martedì 15 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    «Il carisma di Giussani è ancora vivo» di Massimo Introvigne, 14-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    Donne, un problema di educazione Le manifestazioni non servono di Luigi Negri*, 15-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    Nascita del primo amore di Luca Doninelli, martedì 15 febbraio 2011, il sussidiario.net
4)    Sostegno alla maternità: in Piemonte al via la distribuzione dei bonus bebè - il piano, da Torino, di Fabrizio Assandri, Avvenire, 15 febbraio 2011
5)    Anselmo d’Aosta, maestro di fede e ragione per l’Europa - Nel difendere la libertà della Chiesa, il riflessivo monaco divenne battagliero arcivescovo. - La sua opera rinverdì Agostino e Cassiodoro, di Alessandro Ghisalberti, Avvenire, 15 febbraio 2011


«Il carisma di Giussani è ancora vivo» di Massimo Introvigne, 14-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Sabato scorso Benedetto XVI ha ricevuto in udienza in occasione del venticinquesimo anniversario della sua nascita la Fraternità sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, guidata dal fondatore e superiore generale monsignor Massimo Camisasca.

La Fraternità è nata venticinque anni fa dal movimento di Comunione e Liberazione, e conta venticinque case in sedici Paesi del mondo, con centoquattro preti e quaranta seminaristi. «Questo momento riporta alla mia memoria la lunga amicizia con monsignor Luigi Giussani [1922-2005] e testimonia la fecondità del suo carisma». Ricordando la sua amicizia con Comunione e liberazione, il Pontefice ha svolto considerazioni molto significative sulle relazioni che intercorrono fra i movimenti e le vocazioni sacerdotali, che non di rado da essi scaturiscono e con essi mantengono in varie forme un legame.

Incontrando dei sacerdoti provenienti dall’esperienza di un movimento laicale, il Papa si è proposto di rispondere a due domande: «Qual è il posto del sacerdozio ordinato nella vita della Chiesa? Qual è il posto della vita comune nell’esperienza sacerdotale?». Ai sacerdoti della Fraternità San Carlo il Papa ha detto che «la vostra nascita dal movimento di Comunione e Liberazione e il vostro riferimento vitale all'esperienza ecclesiale che esso rappresenta, pongono davanti ai nostri occhi una verità che si è andata riaffermando con particolare chiarezza dall'Ottocento in poi e che ha trovato una significativa espressione nella teologia del Concilio Vaticano II. Mi riferisco al fatto che il sacerdozio cristiano non è fine a se stesso. Esso è stato voluto da Gesù in funzione della nascita e della vita della Chiesa. Ogni sacerdote, perciò, può dire ai fedeli, parafrasando sant'Agostino [354-430]: Vobiscum christianus, pro vobis sacerdos [con voi cristiano, per voi sacerdote]».

Il sacerdozio, cioè, «rappresenta una vocazione bellissima e singolare all'interno della Chiesa, che rende presente Cristo, perché partecipa dell’unico ed eterno Sacerdozio di Cristo», ma è sempre radicato e inserito in una specifica comunità. A proposito di Comunione e Liberazione il Papa ha sottolineato che «la presenza di vocazioni sacerdotali è un segno sicuro della verità e della vitalità di una comunità cristiana. Dio infatti chiama sempre, anche al sacerdozio; non vi è crescita vera e feconda nella Chiesa senza un'autentica presenza sacerdotale che la sorregga e la alimenti». Perché la presenza sacerdotale in una comunità o movimento nasca e dia frutto è necessaria «innanzitutto un'educazione profonda alla meditazione e alla preghiera, vissute come dialogo con il Signore risorto presente nella sua Chiesa. In secondo luogo, uno studio della teologia che permetta di incontrare le verità cristiane nella forma di una sintesi legata alla vita della persona e della comunità: solo uno sguardo sapienziale può infatti valorizzare la forza che la fede possiede di illuminare la vita e il mondo, conducendo continuamente a Cristo, Creatore e Salvatore».

La Fraternità San Carlo sottolinea in particolare «il valore della vita comune» tra sacerdoti. «Anch'io – confida il Papa – ne ho parlato più volte nei miei interventi prima e dopo la mia chiamata al soglio di Pietro. “È importante che i sacerdoti non vivano isolati da qualche parte, ma stiano insieme in piccole comunità, si sostengano a vicenda e facciano così esperienza dello stare insieme nel loro servizio a Cristo e nella rinuncia per il regno dei Cieli e ne prendano anche sempre più coscienza” (Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, 208). Sono sotto i nostri occhi le urgenze di questo momento. Penso per esempio alla carenza di sacerdoti. La vita comune non è innanzitutto una strategia per rispondere a queste necessità. Essa non è neppure, di per sé, solo una forma di aiuto di fronte alla solitudine e alla debolezza dell'uomo. Tutto questo ci può essere, certamente, ma soltanto se la vita fraterna viene concepita e vissuta come strada per immergersi nella realtà della comunione. La vita comune è infatti espressione del dono di Cristo che è la Chiesa, ed è prefigurata nella comunità apostolica».

La vita comune tra sacerdoti non è dunque soltanto un’opportunità che garantisce vantaggi pratici, ma è anzitutto un’esperienza spirituale. «Vivere con altri significa accettare la necessità della propria continua conversione e soprattutto scoprire la bellezza di tale cammino, la gioia dell'umiltà, della penitenza, ma anche della conversazione, del perdono vicendevole, del mutuo sostegno».

La vita comune rimanda, ancora un volta, a un tema che nelle ultime settimane Benedetto XVI ha trattato più volte in relazione al sacerdozio e alle vocazioni: il primato della preghiera. «Nessuno può assumere la forza rigenerante della vita comune senza la preghiera, senza guardare all’esperienza e all'insegnamento dei santi, in particolar modo dei Padri della Chiesa, senza una vita sacramentale vissuta con fedeltà. Se non si entra nel dialogo eterno che il Figlio intrattiene col Padre nello Spirito Santo nessuna autentica vita comune è possibile. Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri. È questo il cuore della missione». La preghiera non distoglie mai dalla missione. Al contrario, ne è il cuore e l’anima.


Donne, un problema di educazione Le manifestazioni non servono di Luigi Negri*, 15-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La dignità della donna e il suo valore, il suo ruolo nella società, non l’abbiamo imparato da nessuna manifestazione, contro questo o contro quell’altro. Lo impariamo e dobbiamo impararlo da un’esperienza di vita personale e sociale nella quale una persona nella sua identità e quindi nella sua differenza specifica – perché la donna ha una differenza specifica nei confronti dell’uomo – possa essere riconosciuta, attuata e vissuta.


Io credo che la storia della società – anche quella italiana – abbia avuto ambiti e abbia avuto tempi  e momenti nei quali la donna ha dato il suo contributo leale e reale alla vita della famiglia e della società, anche quando possono essere state vissute delle dialettiche intrafamiliari e sociali.


Ora scoprire che la donna ha una dignità che è fatta anche di rispetto della sua fisicità mi sembra una cosa assolutamente ovvia. In questa mancanza di rispetto della corporeità della donna e della dignità del suo corpo certamente, visto che non pare si tratti in nessun caso di violenze e di stupri, si deve quantomeno dire che c’è una grossa fetta o una certa fetta di donne che accetta questo tipo di abuso della propria dignità. Ma dare a questo problema un valore di carattere totalizzante sul piano della vita sociale, sul piano nazionale e internazionale, mi sembra realmente che si perda il senso della realtà.


Questi fenomeni di degrado della dignità della donna che sono articolatissimi - che vanno dagli spot televisivi al modo con cui le donne vengono in qualche modo costrette a vestirsi, muoversi - nascono dalla perdita della coscienza della propria dignità, che non si riacquisisce protestando ma solo con un’opera di riconoscimento di questa dignità e un'opera di educazione. La protesta è una forma di millenarismo: protestiamo e cambia la situazione, senza considerare poi che tali proteste sono evidentemente strumentalizzate, dall’una o dall’altra parte.


Ancora una volta - e dobbiamo ripeterlo anche in questo caso - si tratta di un problema di educazione. Se creiamo generazioni di donne, così come di uomini, per cui il benessere psicologico, affettivo, sessuale ed economico è l’ideale della vita, allora si sacrifica anche la dignità perché tutto è funzionale a questo benessere. Il problema è dunque offrire alle giovani generazioni un itinerario formativo che consenta loro di riconoscere pienamente la loro identità e di attuarla adeguatamente.

Quanto al contorno cattolico a queste manifestazioni, non è soltanto di oggi la rilevazione che esistano zone di confusione di carattere teologico, di carattere filosofico, di carattere culturale, che poi fanno sì che questi cattolici entrino in marchingegni più grandi di loro in cui rischiano di fare la figura degli "utili idioti".

* Vescovo di San Marino-Montefeltro


Nascita del primo amore di Luca Doninelli, martedì 15 febbraio 2011, il sussidiario.net

Questo è un frammento di un lunghissimo romanzo che vado scrivendo da anni. Lo offro ai lettori de IlSussidiario.net perché non sarebbe giusto dimenticarci di San Valentino solo perché i giorni che viviamo sono tanto duri.

Accadde in un bistrot di Rue des Ecoles.
Una scena insolita si stava svolgendo al tavolo accanto al mio. Alcune ragazze che potevano avere al massimo tre o quattro anni meno di me si stringevano intorno a qualcuno che non risultava visibile dalla posizione in cui mi trovavo. Saranno state sei, sette, ed erano tutte molto eccitate, come se proprio lì, sotto i loro occhi, stesse accadendo qualcosa di sbalorditivo. Una di loro, più bassa delle altre e molto graziosa, ogni tanto si metteva a saltellare per vedere qualcosa oltre la testa della compagna che le stava davanti. Fui attratto, lo ammetto, dalle sue gambe lisce e sottili, ma il ricordo di quell’attrazione pochi istanti più tardi mi sarebbe sembrato lontano, come il documento di un’altra fase della mia vita.

Le ragazze erano molto educate, ma c’era qualcosa che le faceva tremare. Dal gruppo partiva di tanto in tanto una domanda, a volte un’altra voce femminile, fioca e quasi sepolta dietro quel muro umano, sussurrava una battuta, e allora il gruppo scoppiava a ridere con un’allegria eccessiva e affrettata. Si sentiva la parola professeur, ma non si sentiva nessuna voce che non appartenesse a una persona molto giovane. Volli alzarmi, allora, con il pretesto di leggere il ménu scritto col gesso su una lavagna appoggiata su un cavalletto a sinistra dell’ingresso, e da quel punto di osservazione potei vedere chi c’era dietro quelle ragazze. C’era una ragazza molto più giovane di loro, una biondina non particolarmente bella, poco più che una bambina. Era lei che, con voce flemmatica, rispondeva alle domande delle ragazze, anche se continuavo a non capire cosa significasse, in tutto questo, la parola professeur. Sempre fingendo grande interesse per il ménu non smisi di sbirciare.

A un certo momento una ragazza che mi copriva la visuale decise che da un’altra posizione avrebbe compreso meglio, così potei vedere bene quello che la bambina stava facendo. Con mano svogliata, l’occhio quasi spento, quella magrolina bionda tracciava su grandi fogli, con sicurezza sbalorditiva, segni grafici ed equazioni che lasciavano a bocca aperta tutte quelle belle ragazze, che alla fine se ne andarono ringraziandola una a una e quasi inchinandosi davanti a lei, che le salutava con la mano, piano piano, senza mai mutare l’espressione del viso. Vidi le ragazze, ormai uscite, attraverso i vetri del bistrot, mentre se ne andavano. La loro eccitazione era ancora evidente: si tenevano a braccetto, saltellavano, ridevano, stringevano i pugni, pestavano per terra. E sono certo che, una volta tanto, non parlavano di ragazzi. Chi lo sa dove saranno quelle ragazze adesso, se esistono ancora, se Parigi esiste ancora. Ma fossero anche morte e Parigi fosse sprofondata, nulla ha potuto rubare loro l’emozione di quel momento.
vNon appena fu sola, la ragazzina ordinò del caffelatte e una baguette con prosciutto e burro.
Io, che non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo appena visto, continuavo a guardare dalla sua parte, tanto che lei si sentì costretta a salutarmi con la sua voce atona. Sollevando la mano non so se per salutarmi meglio o per nascondere la bocca. Aveva un visino grazioso, il naso abbastanza grande per una faccia così esile, e doveva sentirsi molto brutta, perlomeno in quell’istante.
Bonsoir.
Dato che non parlavo, disse ancora qualcosa lei. Si scusò per l’agitazione di poc’anzi, ma quelle ragazze così adorabili erano anche delle tali confusionarie.
Vous aimez le jambon? Vous en voulez?
Risposi di sì, e lei, con la sua solita flemma, si alzò, andò al banco e ordinò un panino anche per me. Sarà stata alta come me, cioè sul metro e ottanta, sottile e un po’ sgraziata, per nulla flessuosa, l’andatura da paysan, i capelli lisci alle spalle di un biondo pallido e un po’ smorto, e portava un abitino a righe verticali, che la rendevano ancora più alta e magra di quanto già non fosse.

Quando riuscii a parlare, dopo averla ringraziata per il panino (che non avrei toccato) le chiesi di spiegarmi quello che avevo visto.
Lei era tornata a sedersi al solito posto.
Rispose che non c’era niente, rien du tout, da spiegare. Il problema era, come sempre di questa stagione, la scarsità di aule. Per le esercitazioni è sempre un disastro, disse: le aule erano tutte occupate per lezioni completamente inutili, perciò aveva pregato Genny, Jeanine, Simone, Claude, Pamela, Selima e Edith di raggiungerle lì – questo è il mio bistrot, dove vengo sempre, io mi trovo bene, è un posto semplice, non trova?
Dopo avermi detto, su mia richiesta, la sua età, mi disse, sempre su mia richiesta, di cosa si occupava nella vita. Chantal, questo il suo nome, non frequentava il primo o al massimo il secondo anno di liceo, come avrebbe dovuto fare una ragazza di quindici anni, ma insegnava all’università.

Come fa a non piacerle il prosciutto? disse, vedendo che non toccavo il mio panino. Io mangio solo panini al prosciutto, sa? No, anche dell’insalata, ma non sempre. E la mattina un caffè e un uovo, à la cocque.
Le domandai scusa, ma quello che mi stava dicendo a proposito di sé stessa costituiva un nutrimento più che sufficiente per un curioso come me. Intendevo riferirmi, naturalmente, al suo lavoro, ma forse lei credette che parlassi dei panini e delle uova.
Perché non prende il suo panino e viene al mio tavolo? E’ un po’ ridicolo parlarsi da un tavolo all’altro, disse, tossendo e domandando scusa (pensai che questo fosse il suo modo di ridere).
Chantal non cambiava mai espressione, e anche la sua voce filava dritta dritta, senza sussulti. Non doveva essere facile alle emozioni, pensai in un primo momento. Poi però ebbi la ventura di guardarla dritto negli occhi per qualche secondo più del necessario. Lei ebbe un leggerissimo sorriso e d’istinto alzò la sinistra per spostare una ciocca di capelli che le era caduta sulla fronte. Capii allora che forse conosceva già la passione, magari in un angolo nascosto e oscuro di sé, e che forse lei apparteneva soltanto a quella fortunata cerchia di persone che sanno in ogni istante quello che devono dire e non dire, il che rende assai più misurata l’espressione delle emozioni.
Se ho capito bene, dissi alla fine, lei è un genio.

Mi resi conto di non averlo detto perché lo pensavo (anche se lo pensavo), ma perché desideravo allontanare qualcosa da me.
Chantal fece un gesto con la mano, come quando si manda via un moscerino. Non occorre il minimo genio, rispose, per fare della matematica.
Allora, dissi cercando di farla ridere, ci vorrà del genio per non capirci nulla, come me.
Chantal non rise affatto. Avrei presto conosciuto questa sua disposizione a prendere sul serio qualunque frase.
Bisogna solo avere molta voglia di stare seduti, disse.
Presto avrei saputo anche che molti studenti la amavano follemente, come le sue sette innamorate, ma che molti, molti altri erano addirittura terrorizzati da lei. 

Volli pagare io (“non capisco proprio” rispondeva lei, ma senza insistere), dopo di che le proposi di accompagnarla a casa. Disse che le dispiaceva andare, perché lì si stava bene, naturalmente a quell’ora, perché non si poteva immaginare la quantità di gente che avrebbe riempito il locale una o due ore più tardi. Secondo me Chantal sopravvalutava il suo amato bistrot.
Il suo impermeabile beige se ne stava appoggiato a uno schienale. Si aggiustò il collo arrotondato della camicetta su quello della blusa d’angora celestina, rifiutò il mio aiuto a indossare il soprabito, liberò i capelli dorati che erano rimasti imprigionati sotto il collo dello stesso, poi si fermò sulla porta del bistrot e mi diede un’occhiata, dalle punte dei piedi alla cima dei capelli e di nuovo in fondo ai piedi, dalla quale mi sentii attraversato come da una radiografia.
Alla fine disse di sì, che potevo accompagnarla, anche se abitava un po’ lontano, dopo Les Invalides. Durante la nostra permanenza nel bistrot doveva aver piovuto ancora, ma ora la pioggia aveva smesso di cadere, e davanti all’orizzonte la cappa plumbea del cielo s’interrompeva, proprio come prima che entrassi nel bistrot ma ancora più vicino a noi, per lasciare posto a una sottilissima striscia celeste e poi al rosso denso del tramonto, dentro il quale la Tour Eiffel, che vedemmo profilarsi di lì a poco, sembrava nuotare come dentro un mare fatto di tuorlo d’uovo.
Scendemmo lungo Rue St. Jacques, la voie des mammouth, poi ci incamminammo lungo Boul’ St. Germain fino all’incrocio con Rue de l’Université. Parlammo di letteratura (la sua passione per Victor Hugo fu il vero avant-propos a quanto avrei conosciuto  di lei in seguito). Chantal aveva letto anche Manzoni. Disse che I Promessi Sposi erano un’eccellente guida di Milano a uso dei francesi, e che lei capiva i suoi colleghi milanesi grazie a quel libro. Passammo davanti agli Invalides, poi davanti a Palais Bourbon, che a Chantal metteva tristezza perché, disse, le sembrava di vedere tutte le ingiustizie del mondo raccogliersi lì, in quella piazza così bella. Poco dopo ridemmo sull’incrocio con  la piccola e discreta Rue Nicot, una via signorile dedicata a un uomo divenuto famoso per qualcosa che adesso – con grande rabbia dei parigini – era stato vietato quasi ovunque: il tabacco. Mi indicò l’insegna di un bar lì sull’angolo, “Tabac de l’université”, dove però non si vendeva più tabacco. Disse che nessuno, all’Hotel de Ville, se l’era sentita di cambiare il nome alla via: c’era da temere una sommossa. Dall’eroe Nicot il discorso passò direttamente a un’altra eroina, Giovanna D’Arco, progenitrice di tutta la scorrettezza politica dei francesi e del loro complesso di superiorità, che è o comunque era  anche un complesso di inferiorità. Disse che tutti in Francia, anche gli atei più atei, amavano Sainte Jeanne, perché nessuno a parte Dio e il diavolo sa come sono fatti i Francesi, gente complicata, mentre tutti sanno come vorrebbero essere: come Sainte Jeanne, appunto. Ancora oggi la Francia è piena, disse, di Jeanne e Janine e Janette, di Jane e di Janet (“l’inglese ha fatto breccia anche da noi”) e perfino, a sud, di molte Juanite.

E così, un po’ parlando e un po’ ridendo, giungemmo in Avenue Rapp, al civico trentatré, dove abitava lei. Suo padre si chiamava Pierre Laurent Terrassier e faceva l’ingegnere ma possedeva anche un piccolo allevamento di asini, di cui era innamorato; sua madre si chiamava Cécilie e non suonava nessuno strumento musicale, ma era la miglior cuoca di tutta Parigi. E lei con papà e mamma andava a messa tutte le mattine alle sette nella chiesetta di un convento lì vicino. Adesso il cielo dalla parte della Senna era tutto sgombro, c’era perfino qualche stella, e la Torre Eiffel gravava nella sua incomprensibile enormità a pochi passi da noi, improvvisamente pesantissima dopo essere stata leggera per chilometri e chilometri.
Quando, sull’ingresso della sua casa, la salutai, stringendo quella sua manina ossuta e bianchissima, mi accorsi di essermi perdutamente innamorato di lei.
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LAICITA’/ John Waters: così l’"incredulo" san Tommaso ci insegna a tornare cristiani di John Waters, martedì 15 febbraio 2011, il sussidiario.net

Mi viene spesso da pensare che San Tommaso, quello chiamato “l’incredulo”, non meriti la cattiva nomea che lo accompagna. Se mi fosse stato chiesto da ragazzo, quando sentivo continuamente  le storie del Vangelo con le loro interpretazioni, non penso che avrei messo Tommaso molto lontano da Giuda nella lista dei cattivi. Ma è giusto?
Tommaso l’incredulo era uno dei dodici apostoli di Gesù, conosciuto anche come Didimo, che in greco significa “gemello”, come Tommaso in ebraico. L’appellativo di “incredulo” gli fu dato in seguito al suo iniziale rifiuto di credere che Cristo fosse risorto da morte, fino a che non ne vide le piaghe.

Il Vangelo di Giovanni ci dice che, dopo la Resurrezione, Gesù apparve ad alcuni discepoli quando Tommaso non era presente. Dice Giovanni (20,25): “Gli dissero allora gli altri apostoli: ‘Abbiamo visto il Signore!’ Ma egli disse loro: ‘Se non vedo nelle sue mani i segni dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò’”.
Otto giorni dopo, Gesù riapparve ai Suoi discepoli, e questa volta c’era anche Tommaso: “Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse ‘La pace sia con voi!’ Poi disse a Tommaso: ‘Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!’ Rispose Tommaso: ‘Mio Signore e mio Dio!’ Allora Gesù gli disse: ‘Perché mi hai visto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno!’” (Giovanni 20,26-29).

Queste parole di Gesù vengono di solito interpretate come una sorta di condanna per coloro che hanno bisogno di prove per credere. Tuttavia, a una lettura più attenta, mi sono reso conto che Gesù non è sprezzante con Tommaso come invece pensavo. In realtà, Egli è molto gentile e paziente, permettendo a Tommaso di esaminare le Sue ferite e dicendo che è bene che ora creda, affermando al contempo la bontà di coloro che credono senza aver visto, li chiama “beati”, ma non dice che Tommaso lo è di meno.
La distinzione che Gesù fa non è tra chi vuole prove e chi ne fa a meno, ma tra chi ha visto di persona e chi invece non ha visto: a questa seconda categoria appartengono quasi tutti i cristiani finora vissuti, compresi tutti noi che viviamo ora.
Riflettendo, non penso che Gesù volesse dire che vi è maggior valore se crediamo senza prove, e ancor meno che volesse attribuire maggior valore a un credere non fondato su prove, ma  che volesse distinguere tra due diversi tipi di prova: quella data dagli occhi e quella fondata su testimoni attendibili.
Se la fede è basata sul mero sentimento o su un concetto superficiale di obbedienza, diventa meno solida e più esposta allo scetticismo. La migliore forma di fede è quella che esplora liberamente l’intero campo del dubbio, prendendo in considerazione tutte le prove disponibili, come fece Tommaso.

La fede dei cristiani di oggi non è certo digiuna di evidenze. Abbiamo la dura evidenza della realtà, l’evidenza della nostra esistenza e della sua misteriosa natura, l’evidenza della risposta meno presa in considerazione tra quelle che possiamo dare: la meraviglia per “ciò che è”. Abbiamo anche l’evidenza dei Vangeli e delle centinaia di testimonianze che contengono, le loro storie che, coscientemente o no, abbiamo ponderato con la nostra ragione fin dall’infanzia, valutando la loro plausibilità nello stesso modo in cui Tommaso l’incredulo affrontò le prove che aveva di fronte. Avendo dato voce alle più profonde incertezze della posterità, è diventato per noi un testimone più importante che tanti altri.

Da molti altri riferimenti nei Vangeli apprendiamo che Tommaso, in diverse occasioni, si è dimostrato uno dei più decisi tra gli apostoli, coraggioso e fedele. Quando gli altri cercavano di trattenere Gesù dal tornare a Betania per far risuscitare Lazzaro, dato che gli abitanti di quella città avevano cercato di lapidarlo (Giovanni, 11,8), Tommaso prorompe: “Andiamo anche noi a morire con Lui!” (Giovanni 11,16). Ed è ancora lui che pone a Gesù una delle più famose domande del Vangelo: “Signore non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”. Gesù gli risponde: “Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Giovanni 14,5-6).
In questa nostra epoca incredula come poche altre, in cui una falsa forma di ragione ha tagliato fuori la nostra cultura dal significato di molto di ciò che è evidente, l’importanza di Tommaso l’incredulo è tale da poter essere eletto a patrono della cultura odierna, contrassegnata dal secolarismo e dal suo relativismo, dal suo concetto ridotto di ragione e dalla sua tendenza al pessimismo come prima risposta di fronte alla realtà. È il “gemello” del cristiano moderno, il mio gemello.. e, magari…anche il tuo?
“È un San Tommaso” è una frase usata nella nostra cultura per indicare uno che rifiuta di credere a un’evidenza diretta, fisica, personale, e in questo senso si può dire che inglobi interamente la posizione dell’attuale cultura. In realtà, un ragionevole scetticismo non è affatto un tratto deprecabile in una persona intelligente. Come il Papa continua a ricordarci, l’intelligenza della fede deve diventare anche intelligenza della realtà. Non vi è nulla da temere dalla ricerca di una prova: il problema è come arriviamo a valutare questa prova e cosa scegliamo di fare con essa.

Non credo che Gesù, con la Sua risposta a Tommaso, volesse invitarci a ridurre questo desiderio di prove in favore di una cieca adesione all’idea moralistica che il credere di per sé sia preferibile a un approccio rigoroso nella ricerca della verità. Al massimo, voleva forse suggerire che, piuttosto che sospendere la nostra apertura al credere, è più utile per noi sospendere il nostro scetticismo fino a che non abbiamo considerato tutti gli aspetti e non solo ciò che ci dicono i nostri occhi. Se qualcosa veniva condannato era quell’empirismo che esige la totale dimostrabilità per giustificare l’accettazione di una proposta.
Per questo mi domando se non siamo stati ingiusti verso Tommaso l’incredulo. Forse, nel suo scetticismo, ci ha dato una testimonianza alla quale possiamo aderire in modo più concreto e, con la sua insistenza sulle prove, ci ha proposto un esempio da seguire e una storia in cui lo scetticismo è stato dissolto da un evento che, testimoniato dal Vangelo di Giovanni, permette anche a noi di credere anche senza “vedere” personalmente.
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Sostegno alla maternità: in Piemonte al via la distribuzione dei bonus bebè - il piano, da Torino, di Fabrizio Assandri, Avvenire, 15 febbraio 2011

C’è già la coda per il “bonus-bebè”, un carnet di 25 voucher da die­ci euro l’uno per ogni nuovo na­to in Piemonte nel 2011. Da ieri si può in­fatti ritirare il bonus promesso durante il passato meeting di Rimini dalla giunta Re­gionale guidata da Roberto Cota, che ha già espresso l’intenzione di ripetere l’ini­ziativa per tutto il suo mandato. Per ogni nato dal 1° gennaio - la misura partita ieri è retroattiva - al 31 dicembre di quest’an­no, i genitori possono ritirare i voucher re­candosi alla propria Asl con attestato di nascita, certificato Isee e un documento di identità. Se all’inizio si era parlato di bo­nus- pannolini, i voucher sono stati estesi ai prodotti per l’igiene e l’alimentazione della prima infanzia e sono spendibili in farmacie, parafarmacie, supermercati pic­coli o grandi: sul sito internet della Regio­ne è possibile consultare l’elenco degli e­sercizi convenzionati. Il meccanismo è i­dentico a quello dei ticket restaurant. Dai primi calcoli, in un solo giorno sembra che siano già stati ritirati circa 200 carnet. «L’in­teresse è alto - confermano dagli uffici del­l’Assessorato alla Sanità, capeggiato da Ca­terina Ferrero - già nei giorni scorsi nu­merose famiglie si erano presentate agli sportelli delle Asl, mentre in tanti hanno tempestato il call center della Regione». L’unico requisito per ottenere il bonus, ol­tre alla residenza nei confini della regione, è la soglia Isee, che non deve essere supe­riore a 38 mila euro. La Regione stima che al bonus possano accedere 30 mila dei 38 mila nascituri previsti nel 2011, per una spesa complessiva di 7 milioni e 600 mila euro. Il bonus è stato accompagnato da non poche polemiche, a partire dalla co­pertura finanziaria.


filosofia

Anselmo d’Aosta, maestro di fede e ragione per l’Europa - Nel difendere la libertà della Chiesa, il riflessivo monaco divenne battagliero arcivescovo. - La sua opera rinverdì Agostino e Cassiodoro, di Alessandro Ghisalberti, Avvenire, 15 febbraio 2011

La dimensione europea della figura e dell’opera di Anselmo si distribuisce su un ampio orizzonte di pensiero e di azione: dalla ricerca della verità al massimo livello speculativo nelle opere filosofiche e teologiche, all’impegno a difesa della libertas ecclesiae in anni di duro scontro sulle investiture ecclesiastiche, all’importanza attribuita lungo tutta la vita alla formazione monastica. La sua stessa biografia rivela come egli sia stato protagonista e testimone di un’epoca che ha visto il consolidarsi delle basi dell’Europa cristiana, proprio a partire dalla rinascita dopo il Mille. Fondamentale il rilancio dei valori spirituali del monachesimo benedettino: negli anni trascorsi come priore (1063-1078) e abate (1078-1093) del monastero del Bec in Normandia, Anselmo sviluppò le sue attitudini di padre provvido e di amico sincero dei suoi monaci, e inoltre dilatò gli spazi della propria intelligenza e di quella degli intellettuali del suo tempo in grandi opere sistematiche ( Monologion, Proslogion, Il grammatico, La verità, La libertà dell’arbitrio), in cui recuperò la cultura classica, in particolare valorizzando la logica e la dialettica nella speculazione teologica. Nel 1089, alla morte di Lanfranco, che era stato il maestro degli studi di Anselmo alla scuola del Bec e suo predecessore nella carica di Abate, la sede arcivescovile di Canterbury rimase vacante per quasi cinque anni, perché il re d’Inghilterra Guglielmo II detto il Rosso aveva intrapreso un’intensa azione di occupazione dei beni ecclesiastici e di ingerenza nelle investiture canoniche, per cui non desiderava avere un arcivescovo con cui confrontarsi. Solo in seguito ad una grave malattia del re, questi acconsentì alla nomina di un nuovo arcivescovo, e la scelta cadde su Anselmo, che era circondato da fama di grande preparazione culturale, coniugata ad uno spiccato senso di appartenenza ecclesiale. La vita di Anselmo come arcivescovo venne tuttavia segnata da gravi difficoltà e sofferenze, che lo portarono a scegliere per ben due volte, nel 1098 e poi nel 1103 la via dell’esilio. In entrambi i casi Anselmo raggiunse Roma, per incontrare papa Urbano II la prima volta, e papa Pasquale II la volta successiva, per avere un confronto e ricevere conforto nell’azione di difesa della libertas ecclesiae. Nel periodo dell’episcopato a Canterbury (1093-1109), Anselmo compose altre rilevanti opere sistematiche: Epistola sull’incarnazione del Verbo, Perché un Dio uomo, La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio con il libero arbitrio. Anselmo ci ha lasciato inoltre un nutrito gruppo di Orazioni e meditazioni, scritte in uno stile poetico, elaborato e complesso nella forma, delle quali sono stati individuati come temi caratterizzanti quello dell’ascesa della montagna per indicare l’ascesa del pregare, quello del torpore della colpa come offesa contro il Signore, quello della preghiera costruita come dialogo col Signore. Con l’assunzione convinta delle categorie della razionalità nella trasmissione della dottrina della fede, Anselmo si pone all’origine di quella grande stagione della conoscenza integrata realizzata dalla teologia scolastica, la quale ha alimentato per secoli la cultura dell’Europa cristiana. Soprattutto spicca la grande cifra dell’agostinismo, ossia l’assunzione da parte di Anselmo della convinzione dell’accordabilità intrinseca di fede e ragione, dove l’ossequio della ragione alle verità rivelate che superano le sue scoperte non è una rinunzia alla razionalità, non umilia l’intelligenza dell’uomo, ma la riposiziona nello spazio del mistero. Il mistero, e, al limite, lo stesso esito ineffabile dell’unione mistica, non sopprimono la ragione, ma le assegnano il compito di penetrare ( intelligere, avere l’intelligenza) le altitudini della rivelazione. L’esito dell’applicazione dell’intelletto sul dato rivelato è un incremento di intelligenza, una dilatazione della mente negli spazi della fede, ed è ciò che viene calato in profondità nel programma teologico di Anselmo, ben espresso dalla sua formula ' Credo ut intelligam', credo per comprendere, per un capire che consente all’intelletto di progredire già su questa terra nel cammino dalla fede verso la visione. Da Agostino Anselmo assume altresì le basi dottrinali per una visione della città degli uomini che deve crescere sviluppando valori idonei a confluire nella città di Dio; parimenti Anselmo attinge al programma di Cassiodoro il grande, un altro autore vissuto quando l’Europa non si era ancora costituita, ma che aveva progettato per l’Occidente cristiano la formazione di una cultura egemone, basata sugli autori della Patristica cristiana, accorpando anche le

humanae litterae, ossia la cultura classica della civiltà greco-romana. Da questi maestri del passato Anselmo accoglie l’importanza della formazione culturale e spirituale, facendosi in tal modo portatore di una visione alta dell’uomo, detentore di grande dignità e caratterizzato dalla libertà, reso protagonista responsabile della costruzione di una società in cui vengano integrate vita cristiana e vita civile, a livello culturale, spirituale e politico­ecclesiale.