Nella rassegna stampa di oggi:
1) Obama il cristiano - Lorenzo Albacete - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
2) LAICITA’/ Ostellino: caro Fini, il nemico della libertà è lo Stato non la Chiesa - INT. Piero Ostellino - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
3) LAICITA’/ Lupi: via i pregiudizi, torniamo allo spirito della Costituzione - INT. Maurizio Lupi - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) LETTERATURA/ Gioanola: la coscienza di Italo Svevo, una finestra sull’indefinibile animo umano - INT. Elio Gioanola - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) Fini: "Le leggi non seguano la religione" – due articoli di “La Repubblica” e “ilsussidiario.net
6) L’amore per l’umanità è il volto di Dio - Il Cardinale Caffarra spiega Gesù alla messa per la Madonna di S. Luca - di Antonio Gaspari
7) Paul Ricoeur:«Muore il personalismo, torna la persona!» - Autore: Restelli, Silvio - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 20 maggio 2009
8) 20 Maggio 2009 - MADRID - In Spagna adesso il feto «non è un essere umano» - Avvenire
Obama il cristiano - Lorenzo Albacete - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Il presidente Obama è tornato a Washington dopo la sua controversa apparizione all’Università di Notre Dame e l’attenzione della nazione si è spostata su altri argomenti. Per un paio d’ore, domenica scorsa le luci si sono accese su Notre Dame, palcoscenico su cui venivano esposte al pubblico le divisioni nel cattolicesimo americano, probabilmente senza che ciò cambiasse in nulla la situazione preesistente alla visita di Obama (naturalmente, i cambiamenti provocati dall’incontro con Gesù Cristo sono, all’inizio, pressoché invisibili, come la crescita del seme della senape).
Il dibattito sull’opportunità di invitare il presidente e di conferirgli la laurea honoris causa continuerà, probabilmente, senza rilievo pubblico. Il problema è che non si tratta di una discussione su cosa significhi essere cristiani, ma di una discussione sulla politica e l’etica. Sotto questo profilo, il discorso del presidente e il suo invito al dialogo offrono qualche spunto per un dibattito teologico, per esempio, il suo riferimento alle conseguenze del peccato originale e la relazione tra fede, dubbio e umiltà (il punto di vista di Obama è quello tipico del liberalismo protestante).
Anche la sua insistenza sulla necessità di trovare un terreno comune per cooperare alla riduzione del numero degli aborti potrebbe portare a una discussione simile al dialogo tra Benedetto XVI e Jurgen Habermas. Sarebbe interessante vedere come Obama reagirebbe alla discussione del Santo Padre nel suo libro su “Verità e tolleranza”. Il presidente ha offerto anche alcune aperture alle preoccupazioni dei cattolici sulla libertà di coscienza e sull’educazione. Sarà importante vedere come ciò si trasformerà in concrete proposte legislative.
Comunque, la parte più importante del suo discorso è stata il suo racconto di come è diventato cristiano, a seguito del suo lavoro di organizzatore in una comunità di aiuto ai poveri. Questo è quanto ha detto: «Può essere perché la gente di chiesa con cui lavoravo era così accogliente e comprensiva, o perché mi invitavano alle loro funzioni e cantavano con me i loro canti religiosi, o forse perché io ero veramente a pezzi e loro mi hanno sostenuto. Forse perché sono stato testimone di tutto il bene che la loro fede li spingeva a compiere, mi sono trovato spinto non solo a lavorare con la Chiesa, ma a essere nella Chiesa. Attraverso questo servizio sono stato portato a Cristo» (non ho sentito gli altri discorsi, ma non sarei sorpreso se questo non fosse stato l’unico momento della manifestazione in cui è stata fatta la distinzione tra conoscere Cristo e ammirare i suoi “valori etici”).
Queste parole del presidente riconoscono il metodo attraverso il quale la fede cristiana si diffonde e porta frutti, cioè attraverso la testimonianza di qualcuno dal quale siamo attratti per la “diversa umanità.” Proprio a questo punto, Obama ha ricordato la testimonianza del Cardinale Joseph Bernardin, arcivescovo di Chicago all’epoca (qualcuno ha considerato la cosa offensiva per l’attuale arcivescovo, che è anche presidente della Conferenza episcopale, ma se Obama incontrasse personalmente il Cardinale George potrebbe accorgersi della continuità tra la testimonianza di Bernardin e le preoccupazioni di George).
Queste parole del presidente offrono la maggiore speranza per il futuro. Rimane nostro compito ricordare che il punto di partenza di ogni cosa che diciamo o facciamo deve essere la fede in Cristo.
LAICITA’/ Ostellino: caro Fini, il nemico della libertà è lo Stato non la Chiesa - INT. Piero Ostellino - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Difficile distinguere, quando parla un politico, tra le considerazioni di merito e le intenzioni nascoste. Ma quando si tirano in ballo concetti grandi, come la laicità dello Stato, è necessario provare a prendere sul serio le affermazioni, ed affrontarne i contenuti. La laicità in Italia è veramente messa a rischio? Ci sono ingerenze di carattere religioso nella nostra attività legislativa? Secondo Piero Ostellino, editorialista e già direttore del Corriere della Sera, si tratta per lo più di un falso problema.
Ostellino, c’è secondo lei in Italia, come paventato da Fini, un “rischio laicità”, legato a leggi ispirate a «precetti religiosi»?
Non mi pare proprio. Il rischio ci sarebbe in linea teorica, ma solo nella misura in cui la politica non avesse il coraggio di fare quello che fa la Chiesa. La Chiesa, infatti, quando le si chiede qualcosa che essa non può fare risponde “non possumus”; basterebbe che il mondo politico, qualora gli si chiedesse di imporre principi etici alla legislazione dello Stato, rispondesse esattamente allo stesso modo. Ma mi pare che il problema sia un altro, e cioè che qualcuno si sente di utilizzare l’argomento e paventare questo rischio per scopi politici personali.
Quindi Fini starebbe cavalcando una posizione personale col solo intento di smarcarsi da Berlusconi?
Siamo sotto campagna elettorale, e facciamo sempre i conti con la possibilità che si prefiguri una successione – anche se poi non si sa bene quando – di Berlusconi a capo del Pdl. Ci sono persone all’interno dello stesso Pdl, a cominciare proprio dal presidente della Camera, che stanno cercando di darsi una forte visibilità, sia in prospettiva elettorale, sia in vista della successione a Berlusconi. Ed è allora un problema diverso rispetto ai rapporti tra Stato e Chiesa.
Il problema è dunque prettamente politico…
La motivazione di quelle affermazioni da parte di Fini è sicuramente di carattere politico. Che dopo, nel centrodestra come nel centrosinistra, da parte di qualcuno ci sia la convinzione di poter conquistare il voto dei cattolici o il sostegno della Chiesa facendo una politica più fortemente informata ai principi religiosi, questo probabilmente c’è. Ma si tratta di una questione politica che si affronta sul piano politico.
Stando sul merito della questione, in quali termini un cattolico porta in Parlamento la propria posizione senza venir meno al principio di laicità e al rispetto delle posizioni altrui?
Semplicemente facendo il proprio mestiere. Non riesco a capire per quale motivo debba sembrare una cosa scandalosa il fatto che un cattolico, che ha la propria visione del mondo e del Paese in cui vive, dica quello che pensa e lo porti in Parlamento. Ciascuno porta in Parlamento i propri ideali. Basti pensare che ci sono stati dei comunisti, nella storia della Repubblica, che volevano portare in Parlamento la loro concezione politica, che era quella dell’Unione Sovietica. Nessuno se n’era scandalizzato, visto che era loro pienissimo diritto; tanto più allora non capisco perché lo stesso diritto non debba essere garantito a un cattolico. Cattolici che per altro, a quanto è dato di vedere, non mi pare proprio abbiano intenzione di imporre a nessuno lo Stato teocratico.
Secondo lei, per ritrovare l’equilibrio giusto tra le forze cattoliche e laiche, è opportuno ritornare a quello che è stato l’incontro tra le diverse culture da cui è nata la Costituzione?
Bisogna andare molto più indietro. Io, come ho avuto modo di dire più volte, ritengo la nostra Costituzione un “papocchio”, una contraddizione in termini. Siamo l’unico Paese al mondo che è fondato sulla merce, sul lavoro, anziché essere fondato sulla libertà. Dovremmo essere un Paese di democrazia liberale, e invece abbiamo una Costituzione che è il compromesso tra il corporativismo fascista, il collettivismo marxista e una parvenza di solidarismo cattolico. Noi invece dovremmo avere una Costituzione fondata sui diritti naturali soggettivi, che sono quelli che venivano promossi dai monaci benedettini nel Medioevo, dai cristiani, prima ancora che arrivasse il liberalismo di John Locke: principi che attengono alla intangibilità e alla sacralità della persona, che è un principio cristiano. Noi dovremmo fondarci su quello: abbiamo alle spalle una grande tradizione giudaico-cristiana, verso la quale il liberalismo ha un debito sostanziale. A questa tradizione noi dovremmo attenerci; ed è qualcosa che viene ben prima della nostra Costituzione. Anzi, i diritti naturali della persona vengono ben prima della nascita stessa dello stato.
In che modo, dalla Costituzione in poi, si è svolto il rapporto tra cattolici e laici nel Parlamento italiano? È stato un rapporto equilibrato, o secondo lei la parte cattolica ha fatto pesare troppo la propria appartenenza religiosa?
Se c’è un grande movimento cattolico che ha difeso la laicità dello Stato questa è la Democrazia Cristiana. O vogliamo forse negare la nostra storia? Non dimentichiamo che l’uomo della rinascita di questo Paese è stato uno straordinario cattolico liberale che si chiamava De Gasperi. L’intera storia della Democrazia Cristiana è la storia della difesa della laicità in questo Paese. E lo dice uno che non ha mai votato Democrazia Cristiana, e che non è – purtroppo – né un credente, né un cattolico praticante, non sospettabile quindi di particolari indulgenze nei confronti del movimento cattolico italiano.
Insomma: la laicità non è a rischio in Italia.
Fa persin ridere il fatto di ipotizzarlo. Semmai c’è un rischio contrario: l’intrusione dello Stato in questioni che riguardano la coscienza individuale e libertà della persona: questo è il vero pericolo. Se mi è consentito far riferimento al mio ultimo libro, il vero pericolo viene dallo “Stato canaglia”, e non certo dalla nostra tradizione giudaico-cristiana. Quindi si tratta di invertire nettamente i termini della questione rispetto a chi dice di temere per la laicità dello stato.
LAICITA’/ Lupi: via i pregiudizi, torniamo allo spirito della Costituzione - INT. Maurizio Lupi - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
«Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso»: con queste parole il presidente della Camera Gianfranco Fini ha gettato il sasso nello stagno del dibattito sul tema della laicità. Fini non è nuovo a uscite di questo genere, nell’ultimo periodo; ma il richiamo questa volta al concetto stesso di «precetto religioso», quasi ci fosse un’imposizione dall’esterno, ha richiamato più di altre volte l’attenzione, e la reazione, dei cattolici del centrodestra. Tra questi, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, che in questa intervista a Ilsussidiario.net spiega nel dettaglio le ragioni delle proprie perplessità di fronte alle parole di Fini.
Onorevole Lupi, perché il richiamo del presidente Fini non è secondo lei in linea, come ha avuto modo di dire in questi giorni, con una corretta idea di laicità?
Perché la laicità è l’esaltazione della ragione e della libertà dell’uomo, e come tale non può mai, per sua natura, essere messa in contrapposizione con ciò che la ragione e la libertà dell’uomo trova come risposta alle proprie domande sul senso e il significato della realtà. Gli ideali e i valori che conseguono da questa scoperta, dal riconoscimento di un avvenimento che può rispondere alle proprie domande, non è in contraddizione con la ragione, ma è l’esplicitazione della ragione stessa.
E Fini, con le sue affermazioni, secondo lei nega questo?
In realtà il presidente Fini, in altre occasioni, ha richiamato spesso il concetto di laicità positiva, concetto chiarito e difeso in più occasioni anche dal presidente francese Nicolas Sarkozy: la laicità positiva è esattamente quella posizione che riconosce, appunto, positivo il contributo che qualunque uomo dà alla costruzione del bene comune. E in tal senso riconosce anche l’importanza fondamentale che la stessa esperienza della Chiesa dà a questa costruzione.
Al di là delle opinioni di ciascuno, qual è il rischio per tutti, per il dibattito pubblico, di una laicità “non positiva”?
C’è il rischio di una deriva pericolosa, se non si chiariscono bene i termini della questione. E personalmente non credo che il presidente Fini voglia arrivare ad una posizione e a un’interpretazione della laicità in questo senso. Mi riferisco al fatto che negli anni passati, da parte di una certa cultura egemone, c’è stato il tentativo di ridurre l’esperienza della fede a un semplice intimismo, escluso da ogni tipo di capacità di giudico della realtà e di contributo pubblico al bene comune. Di conseguenza, in base a questa idea, coloro che vivono l’esperienza della fede dovrebbero essere ridotti a una minoranza esclusa dalla società. Quasi che tutte le posizioni avessero una dignità, escluse quelle che partono da un’esperienza e da una certezza. Questo non è accettabile: come la posizione di dubbio e di domanda, ad esempio espressa da Fini, è una posizione con cui confrontarsi, allo stesso modo all’esperienza di certezza portata dai cristiani deve essere data pari dignità, umana e culturale.
Lei ha anche richiamato l’importanza dello spirito della Costituzione, come vera sintesi tra esperienze e storie diverse: quello spirito è ormai lontano da noi, o può invece oggi essere riproposto e riattualizzato?
Lo spirito della Costituzione deve assolutamente essere riproposto e riattualizzato, perché è lo spirito che ha fatto grande il nostro Paese. Consiste nel riconoscere che ognuno di noi, da qualunque storia provenga, si sente investito da un medesimo compito, nell’impegno politico, istituzionale, sociale e civile: costruire il bene comune. Gli articoli della Costituzione, proprio per questo, non si limitano alla delineazione di alcune norme – numero di parlamentari, tipologie degli organi di governo e di garanzia ecc. – ma partono dai cosiddetti principi fondamentali, che sono appunto il frutto dell’incontro e del riconoscimento reciproco tra le diverse posizioni: la libertà dell’uomo, il lavoro, la famiglia, la responsabilità comune. Sono questi i punti su cui le varie esperienze di questo Paese, pur dividendosi su altre cose, non potevano che fare un percorso comune. Questo è lo stesso spirito che ancora oggi serve, e al quale no possiamo rinunciare.
Cosa bisogna eliminare dal dibattito e da certe prese di posizione, per poter far riemergere questo spirito cui ora lei accennava?
Quello che bisogna eliminare da certe prese di posizione, che altrimenti renderebbero impossibile l’esercizio della democrazia e la stessa attività parlamentare, è il pregiudizio: non è accettabile che si assuma come base del proprio discorso il pregiudizio nei confronti della posizione dell’altro. L’altro, al contrario, deve essere un arricchimento per me, deve rappresentare un’esperienza a cui devo guardare e da cui devo farmi interrogare. Questo era appunto lo spirito che animava i padri costituenti; e il venir meno da questo spirito è esattamente il rischio che vedo in certe posizioni, che spero il presidente Fini non voglia fare proprie.
Alla luce di quanto detto, ritiene che sia necessario un passo indietro da parte del presidente Fini rispetto alle sue recenti dichiarazioni?
Io dico che l’unica cosa di cui c’è veramente bisogno è fare chiarezza sul punto essenziale, cioè sulla necessità di eliminare qualunque pregiudizio dal dibattito pubblico: se si toglie questo, allora tutto è un arricchimento. C’è il parlamento, che è il luogo della mediazione, in cui a maggioranza si fanno le leggi; se una volta fatta la legge, chi non la condivide dice che è una legge “etica”, allora scadiamo nel pregiudizio. È il modo per eliminare le ragioni dell’altro, riducendole rispetto al loro valore autentico, di ragione e libertà.
LETTERATURA/ Gioanola: la coscienza di Italo Svevo, una finestra sull’indefinibile animo umano - INT. Elio Gioanola - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Elio Gioanola, docente emerito di letteratura italiana presso l’università di Genova, nonché noto saggista e critico letterario, ha da poco presentato alle stampe l'ultima sua fatica: una biografia sullo scrittore Ettore Schmitz, più conosciuto come Italo Svevo. Gli abbiamo chiesto quale sia l'attualità e la portata dell'opera di questo artista, da lui ritratto in un dittico che ne affianca la figura a quella di Luigi Pirandello
Professor Gioanola, “Svevo’s Story”, la biografia dello scrittore triestino uscita da poco segue, a distanza di due anni “Pirandello’s Story”. Qual è l’idea dalla quale nascono questi due libri?
I volumi nascono entrambi dalla confluenza di due convergenti vocazioni, ovvero quella critica e quella narrativa. In poche parole mi piace pensare di aver creato un nuovo genere letterario che combina le risorse di questi due mondi per offrire ai lettori un tipo di approccio nei confronti di questi due artisti che sia meno paludato, accademico, ingessato e più piacevole alla lettura.
Il tutto nel tentativo di non sacrificare mai la qualità e la profondità dell’analisi.
Come mai la scelta di queste due biografie è ricaduta proprio su questi scrittori?
In primo luogo per un gusto personale. Svevo e Pirandello sono due antichi “amori” ai quali ho dedicato diversi volumi e sui quali ho impostato parecchi corsi universitari. A ciò si aggiunge il fatto che si tratta probabilmente dei due massimi scrittori italiani del primo novecento che hanno cambiato sensibilmente, mediante la propria opera, lo statuto della narrativa italiana.
Concentrandoci su Italo Svevo: non avverte il rischio che nel sentire comune sia spesso relegato al ruolo di “scrittore della psicanalisi”?
Il pericolo in effetti c’è, perché gli stereotipi sono sempre in agguato. Anch’io passo per un critico psicanalitico quando in realtà ho realizzato numerosi e ben differenti tipi di critica e analisi lungo l’arco della mia carriera accademica. Le etichette, si sa, sono comode.
Il buffo è che Svevo non amava per niente la psicanalisi sebbene, parlando a proposito di Joyce, ne avesse affermato l’indispensabilità per definire i contorni dello scrittore e dell’uomo a lui contemporaneo.
Resta il fatto innegabile che egli se ne servì
In effetti lo strumento psicanalitico costituiva il campo da gioco per uno scrittore che, pur conflittualmente, ha avuto a che fare con la psicanalisi in primo luogo a livello indirettamente personale, perché suo cognato fu un paziente di Freud, e in secondo luogo perché, conoscendo benissimo il tedesco ed essendo egli un suddito dell’impero austroungarico, poteva avere un contatto diretto con la cultura viennese. Confinare in quest’ambito l’intera opera di Italo Svevo però non è giusto. Io direi che addirittura Svevo anticipò numerose tematiche scientifiche che seguirono nel dibattito psicanalitico degli anni a lui successivi. È a lui che si deve l’invenzione di protagonisti che obbediscono più ai dettati dell’inconscio che a quelli della coscienza. Anche se il titolo del suo romanzo principale è proprio “La coscienza di Zeno” il protagonista è un personaggio che obbedisce maggiormente agli impulsi segreti profondi che non alla propria volontà razionale.
Non c’è in tutto ciò anche una vena di scanzonata ironia nei confronti della nuova scienza?
Certamente, basti pensare a quanto succede nella vita di Zeno: vuole una donna e finisce per essere sposato da un’altra, punta verso un obiettivo e ne colpisce quasi sempre un altro non previsto. Ma l’ironia è incentrata in questo incrocio di istinto e destino, volto a risolvergli la vita in maniera molto più indolore di quanto non sarebbe successo a fronte dell’esaudirsi della sua volontà. Sbagliando un obiettivo Zeno lo centra. Ad esempio: la donna che ha dovuto sposare si dimostra molto migliore rispetto a quella che desiderava. Ma il libro di per sé è ironico anche nell’incipit. Comincia infatti col risultare un’opera pubblicata dallo psicanalista presso il quale Zeno è in cura. Un medico che è costantemente preso in giro da un paziente che non crede minimamente nell’efficacia delle terapie. Zeno si inventa i sogni raccontati in analisi e conduce l’intera cura con superficialità, incoerenza e mancanza di serietà. Ciononostante scopre a mano a mano risvolti esistenziali profondissimi anche dalle proprie fantasie ed invenzioni.
Anche questo atteggiamento denota il riverbero concettuale di uno scrittore, Italo Svevo, cresciuto in un ambito culturale di cui non poteva fare a meno di parlare ma al quale non riusciva interamente ad aderire.
Eppure, nonostante l’ironia che percorre le pagine del romanzo di Zeno, si assiste a un finale apocalittico e catastrofico:
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Molto semplicisticamente tutto questo è stato interpretato come preannuncio della bomba atomica. In realtà Zeno è colui che essendo costituito come non adatto alla vita finisce poi per sopravvivere a tutti. Sopravvive al padre, all’amico Copler, al suocero, al cognato e all’amministratore. Colui che era considerato come il “debole” finisce per ritrovarsi più forte di tutti gli altri. Questo perché negli altri si rappresenta la certezza granitica, e quindi destinata a perire, dell’uomo del passato. Zeno rappresenta invece l’ideal-tipo dell’uomo nuovo, novecentesco. A ben guardare è lui stesso a dipingersi come l’ultimo uomo, colui che premerà il bottone di avviamento degli ordigni che finiranno per sterminare l’umanità intera.
Oltre a questa visione dell’uomo nuovo e dell’apocalisse del vecchio mondo, alla critica e al confronto con la scienza psicanalitica, esiste nella letteratura di Italo Svevo, un richiamo al trascendente?
Probabilmente Svevo rappresenta il prosatore più laico della nostra letteratura. Questo non significa che avesse un approccio superficiale nei confronti del significato dell’esistenza sebbene, rispetto a Pirandello, emerga assai meno nella sua opera una domanda diretta sul senso di tutte le cose.
Si convertì al cattolicesimo per sposare Livia Veneziani, la cugina, che era molto religiosa e che sognava di convertire suo marito. Il rapporto religioso fra i due coniugi emerge in modo commovente nel bellissimo scritto che si intitola “La Morte”. Ciononostante lo scrittore dichiarò di non volere ai propri funerali la presenza di preti o di rabbini.
Sebbene laica, la sua scrittura rimane comunque ironica.
Svevo non è mai del tutto disperato, anzi direi che non è uno scrittore tragico proprio perché non pensava di aver risolto o che fosse risolvibile, e quindi conchiuso, il mistero della realtà.
Fini: "Le leggi non seguano la religione" – due articoli di “La Repubblica” e “ilsussidiario.net
''Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso'', ammonisce il presidente della Camera, Gianfranco Fini, parlando a Monopoli agli studenti durante un incontro sulla Costituzione. Monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, replica: "I temi sui quali il mondo cattolico intende portare il contributo sono temi non definibili come precetti religiosi; sono temi che riguardano i diritti fondamentali dell’uomo, come il diritto alla vita, i diritti che riguardano l’unità del matrimonio e della famiglia. Non sono precetti religiosi, ma sono iscritti nella natura umana, difendibili con la ragione e iscritti anche nella Costituzione". E continua: "Non taceremo".
MONOPOLI - Due precisi messaggi. Uno a favore della laicità dello Stato, l'altro contro chi usa l'immigrazione per "fini elettorali". Gianfranco Fini torna a farsi sentire. Pronunciando parole che non è facile sentire nel Pdl. Che, non a caso, non nasconde la sua irritazione.
Parlando di bioetica durante un incontro sulla Costituzione con studenti di Monopoli, Fini rilancia il tema della laicità dello Stato. "Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso - dice il presidente della Camera - Il dibattito sulla bioetica è complesso e mi auguro che venga affrontato senza gli eccessi propagandistici che ci sono stati da entrambe le parti perchè queste sono questioni nelle quali il dubbio prevale sulle certezze".
Secca la replica del Pdl. "Non capisco la preoccupazione di Fini - dice Maurizio Lupi - Se pensa che certi valori rappresentino dei 'preconcetti religiosi' sbaglia e si pone su un piano di scontro ideologico molto lontano dalla laicità positiva da lui stesso evocata".
Chiamata in causa, la reazione della Chiesa non si fa attendere. E non è accomodante. "Mai pensato di imporre al Parlamento italiano precetti religiosi, ma non taceremo sui temi di bioetica, che riguardano i diritti umani, i dettami costituzionali, la stessa razionalità umana e il bene comune" dice monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia della Vita. Che incalza: "Non si tratta di precetti religiosi ma di argomenti basati sulla ragione e il diritto: il fatto che vengano portanti avanti dal clero o da organismi cattolici non deve consentire a nessuno di considerarli come prodotto di una razionalità minore".
E anche dall'Udc arrivano reazioni critiche. E i toni sono duri: "'Si tratta di un appello alla discriminazione verso i cattolici impegnati in politica e tutti coloro che vivono una fede o credono ad una religione. Il presidente della Camera ci riporta nel piu' buio dei totalitarismi neri nel Novecento". Più mordiba la reazione dell'Idv: ""Apprezziamo le parole di Fini e le condividiamo. Peccato che sia una posizione isolata nel Pdl, un partito non solo autoritario, ma ormai anche confessionale".
Poi tocca all'immigrazione. A fronte delle roventi polemiche Fini invita ad abbassare i toni e a non strumentalizzare il tema in vista delle prossime elezioni: "Dovremmo sforzarci tutti di affrontare una questione così complessa e così importante senza cadere nella tentazione di dare vita a un confronto finalizzato unicamente al voto per il Parlamento europeo". Per il presidente della Camera, infatti, la questione dell'immigrazione è "una sfida culturale difficile ma non impossibile, da affrontare con lungimiranza evitando l'utilizzo di scimitarre e anatemi".
La nuova composizione della società, continua Fini, è un problema ineludibile: "Il fatto vero è che dobbiamo affrontare il problema con una logica diversa dal passato e dal presente. Dobbiamo guidare il fenomeno altrimenti ne verremo travolti e schiacciati e la nostra società entrerà in crisi".
La Repubblica 18 maggio 2009
Binetti: parole di Fini ricordano l’Unione sovietica
«È gravissimo che il presidente della Camera non ne tenga conto, quasi che quelle di noi cattolici fossero argomentazioni non razionali». Paola Binetti, deputata del Pd e leader teodem, critica le parole di Gianfranco Fini sulla laicità delle leggi.
Intervistata dalla Stampa, Binetti ricorda che «hanno già provato a cancellare Dio dalla legislazione le rivoluzioni francese e bolscevica. Si è vista come è andata a finire e con quali tragedie abbiano ferito la dignità umana».
Con le parole di Fini, accusa, «tornano alla mente gli spettri di un passato che si sperava superato per sempre, quando i regimi totalitari come l'Unione sovietica volevano ridurre tutto a tecnica privando il legislatore di ogni radicamento valoriale».
Infine, Binetti si chiede: «Quello di oggi è lo stesso leader di An che si univa con convinzione alla Giornata per la Vita della Cei oppure è un omonimo? Cos'è successo nel frattempo?».
Il Sussidiario.net martedì 19 maggio 2009
L’amore per l’umanità è il volto di Dio - Il Cardinale Caffarra spiega Gesù alla messa per la Madonna di S. Luca - di Antonio Gaspari
BOLOGNA, mercoledì, 20 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso dell’omelia della Messa celebrata nella cattedrale di Bologna domenica 17 maggio, in onore della Madonna di S. Luca, il Cardinale Carlo Caffarra ha spiegato che il volto di Dio è amore, lo stesso amore che spinge uomini e donne ad amare l’infermo.
Nel corso della Messa, organizzata dall’Ufficio Diocesano di pastorale Sanitaria, dall’Unitalsi e dal Centro Volontari della Sofferenza, l’Arcivescovo di Bologna ha sottolineato che la manifestazione più evidente del volto di Dio è l’amore che prova per l’umanità.
Secondo il porporato Dio si è rivelato mandando “il suo Figlio Unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per lui”. In questo modo “si è manifestato come Amore, perché Dio è amore. Questo è il Volto di Dio”.
Egli ha voluto che questa manifestazione di sé non fosse solo parola. Ha compiuto un fatto nel quale la manifestazione che Dio fa di se stesso come Amore, diventa “carne e sangue”.
Questo è il motivo per cui “in Gesù Dio manifesta il suo Amore per noi nel modo umano, a noi più comprensibile”.
Per illustrare l’amore di Dio per l’umanità, il Cardinale Caffarra ha ricordato la compassione che Gesù prova per gli infermi.
I Vangeli narrano che Gesù si commuove profondamente quando incrocia un corteo funebre che portava alla sepoltura il figlio di una vedova, e le dice: “Non piangere”. E’ Dio stesso che si prende cura dell’uomo infermo, che si commuove di fronte al pianto di una vedova. È in questo modo che “si è manifestato l’amore di Dio per noi”.
Per l’Arcivescovo di Bologna, Dio “ha mandato il suo Figlio vittima di espiazione per i nostri peccati” e la manifestazione che Dio fa di Se stesso “accade principalmente sulla Croce”, per questo motivo “guardando cogli occhi della fede Cristo crocefisso noi sappiamo chi è Dio, e possiamo veramente pensare e dire: Dio è Amore”.
Il Cardinale Caffarra ha rilevato che Gesù nel Vangelo spiega il suo comandamento: e cioè “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”, e l’evangelista Giovanni ripete: “carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio”.
L’amore con cui dobbiamo amarci – ha sottolineato l’Arcivescovo - è “come l’amore con cui Gesù ha amato noi. Come dire che noi impariamo che cosa significa amare, e quale è la misura del vostro amore ricevendolo da Gesù stesso”.
Riferendosi ai tanti volontari che si pongono al servizio degli infermi, il porporato ha precisato: “siete chiamati a fargli sentire una vicinanza, un’affezione che è quella di Gesù: fargli sentire l’amore di Gesù”
Un amore di Dio che diventa la misura e la forma del nostro amore mediante l’Eucarestia.
“È l’Eucarestia – ha sottolineato il cardinale Caffarra – che dona all’uomo la capacità di misurare il suo amore sull’amore di Dio, poiché è mediante l’Eucarestia che noi entriamo nell’atto oblativo di Gesù”.
Riferendosi agli infermi li ha incoraggiati a non sentirsi mai soli, perchè dentro ad una comunità che nasce da Dio stesso.
In conclusione l’Arcivescovo di Bologna ha fatto riferimento a Maria: “è vicino a Lei che sentiamo il calore dell’amore di Dio per noi, ed Ella vi ha chiamato per ottenervi dal suo divin Figlio l’intima convinzione che Dio è amore”.
Paul Ricoeur:«Muore il personalismo, torna la persona!» - Autore: Restelli, Silvio - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 20 maggio 2009
2005 - Paul Ricoeur, :«Muore il personalismo, torna la persona!»
Uno dei pensatori più rilevanti del secolo scorso.
Vita e opere (fonte filosofico.net)
Con l'altro grande maestro dell'ermeneutica fìlosofica novecentesca, Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, per la sua costante opera intellettuale e per la sua intensa attività di magistero e di dialogo che si estende ormai su scala planetaria e che è stata unanimemente riconosciuta nelle sedi più autorevoli della comunità culturale, scientifica e fìlosofica internazionale (come testimoniano anche il premio Hegel di Stoccarda nel 1985 e il premio Balzan per la filosofia conferitogli nel 1999), può essere considerato uno dei testimoni e dei protagonisti più sensibili della coscienza filosofica del Novecento.
Testimone prezioso non solo per il valore intrinseco della sua multiforme opera, ma anche per il suo collocarsi in un ideale crocevia delle molteplici e più vitali tendenze della ricerca filosofica odierna, " tendenze che raramente si sono incontrate e che spesso hanno preferito seguire percorsi talora paralleli, ma reciprocamente ignorantisi " (D. Jervolino, "Ricoeur. L'amore diffìcile").
Da questa prospettiva, nella storia della filosofia del Novecento l'originale snodarsi del cammino riflessivo di Ricoeur dalla fenomenologia all'ermeneutica e dalla metafìsica alla morale rappresenta una rilevante e significativa eccezione:
" egli può contemporaneamente essere riconosciuto come un autorevole filosofo 'continentale' ed essere accettato dagli 'analitici' come un interlocutore interno alla loro problematica ".
Nell'epoca di pensiero post-hegeliano, lo stile riflessivo della filosofia deliberatamente frammentario praticato da Ricoeur è uno " stile di mediazione incompleta tra mediazioni rivali " (P. Ricoeur, "Per un'autobiografia intellettuale"); questo stile, al quale Ricoeur si è mantenuto fedele nel corso di tutto il suo fecondo itinerario filosofico, costituisce di fatto un ampio tentativo di mediazione tra le esigenze epistemologiche della fenomenologia, delle scienze umane a base strutturale, e di taluni esiti delle filosofie analitiche da una parte - e l'ermeneutica nei suoi risvolti ontologici ed esistenzialistici dall'altra.
Lo stesso Ricoeur, in una delle sue ultime opere, "La nature et la règle" del 1998 ("La natura e la regola. Alle radici del pensiero"), ha precisato la sua personale posizione filosofica scrivendo:
"Ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica. Riguardo al primo termine - riflessiva -, l'accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l'esteriorizzano rispetto a se stessa. Jean Nabert è il maestro emblematico di questo primo ramo della corrente comune. Il secondo termine - fenomenologica - designa l'ambizione di andare alle 'cose stesse', cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all'esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; quest'intento, diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l'accento sulla dimensione intenzionale della vita teorica, pratica, estetica, ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come 'coscienza di...'. Husseri rimane l'eroe eponimo di questa corrente di pensiero. Riguardo al terzo termine - ermeneutica - ereditato dal metodo interpretativo applicato in un primo tempo ai testi religiosi (esegesi), ai testi letterari classici (filologia) e ai testi giuridici (diritto), l'accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell'esperienza umana. Sotto questa terza forma la filosofia mette in questione la pretesa di ogni altra filosofia di essere priva di presupposti. I maestri di questa terza tendenza si chiamano Dilthey, Heidegger, Gadamer ".
Paul Ricoeur è nato a Valence il 27 febbraio 1913. Dopo aver compiuto gli studi di filosofia a Rennes, dove consegue durante l'anno accademico 1933-1934 la "maitrise" con una dissertazione dedicata al "Problème de Dieu chez Lachelier et Lagneau", esponenti della filosofia riflessiva francese, si trasferisce a Parigi per continuare gli studi e nel 1935 consegue l'’agrégation, che gli consente l'insegnamento nei licei in varie sedi di provincia.
Nel 1948 succede a Jean Hyppolite nella cattedra di Storia della filosofìa a Strasburgo, nel 1950 ottiene il "Doctorat d'état" con "Le volontaire et l'involontaire" e la traduzione in francese di "Ideen I" di Husserl, mentre nel 1957 viene chiamato alla Sorbona ad occupare la cattedra di Filosofia generale come successore di R. Bayer. Amico di Emmanuel Mounier, partecipa attivamente al movimento personalista anche come uno dei fondatori e collaboratori della rivista Esprit. Discepolo di Gabriel Marcel, durante la prigionia in Germania studia Jaspers e Husserl. Protagonista della vita intellettuale parigina degli anni '60, insegna Filosofia a Nanterre dal 1966 al 1970, Università della quale è stato anche rettore. Nel 1974 assume la direzione della "Revue de métaphysique et de morale" e fonda il "Centre de recherches phénoménologiques et herméneutiques".
Dopo aver insegnato per tre anni a Lovanio, termina la sua carriera di docente universitario nel 1980. Successivamente ha insegnato in modo stabile dal 1980 al 1990 alla Divinity School dell'Università di Chicago.
Legato all'Italia da intensi rapporti intellettuali stabiliti con gli studiosi della sua opera filosofica ed ermeneutica, ha partecipato ai colloqui filosofici organizzati a Roma da Enrico Castelli e alle attività culturali dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Muore nel 2005.
Il suo contributo è particolarmente significativo su due versanti molto caldi del dibattito: il rapporto fede-ragione e il rilancio della riflessione politica sulla giustizia e sulla persona.
Sul primo punto è molto significativa l’intervista rilasciata a Bertrand Revillon in occasione dell’attribuzione del prestigioso premio Balzan per la filosofia,
(cfr intervista)
e sul secondo la sua riflessione sullo schema ternario dell'etica della persona, in cui cerca di procedere dopo il fallimento del personalismo a fondare il concetto di persona. (cfr. file)
La bibliografia essenziale delle sue opere è contenuta nel file seguente: (fonte: http://www.sifp.it/didattica/bibliografie/ricoeur-paul)
20 Maggio 2009 - MADRID - In Spagna adesso il feto «non è un essere umano» - Avvenire
Un feto di 13 settimane è «un essere vivente, chiaro», ma «non possiamo parlare di essere umano, perché questo non ha nessuna base scientifica». Non si tratta di un’opinione anonima spuntata in un blog sconosciuto. Sono le parole della ministro dell’Uguaglianza del governo Zapatero, Bibiana Aído, pronunciate ai microfoni di "radio Ser". La Aído è la principale promotrice della riforma approvata la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri: interruzione libera della gravidanza entro le prime 14 settimane, aborto senza il permesso dei genitori anche per le minorenni fra i 16 e i 18 anni. Le sue frasi hanno scatenato inevitabilmente una bufera. Se il feto non è un essere umano, la ministro spieghi «pubblicamente cosa crede che sia», ha detto la pediatra Gador Joya, portavoce del movimento Diritto di Vivere (Dav).
«È un’affermazione assurda», «nessuno può negare che un essere umano è un essere umano e non appartiene a nessun’altra specie» ha sottolineato il professore universitario Cesar Nombela attraverso la "Cope", radio della Conferenza episcopale spagnola: l’uomo «ha varie tappe nella sua vita e una di queste è quella fetale». Anche la Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici (Fiamc) ha criticato la Aído: la ministro è un’«incompetente» ha detto il presidente, Josep Maria Simó. «Un feto di 13 settimane ha una testa, un cuore e si muove». La valanga di critiche ha spinto la Aído ad aggiustare parzialmente il tiro delle sue dichiarazioni. «Non c’è prova scientifica per dire che» un feto di 13 settimane «è un essere umano né per non dirlo, mi baso sul manifesto che hanno elaborato gli scienziati», ha chiarito più tardi Aído.
La ministro fa riferimento ad un documento firmato da importanti nomi della ricerca spagnola, in cui si sostiene che «il momento in cui si può considerare un essere umano non può stabilirsi con criteri scientifici», perché rientrerebbe «nell’ambito delle credenze personali, ideologiche o religiose». Il testo è la risposta al Manifesto di Madrid contro l’aborto, sottoscritto da 2.000 intellettuali, medici ed esperti: un documento che la ministro non cita.
1) Obama il cristiano - Lorenzo Albacete - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
2) LAICITA’/ Ostellino: caro Fini, il nemico della libertà è lo Stato non la Chiesa - INT. Piero Ostellino - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
3) LAICITA’/ Lupi: via i pregiudizi, torniamo allo spirito della Costituzione - INT. Maurizio Lupi - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) LETTERATURA/ Gioanola: la coscienza di Italo Svevo, una finestra sull’indefinibile animo umano - INT. Elio Gioanola - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) Fini: "Le leggi non seguano la religione" – due articoli di “La Repubblica” e “ilsussidiario.net
6) L’amore per l’umanità è il volto di Dio - Il Cardinale Caffarra spiega Gesù alla messa per la Madonna di S. Luca - di Antonio Gaspari
7) Paul Ricoeur:«Muore il personalismo, torna la persona!» - Autore: Restelli, Silvio - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 20 maggio 2009
8) 20 Maggio 2009 - MADRID - In Spagna adesso il feto «non è un essere umano» - Avvenire
Obama il cristiano - Lorenzo Albacete - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Il presidente Obama è tornato a Washington dopo la sua controversa apparizione all’Università di Notre Dame e l’attenzione della nazione si è spostata su altri argomenti. Per un paio d’ore, domenica scorsa le luci si sono accese su Notre Dame, palcoscenico su cui venivano esposte al pubblico le divisioni nel cattolicesimo americano, probabilmente senza che ciò cambiasse in nulla la situazione preesistente alla visita di Obama (naturalmente, i cambiamenti provocati dall’incontro con Gesù Cristo sono, all’inizio, pressoché invisibili, come la crescita del seme della senape).
Il dibattito sull’opportunità di invitare il presidente e di conferirgli la laurea honoris causa continuerà, probabilmente, senza rilievo pubblico. Il problema è che non si tratta di una discussione su cosa significhi essere cristiani, ma di una discussione sulla politica e l’etica. Sotto questo profilo, il discorso del presidente e il suo invito al dialogo offrono qualche spunto per un dibattito teologico, per esempio, il suo riferimento alle conseguenze del peccato originale e la relazione tra fede, dubbio e umiltà (il punto di vista di Obama è quello tipico del liberalismo protestante).
Anche la sua insistenza sulla necessità di trovare un terreno comune per cooperare alla riduzione del numero degli aborti potrebbe portare a una discussione simile al dialogo tra Benedetto XVI e Jurgen Habermas. Sarebbe interessante vedere come Obama reagirebbe alla discussione del Santo Padre nel suo libro su “Verità e tolleranza”. Il presidente ha offerto anche alcune aperture alle preoccupazioni dei cattolici sulla libertà di coscienza e sull’educazione. Sarà importante vedere come ciò si trasformerà in concrete proposte legislative.
Comunque, la parte più importante del suo discorso è stata il suo racconto di come è diventato cristiano, a seguito del suo lavoro di organizzatore in una comunità di aiuto ai poveri. Questo è quanto ha detto: «Può essere perché la gente di chiesa con cui lavoravo era così accogliente e comprensiva, o perché mi invitavano alle loro funzioni e cantavano con me i loro canti religiosi, o forse perché io ero veramente a pezzi e loro mi hanno sostenuto. Forse perché sono stato testimone di tutto il bene che la loro fede li spingeva a compiere, mi sono trovato spinto non solo a lavorare con la Chiesa, ma a essere nella Chiesa. Attraverso questo servizio sono stato portato a Cristo» (non ho sentito gli altri discorsi, ma non sarei sorpreso se questo non fosse stato l’unico momento della manifestazione in cui è stata fatta la distinzione tra conoscere Cristo e ammirare i suoi “valori etici”).
Queste parole del presidente riconoscono il metodo attraverso il quale la fede cristiana si diffonde e porta frutti, cioè attraverso la testimonianza di qualcuno dal quale siamo attratti per la “diversa umanità.” Proprio a questo punto, Obama ha ricordato la testimonianza del Cardinale Joseph Bernardin, arcivescovo di Chicago all’epoca (qualcuno ha considerato la cosa offensiva per l’attuale arcivescovo, che è anche presidente della Conferenza episcopale, ma se Obama incontrasse personalmente il Cardinale George potrebbe accorgersi della continuità tra la testimonianza di Bernardin e le preoccupazioni di George).
Queste parole del presidente offrono la maggiore speranza per il futuro. Rimane nostro compito ricordare che il punto di partenza di ogni cosa che diciamo o facciamo deve essere la fede in Cristo.
LAICITA’/ Ostellino: caro Fini, il nemico della libertà è lo Stato non la Chiesa - INT. Piero Ostellino - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Difficile distinguere, quando parla un politico, tra le considerazioni di merito e le intenzioni nascoste. Ma quando si tirano in ballo concetti grandi, come la laicità dello Stato, è necessario provare a prendere sul serio le affermazioni, ed affrontarne i contenuti. La laicità in Italia è veramente messa a rischio? Ci sono ingerenze di carattere religioso nella nostra attività legislativa? Secondo Piero Ostellino, editorialista e già direttore del Corriere della Sera, si tratta per lo più di un falso problema.
Ostellino, c’è secondo lei in Italia, come paventato da Fini, un “rischio laicità”, legato a leggi ispirate a «precetti religiosi»?
Non mi pare proprio. Il rischio ci sarebbe in linea teorica, ma solo nella misura in cui la politica non avesse il coraggio di fare quello che fa la Chiesa. La Chiesa, infatti, quando le si chiede qualcosa che essa non può fare risponde “non possumus”; basterebbe che il mondo politico, qualora gli si chiedesse di imporre principi etici alla legislazione dello Stato, rispondesse esattamente allo stesso modo. Ma mi pare che il problema sia un altro, e cioè che qualcuno si sente di utilizzare l’argomento e paventare questo rischio per scopi politici personali.
Quindi Fini starebbe cavalcando una posizione personale col solo intento di smarcarsi da Berlusconi?
Siamo sotto campagna elettorale, e facciamo sempre i conti con la possibilità che si prefiguri una successione – anche se poi non si sa bene quando – di Berlusconi a capo del Pdl. Ci sono persone all’interno dello stesso Pdl, a cominciare proprio dal presidente della Camera, che stanno cercando di darsi una forte visibilità, sia in prospettiva elettorale, sia in vista della successione a Berlusconi. Ed è allora un problema diverso rispetto ai rapporti tra Stato e Chiesa.
Il problema è dunque prettamente politico…
La motivazione di quelle affermazioni da parte di Fini è sicuramente di carattere politico. Che dopo, nel centrodestra come nel centrosinistra, da parte di qualcuno ci sia la convinzione di poter conquistare il voto dei cattolici o il sostegno della Chiesa facendo una politica più fortemente informata ai principi religiosi, questo probabilmente c’è. Ma si tratta di una questione politica che si affronta sul piano politico.
Stando sul merito della questione, in quali termini un cattolico porta in Parlamento la propria posizione senza venir meno al principio di laicità e al rispetto delle posizioni altrui?
Semplicemente facendo il proprio mestiere. Non riesco a capire per quale motivo debba sembrare una cosa scandalosa il fatto che un cattolico, che ha la propria visione del mondo e del Paese in cui vive, dica quello che pensa e lo porti in Parlamento. Ciascuno porta in Parlamento i propri ideali. Basti pensare che ci sono stati dei comunisti, nella storia della Repubblica, che volevano portare in Parlamento la loro concezione politica, che era quella dell’Unione Sovietica. Nessuno se n’era scandalizzato, visto che era loro pienissimo diritto; tanto più allora non capisco perché lo stesso diritto non debba essere garantito a un cattolico. Cattolici che per altro, a quanto è dato di vedere, non mi pare proprio abbiano intenzione di imporre a nessuno lo Stato teocratico.
Secondo lei, per ritrovare l’equilibrio giusto tra le forze cattoliche e laiche, è opportuno ritornare a quello che è stato l’incontro tra le diverse culture da cui è nata la Costituzione?
Bisogna andare molto più indietro. Io, come ho avuto modo di dire più volte, ritengo la nostra Costituzione un “papocchio”, una contraddizione in termini. Siamo l’unico Paese al mondo che è fondato sulla merce, sul lavoro, anziché essere fondato sulla libertà. Dovremmo essere un Paese di democrazia liberale, e invece abbiamo una Costituzione che è il compromesso tra il corporativismo fascista, il collettivismo marxista e una parvenza di solidarismo cattolico. Noi invece dovremmo avere una Costituzione fondata sui diritti naturali soggettivi, che sono quelli che venivano promossi dai monaci benedettini nel Medioevo, dai cristiani, prima ancora che arrivasse il liberalismo di John Locke: principi che attengono alla intangibilità e alla sacralità della persona, che è un principio cristiano. Noi dovremmo fondarci su quello: abbiamo alle spalle una grande tradizione giudaico-cristiana, verso la quale il liberalismo ha un debito sostanziale. A questa tradizione noi dovremmo attenerci; ed è qualcosa che viene ben prima della nostra Costituzione. Anzi, i diritti naturali della persona vengono ben prima della nascita stessa dello stato.
In che modo, dalla Costituzione in poi, si è svolto il rapporto tra cattolici e laici nel Parlamento italiano? È stato un rapporto equilibrato, o secondo lei la parte cattolica ha fatto pesare troppo la propria appartenenza religiosa?
Se c’è un grande movimento cattolico che ha difeso la laicità dello Stato questa è la Democrazia Cristiana. O vogliamo forse negare la nostra storia? Non dimentichiamo che l’uomo della rinascita di questo Paese è stato uno straordinario cattolico liberale che si chiamava De Gasperi. L’intera storia della Democrazia Cristiana è la storia della difesa della laicità in questo Paese. E lo dice uno che non ha mai votato Democrazia Cristiana, e che non è – purtroppo – né un credente, né un cattolico praticante, non sospettabile quindi di particolari indulgenze nei confronti del movimento cattolico italiano.
Insomma: la laicità non è a rischio in Italia.
Fa persin ridere il fatto di ipotizzarlo. Semmai c’è un rischio contrario: l’intrusione dello Stato in questioni che riguardano la coscienza individuale e libertà della persona: questo è il vero pericolo. Se mi è consentito far riferimento al mio ultimo libro, il vero pericolo viene dallo “Stato canaglia”, e non certo dalla nostra tradizione giudaico-cristiana. Quindi si tratta di invertire nettamente i termini della questione rispetto a chi dice di temere per la laicità dello stato.
LAICITA’/ Lupi: via i pregiudizi, torniamo allo spirito della Costituzione - INT. Maurizio Lupi - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
«Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso»: con queste parole il presidente della Camera Gianfranco Fini ha gettato il sasso nello stagno del dibattito sul tema della laicità. Fini non è nuovo a uscite di questo genere, nell’ultimo periodo; ma il richiamo questa volta al concetto stesso di «precetto religioso», quasi ci fosse un’imposizione dall’esterno, ha richiamato più di altre volte l’attenzione, e la reazione, dei cattolici del centrodestra. Tra questi, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, che in questa intervista a Ilsussidiario.net spiega nel dettaglio le ragioni delle proprie perplessità di fronte alle parole di Fini.
Onorevole Lupi, perché il richiamo del presidente Fini non è secondo lei in linea, come ha avuto modo di dire in questi giorni, con una corretta idea di laicità?
Perché la laicità è l’esaltazione della ragione e della libertà dell’uomo, e come tale non può mai, per sua natura, essere messa in contrapposizione con ciò che la ragione e la libertà dell’uomo trova come risposta alle proprie domande sul senso e il significato della realtà. Gli ideali e i valori che conseguono da questa scoperta, dal riconoscimento di un avvenimento che può rispondere alle proprie domande, non è in contraddizione con la ragione, ma è l’esplicitazione della ragione stessa.
E Fini, con le sue affermazioni, secondo lei nega questo?
In realtà il presidente Fini, in altre occasioni, ha richiamato spesso il concetto di laicità positiva, concetto chiarito e difeso in più occasioni anche dal presidente francese Nicolas Sarkozy: la laicità positiva è esattamente quella posizione che riconosce, appunto, positivo il contributo che qualunque uomo dà alla costruzione del bene comune. E in tal senso riconosce anche l’importanza fondamentale che la stessa esperienza della Chiesa dà a questa costruzione.
Al di là delle opinioni di ciascuno, qual è il rischio per tutti, per il dibattito pubblico, di una laicità “non positiva”?
C’è il rischio di una deriva pericolosa, se non si chiariscono bene i termini della questione. E personalmente non credo che il presidente Fini voglia arrivare ad una posizione e a un’interpretazione della laicità in questo senso. Mi riferisco al fatto che negli anni passati, da parte di una certa cultura egemone, c’è stato il tentativo di ridurre l’esperienza della fede a un semplice intimismo, escluso da ogni tipo di capacità di giudico della realtà e di contributo pubblico al bene comune. Di conseguenza, in base a questa idea, coloro che vivono l’esperienza della fede dovrebbero essere ridotti a una minoranza esclusa dalla società. Quasi che tutte le posizioni avessero una dignità, escluse quelle che partono da un’esperienza e da una certezza. Questo non è accettabile: come la posizione di dubbio e di domanda, ad esempio espressa da Fini, è una posizione con cui confrontarsi, allo stesso modo all’esperienza di certezza portata dai cristiani deve essere data pari dignità, umana e culturale.
Lei ha anche richiamato l’importanza dello spirito della Costituzione, come vera sintesi tra esperienze e storie diverse: quello spirito è ormai lontano da noi, o può invece oggi essere riproposto e riattualizzato?
Lo spirito della Costituzione deve assolutamente essere riproposto e riattualizzato, perché è lo spirito che ha fatto grande il nostro Paese. Consiste nel riconoscere che ognuno di noi, da qualunque storia provenga, si sente investito da un medesimo compito, nell’impegno politico, istituzionale, sociale e civile: costruire il bene comune. Gli articoli della Costituzione, proprio per questo, non si limitano alla delineazione di alcune norme – numero di parlamentari, tipologie degli organi di governo e di garanzia ecc. – ma partono dai cosiddetti principi fondamentali, che sono appunto il frutto dell’incontro e del riconoscimento reciproco tra le diverse posizioni: la libertà dell’uomo, il lavoro, la famiglia, la responsabilità comune. Sono questi i punti su cui le varie esperienze di questo Paese, pur dividendosi su altre cose, non potevano che fare un percorso comune. Questo è lo stesso spirito che ancora oggi serve, e al quale no possiamo rinunciare.
Cosa bisogna eliminare dal dibattito e da certe prese di posizione, per poter far riemergere questo spirito cui ora lei accennava?
Quello che bisogna eliminare da certe prese di posizione, che altrimenti renderebbero impossibile l’esercizio della democrazia e la stessa attività parlamentare, è il pregiudizio: non è accettabile che si assuma come base del proprio discorso il pregiudizio nei confronti della posizione dell’altro. L’altro, al contrario, deve essere un arricchimento per me, deve rappresentare un’esperienza a cui devo guardare e da cui devo farmi interrogare. Questo era appunto lo spirito che animava i padri costituenti; e il venir meno da questo spirito è esattamente il rischio che vedo in certe posizioni, che spero il presidente Fini non voglia fare proprie.
Alla luce di quanto detto, ritiene che sia necessario un passo indietro da parte del presidente Fini rispetto alle sue recenti dichiarazioni?
Io dico che l’unica cosa di cui c’è veramente bisogno è fare chiarezza sul punto essenziale, cioè sulla necessità di eliminare qualunque pregiudizio dal dibattito pubblico: se si toglie questo, allora tutto è un arricchimento. C’è il parlamento, che è il luogo della mediazione, in cui a maggioranza si fanno le leggi; se una volta fatta la legge, chi non la condivide dice che è una legge “etica”, allora scadiamo nel pregiudizio. È il modo per eliminare le ragioni dell’altro, riducendole rispetto al loro valore autentico, di ragione e libertà.
LETTERATURA/ Gioanola: la coscienza di Italo Svevo, una finestra sull’indefinibile animo umano - INT. Elio Gioanola - mercoledì 20 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Elio Gioanola, docente emerito di letteratura italiana presso l’università di Genova, nonché noto saggista e critico letterario, ha da poco presentato alle stampe l'ultima sua fatica: una biografia sullo scrittore Ettore Schmitz, più conosciuto come Italo Svevo. Gli abbiamo chiesto quale sia l'attualità e la portata dell'opera di questo artista, da lui ritratto in un dittico che ne affianca la figura a quella di Luigi Pirandello
Professor Gioanola, “Svevo’s Story”, la biografia dello scrittore triestino uscita da poco segue, a distanza di due anni “Pirandello’s Story”. Qual è l’idea dalla quale nascono questi due libri?
I volumi nascono entrambi dalla confluenza di due convergenti vocazioni, ovvero quella critica e quella narrativa. In poche parole mi piace pensare di aver creato un nuovo genere letterario che combina le risorse di questi due mondi per offrire ai lettori un tipo di approccio nei confronti di questi due artisti che sia meno paludato, accademico, ingessato e più piacevole alla lettura.
Il tutto nel tentativo di non sacrificare mai la qualità e la profondità dell’analisi.
Come mai la scelta di queste due biografie è ricaduta proprio su questi scrittori?
In primo luogo per un gusto personale. Svevo e Pirandello sono due antichi “amori” ai quali ho dedicato diversi volumi e sui quali ho impostato parecchi corsi universitari. A ciò si aggiunge il fatto che si tratta probabilmente dei due massimi scrittori italiani del primo novecento che hanno cambiato sensibilmente, mediante la propria opera, lo statuto della narrativa italiana.
Concentrandoci su Italo Svevo: non avverte il rischio che nel sentire comune sia spesso relegato al ruolo di “scrittore della psicanalisi”?
Il pericolo in effetti c’è, perché gli stereotipi sono sempre in agguato. Anch’io passo per un critico psicanalitico quando in realtà ho realizzato numerosi e ben differenti tipi di critica e analisi lungo l’arco della mia carriera accademica. Le etichette, si sa, sono comode.
Il buffo è che Svevo non amava per niente la psicanalisi sebbene, parlando a proposito di Joyce, ne avesse affermato l’indispensabilità per definire i contorni dello scrittore e dell’uomo a lui contemporaneo.
Resta il fatto innegabile che egli se ne servì
In effetti lo strumento psicanalitico costituiva il campo da gioco per uno scrittore che, pur conflittualmente, ha avuto a che fare con la psicanalisi in primo luogo a livello indirettamente personale, perché suo cognato fu un paziente di Freud, e in secondo luogo perché, conoscendo benissimo il tedesco ed essendo egli un suddito dell’impero austroungarico, poteva avere un contatto diretto con la cultura viennese. Confinare in quest’ambito l’intera opera di Italo Svevo però non è giusto. Io direi che addirittura Svevo anticipò numerose tematiche scientifiche che seguirono nel dibattito psicanalitico degli anni a lui successivi. È a lui che si deve l’invenzione di protagonisti che obbediscono più ai dettati dell’inconscio che a quelli della coscienza. Anche se il titolo del suo romanzo principale è proprio “La coscienza di Zeno” il protagonista è un personaggio che obbedisce maggiormente agli impulsi segreti profondi che non alla propria volontà razionale.
Non c’è in tutto ciò anche una vena di scanzonata ironia nei confronti della nuova scienza?
Certamente, basti pensare a quanto succede nella vita di Zeno: vuole una donna e finisce per essere sposato da un’altra, punta verso un obiettivo e ne colpisce quasi sempre un altro non previsto. Ma l’ironia è incentrata in questo incrocio di istinto e destino, volto a risolvergli la vita in maniera molto più indolore di quanto non sarebbe successo a fronte dell’esaudirsi della sua volontà. Sbagliando un obiettivo Zeno lo centra. Ad esempio: la donna che ha dovuto sposare si dimostra molto migliore rispetto a quella che desiderava. Ma il libro di per sé è ironico anche nell’incipit. Comincia infatti col risultare un’opera pubblicata dallo psicanalista presso il quale Zeno è in cura. Un medico che è costantemente preso in giro da un paziente che non crede minimamente nell’efficacia delle terapie. Zeno si inventa i sogni raccontati in analisi e conduce l’intera cura con superficialità, incoerenza e mancanza di serietà. Ciononostante scopre a mano a mano risvolti esistenziali profondissimi anche dalle proprie fantasie ed invenzioni.
Anche questo atteggiamento denota il riverbero concettuale di uno scrittore, Italo Svevo, cresciuto in un ambito culturale di cui non poteva fare a meno di parlare ma al quale non riusciva interamente ad aderire.
Eppure, nonostante l’ironia che percorre le pagine del romanzo di Zeno, si assiste a un finale apocalittico e catastrofico:
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Molto semplicisticamente tutto questo è stato interpretato come preannuncio della bomba atomica. In realtà Zeno è colui che essendo costituito come non adatto alla vita finisce poi per sopravvivere a tutti. Sopravvive al padre, all’amico Copler, al suocero, al cognato e all’amministratore. Colui che era considerato come il “debole” finisce per ritrovarsi più forte di tutti gli altri. Questo perché negli altri si rappresenta la certezza granitica, e quindi destinata a perire, dell’uomo del passato. Zeno rappresenta invece l’ideal-tipo dell’uomo nuovo, novecentesco. A ben guardare è lui stesso a dipingersi come l’ultimo uomo, colui che premerà il bottone di avviamento degli ordigni che finiranno per sterminare l’umanità intera.
Oltre a questa visione dell’uomo nuovo e dell’apocalisse del vecchio mondo, alla critica e al confronto con la scienza psicanalitica, esiste nella letteratura di Italo Svevo, un richiamo al trascendente?
Probabilmente Svevo rappresenta il prosatore più laico della nostra letteratura. Questo non significa che avesse un approccio superficiale nei confronti del significato dell’esistenza sebbene, rispetto a Pirandello, emerga assai meno nella sua opera una domanda diretta sul senso di tutte le cose.
Si convertì al cattolicesimo per sposare Livia Veneziani, la cugina, che era molto religiosa e che sognava di convertire suo marito. Il rapporto religioso fra i due coniugi emerge in modo commovente nel bellissimo scritto che si intitola “La Morte”. Ciononostante lo scrittore dichiarò di non volere ai propri funerali la presenza di preti o di rabbini.
Sebbene laica, la sua scrittura rimane comunque ironica.
Svevo non è mai del tutto disperato, anzi direi che non è uno scrittore tragico proprio perché non pensava di aver risolto o che fosse risolvibile, e quindi conchiuso, il mistero della realtà.
Fini: "Le leggi non seguano la religione" – due articoli di “La Repubblica” e “ilsussidiario.net
''Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso'', ammonisce il presidente della Camera, Gianfranco Fini, parlando a Monopoli agli studenti durante un incontro sulla Costituzione. Monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, replica: "I temi sui quali il mondo cattolico intende portare il contributo sono temi non definibili come precetti religiosi; sono temi che riguardano i diritti fondamentali dell’uomo, come il diritto alla vita, i diritti che riguardano l’unità del matrimonio e della famiglia. Non sono precetti religiosi, ma sono iscritti nella natura umana, difendibili con la ragione e iscritti anche nella Costituzione". E continua: "Non taceremo".
MONOPOLI - Due precisi messaggi. Uno a favore della laicità dello Stato, l'altro contro chi usa l'immigrazione per "fini elettorali". Gianfranco Fini torna a farsi sentire. Pronunciando parole che non è facile sentire nel Pdl. Che, non a caso, non nasconde la sua irritazione.
Parlando di bioetica durante un incontro sulla Costituzione con studenti di Monopoli, Fini rilancia il tema della laicità dello Stato. "Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso - dice il presidente della Camera - Il dibattito sulla bioetica è complesso e mi auguro che venga affrontato senza gli eccessi propagandistici che ci sono stati da entrambe le parti perchè queste sono questioni nelle quali il dubbio prevale sulle certezze".
Secca la replica del Pdl. "Non capisco la preoccupazione di Fini - dice Maurizio Lupi - Se pensa che certi valori rappresentino dei 'preconcetti religiosi' sbaglia e si pone su un piano di scontro ideologico molto lontano dalla laicità positiva da lui stesso evocata".
Chiamata in causa, la reazione della Chiesa non si fa attendere. E non è accomodante. "Mai pensato di imporre al Parlamento italiano precetti religiosi, ma non taceremo sui temi di bioetica, che riguardano i diritti umani, i dettami costituzionali, la stessa razionalità umana e il bene comune" dice monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia della Vita. Che incalza: "Non si tratta di precetti religiosi ma di argomenti basati sulla ragione e il diritto: il fatto che vengano portanti avanti dal clero o da organismi cattolici non deve consentire a nessuno di considerarli come prodotto di una razionalità minore".
E anche dall'Udc arrivano reazioni critiche. E i toni sono duri: "'Si tratta di un appello alla discriminazione verso i cattolici impegnati in politica e tutti coloro che vivono una fede o credono ad una religione. Il presidente della Camera ci riporta nel piu' buio dei totalitarismi neri nel Novecento". Più mordiba la reazione dell'Idv: ""Apprezziamo le parole di Fini e le condividiamo. Peccato che sia una posizione isolata nel Pdl, un partito non solo autoritario, ma ormai anche confessionale".
Poi tocca all'immigrazione. A fronte delle roventi polemiche Fini invita ad abbassare i toni e a non strumentalizzare il tema in vista delle prossime elezioni: "Dovremmo sforzarci tutti di affrontare una questione così complessa e così importante senza cadere nella tentazione di dare vita a un confronto finalizzato unicamente al voto per il Parlamento europeo". Per il presidente della Camera, infatti, la questione dell'immigrazione è "una sfida culturale difficile ma non impossibile, da affrontare con lungimiranza evitando l'utilizzo di scimitarre e anatemi".
La nuova composizione della società, continua Fini, è un problema ineludibile: "Il fatto vero è che dobbiamo affrontare il problema con una logica diversa dal passato e dal presente. Dobbiamo guidare il fenomeno altrimenti ne verremo travolti e schiacciati e la nostra società entrerà in crisi".
La Repubblica 18 maggio 2009
Binetti: parole di Fini ricordano l’Unione sovietica
«È gravissimo che il presidente della Camera non ne tenga conto, quasi che quelle di noi cattolici fossero argomentazioni non razionali». Paola Binetti, deputata del Pd e leader teodem, critica le parole di Gianfranco Fini sulla laicità delle leggi.
Intervistata dalla Stampa, Binetti ricorda che «hanno già provato a cancellare Dio dalla legislazione le rivoluzioni francese e bolscevica. Si è vista come è andata a finire e con quali tragedie abbiano ferito la dignità umana».
Con le parole di Fini, accusa, «tornano alla mente gli spettri di un passato che si sperava superato per sempre, quando i regimi totalitari come l'Unione sovietica volevano ridurre tutto a tecnica privando il legislatore di ogni radicamento valoriale».
Infine, Binetti si chiede: «Quello di oggi è lo stesso leader di An che si univa con convinzione alla Giornata per la Vita della Cei oppure è un omonimo? Cos'è successo nel frattempo?».
Il Sussidiario.net martedì 19 maggio 2009
L’amore per l’umanità è il volto di Dio - Il Cardinale Caffarra spiega Gesù alla messa per la Madonna di S. Luca - di Antonio Gaspari
BOLOGNA, mercoledì, 20 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso dell’omelia della Messa celebrata nella cattedrale di Bologna domenica 17 maggio, in onore della Madonna di S. Luca, il Cardinale Carlo Caffarra ha spiegato che il volto di Dio è amore, lo stesso amore che spinge uomini e donne ad amare l’infermo.
Nel corso della Messa, organizzata dall’Ufficio Diocesano di pastorale Sanitaria, dall’Unitalsi e dal Centro Volontari della Sofferenza, l’Arcivescovo di Bologna ha sottolineato che la manifestazione più evidente del volto di Dio è l’amore che prova per l’umanità.
Secondo il porporato Dio si è rivelato mandando “il suo Figlio Unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per lui”. In questo modo “si è manifestato come Amore, perché Dio è amore. Questo è il Volto di Dio”.
Egli ha voluto che questa manifestazione di sé non fosse solo parola. Ha compiuto un fatto nel quale la manifestazione che Dio fa di se stesso come Amore, diventa “carne e sangue”.
Questo è il motivo per cui “in Gesù Dio manifesta il suo Amore per noi nel modo umano, a noi più comprensibile”.
Per illustrare l’amore di Dio per l’umanità, il Cardinale Caffarra ha ricordato la compassione che Gesù prova per gli infermi.
I Vangeli narrano che Gesù si commuove profondamente quando incrocia un corteo funebre che portava alla sepoltura il figlio di una vedova, e le dice: “Non piangere”. E’ Dio stesso che si prende cura dell’uomo infermo, che si commuove di fronte al pianto di una vedova. È in questo modo che “si è manifestato l’amore di Dio per noi”.
Per l’Arcivescovo di Bologna, Dio “ha mandato il suo Figlio vittima di espiazione per i nostri peccati” e la manifestazione che Dio fa di Se stesso “accade principalmente sulla Croce”, per questo motivo “guardando cogli occhi della fede Cristo crocefisso noi sappiamo chi è Dio, e possiamo veramente pensare e dire: Dio è Amore”.
Il Cardinale Caffarra ha rilevato che Gesù nel Vangelo spiega il suo comandamento: e cioè “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”, e l’evangelista Giovanni ripete: “carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio”.
L’amore con cui dobbiamo amarci – ha sottolineato l’Arcivescovo - è “come l’amore con cui Gesù ha amato noi. Come dire che noi impariamo che cosa significa amare, e quale è la misura del vostro amore ricevendolo da Gesù stesso”.
Riferendosi ai tanti volontari che si pongono al servizio degli infermi, il porporato ha precisato: “siete chiamati a fargli sentire una vicinanza, un’affezione che è quella di Gesù: fargli sentire l’amore di Gesù”
Un amore di Dio che diventa la misura e la forma del nostro amore mediante l’Eucarestia.
“È l’Eucarestia – ha sottolineato il cardinale Caffarra – che dona all’uomo la capacità di misurare il suo amore sull’amore di Dio, poiché è mediante l’Eucarestia che noi entriamo nell’atto oblativo di Gesù”.
Riferendosi agli infermi li ha incoraggiati a non sentirsi mai soli, perchè dentro ad una comunità che nasce da Dio stesso.
In conclusione l’Arcivescovo di Bologna ha fatto riferimento a Maria: “è vicino a Lei che sentiamo il calore dell’amore di Dio per noi, ed Ella vi ha chiamato per ottenervi dal suo divin Figlio l’intima convinzione che Dio è amore”.
Paul Ricoeur:«Muore il personalismo, torna la persona!» - Autore: Restelli, Silvio - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 20 maggio 2009
2005 - Paul Ricoeur, :«Muore il personalismo, torna la persona!»
Uno dei pensatori più rilevanti del secolo scorso.
Vita e opere (fonte filosofico.net)
Con l'altro grande maestro dell'ermeneutica fìlosofica novecentesca, Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, per la sua costante opera intellettuale e per la sua intensa attività di magistero e di dialogo che si estende ormai su scala planetaria e che è stata unanimemente riconosciuta nelle sedi più autorevoli della comunità culturale, scientifica e fìlosofica internazionale (come testimoniano anche il premio Hegel di Stoccarda nel 1985 e il premio Balzan per la filosofia conferitogli nel 1999), può essere considerato uno dei testimoni e dei protagonisti più sensibili della coscienza filosofica del Novecento.
Testimone prezioso non solo per il valore intrinseco della sua multiforme opera, ma anche per il suo collocarsi in un ideale crocevia delle molteplici e più vitali tendenze della ricerca filosofica odierna, " tendenze che raramente si sono incontrate e che spesso hanno preferito seguire percorsi talora paralleli, ma reciprocamente ignorantisi " (D. Jervolino, "Ricoeur. L'amore diffìcile").
Da questa prospettiva, nella storia della filosofia del Novecento l'originale snodarsi del cammino riflessivo di Ricoeur dalla fenomenologia all'ermeneutica e dalla metafìsica alla morale rappresenta una rilevante e significativa eccezione:
" egli può contemporaneamente essere riconosciuto come un autorevole filosofo 'continentale' ed essere accettato dagli 'analitici' come un interlocutore interno alla loro problematica ".
Nell'epoca di pensiero post-hegeliano, lo stile riflessivo della filosofia deliberatamente frammentario praticato da Ricoeur è uno " stile di mediazione incompleta tra mediazioni rivali " (P. Ricoeur, "Per un'autobiografia intellettuale"); questo stile, al quale Ricoeur si è mantenuto fedele nel corso di tutto il suo fecondo itinerario filosofico, costituisce di fatto un ampio tentativo di mediazione tra le esigenze epistemologiche della fenomenologia, delle scienze umane a base strutturale, e di taluni esiti delle filosofie analitiche da una parte - e l'ermeneutica nei suoi risvolti ontologici ed esistenzialistici dall'altra.
Lo stesso Ricoeur, in una delle sue ultime opere, "La nature et la règle" del 1998 ("La natura e la regola. Alle radici del pensiero"), ha precisato la sua personale posizione filosofica scrivendo:
"Ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica. Riguardo al primo termine - riflessiva -, l'accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l'esteriorizzano rispetto a se stessa. Jean Nabert è il maestro emblematico di questo primo ramo della corrente comune. Il secondo termine - fenomenologica - designa l'ambizione di andare alle 'cose stesse', cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all'esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; quest'intento, diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l'accento sulla dimensione intenzionale della vita teorica, pratica, estetica, ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come 'coscienza di...'. Husseri rimane l'eroe eponimo di questa corrente di pensiero. Riguardo al terzo termine - ermeneutica - ereditato dal metodo interpretativo applicato in un primo tempo ai testi religiosi (esegesi), ai testi letterari classici (filologia) e ai testi giuridici (diritto), l'accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell'esperienza umana. Sotto questa terza forma la filosofia mette in questione la pretesa di ogni altra filosofia di essere priva di presupposti. I maestri di questa terza tendenza si chiamano Dilthey, Heidegger, Gadamer ".
Paul Ricoeur è nato a Valence il 27 febbraio 1913. Dopo aver compiuto gli studi di filosofia a Rennes, dove consegue durante l'anno accademico 1933-1934 la "maitrise" con una dissertazione dedicata al "Problème de Dieu chez Lachelier et Lagneau", esponenti della filosofia riflessiva francese, si trasferisce a Parigi per continuare gli studi e nel 1935 consegue l'’agrégation, che gli consente l'insegnamento nei licei in varie sedi di provincia.
Nel 1948 succede a Jean Hyppolite nella cattedra di Storia della filosofìa a Strasburgo, nel 1950 ottiene il "Doctorat d'état" con "Le volontaire et l'involontaire" e la traduzione in francese di "Ideen I" di Husserl, mentre nel 1957 viene chiamato alla Sorbona ad occupare la cattedra di Filosofia generale come successore di R. Bayer. Amico di Emmanuel Mounier, partecipa attivamente al movimento personalista anche come uno dei fondatori e collaboratori della rivista Esprit. Discepolo di Gabriel Marcel, durante la prigionia in Germania studia Jaspers e Husserl. Protagonista della vita intellettuale parigina degli anni '60, insegna Filosofia a Nanterre dal 1966 al 1970, Università della quale è stato anche rettore. Nel 1974 assume la direzione della "Revue de métaphysique et de morale" e fonda il "Centre de recherches phénoménologiques et herméneutiques".
Dopo aver insegnato per tre anni a Lovanio, termina la sua carriera di docente universitario nel 1980. Successivamente ha insegnato in modo stabile dal 1980 al 1990 alla Divinity School dell'Università di Chicago.
Legato all'Italia da intensi rapporti intellettuali stabiliti con gli studiosi della sua opera filosofica ed ermeneutica, ha partecipato ai colloqui filosofici organizzati a Roma da Enrico Castelli e alle attività culturali dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Muore nel 2005.
Il suo contributo è particolarmente significativo su due versanti molto caldi del dibattito: il rapporto fede-ragione e il rilancio della riflessione politica sulla giustizia e sulla persona.
Sul primo punto è molto significativa l’intervista rilasciata a Bertrand Revillon in occasione dell’attribuzione del prestigioso premio Balzan per la filosofia,
(cfr intervista)
e sul secondo la sua riflessione sullo schema ternario dell'etica della persona, in cui cerca di procedere dopo il fallimento del personalismo a fondare il concetto di persona. (cfr. file)
La bibliografia essenziale delle sue opere è contenuta nel file seguente: (fonte: http://www.sifp.it/didattica/bibliografie/ricoeur-paul)
20 Maggio 2009 - MADRID - In Spagna adesso il feto «non è un essere umano» - Avvenire
Un feto di 13 settimane è «un essere vivente, chiaro», ma «non possiamo parlare di essere umano, perché questo non ha nessuna base scientifica». Non si tratta di un’opinione anonima spuntata in un blog sconosciuto. Sono le parole della ministro dell’Uguaglianza del governo Zapatero, Bibiana Aído, pronunciate ai microfoni di "radio Ser". La Aído è la principale promotrice della riforma approvata la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri: interruzione libera della gravidanza entro le prime 14 settimane, aborto senza il permesso dei genitori anche per le minorenni fra i 16 e i 18 anni. Le sue frasi hanno scatenato inevitabilmente una bufera. Se il feto non è un essere umano, la ministro spieghi «pubblicamente cosa crede che sia», ha detto la pediatra Gador Joya, portavoce del movimento Diritto di Vivere (Dav).
«È un’affermazione assurda», «nessuno può negare che un essere umano è un essere umano e non appartiene a nessun’altra specie» ha sottolineato il professore universitario Cesar Nombela attraverso la "Cope", radio della Conferenza episcopale spagnola: l’uomo «ha varie tappe nella sua vita e una di queste è quella fetale». Anche la Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici (Fiamc) ha criticato la Aído: la ministro è un’«incompetente» ha detto il presidente, Josep Maria Simó. «Un feto di 13 settimane ha una testa, un cuore e si muove». La valanga di critiche ha spinto la Aído ad aggiustare parzialmente il tiro delle sue dichiarazioni. «Non c’è prova scientifica per dire che» un feto di 13 settimane «è un essere umano né per non dirlo, mi baso sul manifesto che hanno elaborato gli scienziati», ha chiarito più tardi Aído.
La ministro fa riferimento ad un documento firmato da importanti nomi della ricerca spagnola, in cui si sostiene che «il momento in cui si può considerare un essere umano non può stabilirsi con criteri scientifici», perché rientrerebbe «nell’ambito delle credenze personali, ideologiche o religiose». Il testo è la risposta al Manifesto di Madrid contro l’aborto, sottoscritto da 2.000 intellettuali, medici ed esperti: un documento che la ministro non cita.