, perché non si voglia ammettere che, quando il malato perde la capacità di intendere e di volere, la sua fragilità si dilata a dismisura e che questa fragilità non viene in nessun modo attenuata dall’osservanza cieca e burocratica di direttive anticipate. Abbiamo bisogno di una medicina che vada alla ricerca ( anche nel contesto delle situazioni più tragiche ed estreme) di nuove ( e magari inedite) forme di colloquio tra medico e paziente e non di una legge che avallando pratiche sanitarie obiettivamente eutanasiche faccia perdere alla medicina la sua anima.
La fragilità del malato non viene in nessun modo attenuata dall’osservanza cieca e burocratica di direttive anticipate
LA SCUOLA E L’EUROPA - «Impossibile chiudere la religione nel privato» - Il cardinale Erdo: una forte identità aiuta il dialogo - DAL NOSTRO INVIATO A STRASBURGO - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 maggio 2009
«Un fatto, un diritto e un servizio domandato da milioni di famiglie». Questo è l’insegnamento della religione nelle scuole secondo il presidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee, l’arcivescovo di Budapest cardinale Péter Erdo. Nella sede del Consiglio d’Europa alla vigilia dei suoi sessant’anni, esercita una certa suggestione che a illustrare la bontà dell’insegnamento religioso scolastico sia un ancora giovane prelato dell’Est, uno che nel 1956 era un bambino di quattro anni. Si sente un’eco della storia del suo Paese nel suo discorso, quando rievoca i metodi di controllo 'spietati' della libertà personale sotto il comunismo, o quando pone con forza l’accento sulla famiglia, 'prima educatrice'. Ma oggi il cardinale vede nella sua Budapest e nell’Est un nemico diverso dal totalitarismo, eppure non meno pericoloso. «Le giovani generazioni sono governate dall’edonismo, e in particolare dal piacere immediato, dall’attimo fuggente. Questo sguardo incide duramente non solo negli affetti e nella costruzione delle famiglie, ma perfino nella capacità di portare a termine gli studi. Se l’unico obiettivo è una soddisfazione immediata, ben poche scelte reggono. In società come quelle dell’Est poi, dove è venuta a mancare una borghesia strutturata, l’esito di questo sguardo alterato produce rapidamente anche corruzione e delinquenza. Infatti molti governanti dell’Est, pur non essendo personalmente religiosi, vanno scoprendo ora che la tradizione religiosa è necessaria per mantenere una stabilità sociale ».
Eminenza, però nell’Occidente con un passato democratico si allarga invece la pretesa laicista di costringere la religione in uno spazio individuale, pubblicamente irrilevante.
«È una pretesa che riconosco, anche se spesso mi sembra portata avanti, come in Italia, da frange radicali molto rumorose ma numericamente minoritarie. In realtà la popolazione, in Italia come nel resto d’Europa, non è così radicale. Resta il fatto che quest’ansia di rinchiudere la religione nel 'privato' è non solo inaccettabile, ma impossibile: una religione comporta uno sguardo complessivo sulla realtà, ed è quindi assurdo pretendere che taccia su quanto ha rilevanza pubblica».
Mentre in molti Paesi si fa largo l’idea di una illustrazione 'neutrale' delle varie confessioni, nel documento conclusivo della ricerca presentata qui a Strasburgo, i vescovi europei dichiarano preferibile l’insegnamento scolastico ' a carattere confessionale'. Perché?
«L’insegnamento della religione cattolica non può a mio avviso che essere confessionale: non si 'informa' l’alunno, lo si educa, in una trasmissione che coniuga parola e testimonianza. D’altronde, la pretesa di alcuni di poter fornire un punto di vista neutrale sulle diverse religioni mi pare in sé contraddittorio: nel momento in cui spieghi qualcosa cui non aderisci, fornisci già un giudizio implicito all’alunno. Non credo che la 'neutralità' di cui tanto si parla sia possibile».
Mentre un certo laicismo estremo si preoccupa dell’insegnamento confessionale cristiano nelle scuole, altri osservatori paventano l’avvento di una cultura islamica che si prepara a cancellarci…
«Non condivido queste paure. L’avere paura è un segno caratteristico di identità religiosa debole».
È una coincidenza o un disegno venire a parlare all’Europa di insegnamento della religione,
nei 60 anni del Consiglio?
«Inizialmente può essere stata una coincidenza, però questo mi sembra il giorno e la sede giusta per dire all’Europa di guardare con fiducia alla risorsa rappresentata dalla tradizione religiosa. Non è certamente da temere; una forte identità religiosa non porta, come alcuni temono, all’intolleranza, ma al contrario a un confronto fattivo con il prossimo, con cui si dialoga a viso aperto e senza timori».
Sembra però così difficile per gli europei mettersi d’accordo su ciò che li accomuna, su ciò che è 'naturale' e ciò che non lo è. Nella stessa cattolica Italia il dibattito attorno al principio della vita e al modo della morte è da anni violento.
«Io tuttavia sono ottimista perché come cristiano sono convinto della possibilità di una conoscenza naturale oggettiva delle cose essenziali della vita. E sono certo che attorno a questi beni essenziali si possa creare un consenso sociale condiviso».
Ciò che è forse quanto una parte dell’Europa laica domanda alle confessioni religiose, oggi. Come laicamente ha detto a Strasburgo monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio, una parte d’Europa guarda con nuova curiosità a quella «dimensione politica» della religione «decisiva per la convivenza comune».
l’intervista Don Antonio Villa e la scuola di Tarcento, esempio di comunità: «Adulti e ragazzi, abbiamo tutti bisogno di imparare a vivere» - DA TARCENTO (UDINE) – Avvenire, 5 maggio 2009
«Fate quello che potete, fatelo con passione, ma piuttosto di dar fastidio, levate le tende».È il mandato che don Giussani dà a don Antonio Villa il 19 maggio 1976. Siamo a Tarcento. Don Giussani consegna il sacerdote ed un gruppo di volontari al parroco, mons. Frezza. Gli dice: «Se ne liberi senza problemi, se danno problemi». «Dopo 33 anni siamo ancora qui. Quindi vuol dire che non abbiamo dato fastidio - sorride soddisfatto don Antonio - . Abbiamo una scuola, frequentata oggi dai figli di coloro che abbiamo accolto come primi studenti». Una scuola media in cooperativa. Caso più unico che raro in Friuli.
Don Villa, si è mai pentito?
No. Già allora don Giussani ci diceva: se fate una scelta, usate la razionalità. Perché dev’essere una scelta compiuta per sempre. È una scelta per la Chiesa. Lo interpretammo come un impegno sacramentale. Ecco perché è durato così a lungo.
Perché vi siete dedicati ad una scuola?
Per la verità la nostra missione era quella di aiutare i friulani a passare dalle tende ai mattoni, secondo un’efficace sintesi ideata da Robi Ronza. Quando arrivò il secondo terremoto a metà settembre ’76, e il commissario Zamberletti ordinò l’esodo, scapparono anche tanti volontari. Ma i genitori dei ragazzi ci chiesero imploranti: non ve ne andrete mica anche voi? Decidemmo di restare. E proprio fra quei genitori raccogliemmo le prime iscrizioni.
Ancora oggi ha 75 ragazzi. Ed è lei stesso, ad esempio, a provvedere alla mensa, oltre che alla direzione dell’istituto.
Questa è una scuola di vita. Sa quale era e quale è la nostra prima preoccupazione? Liberare i ragazzi dalla paura del professore, del registro, del voto. La paura della vita. Spesso la scuola è fondata sulla paura. Ma così nessuno diventa grande. Per liberare il bambino dalla paura occorre arrivare al livello in cui si è pari a lui: ovvero al livello della verità della persona, al livello in cui ogni uomo è in rapporto con l’Ideale, con il Creatore. È lì che un adulto è uguale al bambino, perché rispetto all’Ideale della vita un adulto non è più in alto, è solo chiamato ad essere più cosciente e più responsabile. Per questo, al mattino a Tarcento si inizia con un momento comune di preghiera e di richiamo al motivo per cui si vive la giornata, per questo nessuno si sente superiore o arrivato.
In quale misura vi preoccupate che la vostra sia la scuola del computer?
Ci preoccupiamo di più ad insegnare la tabellina che il computer. Abbiamo un punto di partenza uguale: il bisogno di imparare a vivere. Ecco perché abbiamo pensato alla cooperativa: soci sono i genitori e gli insegnanti, ma anche i ragazzi stessi che, per esempio, collaborano a fare le pulizie.
Quanto pagano le famiglie?
Ho posto un’unica condizione per continuare quest’esperienza: la gratuità. L’educazione non si può pagare. La scuola, dunque, ce la facciamo da noi. Educare è la cosa più facile di questo mondo, è elementare, è della natura umana. È inevitabile. Educhi - o diseduchi - anche solo incontrando un bambino per strada che ti osserva, che ha un giudizio su di te perché lo hai incuriosito o scandalizzato. La struttura scolastica vera è la persona e in questa dinamica la scuola è comunione di persone. Quando don Giussani diceva che il soggetto educante è la comunione, diceva che comunque devi diventare soggetto tu stesso: perché la comunione da sola non sussiste, ma è una modalità dell’essere, una modalità della persona.
Francesco Dal Mas
La priorità a fabbriche, case, opere pubbliche e chiese.
L’assessore Varisco ricorda: ai privati venne concesso un acconto del 40% della somma a inizio lavori, un altro 40% in corso d’opera e un 20% alla fine